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Autore: WillofD_04    16/03/2021    2 recensioni
Piccolo avvertimento: è fortemente consigliato aver letto almeno "Lost girl" prima di leggere questa storia.
Terzo e (si spera) ultimo capitolo dell'avventura di Cami!
Adesso che la ragazza ha deciso di rimanere nell'universo di One Piece ancora per un po', sarà chiamata a far fronte a molte insidie. Ma a motivarla ci saranno i suoi compagni, con cui condividerà gioie e dolori, e il suo sogno di diventare un grande chirurgo.
La aspetta un altro viaggio lungo e faticoso, ricco di emozioni e colpi di scena, alla scoperta di nuovi sentimenti e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Tra vecchi amici, nuovi nemici, folli avventure e crudeli battaglie, nessuno è realmente al sicuro. Camilla riuscirà a sopravvivere in un universo popolato da mostri di potenza? Riuscirà a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Riuscirà a superare le difficoltà e a coronare i suoi sogni prima che tutto finisca?
Solo lei ce lo potrà dire.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“Sai chi sei? Capisci che cosa ti è successo? Vuoi vivere in questo modo?”
 
Polar Tang. Tre settimane dopo.
 
«No! No, no e poi no!» esclamai, quasi indignata. «Io. Mi. Rifiuto.»
«Tutte le volte la stessa storia...» commentò un dottore, alzando gli occhi al cielo.
«Su, ché in un paio di minuti passa tutto. Sei sopravvissuta a cose peggiori,» affermò un secondo dottore, cercando di farmi rinsavire.
«Voglio il mio avvocato!» gridai indietreggiando.
«Ma quale avvocato,» mi derise un altro dei medici, seccato da tutta quella situazione.
«Cami, è solo una punturina. Non ti farò male,» tentò di rassicurarmi – invano – Kenji. «Ti fidi di me?» mi chiese poi, tendendomi la mano e sorridendomi dolcemente. Arricciai il naso. Il problema non era che non mi fidavo di Kenji. Il problema era che non mi fidavo dell’ago...
Ogni tre mesi, per mia sfortuna, tutti i Pirati Heart dovevano sottoporsi ad un check up medico completo che comprendeva, fra gli altri esami di routine, anche le analisi del sangue. Tra Doflamingo e la permanenza alla base dei rivoluzionari, in quel periodo mi era andata bene ed ero riuscita a scampare ad un paio di check up. Adesso che ero tornata, però, non c’era modo di evitare il tanto temuto e tragico prelievo. Almeno, secondo loro. Io, negli anni, avevo messo a punto una strategia infallibile.
«Tra un paio d’ore ci sarà il pranzo. Se non siamo puntuali, non mangiamo. Credi di riuscire a farcela a farti prelevare una misera fialetta di sangue per allora?» La voce ironica di uno dei miei compagni mi distrasse dalla messa a punto del mio piano.
«D’accordo, facciamolo,» acconsentii, sollevando la manica della divisa e tendendo il braccio verso Kenji, che mi sorrise e mi condusse ad uno dei lettini dell’infermeria. Sembrarono tutti sollevati di essersela cavati così. Poveri sciocchi.
«Oh, mio Dio!» gridai, fingendomi inorridita, appena prima di sdraiarmi sulla lettiga. Il mio dito indicò un punto imprecisato sul pavimento alle spalle dei medici. «Il Rubeus Candidum si è liberato!».
Tutti i presenti sgranarono gli occhi ed andarono nel panico. Io, ovviamente, approfittai di quel momento di distrazione per saltare giù dal lettino e dirigermi verso la porta. Per fortuna avevamo un capitano a cui piaceva studiare gli insetti. O, più precisamente, i virus che tali insetti erano in grado di trasmettere agli umani. Quando eravamo tornati da Lyborn, il chirurgo si era portato un piccolo souvenir, chiuso in un barattolo trasparente. Un souvenir che mi aveva quasi ucciso, ma che adesso mi stava tornando molto utile. Non che si fosse liberato sul serio, la mia era solo una piccola ed innocente bugia per evitare le analisi. A volte era così facile raggirare i pirati, anche se questi erano abili medici.
Mi girai giusto per un secondo, per osservare quella scena patetica. Sbuffai una risata. Facevano la morale a me perché avevo paura degli aghi, e loro che facevano? Impazzivano per un misero insetto immaginario. Da che pulpito veniva la predica.
Ghignai perfidamente prima di darmela a gambe. Il mio piano diabolico era andato a buon fine. Corsi per tutto il sottomarino e mi fermai solo quando ritenni di aver trovato un posto sicuro dove nascondermi.
Spalancai la grossa porta della sala macchine ed entrai senza fare troppi complimenti. Se per Ryu il proprio posto sacro era la cucina e per Law la sala operatoria, per Jean Bart era la sala macchine. L’omone si girò con fare minaccioso. Nessuno poteva osare disturbarlo mentre era operativo.
