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Autore: Evil Daughter    05/03/2021    7 recensioni
Oltre ad essere rozza sei priva di delicatezza.
Pensò Vegeta. Dedicandole l’accusa.
Piegò le labbra in giù, fece maggiore pressione e l’ago schizzò fuori portandosi dietro una scia di sangue annacquato.
Ripensò al ricovero in ospedale, rimembrava ogni particolare; almeno da quando aveva riaperto gli occhi. Alcuni dettagli li avrebbe cancellati volentieri. Altri no, sedimentavano. Lo mettevano davanti a diversi interrogativi. Lei lo aveva salvato.
E sai come sprecare il tuo tempo.
Un pensiero ancora rivolto a lei.
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Vegeta? Un folle omicida. Ma Bulma lo sa bene: mai fermarsi a giudicare unicamente la coda del mostro.
La belva deve essere sempre osservata nella sua interezza.
Periodo trattato: triennio antecedente ai cyborg.
INIZIO RELAZIONE TRA BULMA E VEGETA. STORIA ILLUSTRATA.
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Nuovo capitolo, 18: PROGENIE SEGRETA SOTTO LAMPI DI GUERRA.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Dr. Gelo, Vegeta, Yamcha | Coppie: Bulma/Vegeta, Bulma/Yamcha
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'ARANCE MARCE: Bulma e Vegeta, sbagliati e quindi veri.'
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La “sorpresa animata” la trovate a fine capitolo. ^_^ Un mio nuovo disegnino, vivace. Più nuovo disegno!


Standby
 

Capitolo XIII - Sub-limen: la passione si vestì di solo tormento.

 

Passi, tanti, come di un esercito in marcia. Lui li percepiva, tutti, distinguendone distanza e provenienza. Che sfortuna.
Dall’altro lato del marciapiede su cui stava camminando, una portiera sbatté forte, lontana, eppure anche lei vicina come suggeriva il suo udito.
La popolazione terrestre... troppo numerosa per un misantropo come lui. Inutile. Clacson in sequela suonarono impropriamente. Chiassosa. Immeritevoli a cui era stato concesso il privilegio di respirare ancora. Uno spettacolo infernale mancato.
Il semaforo lumeggiò rosso. Non attraversare. Era facile far finta.
Lui non rappresentava più chi una volta avrebbero dovuto temere. Erano fortunati i terrestri.
Lavori in corso, scritto su un grande cartello impolverato, ci passò vicino. Operai, ruspe in azione, un tir in retromarcia. Sbuffò seccato. Ne aveva piene le scatole di quei frastuoni: la Capsule Corporation ne era ancora devastata; a causa sua; e la terrestre atipica non ne voleva sapere di arrendersi.
Far finta era diventato difficile.

Gli importava del risultato.
Non aspettava lei, che s’era aggiunta e l’aveva convinto a farsi una camminata lontano.
Gli importava.

Ancora i terrestri: lo attorniavano, gli passavano a fianco ignari della pericolosità. Erano fortunati perché a lui non interessava. Non ucciderli non era significante di cambiamento ma di libera scelta. Libertà, per Vegeta. Fine di Freezer. Che poi, non gli aveva mai davvero ubbidito e se gli era capitato di ammazzare era stato per capriccio, o necessità.

Era significante di priorità più alta, quindi.
Oppure di una metamorfosi genuflessa all’etica, quella del bene.
No, restava se stesso.

Così, le grida, lo scippo che stava ora accadendo davanti ai suoi occhi, nulla era affar suo. Ed il sangue colato sull’asfalto, le mani imploranti che si tendevano e speravano di ricevere da lui un aiuto, questi rappresentavano ostacoli da evitare come la sgradevole abbandonata deiezione canina  trovata sulla strada poco avanti.
Aggirò entrambe le incombenze.
Un saiyan non era uno spazzino, né un salvatore.

Kakaroth, un traditore.


