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Autore: crazy lion    22/03/2021    1 recensioni
Crossover scritto a quattro mani con Emmastory tra la mia fanfiction Cuore di mamma e la sua saga fantasy Luce e ombra.
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti vissuti da Demi e dalla famiglia, raccontati nel libro di Dianna De La Garza Falling With Wings: A Mother's Story, non ancora tradotto in italiano.
Mackenzie Lovato ha sei anni, una sorella, un papà e una mamma che la amano e, anche se da poco, una saga fantasy che adora. È ambientata in un luogo che crede reale e che, animata dalla fantasia, sogna di visitare con i suoi. Non esita perciò a esprimere tale desiderio, che in una notte d’autunno si realizza. I quattro vivranno tante incredibili avventure con i personaggi che popolano quel mondo. Ma si sa, nemmeno nei sogni tutto è sempre bello e facile.
Lasciate che vi prendiamo la mano, seguite Mackenzie e siate i benvenuti a Eltaria, un luogo per lei e la famiglia diviso tra sogno e realtà.
Disclaimer: con questo nostro scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendiamo dare veritiera rappresentazione del carattere dei personaggi famosi, né offenderli in alcun modo.
Quelli originali appartengono alle rispettive autrici.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Nuovo personaggio
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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CAPITOLO 29.

 

GUARIRE O PROVARCI

 
Il mattino seguente, la coppia si vestì quando il sole era sorto da poco. Trovarono la colazione già pronta e, con Eliza, anche le sue figlie, Christopher e Noah. Tutti consumarono un pasto frugale. Quando Isla e Oberon li raggiunsero, gli uomini portarono fuori lo scatolone con i pezzi del gazebo, mentre Demetria e le altre si occuparono di fare lo stesso con i tavoli, entrambi ancora da assemblare, e le sedie in plastica impilate le une sulle altre. Ce n’erano una trentina e tutte si sorpresero di quanto fosse grande quello sgabuzzino, anche se per fortuna non c’erano molte altre cose, a parte un albero di Natale e alcune scatole di decorazioni natalizie o pasquali. La porta non si notava un granché perché era in parte nascosta da una tenda.
“Hai altre stanze segrete in questa casa?” le chiese Demi e tutte scoppiarono a ridere.
“Nessuna, te lo assicuro.”
Lasciando le sedie da una parte, le donne andarono ad aiutare con il resto. Dopo aver montato il gazebo e averlo fissato a terra con tiranti e picchetti, passarono ai due tavoli allungabili. Lavorarono gomito a gomito e ci misero meno di quanto avrebbero pensato. Tutto era in ottimo stato, per cui bastò passare uno straccio e una spugna bagnata per tirare via la poca polvere presente e lavare un po’.
“Ci abbiamo messo meno di un’ora, fantastico!” esclamò Sky.
Avrebbero potuto tornare a letto, ma nessuno di loro aveva più sonno. Dopo il lavoro si erano svegliati e si sentivano carichi per affrontare una nuova giornata. Si sedettero su alcune delle sedie appena posizionate per chiacchierare. Ma, in realtà, nessuno sapeva di che argomento trattare.
“A mia sorella sarebbe piaciuto tanto questo posto” cominciò Andrew, dicendo la prima cosa che gli era venuta in mente. “Lei adorava la natura, passeggiare nel bosco e le sareste stati tutti simpatici, ne sono convintissimo.”
“Hai una sua foto?” chiese Noah. “Mi piacerebbe vederla.”
Andrew aprì uno scomparto del portafoglio e la mise sul tavolo. Ritraeva Carlie nel giardino della casa in cui avevano vissuto per tanti anni assieme ai genitori, vicina a quella di Demi. Era da sola, in piedi, e fissava l’obiettivo con espressione serena. Portava i capelli sciolti e i suoi occhi azzurri erano illuminati da un sorriso.
“Gliel’ho scattata poco prima che partisse per il Madagascar. È l’ultima che ho di lei” mormorò, mentre un groppo in gola gli rendeva difficoltoso parlare.
La fitta di dolore alla quale era abituato si fece sentire con più violenza, come una scure che si abbatte su un tronco e lo ferisce, lasciandolo soffrire in un grido silenzioso e che nessuno udirà mai.
“Vi somigliate.”
“Insomma, Eliza, forse nei lineamenti del viso e nell’espressione, ma lei era più allegra di me e nel fisico più simile a mia madre. Non sopportava di tenere i capelli legati o di accorciarli troppo.”
Era il momento.