La sala macchine era proprio come ci si sarebbe aspettati che fosse una sala macchine: buia e silenziosa. Era una stanza priva di qualsiasi oblò, di conseguenza l’unica fonte di luce proveniva dagli apparecchi in funzione, e l’unico rumore che si sentiva era il “bip” intermittente dei macchinari, che era simile a quello emesso dalle apparecchiature mediche. La presenza del nerboruto e severo Jean Bart contribuiva a renderla ancora più tetra, soprattutto perché odiava la luce artificiale emessa dai lampadari al neon – che quindi teneva spenti – e perché, a parte i muri bianchi, il solo colore presente là dentro era il nero. A parte questo, non era male. Lo spazio non mancava di certo, e nemmeno i nascondigli.
Allargai le braccia in segno di resa.
«Mi serve un posto dove nascondermi,» lo informai, sperando nella sua benevolenza. Lui tornò a concentrarsi sulla consolle che aveva davanti e tirò una leva.
«Di nuovo le analisi del sangue, eh?» mi chiese. Non c’era bisogno che replicassi, sapeva benissimo da solo che la mia risposta sarebbe stata affermativa. Ormai tutti sapevano dell’Odissea che dovevano sopportare i medici ogni volta per farmi fare il check up. «Grande e grossa e ti fanno paura gli aghi,» commentò scuotendo la testa.
Assottigliai gli occhi e digrignai i denti. Eccone un altro che pensava di avere il diritto di farmi la morale.
«Tu non puoi parlare. Sei alto sei metri e hai paura delle falene,» gli feci notare, tagliente, incrociando le braccia ed alzando un sopracciglio. Stavolta toccò a lui digrignare i denti. Sorrisi compiaciuta, appena prima di ricordarmi che non avevo tempo da perdere in chiacchiere.
«Se mi fai rifugiare qui ti do mezzo filone di pane,» gli proposi con un bagliore negli occhi. Quello, per lui, sarebbe stato sicuramente un affare vantaggioso.
Non pensavo che sarebbe mai successo. Mi ero messa a contrabbandare e barattare pane con i miei compagni in cambio di piccoli favori. Non ero esattamente un esempio di integrità morale, ma del resto ero un pirata. Che si aspettavano da me? Era già tanto che non li facessi pagare.
Lo sentii sospirare appena prima di tornare a concentrarsi sulla sua consolle, poi sollevò un braccio e mi indicò un baule alle sue spalle con il pollice. Sogghignai.
«Abbiamo un accordo,» affermai, dirigendomi verso il mobile. Lo aprii e mi ci infilai dentro. Mi sembrava di essere in una bara. L’aria e lo spazio erano ridotti, e regnava il buio più assoluto. C’era anche uno strano odore, che mi fece venire un po’ di nausea. Però mi andava bene così. Avrei atteso lì dentro anche tre giorni, se fosse servito ad evitarmi il prelievo di sangue.
In quegli anni ero cambiata. Ero diventata una persona più forte e più coraggiosa, ma non avevo potuto nulla contro il terrore che avevo degli aghi. Supponevo che mi sarei portata quella paura nella tomba, e più o meno lo stavo facendo. Mi tolsi la cintura e la posai accanto a me in modo che non toccasse il mio corpo, mi sdraiai in quel loculo, cercando di trovare una posizione comoda – per quanto si potesse stare comodi in una nicchia ristretta ed oscura – e richiusi lo sportello, in attesa.
 
Mentre aspettavo in quell’anfratto buio, ebbi modo di riflettere. Se alcune cose erano rimaste le stesse da quando ero tornata sul Polar Tang e avevo espresso i miei desideri, altre erano inevitabilmente cambiate. La Stella era stata di parola e aveva esaudito i miei due desideri. Lo avevo scoperto quasi per caso. Dopo la sera in cui la avevo rivista, per scrupolo, avevo controllato l’ultima pagina del libro Le Avventure di Peter Pan e avevo notato che non era vuota come mi aspettavo. Sopra vi era apparsa un’altra scritta, stavolta però impressa sulla carta con l’inchiostro nero ed indelebile.
 
“Quando vorrai esprimere il tuo ultimo desiderio, ti basterà chiamare il mio nome ed io apparirò in cielo.
 
P.s. Controlla il tuo cellulare.”
 
Così, con le mani tremanti dall’emozione, avevo controllato il telefono. Era da tantissimo tempo che non lo facevo, talmente tanto che non ero sicura di ricordare come si utilizzasse. Alla fine ero riuscita a sbloccarlo e, quando l’avevo fatto, un paio di lacrime ne avevano bagnato lo schermo. Mi ero resa conto che era apparsa, dal nulla, un’applicazione. Un’applicazione che come logo aveva un quadratino blu al cui interno brillavano due stelle bianche; quella a destra, ovviamente, era un po’ più grande. Si chiamava: “2☆R”, che non era altro che l’abbreviazione di “Second Star To The Right”. Funzionava più o meno come Snapchat. Ogni giorno apparivano delle foto delle persone a cui volevo più bene in cui queste si cimentavano nelle loro attività quotidiane. Allo scadere della mezzanotte, sparivano, per lasciare posto ad altre foto del giorno successivo. Se c’era qualche fotografia che volevo conservare, mi bastava cliccare la piccola stella in alto a destra. Quando lo avevo scoperto avevo riso. Almeno la Seconda Stella a Destra era stata coerente con se stessa.
