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Autore: PrincessintheNorth    22/02/2021    1 recensioni
Nuova edizione della mia precedente fanfic "Family", migliorata ed ampliata!
Sono passati tre anni dalla caduta di Galbatorix.
Murtagh é andato via, a Nord, dove ha messo su famiglia.
Ma una chiamata da Eragon, suo fratello, lo farà tornare indietro ...
"- Cosa c’è?
Deglutì nervosamente. – Ho … ho bisogno di un favore. Cioè, in realtà non proprio, ma …
-O sai cosa dire o me ne vado.
- Devi tornare a Ilirea."
Se vi ho incuriositi passate a leggere!
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Morzan, Murtagh, Nuovo Personaggio, Selena | Coppie: Selena/Morzan
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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KATHERINE
 
La prima cosa che percepii fu la brezza sul viso. Era fresca e salmastra, dolce sulla pelle, ed il profumo del mare fu sufficiente a risvegliarmi completamente. Aprii gli occhi e mi trovai davanti ad un immenso cielo stellato: bellissimo, certo, e luminoso, ma sconosciuto.
A quel punto iniziai seriamente a preoccuparmi.
Con uno scatto mi misi prima seduta, e poi in piedi, e stranamente nessuno di quei movimenti bruschi mi diede alcun problema.
Com’è possibile?
Con le ferite che avevo, tra quella del parto e quella di Galbatorix, non sarei dovuta nemmeno essere in grado di muovermi (per la verità sarei dovuta essere morta), ed invece ero saltata in piedi come una molla. Stranita, spostai lo sguardo in basso, verso la mia pancia, e la trovai non solo piatta, ma persino intatta e priva di segni, cicatrici o smagliature da gravidanza che fossero. Non solo, ma addosso avevo abiti non solo non miei, ma che non erano nemmeno quelli con cui ero uscita da Lionsgate quella notte: al posto dei pantaloni di pelle, della tunica, del soprabito e del mantello, adesso tutto quello che mi copriva era un leggero abito verdazzurro di lino praticamente trasparente, stretto in vita da una cintura bianca e con una scollatura più profonda di quanto mi sarei mai permessa di osare, soprattutto da donna sposata e madre di quattro figli. Arrivava fino all’ombelico, ed era sufficiente a farmi diventare rossa in viso d’imbarazzo. Sulle spalle del vestito, notai, era assicurato un mantello, sempre di lino bianco, più ornamentale che utile a proteggermi dal freddo.
Qui sta succedendo qualcosa di strano.
«Kate!»
Al suono di quella voce, la voce di Murtagh, mi voltai. Stava correndo verso di me da … da dove? Dalla mia sinistra, sì, ma non avrei saputo assegnare un punto cardinale a quella direzione. Non c’era alcuna stella su cui potessi fare affidamento per orientarmi.
Anche lui non aveva gli stessi vestiti che aveva durante la battaglia: aveva addosso solamente degli stivali, dei pantaloni ed una camicia. Nel giro di due secondi, mi aveva raggiunta e serrata fra le sue braccia.
Istintivamente, sospirai di sollievo. Almeno non ero da sola in quel luogo sconosciuto: avevo lui, lì con me.
«Come ti senti?» chiese, iniziando a farmi domande a raffica e sfiorandomi ovunque, per controllare che stessi davvero bene. «Ti fa male da qualche parte? La testa? La pancia?»
«Murtagh, sto bene» lo rassicurai, e lui annuì. «Tu?»
Si strinse nelle spalle. «Normale. Il che è strano, visto che l’ultima volta che ho controllato somigliavo di più all’ultimo pasto di un drago ... o ad un pezzo di groviera, visto che ero pieno di buchi. Anche tu non eri messa così bene» osservò. «Ma non importa. Meglio così, no?»
«Immagino di sì» commentai e, sciogliendo l’abbraccio, mi diedi un’occhiata intorno.
Intorno a noi c’era un immenso prato verde che non sembrava avere fine; il terreno era perfettamente piatto, senza una collina o un dislivello. Lentamente, però, il prato diventava sempre più rado fino a lasciare il posto ad una larga striscia di spiaggia, le cui sponde erano lambite da un mare cristallino in cui si riflettevano le stelle.
Di certo non era un brutto posto, anzi: tra il venticello, il profumo del mare e quelle stelle, molto più luminose ed in qualche modo vicine di quelle di casa, potevo persino definirlo romantico. Il problema era che non avevo idea di che luogo fosse.