Dal riflesso giallognolo di una delle tante vetrine che tappezzavano la via percorsa, il camouflage apparve perfetto: un giubbotto di pelle aperto, la canotta grigia sotto. Leggero per le rigide temperature, idoneo per un alieno. Vegeta non soffriva particolarmente il freddo e la terrestre di nome Bulma non lo aveva capito.
E poi un paio di jeans scuri. Pure negli abiti gli abitanti della Terra mostravano la loro incapacità. Non si poteva combattere con quelli addosso.
Ecco perché: stava cambiando forma. Gli stava incasinando le idee, lei.
Aveva bisogno di indossare “la pelle” a cui era abituato per sentirsi se stesso.
Aveva bisogno di più rabbia.


Due donne lo stavano fissando con insistenza. Erano prive di vergogna ma il timore lo portavano dipinto negli occhi.
Passò accanto a quelle, attraversò un muro di stucchevole profumo. Udì dei sospiri, un risolino fanatico.
Non le somigliavano.
Insofferente, continuò ad avanzare senza meta precisa, camminava veramente come continuava a farsi avanti fra le siepi dei propri pensieri; e la Città dell’Ovest, in quell’inverno quasi finito, era sbiadita, caliginosa, schiacciava il respiro.

Poteva essere comunque un esercizio di autocontrollo, la forza era cambiata in lui. Il potere andava plasmato: doveva essere pronto ad accoglierlo, a gestirlo secondo il proprio volere. Come soleva un saiyan preparato quale era. E mimetizzarsi, camminare dimenticando la super velocità, non levitare, gli stava riuscendo nonostante scalpitasse in lui la voglia di esplodere, di manifestare i propri nuovi poteri.
Se la cavava meglio di quanto avesse immaginato. Se si concentrava riusciva addirittura a mitigare l’idiosincrasia con gli stupidi terrestri.
Tranne che con una, che non era stupida.
Si fermò.
Pensava a lei.
Pensava a lei in relazione al vantaggio che gli avrebbe donato. Ma Bulma lo avrebbe fatto arridendogli, investendolo di bontà, sputandogli in faccia quel casino di emozioni e aspettandosi da lui reazioni troppo umane.


Devo fare meglio di Kakaroth.

Un muoversi spasmodico portava da nessuna parte.

Non c’è altro posto.

E la fissità, in egual modo, intrappolava le sue abitudini raminghe.

All’incrocio una folla di persone era in attesa di attraversare la strada come una mandria di gnu un fiume. Semaforo guasto. Vegeta, dalla parte opposta, sul marciapiede, diceva addio alla vita futura in cui non si sarebbe mai riconosciuto. Preparato a scappare anche dalla terrestre. Doveva raggiungere la propria agognata ambizione, in solitudine.
Al diavolo la gravity room.

Ma lei aveva deciso di comparire, di ricordargli che si sbagliava.

E di morire.

Ci avrebbe messo la mano sul fuoco che lo stava cercando. La osservò attraversare la strada dalla parte sbagliata, quella in cui lui non c’era. Non lo aveva visto. Bulma sarebbe passata dove l’automobile che giungeva sfrecciando l’avrebbe falciata non potendo frenare in tempo.
Vegeta aveva già calcolato tutto.
A ciascuno il proprio destino.
Non l’avrebbe salvata.
Se alla terrestre toccava quello...
La immaginò in un bagno di sangue.
Non avrebbe mosso un dito.
Eppure, morta non gli serviva.
Viva era meglio che a brandelli sull’asfalto.

Era funzionale.

Perciò...

Si propagò nell’aria un’onda di calore, che viaggiò oltre la strada soffiando vento caldo alle spalle di Bulma.

Vedimi.

Bastò.

La scienziata si voltò e cambiò direzione in tempo. L’auto passò a pochi centimetri dall’ucciderla.

Non aveva mosso un dito per salvarla. Aveva giocato con la propria aura e lei era stata fortunata. I terrestri erano fortunati.


«Vegeta!», lo chiamava, viva, attraversando la strada per andargli incontro.

Vegeta se ne stava già pentendo.