Controllavo la situazione ogni sera, prima di andare a letto. Nel mondo da cui venivo erano passati cinque anni, circa il doppio del tempo che era passato qui. Considerati i tempi di Oda, potevo ritenermi più che fortunata. A parte questo, stavano tutti bene. E nessuno di loro si ricordava della mia esistenza. Erano andati avanti con le loro vite, come io avevo fatto con la mia. Mio padre si era perfino fatto crescere i baffi. La cosa che più mi dispiaceva era che la mia camera da letto non esisteva più. Dalle foto che avevo ricevuto, avevo notato con grande amarezza che era stata trasformata in una specie di studio, più pratico e impersonale di quanto non fosse mai stata la mia stanza. Anche se me ne ero rammaricata, non me l’ero presa. Dopotutto, quel cambiamento era necessario.
Per tre settimane, dopo che ero tornata, ero stata irrequieta. Ma vedere la mia famiglia e i miei amici che ridevano, scherzavano ed erano felici, mi confortava molto. Sapere che i miei cari erano contenti rendeva contenta anche me. Un paio di volte avevo pianto nel pensare a quanto avessero sofferto a causa mia. Adesso, però, erano liberi. Non avevano più il peso della mia improvvisa scomparsa da sopportare. Nell’osservare la foto di mia madre che rideva di gusto mi ero chiesta se tutti loro non stessero meglio così, senza di me. Senza quel fantasma pallido e triste che infestava le loro vite.
Non passò molto prima che i medici venissero a cercarmi lì. Trattenni il respiro, nonostante fossi sicura che senza cintura non potessero sentirmi.
«È qui?» chiese Kenji a Jean Bart. La sua voce mi arrivò ovattata.
Il macchinista non rispose. Potevo solo sperare che avesse scosso la testa. Qualcuno sbuffò, poi udii dei passi e drizzai le orecchie, in ascolto.
Ci vollero tre secondi perché il baule si aprisse. Kenji trattenne una risata, prese la cintura e la poggiò sul mio corpo. Non fu difficile centrare il bersaglio, visto lo spazio ridotto. Mi morsi il labbro e sospirai. Dannato Jean Bart. Non aveva rispettato l’accordo.
Mi finsi morta. Se ero morta non avevo bisogno di fare il prelievo, giusto?
«Non fare l’esagerata. È solo una piccola puntura. Non morirai,» mi rimproverò uno dei medici.
«Questo lo dici tu,» sussurrai a labbra strette. Non sapevo, però, se gli altri mi avessero sentito o meno.
«Cami, ti garantisco che non sentirai niente,» tentò di nuovo di rassicurarmi Kenji.
Alla fine mi arresi e mi tirai su. Non appena uscii dal baule, la squadra di dottori si posizionò attorno a me per impedirmi di scappare. Sembravo un prigioniero condannato a morte che stava andando verso il patibolo scortato dalle guardie. Per come la vedevo io, non era tanto diverso.
Iniziammo a camminare all’unisono verso la porta. Tuttavia io mi fermai proprio sull’uscio e mi voltai a guardare Jean Bart.
«Mi hai tradito! Bastardo!» sputai rabbiosa.
«Io non ho parlato,» si limitò a rispondere. Neanche si degnò di guardarmi.
Digrignai i denti e grugnii. Maledetto. Maledettissimo Jean Bart. Non mi sarei dimenticata del torto subito, questo era poco ma sicuro.
«Non avrai una sola briciola da me!» gli gridai. Non aveva parlato, certo, ma aveva comunque dato ai medici il modo di trovarmi, magari indicando loro il mio nascondiglio con il pollice, proprio come aveva fatto con me pochi minuti prima.
«Ci muoviamo o no? Ho fame, voglio andare a pranzo,» fece il più vecchio dei dottori, spintonandomi appena. Ero davvero finita in prigione, circondata da crudeli secondini.
«Ah, già. Avevo dimenticato che hai bisogno di mangiare presto per poter fare il pisolino pomeridiano,» commentai velenosa. Gli altri medici scoppiarono a ridere.
«Ehi!» mi richiamò stizzito il mio interlocutore. Lo fulminai con lo sguardo e mi strinsi nelle spalle, fingendomi innocente.
«Che c’è? Bisogna essere comprensivi con gli anziani,» affermai, sogghignando crudelmente.
Non sapevo perché all’improvviso fossi diventata così cattiva. Qualunque fosse il motivo, lo avrei scoperto presto. Per il momento, però, avrei dovuto rassegnarmi all’idea di farmi infilare un ago nel braccio e farmi prelevare il sangue.
 
***
 
Avevo passato tutta la mattina e parte del pomeriggio in infermeria, a girarmi i pollici. Mi aspettavo di ritrovarmi più indaffarata una volta tornata sul sottomarino, invece non c’era molto da fare. Per fortuna, perché, nonostante non faticassi, in quei giorni mi sentivo spesso stanca e appesantita. Mi innervosivo anche più facilmente del solito, non sapevo perché. Non poteva essere insofferenza verso il posto in cui stavo, io stessa avevo deciso di tornarvi e rimanervi, ben consapevole di ciò che stavo facendo; né verso i miei compagni: non erano cambiati dal giorno alla notte, erano i soliti e mi trattavano alla stessa maniera. Non ero pentita della mia scelta, stavo bene. Però, in un’orchestra di strumenti ben accordati, nell’aria risuonava una nota stonata, e si ripeteva da giorni. Non avevo ancora capito quale fosse, ma lo avrei scoperto.
