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Autore: sacrogral    16/03/2021    11 recensioni
Primo svolgimento - in cui si scopre che non si deve mai fare di tutta l’erba un fascio, la ragazza bionda rivela qualcosa di sé, il cavaliere innamorato non manca alla parola data, il poeta fa quello che sa fare meglio, il soldato inizia e finisce confuso e c’è una sorpresa alla fine che lascia interdetti Oscar e André.
Mi son preso qualche licenza, ma niente di grave. È la continuazione di una storia, contiene riferimenti ad altre mie storie, il viaggio è appena iniziato.
Genere: Avventura, Commedia, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alain de Soisson, Altri, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Primo svolgimento

Quella compagna picciola da la qual non fui diserto

 

In cui si scopre che non si deve mai fare di tutta l’erba un fascio, la ragazza bionda rivela qualcosa di sé, il cavaliere innamorato non manca alla parola data, il poeta fa quello che sa fare meglio, il soldato inizia e finisce confuso e c’è una sorpresa alla fine che lascia interdetti Oscar e André.

 

“Non ci riceverà nemmeno, madame Generale di Brigata” si lamentò Gobemouche, querulo ma puntuale. Sua sorella aveva passato una notte serena, senza incubi e senza gridare, ma era dimagrita e pallida, come se – ma lo aveva pensato lui, adesso che sapeva – come se avesse dovuto ingaggiar battaglia con un nemico che la forzava e la mangiava da dentro, desideroso di uscire e far cose che sua sorella mai, proprio mai avrebbe fatto. Joss disse “Grunf”.  Foret camminava saltellando.

E giunsero infine all’edificio che era la loro meta.

“Ditemi chi siete e cosa volete” disse un ragazzo, brusco, di guardia.

Si guardarono l’un l’altro, un po’ smarriti. Bastava poco, evidentemente, a metterli in difficoltà.

Il poeta studiò con un’occhiata il tipo che aveva davanti. Un figlio del popolo, e ça va sans dire; un ragazzo impulsivo, cui l’uniforme doveva andare stretta – uno dei tanti che serviva la Monarchia per la paga con cui sfamare la famiglia; uno che doveva avere una sorella o una madre in vita, vista l’uniforme ordinata, i bottoni attaccati (i bottoni erano una cosa importante per sua sorella, quella minore, diceva sempre che un signore si distingue dai bottoni). Uno che le grane andava a cercarsele, ma non del tipo che stavano portando loro.

Giocò d’anticipo. Con un saltello e un inchino:

“Gobemouche Michel, poeta, cantore, visionario, al vostro servizio; monsieur Joss e basta, titolare di noto luogo di ristoro, la miglior osteria di Parigi tutta, la Disperazione; e Foret il bastardo, cucciolo perduto per l’orbe terracqueo. Desideriamo aver colloquio con il comandante de Jarjayes, cui portiamo interessanti e novelle nuove”.

Alain de Soisson li squadrò ancora più diffidente di prima. Lui vedeva un uomo cupo e triste, di una bruttezza rara; un ragazzino non troppo sveglio; un tipo con una faccia che sembrava costruita con pezzi di altre facce e provocava stupore che nel complesso fosse gradevole;  tipo che, se non era pazzo, poco ci mancava. Sapevano il nome della famiglia di Oscar, si disse, e non era buon segno. E l’umore del comandante, quella mattina, virava sul cupo, per quell’invasione di scarafaggi nelle camerate per cui stava facendo reclami su reclami a chi di dovere. A Oscar Françoise de Jarjayes il lavoro da scrivania piaceva poco. Se disturbarla o meno era ancora faccenda da valutare.

“Vogliamo guardare madamigella Oscar, signor Soldato” disse Foret, completando il quadro.

Madamigella” si oscurò quello. Non solo il nome di famiglia, ma madamigella. E come facevano, questi pezzenti, a saperlo? Madamigella Oscar, si ripeté nella testa, un po’ sognando. Nessuno chiamava così il comandante, ci sarebbe mancato altro. Neppure chi sapeva. Eppure suonava bene, sorrise fra sé.

Gobemouche non si fece sfuggire quel sorriso, quella crepa, perché adesso ci voleva parlare anche lui, con madamigella Oscar, che nella sua mente somigliava a Joss ma con una divisa, e ci teneva a vederla, questo comandante, tanto per capire se avesse la barba o no.

“Io sono il cavallo di Troia in casa del generale!” continuò Foret, prima che Joss lo raggiungesse con uno scappellotto sulla testa, perché il troppo stroppia e il ragazzo doveva imparare quale fosse il suo posto.

