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Autore: Acinorev    21/02/2021    1 recensioni
Missing moment ambientato dopo la fine di "High Hopes".
Dal testo:
"Il letto accanto a lei era vuoto e per un attimo, un solo fuggevole attimo, Emma pensò semplicemente che Harry doveva essersi già alzato per andare a lavoro come tante altre mattine. Ma le lenzuola erano ben stirate nella sua parte di materasso, fredde e solitarie: le suggerirono che quella non era una mattina normale.
Emma si alzò ed andò in salotto: lo trovò vuoto.
Harry non c’era."
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Little girl'
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Buonasera!!
Piccola precisazione prima di lasciarvi alla lettura: ho dovuto spezzare ulteriormente la storia,
per cui ci sarà una terza ed ultima parte, non appena finirò di scriverla.
Nel frattempo grazie di tutto e buona lettura! Ci "leggiamo" di sotto!

 

23 Maggio
01:46 am
 
Era sicura che fosse un ricordo.
Percepiva l'inconfondibile sole pomeridiano di quel pomeriggio di tanti anni prima, la sensazione di completa e rassicurante pace. Persino l'odore di primavera ero lo stesso, così come il rumore del vento contro il proprio corpo.
Era sdraiata nel campo dove aveva imparato a guidare e ad amare, immobile, rilassata. Solo il proprio respiro la scuoteva impercettibilmente: stava cercando di immergersi il più possibile in quell'atmosfera nostalgica, pronta a ricavarne ogni briciolo di consolazione.
Sapeva che se avesse aperto gli occhi, avrebbe trovato Harry accanto a sé, con una sigaretta tra le labbra ed il viso adolescenziale illuminato candidamente. Sapeva che l'avrebbe potuto considerare eternamente suo in quel minuscolo istante.
Egoisticamente andò alla ricerca di quella sicurezza.
Sollevò le palpebre e si voltò alla propria sinistra, senza accorgersi del sorriso mite che le stava inclinando la bocca. «Harry...» sussurrò spontaneamente.
Harry era seduto sulla coperta di lana. Accanto a lei, come previsto, ma di spalle: teneva le braccia nude intorno alle ginocchia piegate. Non la guardava.
Emma ebbe la netta impressione che, anzi, Harry non volesse guardarla.
Un cupo sentore iniziò a pesarle nel petto. Le si seccò la gola.
Si tirò a sedere, reggendosi su una mano e iniziando a sentir mancare il tepore del sole sulla propria pelle. Il nome di Harry scivolò di nuovo dalle sue labbra, con più esitazione.
Allungò una mano per toccargli la schiena, ma il solo fruscio di quel lento movimento attirò l'attenzione di Harry: lo provocò. Lui si voltò appena, quanto bastava a trafiggerla con uno sguardo furioso, disgustato. Lontano.
Emma trasalì, riportandosi la mano al petto con il terrore nel cuore.
Si svegliò nella sua camera da letto. Al buio.
Era confusa, frastornata da quello che inizialmente riteneva essere un sereno ricordo e che si era rivelato un presagio più che attuale. Era piombata di nuovo nella realtà.
Stavolta allungò la mano lungo il materasso, verso il posto che sapeva essere tremendamente vuoto, freddo. Quando la ritrasse a sé, non lo fece con paura, ma con una dolorosa e rabbiosa rassegnazione.
 
 
25 Maggio 2018
11:58 am
 
«Ho sempre pensato che voi foste una coppia strana, ma devo dire che state superando voi stessi» commentò Pete, sistemandosi meglio sul divano: la testa appoggiata su uno dei braccioli e le gambe del tutto distese, rilassate. Emma stava tagliando delle verdure sul bancone della cucina: l’aveva invitato a pranzo per non sentirsi troppo sola. Harry non lavorava, quel giorno: non sapeva dove fosse andato. L’aveva guardato uscire restando appoggiata all’uscio della camera da letto, con le braccia incrociate al petto ed uno sguardo eloquente, sperando di ricevere una risposta a qualcosa di non pronunciato ad alta voce. Lui l’aveva ignorata. Poi aveva provato a chiedergli dove fosse in un messaggio scarno, esitante, ma l’aveva fatto inutilmente.
«Dovreste parlarne, Kent. Non potete davvero pensare di andare avanti così» continuò lui.
Erano tutte cose che Emma sapeva già, che si ripeteva giorno dopo giorno, ma alle quali non riusciva a porre rimedio. «Lo so, Pete» sospirò, con una smorfia di fastidio all’ennesima ondata di nausea di quella mattina: si era svegliata all’alba con un lieve conato di vomito, che poi aveva lasciato il posto ad una nauseabonda sensazione che l’aveva accompagnata ad intervalli regolari fino a quel momento. Che fossero già le nausee mattutine?
«Lo sai, ma non fai niente di concreto a riguardo» precisò Pete. «Avrete un bambino, il non parlarne non cancellerà la cosa: o pensate di trascorrere nove mesi in completo silenzio ad odiarvi da lontano?»
Emma sospirò nuovamente, posando il coltello e spostando il peso da un piede all’altro. «Ho provato a parlarci, ricordi?» Domandò retorica, riferendosi alla festa di compleanno di Fanny. «Tutto quello che ho ottenuto è stato silenzio ed un’occhiataccia.»
Pete si tirò a sedere sbuffando. «Quello non è stato parlare. Insomma, quanto è passato? Nove, dieci giorni? Non è normale, e soprattutto non è normale per due come voi.»
Emma si voltò con aria esausta. «Cos’altro dovrei fare, Pete? Partendo dal presupposto che secondo me non dovrei fare io il primo passo, se provo a chiamarlo non risponde, se oso stare in casa mentre c’è anche lui sembra che preferirebbe morire piuttosto che starmi accanto…» Si passò una mano sull’addome, percependo uno strano crampo di dolore.
«Chiudilo a chiave da qualche parte ed obbligalo a parlarti.»
Emma alzò gli occhi al cielo.
«Non importa chi farà il primo passo. Dovete parlare, Kent. Dovete spiegarvi…»
«Cos’altro c’è da spiegare? Mi sembra che sia tutto abbastanza chiaro.»
«Invece io credo che entrambi abbiate detto delle cose sbagliate e che vi siate fraintesi» ribatté Pete, stringendosi nelle spalle. «Come d’altronde fate nel novanta per cento delle volte…»
Emma scosse la testa.
«E poi non l’hai ancora detto alla tua famiglia: di’ un po’, vuoi aspettare che lo vengano a scoprire dalla tua pancia che cresce inspiegabilmente?»
«C’è ancora tempo per quello» sorrise Emma, non cadendo nella sua provocazione. L’immagine del suo corpo trasformato dalla gravidanza le balenò nella mente. «Perché tu lo sappia, voglio solo aspettare di chiarire le cose con Harry, in modo da poterglielo dire insieme e da poterne essere felici».
«Ah be’, allora immagino che Constance scoprirà di essere nonna una volta che il pargolo sarà nato» sospirò Pete, sfruttando un’iperbole per stuzzicarla. «O quando le arriverà l’invito per la festa dei suoi diciotto anni.»
«Piantala, sei il solito esagerato» lo sgridò bonariamente.
Lui si abbandonò contro lo schienale del divano, assumendo un’aria fiera. «Quando ti deciderai ad ascoltarmi, la tua vita sarà improvvisamente più semplice» le promise.
Emma rise, arresa alla sua presunzione, ma si ritrovò a trasformare il sorriso in un’altra smorfia di disagio.
Pete se ne accorse, perché inclinò il capo e si accigliò. «Qualcosa non va?»
Lei si sentì avvampare, si piegò su se stessa per accogliere un’intensa fitta di dolore che le trafisse il basso ventre facendola gemere.
«Emma?» Pete si era alzato in piedi e si stava avvicinando, preoccupato.
Emma avvertì una sensazione di gelo avvolgerla, il cuore scoppiarle in gola e qualcosa di umido tra le sue gambe: senza riuscire a raddrizzarsi per il dolore che le stava intorpidendo l’addome, guardò verso il basso e notò un rigolo di sangue colare nel suo interno coscia sotto i pantaloncini del pigiama. Mancò un respiro ed iniziò ad ansimare, allungando una mano per toccare quella macchia estranea che portava con sé un presagio in grado di farla rabbrividire.
Alzò gli occhi su Pete, senza riuscire a metterlo a fuoco per le lacrime che spontaneamente le avevano appannato la vista. «Pete…» sussurrò. La voce un suono rotto e basso, tremolante.
Un'altra fitta di dolore la fece inclinare in avanti, per appoggiarsi al tavolo e non cadere. Le venne da vomitare.
«Emma, che succede?» Ripeté lui, al suo fianco, afferrandola per un braccio. «Che c’è? Che succede?!»
Emma sentì le gambe tremare, minacciarla di non riuscire più a reggere il suo peso: il sangue continuava a colare lungo la sua coscia ed Emma non riusciva più a respirare. Un terrore irrazionale le tolse il fiato ed un'unica paura le paralizzò i pensieri.
Scoppiò a piangere come se non avesse spazio dentro di sé per contenere tutto ciò che la stava attraversando e avesse bisogno di rilasciare parte della tensione. Iniziò ad iperventilare, mentre Pete imprecava al suo fianco reggendola per non farla scivolare a terra. Tra le lacrime, Emma si appigliò all’unico pensiero che si ergeva stoicamente nella sua mente, imperturbato: «Harry…» biascicò tra un singhiozzo e l’altro, accasciandosi contro Pete e tenendo una mano sul proprio addome contratto. «Ti prego, chiama Harry. Pete, per favore. Ho bisogno di Harry, io…» si interruppe per lamentarsi a causa di un crampo che le fece serrare i pugni. Aveva bisogno di lui, della sua presenza.
Pete afferrò il telefono dal tavolo, aveva le mani tremanti. Lo udì avviare la chiamata, ma senza ricevere risposta. Così anche una seconda volta.
«Ora chiamo un’ambulanza, Emma. Hai bisogno di un’ambulanza!»
Emma era seduta a terra con la schiena contro Pete, tremava per il dolore e per il panico. Si sentiva terribilmente debole. Il viso bagnato dalle lacrime, la bocca socchiusa e distorta da alcuni versi sommessi, le braccia avvolte intorno al proprio addome. Un inutile scudo. Sul pavimento chiaro, una macchia di sangue che la inorridiva: non voleva pensare a cosa potesse significare, non voleva pensare, non voleva crederci.
Nascose il viso sul petto di Pete. «Chiama Harry, Pete… Ti prego, chiamalo. Ho bisogno di lui, ti prego…» Lo supplicò ad occhi chiusi, in una cantilena straziante che sfuggiva al suo controllo: articolava quelle parole ripetitive con la stessa istintiva necessità che la portava a respirare meccanicamente. Intanto sentiva Pete parlare al telefono con un operatore, fornendogli l’indirizzo di casa e spiegandogli cosa era accaduto.
«Cazzo! Non lo so! Cinque… no, quattro settimane? Io non lo so
Emma percepì il proprio corpo contrarsi nuovamente, si morse un labbro per non cedere ai gemiti di dolore che le riempivano la gola. Pete le stava facendo delle domande, ma lei non riusciva ad ascoltarlo lucidamente, a distinguere le sue parole. Aveva le orecchie piene dei propri respiri, ma non riusciva a saziarsi dell’ossigeno che i suoi polmoni cercavano di incamerare: percepiva la frequenza respiratoria aumentare sempre più, e man mano rendere meno efficiente ogni inspirazione. E continuava a singhiozzare, mentre Pete le accarezzava il capo e la scuoteva per attirare la sua attenzione, continuando a parlarle senza che lei potesse comprenderlo.
Pochi istanti più tardi, Emma perse i sensi.
 