Emisi un lungo sospiro. Ero sola e annoiata. Mi chiesi che cosa stesse facendo Sabo. Mi chiesi se si stesse annoiando come me o se stesse vivendo una delle sue avventure. Mi chiesi se stesse bene, che era la cosa più importante. E mi chiesi se e quando ci saremmo rivisti. Non lo avrei mai ammesso, ma mi mancava. Mi mancava la sua voce, giovane ma profonda. Il modo in cui mi raccontava delle sue esperienze. Il modo in cui mi toccava. Il suo sorriso sbarazzino. Le sue cicatrici, i suoi addominali, i suoi capelli spettinati. E sì, più di tutto mi mancavano le attività che svolgevamo insieme. Quelle battevano tutto il resto.
Fui richiamata alla realtà dal brontolio che fece il mio stomaco: mi era venuta fame. Solo allora mi accorsi che mi stavo mordicchiando un’unghia e che avevo fissato imbambolata la parete dell’infermeria per due minuti buoni. Smisi di farlo e mi indirizzai in cucina, tanto lì non c’era niente da fare.
La stanza era un po’ troppo affollata per i miei gusti. Di solito mi piaceva quando ci radunavamo in gruppo per mangiare, bere e stare in compagnia fuori dagli orari dei pasti, era un momento di giubilo e condivisione, però quel giorno avrei preferito essere da sola. Nel mio subconscio doveva essere successo qualcosa che mi aveva innervosito, perché all’improvviso mi sentivo irritata. Ma forse la causa del mio fastidio era solo la fame. Per quello c’era rimedio, per fortuna. Aprii il frigorifero e lo squadrai da cima a fondo. Non c’era niente che mi andasse davvero. Passai agli armadietti e alle mensole: niente neanche lì. Avevo bisogno di qualcosa di ipercalorico, qualcosa che mi riempisse lo stomaco e mi inebriasse il palato. Tornai sui miei passi ed esaminai di nuovo il frigo. La scelta non era ampia, ma alla fine presi le due cose che mi disgustavano di meno, le misi su un piatto e mi sedetti sull’unico posto libero che c’era: accanto a Penguin.
Dedussi che la situazione era grave dal fatto che Ryu smise di cucinare e si girò a guardarmi.
«Carote. Carote bollite intinte nel... ketchup.» Il cuoco espresse tutta la sua perplessità. Aveva una faccia esterrefatta, come se avessi profanato le tombe dei suoi antenati.
«Alle cinque del pomeriggio,» continuò Shachi per lui, altrettanto schifato. Capivo la loro titubanza: normalmente un connubio del genere avrebbe fatto schifo anche a me. Però il mio cervello mi diceva che dovevo mangiare questo e il mio stomaco sembrava concordare.
Mi resi conto che mi stavano fissando tutti, con una vena di preoccupazione. Sbuffai. Era per questo che volevo stare da sola, perché sapevo che nessuno si sarebbe fatto gli affari propri.
«E sono lì da due giorni,» precisò Bepo. Era l’unico tra i miei compagni a non essere preoccupato per la mia salute mentale: a lui importava che non facessi indigestione.
Assaggiai le carote intinte nel ketchup e, se da un lato mi pentii di aver creato quella combinazione letale, dall’altro mi venne voglia di continuare a mangiare. E così feci.
«Perché?» mi chiese l’orca, contrariata.
Feci spallucce. «È stata una giornata molto dura.»
«Ma... non hai fatto niente!» esclamò Penguin.
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Allungai la mano e, con una mossa repentina, gli afferrai i capelli sotto il cappello e li tirai con forza.
«Ahia!» si lamentò, sotto lo sguardo atterrito dei presenti.
«Hai detto qualcosa, pinguinello?» Avvicinai l’orecchio alla sua bocca.
«Ho detto che hai lavorato strenuamente!» si corresse, la voce stridula e il sorriso finto di chi cerca di evitarsi ulteriori problemi.
Sorrisi compiaciuta e lo lasciai andare. Tecnicamente non aveva torto, non avevo combinato molto in quella giornata, ma io mi sentivo comunque stanca. Da giorni avevo la sensazione di avere un peso di dieci chili sulle spalle. Ogni mio movimento era lento e faticoso, e anche i pensieri erano annebbiati. Non sapevo se fosse questo a rendermi particolarmente nervosa o se invece lo ero a prescindere, però ero inquieta e suscettibile, e quando era così nessuno doveva permettersi di dirmi nulla.
Mi alzai in fretta, sotto lo sguardo atterrito dei presenti. Supponevo che la maggior parte di loro, per spiegare il mio comportamento assurdo, si appellasse all’antico preconcetto che le donne fossero emotivamente instabili. Nel mio caso era vero, ma questo non voleva dire che valesse per tutte le altre. Maya, ad esempio, non era così. In realtà non lo ero neanche io – non troppo – in circostanze normali. Ma quelle non erano circostanze normali; mi stava succedendo qualcosa di strano.