«Ho ispezionato i dintorni» Murtagh disse, con un cipiglio appena preoccupato sul volto. «Non sembra esserci altro se non erba e sabbia e acqua. Ah, e il cielo non cambia. Mi sarò svegliato ore fa e ancora non si è vista l’ombra di un mattino. Le stelle non si sono mosse di un centimetro».
Nemmeno quello aiutava. Sapevo che, nelle regioni più estreme del nord, la notte e il giorno non duravano mezza giornata, ma sei mesi interi: quelle zone, però, erano intrappolate nei ghiacci perenni, e lì dove ci trovavamo non faceva nemmeno freddo.
«Dunque, visto che qui la navigatrice sei tu» Murtagh proseguì. «Guarda il cielo e dimmi dove siamo».
«Non ne ho idea» risposi semplicemente, anche se ammetterlo mi mise subito in agitazione. «Non riconosco nessuna di queste costellazioni, ed in più questo luogo non ha senso».
Lui aggrottò le sopracciglia. «Che intendi dire?»
Rapidamente gli spiegai la questione della notte lunga sei mesi e della differenza evidente di clima tra il luogo in cui ci trovavamo e quelle regioni, ed il suo cipiglio si fece più grave.
«Direi che non abbiamo una bella situazione di partenza» osservò e si sedette, trascinandomi giù con sé.
«Assolutamente» concordai, e sentii il mio umore (che già non era ai suoi massimi livelli) scivolare ancora più giù.
Non sapevo spiegare l’improvvisa guarigione delle mie ferite, che erano mortali; ero in un luogo sconosciuto; e la bimba che avevo appena dato alla luce non era lì con me. In effetti, non avevo la benché minima idea di cosa le fosse capitato. L’immagine del suo viso passò per un secondo davanti ai miei occhi, e percepii distintamente lo stesso amore e la stessa meraviglia che avevo provato quando l’avevo vista per la prima volta. Era bellissima, e valeva ogni singola lacrima e goccia di sangue che la sua nascita mi era costata.
La sola idea di essere lontana da lei mi faceva venire voglia di attraversare quello stupido mare, così odiosamente calmo, e raggiungerla.
Ovunque fosse.
Dei, quanto odiavo non sapere dov’era. Onestamente parlando, non sapevo come facessero le altre madri a permettere ai propri figli di andarsene in giro per la città e tornare al tramonto. Quando perdevo di vista i miei, mi sembrava di impazzire. La mia mente continuava a produrre incessantemente ogni tipo di scenario, andando da quelli più tranquilli, in cui i bambini erano semplicemente nei giardini a giocare, a quelli in cui venivano rapiti, o peggio.
Almeno Belle, Killian ed Evan sapevano parlare. Erano in grado di chiedere aiuto, di dire chi erano e dove abitavano.
Ma la mia piccola, appena nata? Aveva solo il pianto come mezzo di comunicazione. Chiunque, con me e Murtagh fuori gioco, avrebbe potuto prenderla e portarla via.
Anche, e soprattutto, Galbatorix.
«Katie? Oddio, Kate» Murtagh sospirò e mi abbracciò. «Non piangere, amore. Andrà tutto bene».
Non mi ero neanche accorta di star piangendo, e se possibile, quella sua richiesta riuscì solo a far aumentare d’intensità i singhiozzi che avevano preso a perforarmi il petto.
Mi sentivo completamente persa, nonostante lui fosse lì accanto a me. Non avevo idea di dove fossimo, né di dove si trovasse la mia piccola, e soprattutto in che condizioni. Se era stato Galbatorix a prenderla, potevo già considerarla morta.
E dopo averla avuta in grembo per otto mesi, dopo averle voluto bene fin da quando avevo scoperto del suo arrivo, dopo aver combattuto per lei così tanto, quello era un pensiero che mi faceva venire voglia di buttarmi da una scogliera.
«Che ti prende?» Murtagh sussurrò, accarezzandomi appena la guancia. «Scusa. Domanda idiota. È per la bimba, vero?»
Annuii. Sapevo che, con quei singhiozzi, non sarei mai riuscita a rispondere a voce: non in maniera comprensibile, almeno.
«Allora puoi calmarti. Galbatorix non può averla presa. In effetti, credo sia morto» aggiunse con un piccolo sorriso.
Quell’informazione fu abbastanza scioccante da farmi smettere di singhiozzare, almeno per un po’. «Cosa?»