~ ~ ~

 


Se l’aveva seguita in quel bar era stato perché voleva sincerarsi dell’andamento del lavoro, che stesse procedendo come sperato. Per capire quanto ancora sarebbe durata l’attesa che lo spingeva a considerare l’andar via una soluzione. E perché aveva intuito che se avesse opposto resistenza lei lo avrebbe assillato.

Le poltroncine su cui sedevano erano troppo comode, Vegeta non capiva questa ossessione dei terrestri per il comfort spalmato su ogni cosa.
Come altresì non comprendeva l’utilità di un maglione corto che lasciava in vista l’addome nudo e permetteva al minuscolo ombelico di comparire e catturare l’altrui sguardo. Di tal dettaglio se ne era accorto lui, l’avevano scorto i tre uomini alla sua sinistra, e lo stava fissando il ragazzino che faceva finta di studiare un tavolo avanti a loro. Bulma invece era abituata ad essere ammirata.

Piuttosto agitata, per altri motivi, la scienziata stringeva le mani attorno ad una tazza di tè. Guardava Vegeta preoccupata, ad occhi spalancati. Non sapeva da che parte iniziare.
Il saiyan non aveva ordinato nulla. Aveva scelto lei per lui. Ma doveva smettere di farlo e non lo capiva.
«Mia madre, ecco... avrei dovuto parlare con lei. Non ho avuto il tempo, le parole.»
Biascicò confusamente. Non era stato un esordio convincente, lo sapeva. E Vegeta non l’aveva ascoltata. Era impegnato, distratto a perseguitare ogni sguardo si rivolgesse verso di loro, perché l’ombelico calamitava l’attenzione e lui odiava con tutto se stesso essere fissato. Doveva dirle che questo lo infastidiva. Non lo avrebbe mai fatto.
Poi era arrivata la cameriera e gli aveva lasciato sul tavolo un pranzo gigantesco, in qualche modo questo gli aveva fatto piacere: gli aveva dato un attimo di respiro, tutto quel cibo formava un muricciolo tanto che a stento riusciva a scorgere Bulma seduta davanti a lui.
Lei lo vide rilassarsi e credette fosse una tattica vincente continuare a prenderlo per la gola.
Quindi, riacciuffò la conversazione nata e morta a metà:

«Vegeta, hai sentito che ho detto?»

«Che hai terminato la gravity room? Hai detto questo?»

Era unicamente ciò che voleva sentire, quel che gli importava. E quel che importava a Vegeta, in quel momento, faceva male a Bulma.


 

~ ~ ~


 

 Giorni prima.

 

 

Aveva chiuso la porta. L’aveva sbattuta, e lo schianto aveva preso il posto dello schiaffo che volentieri gli avrebbe stampato sulla faccia.
L’aveva fatta passare per una poco di buono. Peggio: si era chiuso nuovamente a lei, in quel silenzio ermetico e impenetrabile; recidendola via, come erbaccia, fuori dal giardino segreto del “principe”.
Bulma rimase assorta, in piedi, nel corridoio vuoto. Solo in quel momento la vestaglia le sembrò troppo leggera. Poteva prendersi un raffreddore se continuava a starsene lì, mezza nuda. Tornò nella propria stanza. Non per dormire. Non avrebbe chiuso occhio pensandolo nella porta accanto.
Per cui, si cambiò indossando abiti comodi e andò dove la notte le sarebbe parsa essere meno insopportabilmente lunga di come s’era presentata.


In laboratorio, alle quattro e trentasette del mattino, Bulma aveva preso una decisione: la ristrutturazione della Capsule Corporation avrebbe compreso la costruzione della nuova Gravity Room. Non esterna, ma all’interno dell’abitazione. A fianco ai laboratori e accessibile dall’appartamento.
Puoi rifiutare me... non questa.
Il progetto messo a punto con suo padre era completo. Era stato ideato in tre giorni e ultimato e migliorato da Bulma in un paio d’ore. Era stata mostruosa.
Sarai tu a starmi vicino. Dove io potrò raggiungerti.
E se andasse via?
Lo farebbe comunque se non lo facessi. Ad ogni modo, lui non ha un posto dove andare.
Questo ti conforta?
Mi rende egoista.