Recuperai al volo un bicchiere, poi mi diressi a passo svelto verso il frigo e lo aprii. Trovai subito ciò che stavo cercando: vino. Ne versai una generosa quantità nel calice e la bevvi tutta d’un fiato. I miei compagni seguivano le mie mosse in religioso silenzio, nessuno osava fiatare.
«Fossi in te, non lo farei,» fece una voce dietro di me, mentre mi accingevo a versarmi il secondo bicchiere. Forse era per questo che si erano ammutoliti, perché Law era entrato in cucina.
Alzai gli occhi al cielo senza farmi vedere. Non avevo proprio voglia di stare ai suoi stupidi giochetti. Volevo solo finire la bottiglia ed essere lasciata in pace. Ma quando era così, avevo imparato che era meglio assecondarlo, anziché contrastarlo. Sollevai la testa e rimisi il corpo in posizione eretta, poi chiusi l’anta del frigo e mi girai molto lentamente.
«Buon pomeriggio, capitano. In cosa posso aiutarti?» chiesi, cercando di sembrare accondiscendente.
«In niente,» rispose. Mi venne una terribile voglia di dargli un pugno in faccia ma, prima che potessi fare qualcosa, lui proseguì: «Si tratta delle tue analisi del sangue. Sono arrivati i risultati. Vieni nel mio studio.»
Capii subito che non c’era da scherzare: la sua espressione ferma e seria non faceva presagire nulla di buono. Lo seguii, quasi trattenendo il respiro. Avevo il timore che potesse aver scoperto del mio polso “ballerino”. Come avesse fatto a dedurlo da delle semplici analisi del sangue sarebbe rimasto per sempre un mistero per me, ma se c’era qualcuno in grado di farlo, era proprio lui.
 
Feci tamburellare le dita sull’immacolata scrivania di legno dello studio di Law. Si era chiuso la porta alle spalle e ora era seduto davanti a me, a dare un’ultima occhiata ai fogli delle mie analisi. Perché non mi diceva subito cosa c’era che non andava? Il suo tergiversare, come al solito, contribuiva solo a rendermi più nervosa!
«Quale che sia il problema, dillo. Dillo e basta. Sii onesto e rapido, per favore,» lo incitai, sistemandomi meglio sulla sedia e cercando di non far trasparire il mio nervosismo. Il capitano alzò lo sguardo e mi squadrò con aria impassibile. A quel punto, non sapevo cosa aspettarmi: potevo solo prepararmi al peggio.
«Ricordati che me lo hai chiesto tu.»
Feci per replicare, ma non me ne lasciò il tempo.
«L’ormone Beta-hCG è positivo,» affermò in tono piatto, come se ciò che aveva detto non fosse nulla di che. Come se non avesse appena sganciato una bomba atomica sulla mia testa.
Mi parve di sentire un tonfo sordo all’interno del mio cranio. Il criceto che correva come un pazzo per far funzionare il mio cervello era appena caduto dalla ruota.
«Prego?» chiesi con un filo di voce, sperando di aver capito male.
«L’ormone Beta-hCG è positivo,» ripeté, stavolta con più calma e scandendo bene le parole.
No. Non avevo capito male. Avevo capito fin troppo bene.
Sbuffai una risata, incapace di credere che ciò che mi aveva appena detto fosse vero.
«Non fa ridere, Law,» lo redarguii, con espressione seria.
«Lo so,» si limitò a rispondere, con l’aria di chi la sa lunga.
Continuai a fissarlo, nella speranza che lui si smentisse, che mi dicesse che non era vero. Ma lui non lo fece.
«No. No. No, non... non è possibile.» Scossi la testa, lo sguardo perso nel vuoto. «Non è vero, ci deve essere sicuramente un errore.»
«Ho controllato due volte, per scrupolo.»
Mi aggrappai alla sedia per sostenermi mentre la vista si appannava e le orecchie iniziavano a fischiare. Erano bastate ventitré lettere per far crollare tutto il mio mondo.
«Questa... questa è una tragedia,» mi lasciai sfuggire, in un sussurro appena udibile.
Presi un respiro profondo, cercando di non andare nel panico e pensare a se e come fosse possibile una cosa del genere. I miei occhi vagavano per tutta la stanza: per quanto ci provassi, non mi veniva in mente niente. Vuoto totale. Non poteva essere. O meglio, poteva essere, ma era assurdo. Avevo sempre fatto attenzione, proprio per evitarlo. E anche Sabo, per quanto potesse essere sbadato.
Riportai lo sguardo su Law, che mi fissava eloquentemente.
«Il risultato potrebbe essere dato da uno squilibrio ormonale,» suggerii, rimettendomi seduta composta sulla sedia. Il capitano non poteva vedermi sconvolta, o avrebbe capito tutto.
«Spiegherebbe perché sei irritabile, ma non perché hai la nausea.»
Effettivamente, in quelle settimane mi era venuta anche un po’ di nausea. E gli altri sintomi c’erano tutti: mangiavo tanto e cibi strani, ero irrequieta, più emotiva e non dormivo bene. Anche i tempi coincidevano. Mi portai le mani a coprirmi il viso: forse era arrivato il momento di arrendersi di fronte all’evidenza.