«Tu avevi già perso i sensi, ma prima che svenissi … ho sentito Dracarys ruggire. Era un ruggito di vittoria, parecchio entusiasta» raccontò e mi strinse di più a sé. «Penso che sia una prova a favore della sua definitiva morte. Adesso però …» i suoi occhi si spalancarono improvvisamente, fissando un punto dietro di me. «Quello prima non c’era, o sbaglio?»
Mi voltai rapidamente, e capii il perché di quella sua espressione.
A poche iarde da noi era appena comparso un tavolo imbandito, coperto da piatti colmi di cibo e alzate di stuzzichini e tartine.
«No» risposi lentamente e mi alzai, dirigendomi verso quel banchetto.
Avvicinandomi, notai che c’erano tutti i miei piatti preferiti, insieme a quelli di Murtagh. Sembrava fatto apposta per noi.
«Questo è strano» lui disse, stringendomi la mano. La sua voce era colma di sospetto e preoccupazione, e sembrava pronto a scattare al minimo accenno di pericolo.
«I tavoli non dovrebbero apparire a caso nel bel mezzo del nulla» concordai. «Ma è anche vero che si possono trasportare le cose con la magia».
«Quindi …»
«Qualcuno sa dove ci troviamo!» esclamai, sollevata. Non poteva essere altrimenti.
«E potrebbe averci mandato dei viveri per assicurarsi che non moriamo di stenti mentre ci viene a prendere» Murtagh aggiunse. «Oppure è uno stratagemma di qualcuno che non ci porterà a nulla di buono. Quel cibo potrebbe essere avvelenato».
Mi dispiaceva ammetterlo, più che altro perché avrei adorato fiondarmi su quelle prelibatezze, ma aveva ragione: e considerando tutto, la sua seconda teoria era molto più probabile della prima.
«Allora forse, nel dubbio, è meglio stargli alla larga» commentai riferendomi al tavolo, ed entrambi facemmo qualche passo indietro, senza togliergli gli occhi di dosso.
«E c’è anche la questione dei vestiti» lui proseguì. «Per quanto apprezzi veramente quella scollatura, questa roba non è nostra. E io sono sicuro di non essermela messa addosso. Qualcuno ci ha cambiato i vestiti e fatto comparire il tavolo. È l’unica conclusione logica».
«Resta da capire chi sia quel qualcuno …»
«E far sì che ci rispedisca a casa» lui concluse, ed un sorriso eco del mio gli comparve sulle labbra. «Anche questo mi era mancato» ammise e mi strinse nuovamente a sé, lasciandomi un bacio sui capelli.
Così abbracciati, iniziammo ad esplorare i dintorni del posto in cui eravamo finiti: come lui aveva detto, non c’era altro a parte l’erba, il mare, la spiaggia ed il cielo stellato sopra di noi. Quell’immensità era di una bellezza struggente e romantica, ma talmente vasta e sempre uguale a sé stessa da risultare disorientante. Ben presto né io né Murtagh fummo in grado di dire da che parte fossimo venuti, e senza altre possibilità continuammo a camminare, finché non ci ritrovammo di nuovo davanti a quel tavolo imbandito.
Questa volta però, accanto ad esso, ce n’era un altro, apparecchiato con quattro posti a sedere.
Sentii la mano di Murtagh stringere più forte la mia, e contemporaneamente fece un passo in avanti, mettendosi di fronte a me. Nonostante fossi in grado di difendermi da sola, lo lasciai fare: sapevo che mettendomi in prima linea l’avrei solo fatto preoccupare. L’avevo fatto durante la battaglia, e non era finita bene come avevo sperato.
«Chi c’è?» domandò ad alta voce, il tono così serio ed imponente che quasi mi fece venire voglia di rispondere. «Fatti vedere!»
Ma al suo ordine risposero solamente la brezza ed il frangersi delle onde del mare sulla spiaggia.
«Forse dovremmo procedere con più diplomazia» suggerii.
«Katie, non penso che tu sia la persona più adatta per dare lezioni di diplomazia» commentò a denti stretti, assumendo una posizione di difesa. «Riesci ad usare la magia?»
Rapidamente provai ad evocare il fuoco sul mio palmo: l’incantesimo più semplice e naturale che conoscessi. Era sempre stato il fuoco la forma di energia che mi era stato più facile canalizzare e controllare, dunque evocarlo avrebbe dovuto essere semplice come respirare.