Gli somigli.

Un pacchetto di sigarette sopra la scrivania sembrò più attraente del necessario. Apparteneva a suo padre. Dalla scatolina aperta spuntava un filtro giallo desideroso di farsi prendere. La tentazione di afferrarlo e mescolare i pensieri sino a diradarli nel fumo era molta. Strusciò le dita fredde sulla stoffa sottile dei leggings, indecisa, ma soprassedé. C’era tempo per prendersi il vizio, e lei era ancora giovane per iniziare ad invecchiare.
Salvò sul computer il capolavoro di ingegneria appena finito. I lavori di costruzione sarebbero stati avviati la mattina stessa e, con una decina di risorse umane operanti, i risultati sarebbero stati immediati. Un successo.
Immaginò la faccia di Vegeta, e tornò a guardare il pacchetto di sigarette... Meglio attaccarsi al succo di frutta. Afferrò il cartone da un litro che s’era portata in laboratorio e ne mandò giù qualche sorso, bevendo direttamente dalla confezione. L’avvitatura per il tappo era larga e un rivolo di liquido arancione grondò al lato della sua bocca. Delle gocce le bagnarono la felpa all’altezza del seno. Sospirò: detestava l’odore del succo di frutta rappreso, puzzava come il vomito del gatto di suo padre.


«Non eri nella tua camera»


Qualcuno, alle sue spalle.
Mollò la presa e il cartone le scivolò dalle mani. Il succo di frutta alla pesca finì per spargersi tutto sul pavimento.
Non voleva voltarsi a guardare chi l’aveva colta di sorpresa. Conosceva il tono imperante.
«Non mi sbagliavo a pensare che ti avrei trovata qui.»
Continuò Vegeta. Era fermo davanti all’ingresso di quella sezione del laboratorio.
«Hai combinato un disastro, te ne sei accorta?», disse, dando uno sguardo al liquido schizzato a terra.
«Grazie a te. Mi hai spaventata», brontolò lei e si girò. Era davvero lui: una maglia nera aderente, i pantaloni di una tuta. Scalzo. Espressione torva. Era proprio lui. Vide questo in un’occhiata fugace, successivamente si rivolse all’orologio appeso al muro: quasi le cinque. Ma che voleva ancora da lei?
«Non eri stanco, Vegeta? Che ci fai quaggiù?», gli domandò distratta, concentrandosi su come risolvere il casino. Chiedendosi internamente se anche lui non aveva chiuso occhio e provava lo stesso suo malessere.
«Mi pare di avertelo appena detto: non eri nella tua stanza.»
«Sei entrato nella mia camera!», ci fece caso solo in quel momento e ne rimase sconvolta.
«Sì. Tu lo fai spesso nella mia, senza permesso», ammise lui, privandola del diritto di obiezione.
La scienziata sbuffò: era vero a metà. Quante volte era capitato? Una sola, una e mezza, se si voleva esser pedanti. La prima era accaduta la sera in cui lei aveva provato a convincerlo a smetterla di farsi del male; l’altra mezza era successa qualche ora prima, perché lo aveva sentito gridare. Altrimenti non si sarebbe mai azzardata a ripetere la missione.

Non lo rifarei.
Bugiarda, tu vai a caccia di occasioni di questo genere.
E ancora non ti domandi per quale motivo lui ti sia venuto a cercare.
Forse dovresti dormire, non hai un bell’aspetto.