«Congratulazioni, Camilla. Sei incinta,» mi annunciò, quasi compiaciuto da quelle parole. Certo, tanto non era la sua vita che sarebbe stata rovinata per sempre. Non erano i suoi sogni che erano andati in frantumi. Sentii la rabbia montare in me. Come poteva mostrarsi tanto insensibile di fronte a una faccenda così delicata?
«Io non sono incinta!» Alzai la voce, quasi come se dovessi persuadere me stessa. Non potevo avere un bambino adesso. Non potevo. Non ora. Avere un bambino significava mandare in malora tutto ciò per cui avevo lavorato così tanto fino a quel momento. Non era la fine del mondo, né la fine della mia vita o della mia carriera, ma fare la mamma, oltre a non essere nei miei piani, avrebbe complicato il mio cammino. Volevo stringere un bisturi tra le mani, non un neonato. Per non parlare del fatto che Sabo, il padre del bambino, non era lì con me. Avrei dovuto dirglielo? Sì, ma non potevo fargli questo. Sapevo che, per quanto fosse uno spirito libero, non si sarebbe tirato indietro di fronte a quella responsabilità. Così, gli avrei tolto tutto: i suoi sogni, la sua indipendenza, la spensieratezza che tanto amavo di lui e la possibilità di scegliere il proprio futuro. Ero sola. Era una decisione che spettava a me.
Scossi debolmente la testa, cercando di scacciare quei pensieri.
«Non sono incinta,» ripetei, stavolta più calma, ma sempre tentando di convincermi.
Law ghignò con strafottenza. Quella situazione sembrava un mero diletto per lui, un passatempo pomeridiano. No, non era possibile che si comportasse in questo modo. Era sadico, ma non fino a questo punto. E non era superficiale, non era tipo da scherzare quando in ballo c’era il destino di più esseri umani: il mio, quello di una creatura indifesa e, in quanto mio capitano, anche il suo e quello dei suoi sottoposti. Con un bambino a bordo sarebbero cambiati i piani di tutti. Per quanto fosse duro, sapevo che non mi avrebbe abbandonata. Non avrebbe lasciato che crescessi mio figlio da sola, su un’isola qualunque del Nuovo Mondo. Per questo c’era qualcosa che non mi tornava. Aveva speso tempo ed energie per farmi arrivare dov’ero, non poteva essere contento di quella notizia, né rimanere indifferente, come se non fosse un problema suo. Avrebbe quantomeno dovuto essere arrabbiato, o deluso. Con me si era infuriato per molto meno, quando avevo commesso un errore. E quello non era un errore, era un cataclisma.
Con una mossa repentina, scattai in avanti e gli strappai i fogli delle analisi dalle mani. Lui mi lasciò fare, come se stesse aspettando da molto questo momento. Quando lessi il referto, ricontrollandolo per tre volte, emanai un forte sospiro. Non ero certa se fosse per il sollievo o per la furia.
Lo fissai, le mani tremanti e lo sguardo fiammeggiante. Non solo l’ormone Beta-hCG non era positivo, ma quelle non erano neanche le mie analisi.
«Tu mi ucciderai, prima o poi!» esclamai furiosa. Il suo sogghigno si allargò.
«Se non bevessi come un cammello, non avresti la nausea.» Un guizzo divertito attraversò le sue iridi. Si era burlato di me e continuava a farlo, e questo mi faceva arrabbiare ancora di più.
«Testa di cazzo!» gli urlai, lanciandogli addosso i suoi stupidi fogli. Poi uscii come una furia dallo studio. Se fossi rimasta, lo avrei accoltellato con il tagliacarte. Percepivo sulla nuca i suoi occhi divertiti che seguivano i miei movimenti.
«Questa me la paghi, stronzo,» sibilai, mentre mi dirigevo a passo svelto verso la cucina. Avevo bisogno di sciogliere tutta la tensione che mi aveva generato quello “scherzo” con un buon bicchiere di vino.
 
Camminavo verso la cucina facendo solchi sul pavimento, tanto mi ero innervosita. Law voleva prendersi gioco di me? Avrebbe potuto nascondere il vino, dirmi che era finito e che non saremmo sbarcati sulla terraferma per almeno due mesi. L’avrei presa comunque male, e lui avrebbe goduto della mia sofferenza, ma non avrei rischiato un infarto. Non avrei lasciato che la mia mente vagasse in lungo e in largo tra tempo e spazio per vagliare ogni ipotesi possibile. La più accreditata, secondo il mio cervello, era che sarei stata da sola per i primi anni di vita della creatura, dopodiché Sabo, compiuta la sua missione come secondo in comando dell’Armata Rivoluzionaria, mi avrebbe raggiunta. Insieme avremmo cresciuto il bambino, io lo avrei odiato per avermi messo incinta e avermi costretto a rinunciare ai miei sogni, lui mi avrebbe odiato perché lo avevo privato della sua libertà, ma saremmo rimasti insieme per ciò che credevamo essere il bene di nostro figlio, bloccati su una squallida isola qualunque, infelici e frustrati. Nel frattempo, Law si sarebbe incaricato dell’educazione del bimbo e lo avrebbe trasformato in una mini copia di se stesso: un vivisezionatore di rane cinico e sadico. E forse, sotto l’influenza di Shachi e Penguin, sarebbe anche diventato alcolizzato. A volte sapevo essere davvero tragica. Magari non sarei stata malinconica come credevo, ma avrei avuto una vita felice, nonostante l’enorme imprevisto. Rimuginare non serviva a niente: non ero incinta e avrei fatto in modo di non esserlo per un lungo tempo. Ciò di cui avevo bisogno adesso era soltanto un bicchiere di vino.