Eppure, il mio gedwey ignasia non si illuminò: rimase del suo tipico color argento, e sembrava guardarmi con aria di sfida, come a dire “puoi provarci quanto vuoi, tanto non ce la farai”. Ci riprovai, di nuovo senza alcun risultato: sul mio palmo non comparve nemmeno una scintilla.
«No» dichiarai, e quella sconfitta bruciò ben più di quanto volessi ammettere. Per tutta la mia vita avevo faticato a contenere la mia magia, a non usarla, ed ora che ne avevo bisogno non ero in grado nemmeno di percepirla dentro di me?
Roba da matti, Belle avrebbe detto, accompagnando quell’espressione con quel suo tipico broncetto che faceva sempre sciogliere il suo papà. Nel pensare a lei, il cuore mi si strinse dalla nostalgia e dal timore di non potermi riunire a lei.
Niente pensieri tristi e cupi, mi dissi, scuotendo rapidamente la testa, come se quel gesto potesse aiutarmi a buttare fuori quei pensieri. Non è il momento. Devo stare in allerta.
«Fantastico» Murtagh sbuffò. «Quindi, ricapitolando, non sappiamo dove ci troviamo, chi ci abbia portati qui, ed in aggiunta a tutto ciò siamo privi della nostra magia e di una qualsivoglia arma, dunque inoffensivi. È … è oltraggioso!» sbottò a bassa voce, e non potei non comprenderlo. Lui, allenato al mestiere delle armi da quando era nato, figlio di un Cavaliere dei Draghi, Cavaliere egli stesso, improvvisamente innocuo? Chiunque si sarebbe sentito insultato. Io stessa mi sentivo ugualmente sdegnata, perché non mi era mai capitato di trovarmi in una situazione in cui non avessi nulla (il mio nome, la mia magia, un’arma fisica) con cui difendermi o ferire qualcuno.  
«Giuro che non volevo!» una voce estranea intervenne, facendoci saltare entrambi dalla paura.
Dietro di noi era comparso un bambino che non poteva avere più di cinque, sei anni: sul viso angelico aveva un’espressione appena triste, che somigliava in maniera impressionante a quella che faceva Evan quando temeva di aver deluso o fatto arrabbiare me o Murtagh.
Cosa ci fa un bambino qui, da solo?
Di fianco a me, Murtagh era come pietrificato: rigido come un pezzo di legno, fissava il piccolo come se non potesse credere ai propri occhi.
Murtagh è fuori gioco. Vorrà dire che me la sbrigherò da sola.
«Ehi» sorrisi al bambino inginocchiandomi davanti a lui, così che potessimo parlare faccia a faccia. Quando fui di fronte al bimbo, tuttavia, rimasi sorpresa dal fatto che sentissi … qualcosa, come un legame, spingermi verso di lui. La cosa era assurda, perché non conoscevo quel bambino: non c’era nulla che potesse legarci.
Eppure, non riuscii ad ignorare quel campanello d’allarme, che continuava a dirmi che quel bimbo, in realtà, lo conoscevo. Quasi senza accorgermene iniziai ad osservare meglio i suoi tratti: aveva un volto dolce ed allegro, ma anche elegante e raffinato, circondato da riccioli della stessa tonalità dei miei capelli. Involontariamente mi trovai a notare tante, parecchie, troppe somiglianze con me, con Murtagh, con i nostri bambini. E poi quegli occhi … aveva dei bellissimi occhi, di colore diverso; uno grigio, ed uno castano.
«Dove sono i tuoi genitori?» mormorai. Non appena pronunciai la parola genitori sentii il mio stomaco contrarsi in una maniera strana, come se stesse protestando contro il mio cervello per starmi negando una chiara verità.
Il bimbo non rispose: si limitò a sorridere appena, con un accenno di divertito sospetto agli angoli, come se volesse dirmi “stai dicendo sul serio?”
No, mi dissi. No, non può essere. Mi sto immaginando tutto.
I sospetti che iniziavano a formarsi nel mio cuore dovevano rimanere tali: sospetti, idee, pensieri volanti. Non potevo immaginare le conseguenze che avrebbero avuto se fossero stati realtà.
«Come ti chiami?» chiesi. Lui sorrise e fece per dire qualcosa, ma venne interrotto da Murtagh.
«Kate, basta» mi disse, appoggiandomi una mano sulla spalla e stringendo leggermente. «È lui, amore. È George, nostro figlio».    
 
   
 
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