Sicuramente dei cerchi violacei le stavano mascherando gli occhi, non era la prima volta che le capitava di trascorre la notte senza riposare, e poteva rimediarvi con degli impacchi di camomilla. Al contrario, non era mai accaduto questo: Vegeta lì, per lei. Ed era l’ultima delle eventualità su cui Bulma avrebbe sperato.
L’aveva rifiutata da nemmeno tre ore ed ora lui le era dinnanzi, nuovamente a farla impazzire.
Una spolverata di rosso cinabro le colorò le guance. Era rabbia. Era imbarazzo.
Meglio focalizzarsi sul rotolone di carta assorbente appoggiato ad una mensola sopra la sua testa. Lo prese, intanto per avere le mani impegnate e gli occhi rivolti verso altro da fare. Asciugare il succo alla pesca prima che questo iniziasse a puzzare: sembrava un ottimo obbiettivo da perseguire alle cinque del mattino.
È strano vederlo qui.
Digli qualcosa.
«Volevi aggiungere altro al discorso di prima?»
Sei una frana... meriti le erbacce, le spine, le ortiche!
«Quale discorso?»
«Mi hai invitata a lasciarti solo alcune ore fa... e adesso eccoti. Ti sarai accorto di aver mancato qualche concetto», azzardò.
Desiderava comprendere il perché della rara e inaspettata visita. Era sempre stata lei ad andarlo a cercare.
«Quell’argomento tra noi è chiuso. Non mi piace ripetermi, dovresti averlo capito.»
«E tu dovresti aver compreso che io ho bisogno di risposte continue, chiare. Sono fatta così, insisto.»
Chiuso un corno!... Bello il noi.
Strappò altri fogli di carta assorbente. Aveva finito. Nonostante, il pavimento in diversi punti era rimasto appiccicoso, e be’, l’odore sgradevole si sentiva. O forse lo sentiva solo lei.
Non aveva acceso i robot per evitare di sottrarre a se stessa un utile diversivo.
Gettò la carta sporca nella pattumiera.
«Mostrami cosa stai facendo.», proseguì lui rivelandosi come sempre in penuria di gentilezza.
«Che? Non ti ho sentito», aveva azionato la ventola dell’aria, anzi, con la scusa aveva costretto il saiyan a ripetersi ancora. Sapeva essere vendicativa.
Vegeta recitò la parte di nuovo: «Hai detto che stai costruendo una nuova navicella spaziale, voglio vederla», e la scienziata ingoiò aria. Non era preparata, questa battuta non stava sul copione. Annaspò per alcuni secondi. Una parte di lei si sentì tradita.

«Ti-ti sbagli – non osare chiedermela, perché è l’ultima cosa che farei non ho mai parlato di una nuova navicella». Per farti andar via...

«Come sospettavo – insinuò lui – Ti stai prendendo gioco di me, terrestre

Adesso terrestre?

Terrestre strimpellava infamante, urlava “io sono l’alieno”, generava un tramestio insopportabile, segnava il limite invalicabile, cancellava il noi del passato, del presente e del futuro. Era un vilipendio contro di lei. Bisognava intervenire al più presto.
 

«Non mi sto prendendo gioco di nessuno! – esclamò, alzando la voce, guardandolo fisso negli occhi; l’odore di pesca marcia lo sentiva ovunque, la ventola gracchiava arrugginita – È una nuova gravity room quella che ho progettato, avrai a disposizione un’area dieci volte più grande della precedente, molto più resistente. E la avrai qui – rivolse in basso l’indice precedentemente alzato e indicò il pavimento sotto i suoi piedi, ci teneva a chiarirne la collocazione spaziale, era la sua bandiera – sarà installata all’interno della Capsule Corporation. Non ne rimarrai deluso, vedrai.»

Finì tentando di metterci vivace entusiasmo; incollerita come mai; mostrandosi devota alla causa del saiyan; lo avrebbe costretto.
Ammesso che potesse usare la forza contro di lui. E non poteva.
Vegeta l’aveva cercata per un ovvio motivo, scontato, lontano da qualsiasi sogno d’amore, aveva pure preso a dubitare di lei.
Ci rimase male. Tra i due, Bulma era l’unica insonne probabilmente.

«Non è una navicella, quindi... »

«Pensavo ti bastasse la gravity room per diventare un super saiyan.»

«Questo non ti riguarda... Di’, quando pensi sarà pronta?»

«Dammi una settimana, e sarà tua.»

Almeno la gravity room.