“Aspettate un momento” disse Alain de Soisson, incerto. Rientrò, fece un cenno ad un altro soldato, che lo sostituì fuori, di posta – uno, se possibile, meno rassicurante di lui e di sicuro peggio messo. Nemmeno l’aria di una sorella, di una fidanzata, di una madre… di una donna, insomma, che avesse cura di lui. E intanto il ragazzo di prima, quello coi capelli lisci e sottili e neri come il demonio, era sparito. Se fossero stati nella sua testa, i tre disperati avrebbero sentito sciame di pensieri confusi, e precisione di tempesta in arrivo, in un modo o in un altro. Qualcosa, al comandante, doveva pur dire, ma con quali parole, con quali toni? Guai, prevedeva. Ma alla fine, cosa c’entrava lui? Se Oscar Françoise de Jarjayes avesse alzato solo un dito, lui in persona avrebbe ricacciato quei tre nella Disperazione da cui erano usciti. E sul perché lo avrebbe fatto, c’era una serie di risposte possibili, che lui non aveva volontà o forza di fermarsi ad analizzare. La miglior osteria di Parigi tutta. Figuriamoci. Però su questo si sarebbe informato, magari avrebbe chiesto a Jean le ivre Brunet, che era come dire andare sul sicuro.

 

Bussò con educazione, poi entrò senza aspettare risposta. Si augurava sempre – ma forse no – di sorprendere il comandante Oscar e André Grandier in qualche momento compromettente, troppo vicini, troppo abbracciati (oltre non voleva andare) o anche solo troppo a guardarsi negli occhi (doveva succedere, prima o poi, a meno che André non fosse davvero quell’illuso che lui, a prima occhiata, aveva battezzato), sognanti e alieni da tutto; allora avrebbe fatto un sorriso, dato un colpo al berretto – Scusate, ragazzi, avrebbe detto, divertito, e poi Buon lavoro, comandante! – e poi  e poi  e poi…  nulla. Si sarebbe messo il cuore in pace.

Ma non accadeva mai e non accadde questa volta. Né l’una né l’altra cosa, in verità. André era sì, accanto a Oscar, seduta alla sua scrivania che non doveva somigliare affatto a quella che aveva, per dire, a casa sua, a Palazzo Jarjayes, o quando comandava le Guardie Reali; seduta alla sua scrivania spartana, concentrata nello scrivere qualcosa, mentre André, in piedi, osservava il foglio – non la mano che impugnava la penna d’oca, o almeno così parve a lui – e non incombeva su di lei. Alain si chiedeva come facesse André, che eppure era alto, che eppure era forte, a non incombere su Oscar. In realtà, nessuno si accorgeva di quanto era alto e forte, e soprattutto di quanto potesse essere pericoloso, a prima vista. Ricordava però ancora la sua espressione, e la sua reazione, quella volta, quando lui stesso e pochi altri, ancora convinti che il comandante-donna fosse una buffonata, avevano provato a… a… spaventarla, ecco. Cercare di ricordare a una donna che era solo una donna non era l’azione di cui andava più fiero. Si era aspettato di vedere paura e supplica, negli occhi di lei, non certo quella compassione per loro, già priva di rancore, che aveva visto. La domanda restava: gliele avrebbe messe le mani addosso, lui? Per davvero, s’intende. Preferiva non soffermarsi neppure su questo.

 

“Cosa c’è, Alain?” chiese Oscar Françoise de Jarjayes alzando la testa, a lui che, perso nei suoi pensieri, quasi se ne era dimenticato. L’esitazione fu lieve, ma sufficiente perché si desse dell’imbecille. Cercò di compensare con un atteggiamento militaresco e serio.

“Comandante, ci son tre persone che vogliono esser ricevute. Una più fuori di testa dell’altra, se posso dire la mia” aggiunse, senza poter resistere.

Oscar, senza neppure rendersene conto, guardò André. Lui aggrottò le sopracciglia, per niente interessato ormai ai rapporti sulla infestazione di scarafaggi e, già che c’erano, a quella gionta sul rancio che faceva schifo (ma loro avevano optato per inadeguato) e un po’ si adombrò.

“Comandante” continuò Alain de Soisson, registrando tutto in un angolo della mente “Uno è una specie di saltimbanco, un buffone che dice di chiamarsi Scaramouche o roba simile; uno è un tipo brutto e grosso, il titolare della “miglior osteria di Parigi”, che parla poco e ha con sé un fagotto, da ispezionare senza ombra di dubbio. Morti di fame, con qualche pretesa, a mio parere. E l’ultimo è un ragazzino che non sembra tutto normale, e mi sembra abbian detto che si chiami Toret il bastardo. Li caccio a pedate?”