Ora o mai più.
Pensandolo, Andrew si tirò su le maniche della maglia leggera e mostrò anche lui le cicatrici bianche, che si vedevano ormai a fatica. Una era più lunga e pronunciata delle altre, partiva dal polso e si fermava sotto il gomito.
“Anche…” Christopher si schiarì la voce. “Anche tu sei stato autolesionista?”
Tutti puntarono gli occhi su di lui, scioccati. Sapevano che aveva sofferto, ma non immaginavano che anche lui sarebbe arrivato a tanto.
“Eppure avremmo dovuto immaginarlo,” intervenne Eliza, “dato che anche lui porta quella maglia come lo faceva Demi.”
“In effetti…” Sky non poteva crederci. “Non so come ho fatto a non arrivarci.”
“Forse tutti lo immaginavamo, nel nostro inconscio magari, ma non volevamo ascoltare quella voce interna” osservò Kaleia.
Il dolore può portare alcune persone, soprattutto le più sensibili, ad autodistruggersi in vari modi, alcuni solo mentali come riempirsi di sensi di colpa quando non c’è motivo per cui sentirsi così, altri anche fisici spiegò Andrew. Mise in chiaro che non tutti, per fortuna, diventano autolesionisti. Disse che aveva iniziato circa due anni dopo la morte dei suoi genitori.
“Mi mancavano da morire e Carlie diceva che sarebbe voluta partire. Io non le ho mai impedito di farlo, non sarebbe stato corretto, ma non ero riuscito a farmi dei veri amici né a scuola né altrove, non di quelli che ti rimangono accanto a lungo, almeno. Ero molto sulle mie e non uscivo un granché, non mi forzavo a farlo, il che è stato un errore. A parte lei e Demi non avevo nessuno, mi sentivo solo e soffrivo per la scomparsa dei miei genitori. E nonostante sapessi che Demetria ci era passata e quanto procurarsi ferite l’avesse fatta soffrire, è stato più forte di me. Anch’io sono caduto in quella trappola pensando di poter smettere, ma poi sono finito sempre più in basso. Dopo qualche mese in cui facevo di tutto per nascondere ogni cosa a mia sorella, lei mi ha raccontato che una sua amica le aveva detto di essere autolesionista e che l’aveva convinta a farsi aiutare da uno psicologo. Mi ha parlato della sua sofferenza, nella quale mi sono rispecchiato pur non conoscendo quella ragazza, e dello sforzo che lei aveva fatto per convincerla a non chiudersi nel proprio dolore.”
Quando Kaleia gli chiese se a quel punto le aveva raccontato che accadeva anche a lui Andrew negò, aggiungendo che allora temeva già di essere un peso e che non voleva farla preoccupare, ma che spesso si era sentito male per questo e aveva pensato di parlargliene. Le sue parole, però, l’avevano convinto a cercare una brava psicologa. E così, mentre lavorava in uno studio legale per fare pratica prima di sostenere un esame che l’avrebbe reso un avvocato a tutti gli effetti, aveva iniziato anche terapia. La donna lo ascoltava e lo aiutava da allora, gli aveva insegnato alcune tecniche per non farsi più del male come appallottolare un foglio, gettarlo con veemenza per terra, pestarlo, strapparlo, oppure urlare in un cuscino e altro ancora.
“All’inizio no, ma già dopo cinque o sei mesi ho cominciato a tagliarmi di meno. Se prima lo facevo due, tre, cinque volte al giorno, sono passato a resistere di più, un giorno, poi due, poi sempre di più fino a farmi del male solo una volta al mese. Il bisogno di ferirmi era ancora intenso, ma lei non riteneva necessario mandarmi anche da uno psichiatra per il momento, perché notava i miei progressi. Forse avrei dovuto, non lo so. Un farmaco di quelli che prendo ora, il Carbolithium, serve anche a diminuire tali pensieri, comunque ormai è andata così.”
Quando Demi aveva iniziato l’iter adottivo, Andrew aveva sostenuto un colloquio con la prima assistente sociale, Gladis Richardson, e non era stato facile convincerla che non sarebbe stato un pericolo per le bambine. Oltre alle mille domande lei l’aveva mandato da uno psichiatra per diversi colloqui e aveva voluto vedere una dichiarazione della sua psicologa che ne attestava i progressi e spiegava il suo percorso.
“Quella donna era una vipera.” Demi batté un piede a terra. “Avreste dovuto esserci per sentire le parole che mi ha rivolto. Ma con situazioni difficili come queste e un’adozione di mezzo bisogna andarci piano, per cui capisco la sua cautela. Anche quando ha parlato con mia madre ci è andata con calma.”