«Una settimana... »

«Sì, prima di allora non sarà possibile portare a termine i lavori, io e mio padre dobbiamo creare una lega composta da diversi metalli, per nulla semplice da ottenere. Nel frattempo però, potrai recuperare le forze. E non preoccuparti, so che vuoi tornare ad allenarti; credimi, ce la sto mettendo tutta per accorciare i tempi. »

Ed era la verità. Tuttavia: lui aveva assunto l’aspetto di un’erma imperturbabile. Forse non le credeva, forse tutto quello che Bulma stava facendo era inutile. O forse v’era celato del non detto importante nelle catatoniche pause e negli ordini sfacciati del saiyan.


Ho l’impressione che ci stiamo entrambi prendendo in giro...


L’orologio indicava le cinque e venti. A parte loro, non c’era nessuno a ravvivare la tetraggine di quel luogo sotterraneo.
Lui non si era mosso dalla porta e lei non osava oltrepassarla.

E va bene, togliamoci il dubbio.

«Vegeta...»

«Cosa?»

«Sii sincero.»

Lo sentì emulare una risata tra sé.

«Di che parli?», le chiese e non fu incoraggiante.

«A... a queste domande sulla gravity room io avrei potuto rispondere in ogni momento, e tu avresti potuto chiedere anche a mio padre, se è vero che detesti parlare con me. Voglio dire, non avevi alcuna fretta per venirmi a cercare... Perché sei venuto? Perché mi hai raggiunta qui?»

Silenzio.

Lo vide indugiare, fare un passo incerto, rimanere in bilico, fra l’ingresso del laboratorio e il corridoio retrostante. Sul limite tra il feroce assassino senza cuore e l’uomo distrutto, avrebbe aggiunto lui; ma non lo avrebbe confessato nemmeno sotto tortura. 
Fare un passo avanti equivaleva ad arrendersi a ciò che non poteva permettersi. Ad ammettere un bisogno, ad essere debole. Invaghito.
Abbassò lo sguardo, nascose il volto alla luce. Lo calò nell’ombra. Al riparo da lei, un sole troppo accecante.


«Dici e pensi sempre un mucchio di sciocchezze.»

Ma come negare l’ovvietà.


Cedette: «Non devi chiedermi perché», come se di colpo le congetture, i piani di vendetta e il suo io acquisissero un peso che quel corpo non poteva sostenere ulteriormente. Vegeta s’appoggiò al muro, sostenendosi ad esso con una mano. Bulma, credendolo nuovamente malato, accorse verso di lui.

«No. Se ti avvicinassi ora, sarebbe un guaio. Stai lontana.»

Ennesimo ordine, ne era nauseata. Odiava quella impasse lutulenta in cui sembravano destinati a rimanere.
Spostò il proprio peso da un piede all’altro, ciondolante. Ripensò all’ospedale, a quello che avevano passato, a lui che la catturava. Alla porta che le aveva aperto per farla andar via quando le aveva fatto del male involontario, assolutamente involontario. 

Scoppiò:

«Mi dici di starti lontana, però mi chiami per nome. Continui a respingermi, eppure sei qui. Io non ti capisco, Vegeta»

«Desidereresti sentirmi dire che sono venuto per te?» 

L’aveva detto. E no, non era venuto per lei. Il saiyan conosceva la motivazione, la natura sincera del perché fosse lì. E perché di natura si trattava, o in tal modo gli piaceva vederla. Rendeva tutto più semplice, più facilmente cancellabile.

Non fu piacevole. Pure se quello era esattamente ciò che Bulma sognava con tutto il cuore; lui, alla sempiterna serietà, aveva aggiunta una evidente sofferenza che di nero fumo gli aveva ottenebrato sciagurata lo sguardo; gettando, sopra gli occhi vivi e ruggenti dei quali lei s’era sempre beata, una brutta cateratta.

Lo vide spento, fosco. Improbabile.


«Io sono molto stanco, Bulma... E la mia stanchezza è un pericolo»

Il cuore le andò in cortocircuito, era in vista un incendio. Sarebbe morta bruciata. Sarebbe stato magnifico.
Credette di aver ricevuto la conferma tanto attesa.

«Per questo non ti muovi da lì?»

Pausa.

«E se mi avvicinassi io a te?»