 
05:23 pm
 
Emma aveva dei ricordi confusi e sfuggenti delle ore precedenti, come se fossero delle macchie disordinate e sbiadite nella sua memoria.
Ricordava vagamente l’essersi risvegliata nell’ambulanza, il cercare di rispondere alle domande dei soccorritori senza riuscire ad articolare bene le parole, perché ancora tremante.
Pete seduto accanto a lei, pallido e rigido: una mano stretta nella sua.
Il dolore come sottofondo costante di quei momenti annebbiati.
Il suono ritmico ed accelerato del monitor al quale l’avevano collegata, che le rimbombava nella testa come se non potesse sentire da sé il cuore scalpitante che le si agitava nel petto.
La maschera per l’ossigeno che le dava fastidio e che aveva cercato più volte di togliersi.
Altre domande sconnesse che non riuscivano a raggiungerla.
L’ago che entrava nel suo braccio per il prelievo del sangue: il sollievo che le regalò lo sperimentare un altro tipo di dolore.
Pete che imprecava al telefono contro qualcuno, masticando le parole con il disprezzo a contorcergli le labbra.
Il nome di Harry schiacciato tra di loro.
Erano tutti dettagli che nella sua mente non riusciva a collegare tra loro, come se le fosse impossibile coglierne il senso generale. Come se non li avesse vissuti in prima persona.
Eppure c’erano altri ricordi ben più nitidi, dove il tempo sembrava essersi dilatato e aver rallentato, che non le lasciavano alcuna speranza alla quale aggrapparsi. Nessuna speranza dietro la quale nascondersi.
Ricordava l’arrivo dei suoi genitori, il viso di Constance deturpato dalla preoccupazione mentre le chiedeva come mai non le avesse detto niente, come in una supplica materna ed impotente. Ron al suo fianco, affranto ed incapace di parlare.
I bellissimi occhi azzurri di sua sorella Melanie arrossati dalle lacrime, quelli smarriti della piccola Fanny.
Il vuoto della stanza asettica del Pronto Soccorso, dove l’infermiera l’aveva lasciata sola per pochi minuti, in attesa.
Harry al di fuori di quella stanza, in piedi nel corridoio, con un’espressione sconvolta ed il petto ansante, una mano tra i capelli disordinati e gli occhi che si spostavano su di lei e la pregavano. Qualcuno che gli diceva di non poter entrare, lui che urlava in risposta. La porta che si richiudeva lasciando entrare il medico.
Il freddo del gel sul suo addome e poi tra le sue gambe.
Una voce estranea che la informava che all’ecografia non era visibile alcuna camera gestazionale.
Il suo grembo vuoto, sullo schermo dell’ecografo.
Le parole “aborto spontaneo completo”.
Il resto non poteva dire di ricordarlo.
Immaginava che qualcuno l’avesse spostata in un’altra stanza, tirando le tende intorno al suo letto per donarle un po’ di privacy. Immaginava che qualcuno avesse informato la sua famiglia.
Harry.
Immaginava che qualcuno le avesse lavato le gambe, rimuovendo gli ultimi residui di sangue: forse sua madre, ma non ne era sicura. Era stato un tocco familiare, naturale. Protettivo. Immaginava che qualcuno avesse aggiunto una coperta al suo letto, vedendola rabbrividire in posizione fetale. Immaginava che un infermiere le avesse somministrato un antidolorifico, perché il dolore si stava affievolendo lentamente.
Immaginava che qualcuno l’avesse accompagnata in bagno, sorreggendola per compensare le sue gambe ancora intorpidite. Immaginava che qualcuno le avesse asciugato il viso quando bagnato da lacrime silenziose.
 
Immaginava che avrebbe dovuto trovare qualcosa di più dell’inerzia per affrontare quel momento.
 
 
07:10 pm
 
Constance era seduta accanto al suo letto, le stava accarezzando i capelli dolcemente, come faceva quando Emma era bambina e non riusciva a dormire. Non si era alzata da lì nemmeno per un momento, non l’aveva lasciata da che ne aveva lucida memoria.
Emma continuava ad assentarsi. Non fisicamente, ma si accorgeva di scivolare via di tanto in tanto. Quando in un sonno leggero più simile all’incoscienza, quando in pensieri lontani che le facevano fissare il muro senza mai sbattere le palpebre. C’erano ancora cose che accadevano accanto a lei delle quali non riusciva a tener traccia, come se fossero privi di sostanza.
Stava cercando di ricordare proprio uno di quei tasselli, quando sentì bussare alla porta: non si mosse, restò sdraiata sul fianco destro, dando le spalle alla porta che si era appena aperta.
Udì Constance inspirare profondamente, accarezzarle il capo ancora una volta ed alzarsi dalla sedia.
Emma ascoltò il rumore di alcuni passi: li riconobbe subito, senza alcuno sforzo.
Sapeva che non era la prima volta che Harry le stava vicino. Nella confusione della sua memoria aveva una sbiadita percezione del suo profumo accanto a lei, del suo tocco su di lei: ma in qualche modo non riusciva a collocarlo in nessun ricordo in particolare.
In quel momento, invece, Emma era stranamente conscia della sua presenza.
Mentre Harry si avvicinava, infatti, il dolore si avvinghiò al suo cuore e crebbe fino ad essere troppo opprimente. Emma serrò la mascella come se stesse aspettando di ricevere un duro colpo e volesse essere pronta ad incassarlo, gli occhi chiusi nel voler fingere che quella non fosse la realtà.
Fu improvvisamente investita dalla possibilità che Harry non fosse vittima della sua stessa sofferenza.
Uno dei pochi ricordi che aveva era il suo viso straziato nello scorgerla nel letto d’ospedale, eppure non era sicura che quell’espressione dipendesse dal bambino che avevano appena perso, quanto più dalla possibilità di perdere lei. Forse aveva accolto con sollievo ciò che era accaduto: una soluzione al problema.
Ed era furiosa con lui.
Harry l’aveva lasciata sola. In un momento così delicato, in un momento in cui Emma aveva temuto non solo per sé stessa ma anche per il loro bambino, Harry l’aveva lasciata sola. E solo perché troppo intento ad evitarla, troppo impegnato a dar retta al proprio orgoglio per rispondere al telefono o anche solo per dirle dove fosse andato. Era qualcosa per cui non sapeva se e quando l’avrebbe perdonato.
Harry si sdraiò alle sue spalle con movimenti misurati, cauti: accolse contro di sé il corpo fragilmente raggomitolato di Emma, facendola irrigidire e trattenere il respiro. Le baciò il capo così piano da risultare in una carezza, respirando tra i suoi capelli, ma nonostante Emma potesse sentire la delicatezza dei gesti di Harry, non riusciva ad accettarli. Provava un acuto dolore nell'averlo vicino, come mai era successo prima.
Cercò di farsi ancora più piccola di quanto già non si sentisse, cercò di fuggire senza potersi muovere. «Vattene via» sussurrò con una voce che non riconobbe: piatta, vuota, esausta.
«Per favore…» rispose Harry, azzardandosi a stringerla a sé. «Per favore, Emma…»
Emma singhiozzò di fronte a quelle preghiere, non si oppose alle lacrime che le rigavano il volto e bagnavano il cuscino. «Vattene» ripeté flebilmente.
Harry immerse il viso nei suoi capelli, le accarezzò un braccio. «Ti prego, Emma.»
Non le era chiaro come la presenza di Harry potesse rappresentare nello stesso momento la sua più atroce tortura ed il suo balsamo riparatore: era l'ultima persona che voleva accanto a sé, ma sapeva anche che era l’unica che le avrebbe potuto fornire conforto con il suo calore, quella che aveva invocato disperatamente quando aveva avuto più paura.
Ma non bastava.
«Ti prego…» La voce di Harry si spezzò: forse se Emma si fosse voltata a guardarlo avrebbe visto i suoi occhi umidi di lacrime. Il solo pensiero di quella possibilità la fece sprofondare in un antro ancora più profondo e buio.
Si ribellò alla sua stretta, piangendo senza riuscire a trattenersi. Cercò di farlo allontanare con movimenti stanchi e decisi. E quando lui tentò di trattenerla, di restare al suo fianco, Emma cedette: «Vattene! Vattene, ho detto!» Sbottò ad alta voce.
«Emma…» Harry era in difficoltà, non riusciva a toccarla con la sua solita sicurezza, non sapeva cosa dire e come farlo, non riusciva ad affrontarla o forse non riusciva ad affrontare niente di tutto ciò, nemmeno se stesso.
«Lasciami stare, non toccarmi!» Urlò Emma, straziata. «Vattene via, cazzo!»
Stava ancora cercando di divincolarsi, quando la porta si aprì e qualcuno giunse in suo aiuto.
«Harry?» Era Constance. Probabilmente era stata attratta dalle grida di sua figlia: il suo richiamo era stato pronunciato a bassa voce, ma senza lasciare modo di contraddirlo. Subito dopo accorse anche un’infermiera: la compagna di stanza di Emma doveva aver suonato il campanello per attirare l’attenzione su quello che stava accadendo dietro le tende tirate.
Harry si mosse solo dopo qualche istante, forse sperando di essere trattenuto o forse semplicemente incapace di agire: Emma lo sentì allontanarsi dal suo corpo con reticenza e lentezza, congedandosi con un'ultima carezza di supplica che non venne accolta.
Lei tornò a respirare solo quando sentì il vuoto e la solitudine circondarla.
 