“Foret!” si illuminò André “Oscar, ricordi…”

“… il piccolo Foret. Ma certo” completò lei di rimando, e Alain de Soisson non capì se era più stupito per perché quei due conoscevano il cucciolo bagnato o perché si completavano le frasi a vicenda, senza farci caso, quando erano da soli.

“Saranno strani, Alain, ma desidero vederli subito. Puoi farli passare”

 

Foret scappò dalla presa robusta di Joss per volare addosso ad André, che oscillò lievemente preso alla sprovvista e poi lo sollevò in aria, dicendogli che lo trovava cresciuto. Oscar de Jarjayes, seduta alla scrivania, non ebbe nulla da ridire.

Gobemouche, che aveva appena finito di canzonare il giovane soldato, dicendo che lui non era abituato a fare anticamera neppure nelle magioni dei blasonati, si arrestò di colpo, incontrando lo sguardo limpido del comandante dei soldati della Guardia parigina.

Ricordò quella sera in cui quei due erano capitati per caso alla “Disperazione”, quel giovane che adesso faceva volare Foret in aria che lui però ricordava più giovane, che rivolgeva a lei sguardi intensi e aveva paura a parlare d’amore; e lei… “Ma certo” si rimproverò, dato che la Francia non è poi così piena di donne che si vestono da uomo e vanno in giro per osterie, la sera. Ricordò di aver pensato che aveva il collo di un cigno. Ricordò di aver scritto i suoi unici versi d’amore, quella sera. “Sotto l’angelo della morte ride/ l’Amor che più forte si mostra/ e all’ombra della notte che tutto avvolge/sol io lo vedo Amor silente”, iniziavano. Avrebbe dovuto lavorarci sopra. Una gomitata di Joss gli ricordò che parlare spettava a lui, che lo avevano portato per questo.

 

“Gentil comandante e benedicente, non vogliate negarci udienza. Son Michel Gobemouche qui per parlare, con me è Joss che ci torce ogni sera le budella, e Foret, che vi trova bella” si profuse in un inchino, e poi la sua faccia mobile si ricompose “Siamo venuti per parlarvi di una faccenda molto grave, Generale di Brigata”.

“Comandante, posso sparargli?” domandò Alain de Soisson, innervosito.

Ma Oscar si alzò in piedi, si presentò a quei due – quell’uomo di una bruttezza quasi impensabile e quel giovane quasi vestito di stracci, con una faccia da istrione di strada – con la serietà che avrebbe usato di fronte ad un ambasciatore straniero, li invitò a sedersi e lanciò uno sguardo a Foret, che si muoveva ancora eccitato e diceva: “È lei, Oscar Françoise!”, indicandola.

Aveva una voce ben modulata e calda – pensò Gobemouche, ben guardandosi dal dirlo. Per un istante, la vide Ofelia vestita di bianco. Poi si sedette, spostò lo sguardo al soldato in piedi e si accorse che quell’occhio non era coperto per qualche motivo di vanità, quell’occhio era offeso e forse senza rimedio, si disse. Chissà se riusciva a prender bene la mira, quando sparava, e se riusciva a misurare bene le distanze.

Poi con la mano destra in aria – Oscar notò che, malgrado tutto, le mani di quel tipo non inquadrabile e gigioneggiante erano eleganti e curate – e iniziò: “Dunque…”

 

“… e così siam venuti a raccontarglielo, perché facciate qualcosa” concluse, dopo un quarto d’ora abbondante.

Joss disse: “Grunf” in segno di approvazione, a disagio fuori dalla sua tana.

“È proprio così che va, madamigella Oscar, e che è andata ieri – per cui, per come era andata già prima e continua a andare per le strade di Parigi, giungemmo” si inserì Foret.

Regnò un silenzio da notte senza luna.

Poi Alain de Soisson rise, senza tanti complimenti: “Sbatto in galera solo questo contastorie o pure l’uomo e il cucciolo, comandante?” domandò, sbrigativo.

Oscar de Jarjayes guardò André Grandier e lesse sul suo viso quello che anche lei pensava. Poi si rivolse a Joss, che ancora non aveva detto una parola:

Monsieur, ci confermate che ci sia qualcosa di vero, in tutto ciò?”

La mascella di Alain si slogò. D’accordo, il suo comandante era scevra da ogni pregiudizio; va bene, conosceva il ragazzino; senza dubbio, dava udienza ai ripresi dalla Senna con la stessa buona creanza con cui riceveva gli ufficiali; però, che questi fossero da congedare a pedate, era fuori di dubbio. E quello Scaramouche, poi… Alain de Soisson era convinto di averlo già visto invischiato in faccende poco pulite, e di aver chiuso un occhio perché, se erano ridotti loro, i soldati, a vendersi i fucili, figurarsi a che punto erano i cosiddetti poeti straccioni; ma da qui al dargli credito ce ne passava.