Altra pausa.

«Saresti una stolta... Non far finta di dimenticare come sono arrivato su questo pianeta e per quale motivo.», le ribadì in un ultimo disperato tentativo per farla scappare. E dove poi? C’era proprio lui a bloccarle l’uscita.

«Non l’ho mai fatto, altrimenti tu non saresti qui adesso, non ti avrei fatto entrare in casa mia.»

Ed è stata una pessima scelta.

Pensò Vegeta. Non si sarebbe salvata da lui.

Nel medesimo istante, Bulma si avvicinò svelta al saiyan. Fino a catturargli il respiro.
Vegeta se la ritrovò sotto il naso, tra le braccia se non si fosse trattenuto.
«Cosa stai facendo?» le domandò, colpito dalla mossa incauta.
Bulma allungò la mano tremante. Lui la osservò, ne seguì il tragitto. Quando lei gliela porse, Vegeta ne assaporò il delicato odore. Dita piccole e fredde, buone, gli sfiorarono il volto sbarbato. 
Si fece carezzare, non lo aveva mai permesso a nessuna donna.
A lei parve toccare marmo incendiato. Sì, era come se bruciasse.

«Io posso alleviare la tua stanchezza.»

Gli sussurrò leggiadra, formulando l’incantesimo giusto. E lo zittì prima ch’egli potesse compiere un’ordalia contro quello che tra loro incontrollabile sbocciava.

«Permettimi solo di starti vicina»

Mi prenderò cura delle tue pene. Guarirò le tue ferite.

Lui non le rispose, aveva le pupille dilatate, sembrava febbricitante. 

«Permettimelo», ripeté soffiando sulle labbra dure del saiyan.

Lo sentì inspirare intensamente, placarsi e animarsi ancora.

«Non sarò diverso con te»

Una minaccia inutile mentre le punte dei loro nasi si toccavano appena.
I respiri si fusero in un unico anelito.

«Lo so»

Attenta.
Bussò la coscienza.

«Non mi interessa nulla delle tue stupidaggini da terrestre, nulla... »

Di altre carezze delicate lei continuò a incorniciargli il viso.
Ormai erano solo elettricità. 
Bulma poteva sentire il cuore battergli nel torace possente.

«So anche questo...»

Vegeta crollò.
Su di lei.
Con dolore.
Premendo le labbra.
Invadendo quella bocca di femmina.
Ne assaporò le ansie, i singulti.

Non era capace.

Interruppe subito.

«Non fermarti – singhiozzò Bulma – Va' avanti», lo pregò.

Vegeta le dedicò un solo sguardo e quando nell’abisso cobalto racchiuso negli occhi della scienziata trovò la conferma di ciò che lei lo stava incoraggiando a fare, decise di annegarci dentro e portarla giù con sé.

Finì a sbatterla contro uno degli armadi del laboratorio.