 
26 Maggio 2018
06:03 am
 
Emma aprì gli occhi a fatica, abituandosi alla flebile luce che illuminava la stanza: si sentiva disorientata, non sapeva che ore fossero. Quando si guardò intorno, si accorse di qualcuno addormentato sulla sedia lì accanto, con il capo poggiato sul suo letto.
Melanie.
«Mel?» La chiamò, sfiorandole i capelli bruni. «Mel, svegliati.»
Melanie alzò di scatto la testa, con il respiro accelerato e le dita ad asciugarsi un angolo della bocca. «Che c’è? Che succede? Ti senti male?» Domandò velocemente, vagamente confusa.
«No, sto bene» rispose Emma, sentendosi in colpa per aver generato una tale stato d’ansia nella sorella.
Lei si rilassò all’istante, pian piano tornando alla realtà e lasciandosi alle spalle un sonno scomodo e teso. «Hai… Hai bisogno di qualcosa?»
Emma scosse la testa, senza riuscire ad abbozzare un sorriso. Batté delicatamente la mano sulla porzione di materasso accanto a lei: «Vieni qui» le disse, invitandola a raggiungerla.
Melanie sorrise, invece. Si stiracchiò la schiena e si sedette accanto a lei, allungando le gambe sopra le coperte e lasciando che Emma appoggiasse il capo sulla sua spalla.
Restarono in silenzio per un po’.
«Non dovevi rimanere» sussurrò infine Emma. «Christopher-»
«Christopher è con suo padre» la interruppe Melanie, con un tono che non ammetteva repliche. «Mia sorella, invece, è in una stanza d’ospedale» aggiunse, lasciando che la sua voce si macchiasse di un’emozione difficile da gestire: le passò un braccio intorno alle spalle e la strinse a sé.
Emma doveva scusarsi. «Mi dispiace non avervi detto nulla, io…» provò, incapace di continuare. Aveva la gola arida e le parole sembravano non collaborare.
«Non devi preoccuparti di questo» la rassicurò Melanie, dolcemente. «Sappiamo perché non l’hai fatto…Più o meno.»
Emma corrugò la fronte, trattenne il respiro. «Harry…?»
Possibile che avesse raccontato alla sua famiglia cosa era accaduto tra di loro? Trovava impossibile che si fosse aperto riguardo qualcosa che non aveva affrontato nemmeno con lei.
«Non esattamente.»
«Non capisco, Mel.»
Melanie sospirò. «Avevo già iniziato a sospettare che qualcosa non andasse tra di voi: sai, dalla festa di Fanny» le ricordò, confermando il suo intuito infallibile. «Poi quando Harry è arrivato in ospedale, diciamo che Pete… Non l’ha accolto benissimo, ecco.»
Emma si sforzò di ricostruire ricordi che non aveva. Si sforzò di ricostruire voci concitate fuori dalla propria stanza che non era riuscita a decifrare sul momento e che ancora le sfuggivano.
«Penso che fosse solo sconvolto, non penso ce l’avesse davvero con Harry. Credo che stesse cercando di proteggerti: non deve essere stato facile per lui vederti in quello stato.»
I suoi pensieri si soffermarono sul suo migliore amico, sulla mano che aveva tenuto stretta la sua per tutto il tragitto verso l’ospedale: un’ondata di tepore la avvolse, facendola sentire in debito con Pete, ricolma di eterna gratitudine.
«Quindi sì, insomma… Quando Harry è arrivato, Pete gli è scagliato contro, praticamente. Gli ha chiesto perché ci avesse messo tanto a rispondere al telefono e gli ha detto che se lui non si fosse ostinato a giocare a nascondino per tutto questo tempo e si fosse deciso ad affrontare la cosa, a quell’ora ci sarebbe stato lui al tuo fianco… Che tu… Che tu avevi chiesto di lui, prima di… Be’… Prima di svenire.»
Melanie parlava come se non fosse a proprio agio nel riportare quelle parole, quei dettagli tanto intimi che non spettavano a nessun altro. Come se quegli stessi dettagli non fossero stati sbraitati nel bel mezzo del corridoio del Pronto Soccorso, persino di fronte ai suoi genitori.
Emma si strinse impercettibilmente alla sorella. Stava cercando di immaginare la scena, il viso di suo padre, gli occhi adirati di Pete.
Melanie le accarezzò un braccio. «Capisco che tu volessi dircelo quando le cose si fossero… calmate» continuò, comprensiva. «E non devi preoccuparti: mamma e papà non ce l’hanno con te» aggiunse, andando a toccare un punto in fondo al cuore di Emma che scalpitava per essere rassicurato. «Né con Harry.»
Come innumerevoli altre volte nei giorni precedenti, Emma percepì gli occhi bagnarsi di lacrime. «Mi dispiace, Mel. Mi dispiace che sia andata così, che voi l’abbiate scoperto così. Mi dispiace avervi fatto preoccupare, io… Mio Dio, io non pensavo…»
«Non dirlo nemmeno per scherzo, Ems» la interruppe Melanie, passandole una mano sul viso per asciugarle le guance e per distrarla dai suoi stessi singhiozzi miti. «Non hai niente di cui scusarti, mi hai capito? Niente
Passarono abbracciate diversi minuti, accarezzandosi a vicenda per un respiro più profondo o per pensieri troppo duri. Emma cercò di trarre da quel contatto ogni briciola di conforto che potesse ricavarne: era così stordita e debilitata da arrivare persino a rimpiangere la sua coscienza confusa ed annebbiata delle ore precedenti, che in qualche modo l’aveva schermata da gran parte del dolore. Ora che era vigile e pienamente in sé, una valanga di pesi e consapevolezze si era rovesciata su di lei, investendola senza darle il tempo di prepararsi né di attutire il colpo. Si sentiva sopraffatta, intrappolata.
Aveva perso il suo bambino, il loro bambino.
Sperimentare un così forte senso di perdita dopo soli pochi giorni dall’aver scoperto di essere una madre, era qualcosa di cui non si capacitava e che allo stesso tempo non credeva potesse essere altrimenti. Era stata privata della vita di suo figlio, della vita in potenziale che lo aspettava e nella quale lei l’avrebbe accompagnato come in un privilegio. E tutto senza un chiaro perché, come se quel destino fosse toccato a lei per semplice casualità: sarebbe stato più semplice trovare un motivo a ciò che era successo, dare un nome al responsabile, anziché dover ascoltare un medico balbettare sconfortato nello spiegarle che era impossibile stabilire con certezza la causa dell’aborto.
Il suo bambino non c’era più e lei non poteva incolpare nessuno, nessun fattore di rischio, nessuna patologia meschina, nessun raro imprevisto. Niente.
Le restava solo il vuoto.
«Il dottore ha detto che oggi potresti essere dimessa» spiegò Melanie, riportandola alla realtà. «Se non te la senti di tornare a casa, puoi venire da me… O stare da mamma e papà.»
Tornare a casa.
Da Harry.
Si chiese cosa stesse facendo. Come stesse.
Di nuovo ebbe la spiazzante sensazione di provare una sofferenza non paragonabile alla sua.
Ad Emma venne nuovamente da vomitare, ma cercò di non muoversi per non dare altre preoccupazioni a Melanie.
Riacquistata una blanda lucidità, una parte di lei si rifiutava di credere che Harry potesse essere anche solo minimamente sollevato per ciò che era accaduto. Che potesse essere così meschino. Che potesse essere capace di sentimenti tanto subdoli. Non dopo aver visto i suoi occhi il giorno prima, non dopo aver sentito le sue mani tremare nello stringerla.
L’altra parte, ben più ingombrante e rumorosa, era terrorizzata alla sola idea di quella possibilità.
Ma quello non era l’unico motivo per cui aveva timore di rivederlo.
C’era ancora il risentimento ad animarla. Un risentimento ingombrante, pericoloso.
Emma non riusciva ad accettare che fossero rimasti vittima dell’incapacità di comunicare che li aveva messi alla prova durante gli arbori della loro storia, ma che si era rianimata nell’occasione peggiore. Non riusciva a credere che avesse potuto creare tanti danni, che li avesse separati nel momento in cui più avrebbero avuto bisogno di restare uniti.
Più si lasciava andare a questi pensieri, più ne sentiva altri scalciare per farsi spazio, provocandole un forte mal di testa.
«Qualsiasi cosa sia successa tra te ed Harry…» disse Melanie, salvandola ancora una volta dal suo subconscio. «Ems, io ero lì con lui quando il medico ci ha detto che… Be’, che avevi avuto un aborto spontaneo». Fece una pausa, forse per concederle del tempo. «Credimi, Ems, la sua reazione non è stata quella di qualcuno che non vuole un bambino».
Emma riprese a piangere contro ogni briciolo di volontà.
Non sapeva come riemergere dalla confusione, come elaborare quel nuovo tassello che contraddiceva gran parte delle sue convinzioni. Non sapeva come combattere la profonda rabbia che sentiva nei confronti di Harry, l’odio che era arrivata a provare nel sentirsi abbandonata, e contemporaneamente come accettare la disperazione provata anche solo nel sapere o immaginare che anche lui ne avesse sofferto, solo e chiuso fuori dalla sua stanza d’ospedale. Erano sentimenti così contrastanti da lasciarla inerme.
«Harry ti ama. Lo sai bene. Lo sappiamo tutti» riprese Melanie, stringendola di più a sé. «L’abbiamo visto
Il modo in cui la sorella pronunciò quelle ultime parole, suggerì ad Emma che avessero un significato ben più profondò. Si passò la manica del pigiama sul naso ed alzò il viso per guardarla negli occhi, per cercare una verità innegabile: le tornarono in mente i momenti confusi in cui qualcuno di non chiaro l’aveva lavata, vestita, assistita in quel letto d’ospedale, e in cui lei aveva dato per scontato si trattasse di sua madre. I momenti in cui era troppo estranea alla realtà per rifiutarlo con lucido distacco, perché era molto più semplice fare ciò che le veniva naturale: accettare il suo tocco. «È stato lui, ieri…?»
Melanie annuì. «Mamma ci ha dovuto litigare per poter stare un po’ da sola con te.»
 