Con la coda dell’occhio, vidi una figura che mi si avvicinava.
«Non ora, Kenji.»
«Si tratta delle tue analisi,» mi fece sapere, con voce gentile. Era sempre carino con me, peccato che scegliesse i momenti sbagliati.
Mi fermai, mi girai verso di lui e lo guardai un po’ intontita. Quando fece per parlare, però, glielo impedii.
«Non ora, Kenji,» ripetei, riprendendo a camminare. Per quel giorno ne avevo avuto abbastanza di analisi cliniche. Non volevo sapere né vedere più niente. Non avrei retto un altro colpo. Lui, però, non demorse, e mi seguì fino in cucina.
Inutile dire che mi fiondai subito sul frigorifero. Presi la bottiglia, il primo bicchiere che mi capitò sottotiro, ci versai il vino e bevvi alla goccia.
Sbuffai, poiché dietro di me percepivo ancora un’ingombrante presenza. Mi voltai, e solo allora notai che aveva in mano delle scartoffie.
«Sono le tue analisi,» confermò il ragazzo mostrandomi i fogli.
Alzai gli occhi al cielo. Non me ne sarei liberata fino a che non avessi controllato gli esami. Diedi una rapida occhiata dopo aver preso un respiro profondo. Volevo solo che Kenji mi lasciasse in pace. Se per farlo avessi dovuto leggere le sue stupide analisi, lo avrei fatto. Quale che fosse il responso, la mia giornata era già stata rovinata e il mio umore compromesso. Mazzata più, mazzata meno...
«Mi sembra tutto a posto. Te l’avevo detto, sono sana come un pesce.» Mi versai un altro po’ di vino nel bicchiere. Nessuno mi sentì, ma tirai un grosso sospiro di sollievo. Almeno questa, l’avevo scampata. Avevo controllato la colonna dell’ormone Beta-hCG con particolare attenzione e più volte, per essere sicura: era negativo, non ero incinta.
«A parte il pannello epatico,» precisò lui, guardandomi con apprensione.
Strinsi la mano libera a pugno e feci roteare gli occhi, senza curarmi di sembrare cordiale, o interessata. Non me ne importava niente del pannello epatico, volevo solo essere lasciata tranquilla.
«I livelli delle transaminasi sono un po’ alti.» Osservò i fogli per un paio di secondi, poi tornò ad squadrarmi con preoccupazione. «Ultimamente stai bevendo un po’ troppo alcol. Forse dovresti andarci più piano,» mi consigliò, fissandomi come si fisserebbe un malato terminale.
Sbuffai rumorosamente. Stava esagerando. Non sarei di certo morta per un po’ di alcol.
Si avvicinò ancora e cercò di togliermi il bicchiere dalle mani. Ovviamente non glielo lasciai fare e ritrassi le braccia di scatto, facendo traboccare un po’ di vino, che con mio grande disappunto andò a finire per terra. Presi più respiri profondi, nel tentativo di calmarmi. Non servì a niente, perché continuai a fissarlo con sguardo omicida.
«Kenji, sei un ragazzo adorabile e non ho nulla contro di te, ma ti garantisco che, se da ora in avanti non terrai le mani a posto, te le taglierò,» tuonai minacciosa.
Il chiacchiericcio che ci aveva fatto da sottofondo fino a quel momento cessò. Sentivo gli sguardi dei miei compagni puntati addosso. Per la seconda volta, nell’arco di un’ora, avevo fatto ammutolire tutti. Le cose erano due: o pensavano che fossi diventata completamente pazza, o iniziavano a temermi.
Kenji mi guardò mortificato, ma io non mi sentivo in colpa per essere stata così aggressiva. Era più forte di me. Alcolista o no, non potevo sopportare che si sprecasse il vino in quel modo. E, peggio ancora, non potevo tollerare che qualcuno cercasse di impedirmi di berlo. Ora che Sabo non c’era più – e che avevo appurato di non essere incinta – era la mia unica forma di sostentamento, l’unica cosa che mi tratteneva dall’impazzire del tutto e fare una sanguinosa strage di Pirati Heart. Chiodo scacciava chiodo. Il sesso mi faceva dimenticare degli incubi, delle voci e del tremore alla mano e il vino mi faceva dimenticare del sesso, che non potevo più avere.
Gli riservai un ultimo sguardo carico di fastidio, poi sollevai il calice e glielo sventolai sotto il naso, come a beffarmi di lui e delle sue raccomandazioni. Recuperai la bottiglia, lo superai e uscii dalla cucina. Me ne tornai in camera senza dire una parola. Almeno lì avrei potuto bere in pace.