Adesso, Bulma sentiva davvero la tensione attanagliarla dallo stomaco.
Perse alcune linee di coscienza, un lieve senso di confusione la attraversò annebbiandole per alcuni secondi la vista.
Le formicolavano le braccia. La nuca pulsava forte. Vegeta. Dov’era Vegeta? Voleva sfiorargli il viso, dirgli che sarebbe andato tutto bene, voleva disperatamente spingerlo ancora contro le proprie labbra, soffocare di baci e dirgli, dirgli che...
La vista tornò normale e la sensibilità pure.
Lui era lì, le stringeva i polsi per impedirle di cadere, nel caso svenisse, ma soprattutto la voleva assolutamente ferma.
Un istinto sopito, un animale lubrico da tenere alla catena s’era svegliato.
I polsi dolevano, la testa di più.
«Continua»
Comandò pazza, sciolta nel deliquio.
E Vegeta eseguì, a modo suo. 
Si spogliò, la spogliò. Velocemente.
Non ebbe pietà, arrivando presto alla pelle nuda.
«Continua» 
Sfrenato, affondò in lei, le strappò un grido di allarme che la ventola dell’aria sfumò ronzando forte.
Prese a stantuffarla, subito. ​Voleva trattenersi, non lo stava facendo. Cambiava i ritmi, quasi ne andasse in cerca, perché non trovava quello giusto, perché non c’era pace in lui. La costrinse carponi sul pavimento, un ostinato inopportuno contatto visivo era sgradevole. La punì di colpe che non aveva. Le fece fare un giro nel proprio mondo. Piegarsi non era piacevole. Abbassare la testa, quante volte lo avevano costretto? Ingoiare l’onta, sentirsi un verme. Avere la bocca sporca del proprio sangue. Morire sconfitto.
Si accanì contro di lei, beandosi della schiena nuda e delle natiche ondeggianti... alle quali si artigliava spietato.
Non respirava Bulma, seguiva il ritmo forsennato delle spinte; e non era il suo dolore che stava per farla piangere, ma il dolore di quell’uomo. Aveva il fiato strozzato, Vegeta. C’era più umanità in lui di quanta lei avesse potuto immaginare.
Ma sotto le ginocchia il pavimento continuava a fare male, i colpi pure, come un castigo. Veloci, ripetuti ancora e ancora.
Perché Kakaroth era lontano. Irraggiungibile. 
La passione si vestì di tormento. Rideva oscena. Si prendeva gioco di entrambi.
Poi, il tempo parve sgretolarsi e la coscienza staccarsi.
Un'onda conturbante 
s’irradiò dal ventre ferito sino ad arrivare a occuparle la gola. Il corpo le tremò, la voce si infranse in una cascata di gemiti soffocati. E lui continuava a colpirla. La attaccava, spasmodico, finché il culmine forte schizzò dritto come un proiettile, colpendogli il cervello. Lo costrinse a fermarsi, a curvare indietro la schiena, mozzandogli il fiato. Durò diversi secondi, di bianco liquido, di coma. Di buio incastrato. Appeso. E poi di nuovo avanti, a terra, su di lei, dove ricordava e soffriva.

Collassarono sul pavimento come faglie durante un terremoto, sudati, ignudi, percorsi da fremiti incontrollati.
I loro respiri erano un’unica voce che subodorava consapevolezza.
E non si parlarono. Il silenzio era una culla comoda, per il momento.

Bulma fu la prima a tornare in sé, si girò a guardarlo: fissava il soffitto, Vegeta, e il petto muscoloso gli si abbassava ed alzava. Era stato crudele. Le aveva offerto un solo bacio con dentro l’attrazione degli sconosciuti e la tragedia degli amanti. Poi, l’aveva costretta a pensare a lui come un saiyan affinché non si dimenticasse di chi egli fosse.
Gli sfiorò la mano tenuta raccolta contro il torace. Vegeta si sottrasse. Un giudizio che non credeva di possedere gli aveva appena suggerito di non esserne degno, e quindi di togliersi. Immediatamente dopo, si alzò in piedi, nudo, spettinato. Diverso. Raccattò da terra i pantaloni, li infilò. Non disse nulla, evitò di guardarla. Poi, andò via.

Non aveva raccolto la maglia, che era rimasta sul pavimento come un corvo nero schiacciato. Bulma la prese, era diventato un vizio attaccarsi ai resti; e la usò per coprirsi. La stoffa era ancora calda di lui e le serviva un abbraccio. C’era troppo gelo nel laboratorio.

L’orologio in alto segnò le cinque e quaranta del mattino.

 


Continua...


Sotto la gif animata c'è il nuovo disegno.

passo-1-2 Note: non ho molto da aggiungere, a parte specificare che sono a pezzi con la schiena, ho una lordosi che mi fa vedere le stelle. Quindi poco da dire. Scusate la mia assenza, scusate i miei ritardi, di ogni genere, passerò da chi ho promesso. Un grosso GRAZIE a tutti voi.
Unica domanda: vi piace la mia gif di loro due che si baciano in loop? Se avete problemi a vederla o non vedete l'animazione ditemelo.
E il disegno? Vi aggrada? Guardate che espressione concentrata ha Vegeta. ^///^

 

   
 
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