Era riuscita a mangiare qualcosa per colazione.
Aveva ancora un vago senso di nausea, ma credeva dipendesse più che altro dal frastuono nella sua testa.
Il dolore addominale non era ancora passato completamente: ogni tanto sembrava si assopisse momentaneamente, solo per poi sorprenderla con crampi infimi che le facevano trattenere il respiro. Se anche per un solo istante Emma riusciva a svuotare la mente, quelli tornavano puntualmente a tormentarla, trascinandola nella realtà.
Le perdite di sangue si erano fatte sempre più rade, anche se il dottore le aveva già preventivato che probabilmente sarebbero durate qualche giorno. Emma non tollerava le macchie sulla sua biancheria e sugli assorbenti che le aveva comprato Constance: cercava di cambiarsi senza guardare, serrando gli occhi, i pugni. Il cuore.
Il medico era andato a visitarla dopo la colazione: una volta visionati gli esami ematici di quella mattina, se non ci fossero state complicanze, l’avrebbero dimessa.
Emma stava rispondendo ad un messaggio di Pete per aggiornarlo in merito, quando il cellulare prese a squillarle tra le mani.
Sullo schermo lampeggiava il nome di Harry.
Per qualche secondo Emma soppesò il da farsi, percependo il cuore in gola, ma non ebbe tempo di decidere, perché la chiamata si interruppe prima che lei potesse toccare lo schermo per rifiutarla o accettarla.
Il moto di pentimento e mancanza che ne seguì, bastò a farle capire cosa avrebbe dovuto scegliere.
Stava per chiamarlo a propria volta, quando il telefono squillò di nuovo.
Emma rispose senza esitare. «Pronto?» Esalò velocemente, come per paura di non aver fatto in tempo. Subito dopo si accorse di essersi sbilanciata, si impose una certa calma.
Harry, dall’altra parte, sembrò stupito di aver ricevuto una risposta, perché la sua voce stranita e cauta le arrivò all’orecchio solo dopo alcuni istanti. «…Emma?»
Lei non disse niente, raggomitolando le gambe al petto.
Non era certa di volergli parlare, forse aveva solo bisogno di sentirlo, pur mantenendo il distacco dietro al quale necessitava di nascondersi. Per certi versi si sentiva un’ipocrita nel cercare la sua voce, dopo averlo rifiutato con tanta enfasi. La verità, però, era piuttosto semplice: non aveva le forze per prendere decisioni lucide, calcolate o addirittura coerenti; era nettamente più semplice abbondonarsi all’istinto. Inoltre vigeva ancora un blando senso del dovere all’interno del suo cuore: in un universo alternativo, se Harry fosse stato in ospedale ed Emma a casa, lontana da lui, a prescindere da qualsiasi litigio avessero appena affrontato e dall’insormontabile rabbia a dividerli, Emma non avrebbe sopportato di non ricevere risposta ad una chiamata.
Glielo doveva.
Forse lo doveva persino a se stessa, pur non essendone ancora consapevole.
«Come stai?» Domandò Harry lentamente, misurando il proprio tono di voce.
Emma chiuse gli occhi. Respirò profondamente e si dimenticò di articolare a parole quello che sentiva, quasi come se l’avesse già fatto.
Harry doveva averlo capito, perché non le chiese altro.
«In ospedale non vogliono che rimanga più di una persona» spiegò invece, lasciando trasparire un impotente astio. Sembrava voler giustificare la sua assenza. Emma si chiese se quella decisione fosse stata influenzata dalle discussioni del giorno prima. «E tua madre… Abbiamo stabilito dei turni».
“Mamma ci ha dovuto litigare per poter stare un po’ da sola con te.”
Emma cercò di immaginare come si fossero evolute le trattative: si chiedeva se Constance risentisse Harry, se Ron… Melanie l’aveva rassicurata a riguardo, ma Melanie aveva anche un’indole estremamente ottimista e comprensiva, in grado di avvolgere di una patina simile tutto il mondo intorno a sé. Emma sperava soltanto che fosse stata sincera.
Immaginò Harry, obbligato a starle lontano in un assurdo paradosso. Lo immaginò con una sigaretta dopo l’altra tra le dita, in preda al nervosismo.
«Tu come stai?» Mormorò Emma spontaneamente, cedendo a quella domanda che la stava torturando subdolamente. Non sapeva cosa volesse sentire in risposta: forse egoisticamente voleva che ammettesse un dolore opprimente che l’avrebbe fatta sentire meno sola, forse…
Come lei poco prima, nemmeno Harry rispose.
«So che oggi probabilmente ti dimetteranno, me l’ha detto Melanie» disse lui dopo qualche secondo. «E so che ti ha proposto di andare da lei se…»
Stavolta toccò a lui sospirare. Emma conosceva così bene ogni sua reazione, da poterlo vedere davanti a sé mentre si passava una mano tra i capelli, frustrato.
«Io ti aspetto qui, Emma» continuò, con la voce bassa e roca impegnata in una promessa. «Ti aspetto a casa.»
Emma nascose il viso nel cuscino, forse per ovattare i respiri difficoltosi che la stavano incalzando.
«Perché torni da me… Vero?»
Più che le sue parole incrinate da un timore fatto di cristallo, più che il suo tono supplichevole e caldo, Emma dovette considerare i propri sentimenti: li sentiva urlare a squarciagola, battere con calci e pugni contro il muro difensivo che aveva eretto intorno al suo cuore rinforzandolo di debole logica, ammaliati dalla voce di Harry come da una sirena. Lo reclamavano.
Emma lo sapeva bene, ed era la cosa che più la metteva in difficoltà. Non riusciva a conciliare il dolore e la rabbia con i propri bisogni ed il proprio amore. Era dilaniata da un contrasto che mai avrebbe voluto affrontare.
Evitò di pensare, si affidò di nuovo all’istinto.
 
 
02:03 pm
 
La prima cosa che Emma notò non appena entrata in casa, fu il pungente odore di candeggina.
Si guardò intorno, il salotto era vuoto. Fece particolare attenzione a non soffermarsi sul bancone della cucina sul quale si era piegata il giorno precedente, vittima di un dolore gelido.
Harry comparve dal bagno l’istante successivo, infilandosi alla rinfusa una maglietta: doveva aver sentito la porta aprirsi. I suoi occhi si fissarono su di lei quasi sapessero già dove trovarla, ma si arrestò come se fosse comunque sorpreso di vederla lì. «Ciao» disse piano, deglutendo a vuoto.
«Questi te li porto in camera, va bene?» Domandò Constance, entrando in casa ed interrompendo un momento sospeso nel tempo, in cui anche Emma era rimasta immobile ed in silenzio. Inerme.
Sua madre portava con sé la borsa con gli abiti sporchi che aveva usato in ospedale: aveva insistito ad accompagnarla personalmente fin dentro casa, Emma d’altra parte aveva insistito nel dire che non ci fosse bisogno anche per tutto il resto della famiglia di accompagnarla. Era grata della loro presenza, anche se in alcuni momenti avrebbe preferito essere completamente sola.
Harry fece un passo avanti, era a piedi nudi. «Lascia stare, Constance. Ci penso io» si affrettò a dire, sollevando una mano per invitarla a consegnargli la borsa. Non c’era traccia di ostilità nella sua voce, ma Emma poteva cogliere chiaramente l’implicita richiesta dietro quelle parole.
Constance esitò per un breve istante, prima di avvicinarsi a lui per accogliere il suo consiglio: «Ovviamente per qualsiasi cosa chiamami pure» esclamò, voltandosi verso Emma con apprensione.
Emma si inumidì le labbra, stringendosi nelle spalle. Era ancora ferma davanti alla porta. «Certo, mamma.»
Sua madre poi posò di nuovo lo sguardo su di Harry. «E questo vale anche per te» continuò, come ci si rivolgerebbe ad un bambino testardo.
Lui annuì, ma sembrò non registrare quella mano tesa verso di sé. «Ci penso io» ripeté soltanto. «Grazie.»
Constance sospirò, ma non si mosse. Il suo istinto materno era evidentemente in difficoltà: per quasi tutto il tragitto in macchina aveva cercato di convincere sua figlia a restare a casa loro per qualche giorno, ma Emma aveva l’impressione che non fosse tanto lei ad averne più bisogno, quanto i suoi genitori. Era chiaro che non riuscissero a tollerare il pensiero di perderla d’occhio, scottati dalle ventiquattro ore precedenti e vittime di un senso di protezione innato.
«Mamma, puoi andare… Davvero» intervenne Emma, cercando di sbloccare la situazione. Si sentiva esausta, aveva bisogno di silenzio e di ridurre al minimo le dinamiche intorno a sé.
Constance le si avvicinò e le prese le mani tra le sue. «Mi raccomando» mormorò, prima di abbracciarla dolcemente. Emma si irrigidì e si sforzò di ricambiare l’abbraccio, chiudendo gli occhi per non sentirsi obbligata a posarli su Harry.
Poi si separarono, Constance le accarezzò i capelli e si voltò verso Harry un’ultima volta, rivolgendogli l’accenno di un sorriso. «Ci vediamo presto» promise, prima di uscire dall’appartamento.
Non appena lo porta si chiuse dietro di lei, Emma sospirò sonoramente, abbassando di nuovo le palpebre per racimolare delle energie e per godersi la bolla di solitudine nella quale si era barricata: non era sola in casa, ma la presenza di Harry non risultava invadente come quella di chiunque altro, in quel momento. Non sapeva spiegarselo con esattezza, eppure nonostante fosse la persona che aveva partecipato alla sua distruzione, era anche quella che più riusciva a metterla a proprio agio.
Harry si massaggiò il collo. «Hai già mangiato?» Le chiese a bassa voce. Non era esitante, ma sembrava voler valutare e studiare ogni sua eventuale reazione.
Emma annuì e in un attimo di consapevolezza si rese conto di essersi tuffata in un qualcosa forse più grande di lei, per quanto necessario: aveva preso la decisione di tornare a casa da Harry, seguendo un malsano istinto che sembrava essere l’unica cosa ancora indiscutibile della sua vita, non soggetto ad errori di calcolo, interpretazioni o valutazioni errate. Ed ora che era tornata, doveva anche restarci. Convivere con Harry e con tutto ciò che si era frapposto tra loro. Doveva affrontarlo.
«Io…» iniziò, schiarendosi subito dopo la voce. «Io credo che andrò in camera a… a riposare un po’.»
A respirare, avrebbe voluto dire. Ma pensò fosse ovvio.
Harry sembrò essere deluso dalla sua risposta, ma cercò di non darlo a vedere. Di fatto serrò la mascella ed annuì vigorosamente, come per convincersi che fosse una buona idea. «Ok» rispose. «Io ho preso qualche giorno libero dal lavoro…»
“Ci penso io.”
Non ebbe bisogno di dire altro, era evidente il significato dietro le sue parole. Emma notava come si stesse sforzando di mettersi a sua completa disposizione: per amore, sicuramente.
Per senso di colpa, forse.
Per qualche istante restarono entrambi in silenzio, guardandosi negli occhi a qualche metro di distanza. Quando Emma si riscosse, si diresse verso la loro camera camminando lentamente e mordendosi un labbro.
Si chiuse la porta alle spalle e si sdraiò a letto senza nemmeno cambiarsi d’abito.
Percepì il profumo familiare delle lenzuola ed un nodo di angoscia si sciolse al centro del suo petto. Con una mano sfiorò il tessuto sotto di lei disegnando linee astratte e senza programmarlo appoggiò il palmo contro il cuscino di Harry. Egoisticamente lo tirò a sé e vi sprofondò il viso, inspirando a fondo la sua fragranza.
Era una parte di lui che non poteva risanarla, ma che poteva consolarla.
Una parte di lui che avrebbe potuto usare e che non avrebbe potuto farle del male.
Una parte di lui completamente innocua.
 