 
Controllai l’ora sul telefono: erano quasi le otto; tra qualche minuto ci sarebbe stata la cena. Sospirai rumorosamente. Non avevo voglia di affrontare di nuovo gli sguardi inquisitori dei miei compagni. Capovolsi la bottiglia di vino per versarla nel bicchiere, ma ne venne fuori solo qualche goccia. Avevo finito anche quella, non per niente ero brilla. Avere la testa un po’ più leggera forse mi avrebbe aiutato a sopportare il pasto con i Pirati Heart. Appoggiai la testa al muro e sospirai di nuovo. Era stata una giornata assurda. Emotivamente devastante. Mi sembrava di aver fatto più giri su un roller coaster senza cinture di sicurezza, solo che non c’erano stati alti e bassi, ma solo bassi e più bassi, con qualche anello della morte in mezzo. Le mie emozioni erano state centrifugate, accartocciate e buttate nel cestino. Law mi aveva fatto infuriare. No, mi avevano fatto infuriare tutti, ma lui un po’ – molto – di più. Non ero solo arrabbiata, ero anche offesa e delusa dal suo comportamento. E mi sentivo umiliata. Non ero io ad aver sbagliato, eppure, in qualche modo, era riuscito a farmi sentire colpevole anche quando non lo ero. Mi aveva giudicato prendendosi gioco di me, una doppia coltellata. Solo lui era capace di farlo, ci voleva del talento.
«Che amarezza,» sussurrai a me stessa, scuotendo la testa.
Sospirai, per la terza volta in pochi minuti. Pensai che, se fosse stato qui, Sabo avrebbe saputo come farmi passare il malumore. Ne avrei tanto avuto bisogno. Me lo immaginai accanto a me, in un altro posto, magari su una spiaggia al crepuscolo, in onore dell’ultimo tramonto che avevamo ammirato insieme. L’acqua dell’oceano ci lambiva le caviglie, la sabbia sotto di noi era tiepida. I nostri corpi erano avvinghiati l’uno all’altro. Non c’erano guerre da combattere o governi da far cadere. C’eravamo solo noi, in quel preciso istante, liberi e felici. Non stavamo commettendo atti impuri, non avevamo bisogno di farlo, ci stavamo semplicemente godendo il momento, illuminati dalla luce aranciata. A volte bastava poco per essere appagati: lo stridio dei gabbiani, il profumo del mare, una lieve brezza tra i capelli, una persona che ti capisca e che ti faccia sentire desiderato. Sabo, tra i suoi tanti difetti, era questo. E poi mi figurai una terza persona lì con noi. Aveva i capelli castano chiaro e gli occhi grandi e scuri, come quelli del suo papà. Sorrisi. Nostro figlio. Era ancora piccolo e non avrei saputo dire se fosse un bimbo o una bimba, ma a noi non importava. Volevamo solo che quel piccolo miracolo crescesse con la libertà di essere chi era, chi voleva essere. Che non avesse paura di sognare in grande e che imparasse a lottare per ciò in cui credeva. Nonostante non ne avessimo mai parlato, sapevo che questo era anche quello che desiderava Sabo. Mi chiesi che tipo di padre sarebbe stato. Avevo motivo di credere che sarebbe stato un bravo genitore, tolte le sue dimenticanze e la sua occasionale infantilità. E il fatto che non era pronto ad assumersi una tale responsabilità, come non lo ero io. Poi mi misi a ridere pensando a Rufy come zio. Ci avrebbe stupito tutti, sarebbe stato uno zio ineccepibile, secondo me.
La verità era che, dopo lo scherzetto di Law, mi ero già immaginata a comprare tutine per bambini e biberon. E in fin dei conti l’idea non mi dispiaceva, era il tempismo ad essere sbagliato. Non avevo mai pensato a come fosse essere madre, non ne sentivo il bisogno. Perché avrei dovuto? Nel mio mondo ero una semplice adolescente con tanta confusione in testa. Ma adesso ero cresciuta, sapevo cosa volevo ed ero in grado – più o meno – di prendermi cura di me stessa. Avere un figlio non era un mio desiderio al momento, ma non era più un’utopia. Prima di farlo, però, mi sarei assicurata di raggiungere i miei obiettivi e di fare in modo che potesse crescere in un mondo migliore di questo, un mondo in cui non rischiasse di morire perché non sapeva impugnare una spada. Oltretutto, non era detto che il padre dovesse essere per forza il Capo di Stato Maggiore dell’Armata Rivoluzionaria.
La sveglia del cellulare suonò, distraendomi da tutte le mie riflessioni. L’avevo impostata pochi minuti prima dei pasti, così non sarei arrivata in ritardo, poiché era risaputo che chi si presentava tardi non mangiava. Sbuffai. Non avevo nessuna voglia di presentarmi a cena, non avevo voglia di vedere Law, di affrontare Penguin, Kenji e gli altri e non mi andava che mi squadrassero tutti con la solita aria giudicante, ma il mio stomaco reclamava la propria ricompensa. Nonostante lo spuntino di metà pomeriggio, avevo ancora fame. E nonostante il vino, ero ancora nervosa. E stanca. E un po’ nauseata. Ma, se non ero incinta, perché mi stavano succedendo quelle cose strane?
   
 
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