Joss, con lentezza, aprì il suo fagotto. Estrasse una bottiglia di vino. La depose sul tavolo, un po’ impaziente di liberarsene, pensò André Grandier, una mano sulla spalla di Foret ora zitto zitto.

“Se volete una prova” buttò fuori Joss a fatica “Bevete questo. Ma” e fece una pausa “su quello che vi accadrà stasera, io non rispondo”.

Oscar osservò la bottiglia – Maudit – , si voltò a guardare André senza pensare – lui scosse la testa, rifiutandosi, pensando ai suoi demoni da tenere a bada – e lei si mise una mano sotto il mento. Gobemouche pensò che nel gesto fosse splendida, però disse: “Mia sorella minore sta male per questa roba”.

“Sorella?” si lasciò sfuggire Alain de Soisson e pensò alla sua, di sorelle.

“Questo lo teniamo noi” disse Oscar, prendendo la bottiglia “E qualcosa faremo, ve lo posso assicurare”.

Guardò l’oste dritto in faccia.

Monsieur, non credo a cose come le maledizioni, ma la vostra preoccupazione ha di sicuro un fondamento e vi fa onore l’essere qui. Inutile che ve lo dica, ma non date più a nessuno questo vino da bere, per nessuna ragione. E io cercherò di esser degno della vostra fiducia”.

Joss aveva quasi le lacrime agli occhi. Foret rideva piano. Degno, aveva detto, pensò Gobemouche. “Se pensi di darla a bere a me, con quel collo di cigno…” pensò, fra sé e sé, ma si limitò ad annuire.

André comprese le intenzioni serie del comandante, perché Oscar non faceva mai promesse a vuoto.

“Potremmo cominciare col parlare con chi ha venduto il vino al signore” suggerì “Cosa ne pensate, comandante?”

Gobemouche registrò sia l’immediato “noi” che il formale “voi”. “Se pensi di darla a bere a me, che ti ho visto quando avevi tutti e due gli occhi con questi miei occhi…”

“Ma certo, André. Dove vi siete procurato il vino, monsieur?”

Joss guardò in basso, poi a destra, poi a sinistra. Si prese tempo. Nessuno gli mise fretta.

“Il punto è sempre il vino.” buttò fuori in fretta e mangiandosi e parole  “Quando ha il colore bello e ti fa sentire il sole che ha battuto sull’uva e l’ha fatta maturare, allora, se il prezzo è onesto, lo compro. E il venditore stavolta, se si metton da parte le accuse di omicidio e di condotta immorale e di vilispendiovillipendio alla religione, è una persona alla mano che si ferma pure a chiedere notizie della povera gente del quartiere e…”

“Il nome, buon uomo!” si spazientì Alain, meritandosi uno sguardo truce di Gobemouche e uno triste di Foret – quando Joss iniziava a parlare, nessuno lo interrompeva mai – e pure uno sguardo di rimprovero silenzioso dal comandante, che mostrava anche più pazienza di lui coi disadattati, e Alain de Soisson non finiva mai di stupirsi per questo; perché nella sua esperienza preconcetta ma pure provata i ricchi aristocratici nemmeno li vedevano quelli che si sporcavano le mani, e poi un giorno ti capita un comandante biondo, come il sole, che vede e che non puoi disprezzare e ti ribalta tutto quello che avevi creduto fino allora e ti mette pure in crisi – pensava – perché se non hai più chiaro neppure dove stia il bene e dove stia il male, allora, ecco, devi pure porti delle domande serie. E mentre il soldato si era perso nei suoi pensieri, Joss, interrotto, si era come pietrificato, aveva guardato Gobemouche con aria smarrita e il poeta aveva annuito serio, e con fatica, come se temesse di disturbare, quell’uomo con la faccia larga e butterata dal vaiolo, con i peli che gli uscivano dal naso e pure dalle orecchie, che solo Foret poteva guardare adorante e che era di una riservatezza malata, sotto sforzo disse:

“Donatien-Alphonse-François de Sade!”

Monsieur le marquis! Non è possibile!” si lasciò sfuggire madamigella Oscar Françoise de Jarjayes, comandante della Guardia parigina.

“Quell’uomo è peggio degli scarafaggi, Oscar, torna sempre!” sbottò André Grandier, con sentimenti ambigui.

Alain de Soisson imprecò.

E Gobemouche, vagamente deliziato, commentò soave: “Deduco che lo conosciate personalmente, signori”.

 

  
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