Le sue palpebre erano pesanti come macigni, per cui aprì gli occhi con una certa difficoltà.
Si sentì confusa, era ormai buio e non sapeva di preciso che ore fossero.
Non aveva nemmeno il cellulare con sé, doveva averlo lasciato con tutte le altre cose nella borsa che Constance aveva affidato ad Harry.
Non sapeva per quanto avesse dormito. Il letto accanto a lei era vuoto, come lo era ormai da diversi giorni.
In sottofondo poteva udire il lavorare stanco della lavatrice.
Sentì di nuovo un forte odore di candeggina. Fastidioso. Insistente.
Decise di alzarsi per seguirlo: la sua andatura era instabile, perché ancora assonnata e debole per un sonno profondo e senza sogni.
Quando aprì la porta, socchiuse gli occhi per proteggersi dalla luce del salotto.
Harry era di fronte alla cucina, vestito come quel pomeriggio ed intento a lavare per terra.
Emma restò a guardarlo per diversi secondi: si soffermò sui suoi movimenti energici, quasi rabbiosi, e notò che si stava concentrando su un’unica porzione del pavimento. Su un punto che Emma non ebbe problemi a collocare nei proprio ricordi.
Lei seduta contro Pete, a singhiozzare frasi sconnesse.
Il sangue che le percorreva la coscia nuda.
La macchia sulle piastrelle sotto di sé.
Con una mano afferrò lo stipite della porta, stringendolo come per cercare un appiglio. Le sembrò di vacillare ed un moto di nausea le annodò lo stomaco, al quale cercò di resistere deglutendo a fatica. Continuava a ripercorrere i momenti di panico che l’avevano intrappolata e stordita, e mentre i ricordi frammentati si susseguivano nella sua mente, altri pensieri estranei cercavano di intromettersi con caparbietà.
Harry che tornava a casa dall’ospedale e scorgeva il suo sangue sul pavimento.
Harry che ascoltava Pete mentre gli rinfacciava di non esserci stato in un momento simile.
Harry che veniva a sapere di come Emma avesse chiamato il suo nome prima di svenire.
Harry che era solo con le sue consapevolezze.
Harry che continuava a lavare con la candeggina una macchia di sangue e di colpa.
Ad Emma venne di nuovo da piangere, ma era così stanca di farlo, che cercò con tutta se stessa di rigettare indietro le lacrime e di resistere. Non sapeva come immagini mai vissute potessero ferirla a tal punto da oscurare momenti ben impressi sulla sua pelle, non sapeva come la sofferenza di un’altra persona potesse risultare così intensa da sbiadire la propria.
La parte più difficile fu muovere il primo passo. Emma aveva ancora dei freni ben strutturati a proteggere la sua integrità, e si erano azionati a dovere di fronte alla possibilità di sommare al proprio dolore quello di qualcun altro. Ma lei li aveva ignorati e dopo il primo passo aveva continuato a camminare, fino ad arrivare alle spalle di Harry.
Lui non si era ancora accorto di lei, probabilmente assorto in pensieri distanti ed impegnato in movimenti frustrati. Emma allungò una mano con esitazione, toccandogli la spalla con i polpastrelli delle dita: «Harry?» Lo chiamò a voce bassa, lenta.
Harry sobbalzò, voltandosi di scatto.
I lineamenti del suo volto erano tesi in un’espressione turbata, gli occhi scuri, le sopracciglia aggrottate.
Emma ne fu intimorita, aveva l’impressione che un movimento o una parola di troppo avrebbero potuto farlo cadere in mille pezzi.
Percepiva dal suo sguardo che era combattuto, che stava trattenendo dentro di sé qualcosa di troppo ingombrante: forse un pensiero, forse un desiderio, forse un bisogno. Qualsiasi cosa fosse, portava il nome di Emma.
Emma…
Emma che spontaneamente portò una mano verso il suo viso, incerta nello sfiorargli una guancia con le dita, come per chiedergli di tornare alla realtà. Emma che non sapeva se fosse in grado di fungere da sostegno per qualcun altro, che non sapeva nemmeno se lui lo meritasse.
Se possibile, Harry si irrigidì ancora di più sotto il suo tocco. Le sue mani stritolarono l’asta della scopa che non avevano abbandonato, le sue nocche si tinsero di bianco per lo sforzo. Emma pensò che stesse combattendo una lotta contro se stesso e contro di lei: forse, memore di come lei l’aveva cacciato via quando aveva provato a starle accanto il giorno prima, non osava ricambiare il contatto per paura di invadere nuovamente i suoi confini, non osava goderne per paura di esserne privato all’improvviso. Ma era evidente, chiaro come poche altre certezze della sua vita, che lo bramasse più di ogni cosa.
Emma posò il palmo della mano sul suo viso, in un debole invito. Rabbrividì, come se non fosse più abituata a sentirlo così vicino. Harry chiuse gli occhi, respirò a fondo.
Si rilassò.
Chinò la testa per andarle incontro, per strofinare la pelle contro la sua mano in una carezza a lungo desiderata.
Quando sollevò le palpebre, le sue iridi erano più tranquille, meno torbide: inesorabilmente fisse nelle sue. Harry si mosse piano, in modo da avere la bocca contro il palmo della sua mano, che era rimasto fermo: non l’aveva assecondato, ma non si era nemmeno scostato. Non la baciò, si limitò a respirarci contro lentamente.
Emma era stravolta da una miriade di sensazioni diverse ed in conflitto l’una con l’altra: ognuna la tentava con tesi quasi del tutto convincenti, che però finivano per essere l’esatto contrario di quelle di tutte le altre. Era un vortice incessante di tentazioni e timori, di necessità viscerali e di privazioni calcolate.
Era assordante.
Decise di aggrapparsi al primo pensiero che fosse riuscita a distinguere in quella confusione, senza sapere se se ne sarebbe pentita.
«Vieni a letto?» Domandò in un sussurro.
Improvvisamente nella sua mente calò un pacifico silenzio, scandito dai battiti regolari del suo cuore.
Forse per la prima volta Emma pronunciò quelle parole senza alcuna traccia di malizia nella sua voce, ma nell’esclusiva speranza di concedere del conforto a se stessa e agli occhi tormentati che continuavano a scrutarla a pochi centimetri di distanza.
Harry annuì con un movimento impercettibile, non disse nulla.
Si sdraiarono l’una di fronte all’altro, senza toccarsi. Abbastanza vicini da udire i rispettivi respiri, ma sufficientemente lontani da non potersene cibare.
Continuarono a guardarsi in silenzio, immobili, fino a quando Harry scivolò in un sonno profondo.
Emma restò ad osservarlo ancora per qualche minuto, riappropriandosi di tutti quei dettagli che per giorni le erano sfuggiti e che continuava ad amare di un amore odiato. Poi si alzò, incapace di tornare a dormire per il pomeriggio passato in quello stesso letto: si avviò verso il bagno ed azionò la doccia.
 
 
27 Maggio 2018
05:36
 
Emma teneva tra le braccia un neonato dalla pelle rosea ed ancora increspata, infagottato in una coperta di lana cucita a mano. Lo osservava senza capacitarsi della sua purezza, gli sorrideva dondolandolo delicatamente per farlo addormentare. Quando vide i suoi occhi chiudersi lentamente, alzò il viso per guardare Harry, al suo fianco: era seduto accanto a lei, con una mano accarezzava il capo del loro bambino.
Emma si cibò dell’amore che riusciva a scorgere nei suoi occhi, lo sentì alimentare quello che lei stessa stava covando dentro di sé. E quando non riuscì più a contenerlo, spostò di nuovo lo sguardo sul loro bambino, come per trasferirne almeno una parte nel suo corpicino esile e caldo.
Ma tra le sue braccia non vide nulla.
Il bambino era scomparso.
Al suo posto una chiazza di sangue disordinata che imbrattava la vestaglia di Emma e le lenzuola sotto di lei.
Emma provò a gridare, alzando le mani davanti al proprio viso per l’incredulità.
Nessun suono uscì dalla sua bocca. Forse nemmeno un respiro.
Si sentì scuotere debolmente.
«Emma?»
Si svegliò di soprassalto, ancora vittima del panico che l’aveva impietrita in quell’incubo orrendo. Stava piangendo con singhiozzi irregolari.
Harry le era accanto: il chiarore dell’alba filtrava dalla finestra ed illuminava parzialmente i lineamenti del suo volto preoccupato. «Era solo un sogno» mormorò, cercando di marcare le sue parole con un conforto accogliente e rassicurante. Non la stava toccando, se non per la mano che aveva lasciato sulla sua spalla dopo aver cercato di svegliarla.
Emma chiuse gli occhi e si concentrò sul proprio respiro, chiedendosi quando avrebbe potuto riprendere a respirare naturalmente, senza doverci pensare. Senza doversi obbligare.
Aveva provato una gioia indescrivibile in quei pochi secondi di sogno artefatto, le sembrava di riuscire ancora a percepire il peso leggero del loro bambino nell’incavo delle sue braccia, il suo profumo infantile. Avrebbe voluto non conoscere quella gioia, nemmeno nel sonno: avrebbe preferito immaginarla e rimpiangerla senza averla mai sperimentata.
La perdita, invece, quella la conosceva bene.
Era stato un crudele replay di una sensazione già vissuta e che ancora non la abbandonava.
Emma si nascose il volto tra le mani, forse vergognandosi di una fragilità così evidente, delusa e ferita da un tradimento messo in atto dal suo stesso corpo. Dalla sua mente.
Harry la attirò a sé lentamente, quasi dandole il tempo di rifiutarlo. Lei non lo fece.
Si lasciò guidare sul suo petto, dove abbandonò il capo inspirando il profumo di ammorbidente della sua maglietta. Lasciò che le sue braccia la stringessero contro il suo corpo definito. Reale.
Continuò a piangere sommessamente per qualche minuto, incapace di trattenersi: la prima lacrima aveva sancito un permesso implicito per tutte le altre, che si susseguivano ininterrottamente e senza pietà. Emma ormai non sapeva nemmeno per cosa stesse piangendo, di preciso: troppe emozioni si stavano mescolando nei suoi occhi umidi, troppe da poterle distinguere. Sentiva solo la necessità di sfogarle, di lasciarle andare.
E se da una parte il petto di Harry fomentava il suo pianto, dall’altra lo cullava teneramente.
Harry aveva iniziato ad accarezzarle i capelli con movimenti tanto leggeri da essere quasi impercettibili. Emma stava cercando di concentrarsi su quelli: sperava che potessero distrarla e calmarla, che potessero fornirle la pace che stava disperatamente cercando. Sotto il suo orecchio percepiva il cuore di Harry scandire il tempo regolarmente, lentamente: Emma sperò di potersi sincronizzare con quel suono sordo ed ovattato.
Spostò il viso per avvicinarsi all’incavo del suo collo, godendo del suo calore. Harry posò una guancia contro il suo capo, serrando appena la presa intorno alle sue spalle: le lasciò un bacio tra i capelli, prolungato.
Emma chiuse gli occhi ed inspirò a fondo.
Si accorse di avere ancora le pelle umida, ma anche dell’assenza di nuove lacrime a tormentarla.
Mosse una mano sull’addome di Harry, in un gesto spontaneo che mille altre volte li aveva caratterizzati. Si fermò quando venne sfiorata dal pensiero di come le cose fossero diverse, in quel momento: chiuse la mano in un pugno debole.
Harry dovette accorgersi della sua esitazione. Le sollevò il mento con dita senza incontrare resistenza, ma procedendo con estrema cautela. Emma non l’aveva mai visto così esitante nei suoi confronti, così spaventato ed allo stesso tempo deciso a procedere.
Incontrò il suo sguardo, lo sostenne.
Harry le si avvicinò e per qualche istante fece riposare la fronte contro la sua: nel suo respiro una nota di angoscia. Poi le baciò uno zigomo con lentezza e dedizione, portandola ad abbassare le palpebre: Emma ebbe più l’impressione che stesse raccogliendo tra le labbra i residui delle sue lacrime, che li stesse eliminando uno ad uno. Continuava a lambire la sua pelle senza tralasciare nemmeno un millimetro, senza staccare mai completamente la bocca dal suo viso, riscaldandola con il suo respiro.
Emma si sporse istintivamente verso di lui, forse alla ricerca di un conforto che nessuno le stava negando, forse abbandonandosi ad un bisogno irrazionale che inibiva qualsiasi freno si fosse mai imposta e che ignorava qualsiasi causa l’avesse mai distorto. Nel muoversi sfiorò accidentalmente le labbra di Harry.
Entrambi si arrestarono, ma nessuno dei due si ritrasse.
Aprirono gli occhi, si osservarono in silenzio.
Fu Harry a baciarla.
Le catturò la bocca in un contatto casto che stonava con la sua indole. Le sue labbra erano ancora bagnate dalle tracce di lacrime delle quali si erano cibate fino a poco prima. Emma ne percepì il sapore salato. Subito dopo percepì il suo.
Sentì qualcosa dimenarsi dentro di sé impazientemente. Avrebbe giurato che si fosse sciolto un intreccio di tensione che rischiava di spezzarla. Era bastato quel semplice sfiorarsi per scatenare in lei una simile reazione.
Emma si definì terribilmente egoista quando ricambiò il bacio di Harry, schiudendo le labbra ed invitandolo a non fermarsi. Egoista per il modo in cui lo stava usando consapevolmente per lenire una ferita da lui stesso provocata. Egoista per il modo in cui sapeva che quello che non sarebbe bastato a farla guarire. E per il modo in cui aveva comunque deciso di approfittarne.
Harry la baciava con dolcezza, sembrava che con i movimenti delle sue labbra le volesse sussurrare lente rassicurazioni ed eterne promesse. Il suo braccio era ancora intorno alle sue spalle, l’altra sua mano si era posata sul suo collo per accarezzarlo: aveva le dita fredde. Emma era quasi sdraiata sul suo corpo.
«Mi sei mancata così tanto» lo udì mormorare contro di sé, lasciandosi scappare un respiro sofferto dal quale traspariva quanto gli costasse non abbandonarsi completamente al trasporto che stava sperimentando, quanto gli costasse misurare i propri movimenti e rispettare i suoi. Emma era completamente rapita dal contatto che li univa, e per un attimo si chiese se avesse davvero udito quelle parole o se le avesse solo immaginate, spinta dall’ardente bisogno che nutriva di ascoltarle.
Portò una mano sul suo viso, lo percepì irrigidirsi appena e poi sciogliersi sotto il suo tocco.
Anche ad Emma era mancato.
Come l’aria.
A volte pensava che era per quella asfissiante mancanza che aveva difficoltà a regolare i propri respiri, che le sarebbe venuto molto più semplice controllarli se lui fosse stato accanto a sé. E di nuovo si trovò contesa tra la causa del suo male e la medicina che avrebbe potuto alleviarlo, identiche nella sostanza.
Harry le accarezzò la bocca con la lingua, baciandole di nuovo la guancia, il mento, la mandibola. «Avevo così bisogno…» sussurrò di nuovo sulle sue labbra, muovendo la mano tra i suoi capelli. «… di questo».
Emma non riuscì a reprimere un gemito ribelle al suo controllo. Non un gemito di piacere, ma di dolore.
Si ritrasse come scottata, lasciando Harry confuso a pochi centimetri da lei.
Fu come essere investita da una scomoda lucidità razionale. Come se le sue difese si fossero serrate intorno a sé al più piccolo sensore di pericolo, cedendo il posto all’artiglieria pronta all’attacco.
Ad Harry non sfuggì quel dettaglio. La osservò allontanarsi senza trattenerla, ma serrando la mascella.
Emma si mise a sedere piegando le ginocchia al petto ed avvolgendole con le braccia. Non lo guardava.
Harry la imitò, ma stese le gambe lungo il materasso. Non riuscì ad attendere una sua reazione, la precedette. «Sei ancora convinta che a me non freghi un cazzo, vero?»
Non aveva alzato la voce, ma fu come se avesse urlato.
Emma trattenne il fiato.
«Sei convinta che per me sia stato comodo perdere il nostro bambino, no?» Continuò, senza darle tregua.
Era la prima volta che Harry lo nominava.
La dolcezza con la quale l’aveva toccata fino a pochi secondi prima, la delicatezza con la quale le aveva anche solo respirato accanto, erano svanite, rimpiazzate da un’amara rabbia. Evidentemente anche lui aveva delle misure di protezione e di attacco. «Credi che di conseguenza io non abbia diritto di stare male, che io non abbia diritto di dirti certe cose, di ammettere che ho bisogno di te per superare tutta questa merda».
Harry la conosceva a fondo, a volte era in grado di leggerla così bene da spaventarla. Aveva capito cosa la stesse trattenendo, almeno in parte. La leggera, ma fondamentale differenza tra loro due, in quel momento, era che Harry aveva cercato di mettere da parte una consapevolezza che lo feriva per poter andare avanti con lei. Emma invece si rese conto di essere decisamente passiva in quella dinamica. Quasi arresa.
Stava riflettendo su questo particolare, ma Harry decifrò il suo silenzio come una conferma dei suoi sospetti.
«Non ci posso credere» sibilò tra i denti, alzandosi frettolosamente dal letto. I movimenti dolorosamente simili a quelli di qualche giorno prima. «Non ci posso credere, cazzo.»
Emma fece appena in tempo a registrare il fatto che lui se ne stesse andando di nuovo e che lei avrebbe voluto fermarlo, quando sentì la porta di casa sbattere con un tonfo che la fece sobbalzare. Si alzò di scatto, respirando velocemente carica di rimorso e confusione. Mosse qualche passo verso il salotto, come se avesse potuto rimediare.
Avrebbe dovuto fermarlo, avrebbero dovuto parlarne.
Ma allo stesso tempo le sembrava assurdo trovarsi di nuovo in una situazione simile. Possibile che ci fosse la necessità di trattenersi a vicenda, dovuta all’incapacità di restare e di affrontare il problema?
La porta d’ingresso si riaprì inaspettatamente, ed Harry entrò a passi veloci e rancorosi. Gli occhi deturpati da un’orribile dolore rivolto verso di lei. «Come cazzo puoi anche solo pensare che io non volessi quel bambino?!»
Stavolta urlò davvero, a pochi centimetri da lei. Emma indietreggiò di un passo. Le labbra socchiuse.
Lo osservò per un breve istante, decise di reagire. Se lo impose.
«Tu…» iniziò, inumidendosi le labbra e raccogliendo la voce. Abbassò velocemente lo sguardo, forse per farsi coraggio: quando lo riportò nei suoi occhi, finse di averne trovata qualche briciola in più. Doveva appellarsi alla rabbia che covava dentro, altrimenti il dolore l’avrebbe resa muta ed inerme. «Tu non mi hai nemmeno guardata, quando ti ho detto di essere incinta» gli ricordò, senza alzare il tono di voce. Si stupì della sicurezza nel suo tono: sperò che non tradisse il caos che celava. «Mi hai detto che avrei dovuto essere più attenta» continuò, marcando quella parola con una certa incredulità. «Che avrei dovuto sapere che ci sarebbero potuti essere dei problemi». A quel punto Emma trovò naturale far leva sul rancore che provava. «Dio, Harry, hai parlato del nostro bambino come di un problema!»
Harry sembrò indietreggiare, la sua postura perse parte della sua rigidità. «Per questo hai creduto di dover mettere in chiaro che non avresti mai abortito?» Le domandò gelidamente. Un contrattacco.
Il ricordo dello sguardo disgustato di Harry di quel pomeriggio la colpì profondamente. «Cos’altro avrei dovuto pensare?»
Un lampo di risentimento gli attraversò gli occhi. «Non avresti dovuto pensare proprio un cazzo!» Sbottò, gesticolando. «Mi conosci, Emma. Cazzo, mi conosci!» Continuò, battendosi una mano sul petto come a ricordarle di cosa stessero parlando. «Non capisco come tu abbia potuto cedere direttamente alla possibilità che io non volessi un bambino, anziché fermarti a pensare che forse ero solo scioccato e magari spaventato! E ho sbagliato a parlare in quel modo, ho sbagliato… Va bene. Ma perché non hai pensato che fossi semplicemente un coglione spaventato? Perché hai pensato direttamente che non volessi il bambino? Non merito nemmeno il beneficio del dubbio?! Non ti ho forse dimostrato abbastanza?!»
Emma sbatté le palpebre, non si rese nemmeno conto di aver ricominciato a piangere. Ormai era un sottofondo costante delle sue giornate. «Io…» balbettò. E se ne vergognò.
Harry non mostrò alcuna pietà. «Pensi davvero che avrei mai potuto chiederti di abortire?» La incalzò, abbassando il tono di voce ma affilandolo fino a farle temere di poterne essere succube. «Pensi davvero una cosa del genere? Hai davvero una considerazione così bassa di me?»
No.
Emma non lo pensava assolutamente.
Ricordava perfettamente il momento in cui aveva pronunciato quelle parole. Non l’aveva fatto per una paura specifica, ma per un istinto di protezione. Era un fatto, una constatazione espressa per chiarire un impegno. Non era stata la conseguenza di un reale pericolo.
Improvvisamente riuscì a decifrare meglio lo sguardo che Harry le aveva rivolto quel giorno, l’orrore che la sua insinuazione aveva provocato in lui. Si sentì in colpa per un’accusa così ingiusta, in colpa per un dettaglio che nel suo cieco dolore e nel suo egoismo superficiale non aveva affatto considerato, troppo presa a leccare le proprie ferite per riconoscere quelle di qualcun altro.
«No» sussurrò allora. Le tremavano le mani.
Harry la guardò come se non le credesse.
«Ho avuto paura» spiegò, abbassando nuovamente gli occhi sui propri piedi nudi.
Lo sentì sospirare, lo immaginò passarsi una mano tra i capelli per sfogare il nervosismo.
«Io non vedevo l’ora di dirtelo» continuò lentamente. «Per giorni ho aspettato di poterlo fare. Ed ero convinta che ne saresti stato felice, che-»
«Ne eri così convinta, che alla prima occasione hai-»
Emma lo interruppe semplicemente alzando lo sguardo. Harry non disse altro.
«Ero convinta che ne avremmo festeggiato insieme» riprese lei dopo qualche istante. «Immaginavo che all’inizio saresti stato un po’ stranito, che… Ma mi ero ripromessa di starti accanto fino a quando non avessi accettato la cosa.»
Harry non parlò, ma la sua espressione sembrava complimentare il suo miserabile e fallito tentativo di tenere fede alla sua promessa. Anche lei non ne era fiera: era venuta completamente meno al suo piano non appena le sue più candide aspettative erano state minacciate.
«Ho avuto paura» ripeté soltanto, fragile.
Harry scosse la testa, respirò profondamente. «E ti basta avere paura per accusarmi di volerti far abortire? Sei davvero così egoista?»
Emma serrò i pugni lungo il proprio corpo, indurì lo sguardo. Un moto di rabbia la portò a spingerlo via con le mani sul petto. «Vuoi smetterla?!» Gridò, con il viso infiammato. «Sei solo un ipocrita! Hai appena finito di giustificare la tua reazione dicendo che eri spaventato, ed ora te ne stai qui a guardarmi dall’alto verso il basso quando io cerco di spiegarti che è la stessa cosa che è successa a me!» Non riusciva a controllarsi. «Non osare giudicarmi, Harry. Tu mi hai fatto sentire in colpa per essere rimasta incinta. Tu… Tu mi hai fatta sentire in colpa per il nostro bambino, per qualcosa che avevi definito un problema! Quindi smettila di essere un tale ipocrita! Smettila di darmi contro solo perché ti senti ferito quanto me!»
Avevano sbagliato entrambi e nello stesso modo, Emma se ne rendeva conto solo ora.
Harry era rimasto scioccato dalla notizia della gravidanza, aveva forse temuto di non essere pronto, ed aveva reagito con un distacco che Emma aveva anche previsto, ma usando parole che non aveva neanche immaginato di sentire. Aveva reagito nell’unico modo che avrebbe potuto trascinare Emma in una terra di sconforto e paura. Aveva reagito egoisticamente, attaccando in modo da nascondere le proprie fragilità.
Emma d’altra parte aveva risposto alle sue parole incoerentemente. Come se la persona dalla quale era corsa per comunicarle la notizia, sicura dell’entusiasmo che avrebbero condiviso, fosse improvvisamente un’estranea: come se lei avesse perso ogni capacità di decifrare i suoi comportamenti, gli stessi con i quali conviveva da anni. E aveva finito per pronunciare parole altrettanto taglienti. Aveva reagito nell’unico modo che avrebbe potuto portare Harry ad allontanarsi ancora di più, inorridito e risentito. Aveva reagito egoisticamente, attaccando in modo da nascondere le proprie fragilità.
Restarono a guardarsi per qualche secondo, entrambi con i petti ansanti. Tesi. Esausti.
Harry si portò entrambe le mani tra i capelli, sospirò sonoramente e chiuse gli occhi, abbandonando il capo all’indietro e muovendo passi stanchi e privi di meta. Emma lo fissava senza muoversi, senza sapere cos’altro fare e cos’altro dire.
Harry voleva quel bambino.
Lo voleva.
Lo voleva quanto lei.
Un doloroso squarcio al centro del petto fece singhiozzare Emma miseramente. Pensò che le avrebbe risucchiato le forze, che da quella ferita avrebbe perso energie fino a restare vuota, ormai abituata a perdere pezzi di sé ininterrottamente. Invece sentì qualcosa infiltrarsi in lei strisciando lentamente in quella stessa apertura. Aveva l’impressione che fosse simile al sollievo.
Harry si voltò nell’udire il suono strozzato proveniente dalla sua gola e stavolta sembrò non esserne immune.
La raggiunse con pochi passi decisi. Emma ebbe la sensazione che l’avrebbe baciata non appena fosse stato abbastanza vicino, e credette di non aver bisogno di altro. Invece Harry le racchiuse il viso tra le mani e le sfiorò il naso con il proprio, imponendole la propria presenza quasi a volerle ricordare cosa significasse, come a voler riportare entrambi alla realtà. Emma non sapeva se fosse colpa della sua vista offuscata dalle lacrime, ma pensò di scorgere i suoi occhi verdi inumidirsi.
«Non sai cosa darei per vederti con quel bambino tra le braccia» disse Harry, serrando la presa sul suo viso e senza distogliere lo sguardo.
Emma perse ogni controllo.
Prese a piangere convulsamente, affondando il volto sul petto di Harry e perdendo coscienza dei propri confini tra le sue braccia, che la stringevano contro il suo corpo come a volerla inglobare. Era rincuorante avere qualcosa intorno a sé a tenerla insieme, a non permetterle di sgretolarsi.
Harry continuò a sostenerla anche mentre le gambe di Emma cedevano, obbligandoli a scivolare sul pavimento del salotto.
Emma aggrappata al suo collo e rannicchiata contro di lui.
Prima che potesse essere rapita nuovamente da pensieri opprimenti, di qualsiasi natura fossero, Harry posò un bacio sulla sua fronte, cullandola per chiederle di calmarsi o forse semplicemente per accompagnarla in quel baratro di emozioni.
Emma reagì al suo tocco serrando la presa intorno al suo collo, premendo il viso contro il suo.
Stavolta fu lei a baciarlo, ma non con la stessa cautela di poco prima.
Fu un bacio esausto, impaziente.
Un bacio disordinato, bagnato. Interrotto dai suoi testardi singhiozzi.
Incoraggiato dalle mani di Harry premute sulla sua schiena, nel cercare di avvicinarla a sé il più possibile.
Scomodo per la posizione.
Un bacio fatto di gemiti dettati dal pianto irrefrenabile e da un bisogno ben più caparbio.
Harry le scostò i capelli che le si erano appiccicati al viso e lei si spostò in modo da avere le gambe intorno al suo bacino, in modo da poterlo guardare negli occhi senza difficoltà, in modo da avere la sua bocca a sua completa disposizione.
Si spinse contro il suo petto, facendolo sospirare. Gli morse un labbro senza dispetto, lui percorse la sua mandibola con baci umidi e languidi, fino ad arrivare ad un punto particolarmente sensibile sotto il suo orecchio.
Ad ogni tocco delle sue labbra, Emma riacquistava briciole di forza e controllo su se stessa.
Ad ogni tocco delle sue labbra, cresceva la dipendenza che ne derivava.
Harry fece passare le mani sotto la sua maglia, accarezzandole la schiena fino ad arrivare alle sue scapole.
Emma mosse il bacino sul suo, spontaneamente, e l’attrito fece rabbrividire entrambi. Lo baciò di nuovo, respirò nella sua bocca mentre le sue dita fredde raggiungevano il suo seno. Gettò all’indietro il capo, godendo di quel contatto inebriante e continuando a muoversi su di lui lentamente. Sentiva la sua eccitazione tramite i pantaloni della tuta.
Harry le afferrò i fianchi e la trattenne, come a volerle imporre di fermarsi. Per compensare quel gesto, le baciò la gola, leccando i punti dove aveva posato le labbra in precedenza.
Emma riconobbe il limite che le veniva imposto. Tornò a guardarlo negli occhi, ansimando contro la sua bocca. «Hai detto che ne avevi bisogno» gli ricordò in un sussurro, mossa dalla necessità di donargli tutto ciò che era in suo possesso. Non per un senso di malizia, ma in nome di un conforto che non avrebbero potuto ricavare diversamente.
Harry si inumidì le labbra, aveva il respiro accelerato. «Io ho bisogno di te, non…»
Emma si sollevò appena sulle ginocchia, per poi scendere su di lui con una lentezza disarmante per entrambi. «Anche io ho bisogno di te» gli assicurò, riposando la fronte contro la sua. «Così tanto, Harry…»
Lui la baciò con urgenza. Non fu chiaro se per metterla a tacere o se per invitarla a non fermarsi.
Emma decise di non perdersi in tentativi vani di interpretazione. Aveva una viscerale necessità di Harry, di tutto quello che rappresentava e che poteva pesare su di lei fino ad azzerarla: sentire i suoi respiri impazienti infrangersi sulla sua pelle, percepire la sua erezione sotto di sé e lo sforzo che gli costava non assecondare i suoi movimenti, udire quei flebili gemiti che gli lasciavano le labbra tra un bacio e l’altro… Lei non era di certo pronta ad un rapporto completo, non sapeva quando si sarebbe sentita a proprio agio nel farsi nuovamente sfiorare, ma era convinta che avrebbe goduto del piacere di Harry, di un piacere non solo fisico.
Aveva sempre pensato che l’amore fosse altruismo. E nulla come quel momento, nulla come il bisogno dirompente di sentire crescere il suo piacere fino a stordirla, poteva confermare quel concetto.
Emma fece scivolare la sua mano. Avvertì i suoi addominali contrarsi brevemente sotto il tocco delle sue dita.
Tergiversò lungo i suoi fianchi nel tentativo di convincerlo a lasciarsi accarezzare senza esitazione, dandogli la possibilità di fermarla ma allo stesso tempo sconsigliandogli di farlo. Restò a pochi millimetri dalla sua bocca, guardandola con ardore mentre lui appoggiava le mani sul pavimento come arreso al suo destino. Emma rimpianse la stretta sul suo bacino, quelle dita arpionate nella sua pelle, e decise di bilanciare quell’improvvisa assenza con altro.
Giocò brevemente con l’elastico della sua tuta, per poi nascondere la mano al di sotto della stoffa e raggiungere la sua erezione. Harry ansimò in risposta, avvicinandosi alla sua bocca per baciarla in una sorta di ringraziamento e di supplica.
Emma aveva iniziato a muovere la mano avanti e indietro, godendo del suo calore, delle labbra che avevano iniziato a torturare le sue, dell’unione imparagonabile dei loro corpi, della sintonia con cui riuscivano a cercarsi e a nutrirsi anche con mille problemi alle spalle. Emma sentiva crescere il piacere anche nel suo basso ventre: una sensazione che la stranì e che la portò a rallentare il ritmo dei suoi movimenti. L’ultima cosa che l’aveva scosso era stato un dolore lancinante, in confronto al quale quel sottile piacere sembrava una colpa di cui vergognarsi.
Forse era ingiusto provare qualcosa del genere.
Forse era precoce.
Forse Emma era una persona orribile.
Harry la distrasse posandole una mano sulla guancia. «Guardami» le ordinò, reclamando i suoi occhi velati di una patina amara. Emma gli ubbidì, sperando di poterne trarre forza. O forse coraggio.
«Vorrei essere dentro di te» le disse con la voce spezzata, arsa dal piacere. «Qui, adesso.»
Emma trattenne il respiro, stordita. Sentì il bacino di Harry andarle incontro per compensare i suoi movimenti più radi. Ebbe l’impressione che stesse cercando di trascinarla con sé pur non toccandola, che avesse colto i suoi pensieri inespressi e volesse porvi rimedio.
Harry le si avvicinò all’orecchio, stringendo la mano tra i suoi cappelli. «Vorrei essere tra le tue gambe, mentre mi tocchi» sussurrò con lascivia, arrendendosi subito dopo ad un sospiro sofferto.
Emma si lasciò sfuggire un gemito, chiuse gli occhi. Riprese a muoversi intorno alla sua erezione.
Lui le morse il lobo dell’orecchio senza convinzione. «Vorrei respirare su di te» continuò, provocandole un piacevole fitta che le fece inarcare appena la schiena. «Sentire il tuo odore… il tuo sapore».
Harry tornò a guardarla negli occhi, le sfiorò le labbra ed aprì la bocca contro la sua, senza baciarla. «Ma più di tutto vorrei essere dentro di te» ripeté, chiudendo una mano sulla sua ed iniziando a dettare un ritmo lento, che fece ansimare entrambi.
«Vorrei muovermi così… Lentamente.»
Emma sentiva il petto in fiamme, avrebbe voluto disporre di un appiglio diverso dalle spalle di Harry, che invece sembravano condannarla ad un destino che si avvicinava sempre di più. Con l’altra mano Harry tornò sul suo seno, iniziando a torturarle il capezzolo. «Sì, così… Come ti piace tanto» la incalzò, sentendola reprimere un verso di piacere nel mordersi un labbro.
Le baciò il collo, succhiando la pelle e respirandoci sopra. «E proprio mentre fai questa faccia…» le promise, baciandole una guancia e sfiorandole il naso per attirare la sua attenzione, per renderla consapevole di come la stesse osservando e di come la stesse adorando. «… proprio in quel momento vorrei spingermi ancora di più dentro di te.»
Harry guidò la sua mano in movimenti più decisi sulla sua erezione, gemendo di conseguenza. «Più a fondo.»
Emma non riusciva a respirare.
«Più veloce.»
«Harry…»
«Sì?»
Harry raccolse quel nome appena sussurrato come una richiesta imprecisa, ma irrinunciabile. Emma non la articolò, reclinò il capo all’indietro lasciando che lui riprendesse a camminarle sul collo con le sue labbra morbide, immergendosi nel calore della sua mano aperta sul suo seno.
«Vorrei sentirti venire mentre sono ancora dentro di te.»
Emma sfiorò la punta dell’erezione di Harry con le dita, scostandosi dalle sue indicazioni, e lo sentì tendersi sotto il suo tocco. Percepì il suo corpo sussultare per qualche istante, delle parole confuse strisciare via dalla sua mascella serrata. E il suo orgasmo fu così totalizzante da spingerla sull’orlo della perdizione.
Orlo che Harry non era affatto disposto a lasciarsi sfuggire.
La baciò ancora una volta, come per prometterle qualcosa. Poi le sollevò la maglia e con entrambe le mani si dedicò al suo seno, fino a posarci la bocca per morderlo e saggiarlo. Fino a leccarlo così sfacciatamente da provocare in Emma un brivido irresistibile, un gemito più forte e prolungato. Fino ad obbligarla a stringere le gambe intorno al suo bacino come a voler trattenere l’orgasmo che la stava scuotendo nel profondo.
Fino ad azzerarla.


 

Be',  che altro dire?!
Io sinceramente sono prosciugata dallo sforzo che mi costa scrivere queste scene (e quelle che poi leggerete): è davvero estenuante, soprattutto dopo anni di blocco. Ritornare di botto con un tale carico emotivo è un pochetto difficile! Difatti spero di non aver fatto un casino e di aver esposto al meglio cosa succede tra questi due poveri disperati. So che il punto di vista di Emma non è semplice: in un momento simile è a dir poco altalenante ed incoerente, quindi altrettanto difficile da descrivere.
Non so in quanti si aspettassero un aborto spontaneo: forse ho infranto i sogni di chi si aspettava di leggere di un piccolo Harry in miniatura. Ma sapete che io e le cose semplici non andiamo d'accordo.
Pubblicare questa parte della storia è un sollievo: è da anni che ho in mente di scriverla, per cui è da anni che convivo con scene simili nella testa, consapevole di dover spezzare i cuori di Emma ed Harry più di una volta. Mi porto dietro un vago senso di colpa.
In ogni caso, come sempre spero che questo "capitolo" vi sia piaciuto. Sapete che sono il mio più grande critico, ma aspetto comunque eventuali pareri (positivi o negativi che siano!).
 
Un abbraccio,
Vero.


 
  
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