“Sì, la comprendo anch’io, ma non è stato… facile parlare di queste cose a una persona che nemmeno conoscevo quando non l’avevo fatto neanche con te, benché lei non mi abbia mai chiesto se tu ne fossi a conoscenza o meno. Spesso mi sono domandato se il fatto che tu fossi single sia stato solo uno dei motivi per cui ha rifiutato la tua richiesta di adozione. Magari non l’ha scritto, ma vista la situazione di Dianna e la mia…”
Per un momento nessuno parlò. Fu un istante così lungo che Demi si domandò se stesse respirando o meno.
“Avrebbe dovuto dirmelo se fosse stato così. Era suo preciso dovere mettermi al corrente di tutte le motivazioni” rimarcò. “Ma non credo fosse quello il problema, o non solo. Forse ci ha messo tanto per decidere se la mia famiglia e tu eravate idonei ad accogliere un bambino nelle vostre vite e soprattutto se io fossi pronta ma credimi, quella sera ce l’aveva con me, non con voi. Ed era proprio arrabbiata per il fatto che io fossi single, cosa che ho trovato del tutto non professionale.”
Al solo ricordo, Demi strinse i pugni e la lingua fra i denti fino a farsi male. Non avrebbe mai scordato quel giorno di fine aprile, uno dei più dolorosi della sua vita, in cui Gladis le aveva detto che visto che non conviveva o non era sposata e dato il suo passato, anche se stava bene non sarebbe mai riuscita a crescere un bambino. Per fortuna Holly Joyce, la seconda assistente sociale, era stata di un parere diverso.
Qualcuno grattò sulla porta ed Eliza aprì. Erano Lilia e Agni che, usciti, corsero via, probabilmente per fare i bisogni e, nel caso del draghetto, mangiare.
“Ti fai ancora del male?” chiese Kaleia raccogliendo tutto il suo coraggio.
“No, non più. Ho smesso del tutto, dopo un percorso lungo, quando Demi mi ha chiesto di venire a vedere le bambine nella casa dei loro genitori affidatari. Di sicuro questo ha aiutato, ma non è stata l’unica motivazione, né si è trattato di qualcosa di improvviso. Dopo la morte di Carlie, però…”
Andrew lasciò la frase in sospeso e tutti tranne Demetria lo guardarono con più intensità, scoprendosi spaventati da quello che sarebbe potuto venire dopo.
“C-cosa?”
La voce di Sky si udì appena.
Andrew trasse un profondo respiro. Era inutile girarci intorno.
“Stavo sempre peggio, mi sono isolato per più di due mesi volendo vedere pochissimo Demi e per nulla i miei colleghi di lavoro. Mesi nei quali non venivo pagato, ovviamente, ma non mi importava, non sarei potuto tornare al lavoro in quelle condizioni. Una sera ero così disperato che sono giunto al limite e…” Tremò, perdendo il controllo dei movimenti di braccia e gambe che si muovevano a scatti. Prese un respiro tremante, si schiarì la voce e mormorò: “Ho tentato il suicidio.”
Quelle quattro parole aleggiarono, sinistre, sopra le loro teste continuando a fare avanti e indietro, avanti e indietro senza fermarsi. Non ci potevano credere: Andrew era arrivato a cercare di uccidersi tanto grande era il suo dolore. La più colpita fu Kaleia che, sia a causa del racconto sia, forse, degli ormoni, scoppiò in violenti singhiozzi. L’uomo si sentì malissimo e si diede dell’idiota per aver fatto piangere una donna incinta, di certo tutto ciò non faceva bene né a lei né al bambino, ma in quei due giorni lui e Demi avevano raccontato molte cose, la storia meritava di essere terminata.
“Mi dispiace” sussurrò alla fata desiderando sprofondare metri e metri sotto terra, ma lei fece cenno di no con la testa e abbozzò un sorriso asciugandosi gli occhi. “Questa me la sono fatta recidendomi l’arteria radiale, dopo essermi procurato altri tagli, più per autolesionarmi che per farla finita, anche se all’inizio l’intenzione era stata quella di pugnalarmi al cuore. Per un attimo il desiderio di uccidermi è svanito, poi è tornato prepotente. Se non ci fosse stata Demi, in pochissimi minuti, forse meno di una manciata, sarei morto. La recisione di un’arteria è pericolosissima” continuò in tono greve.
“Sono arrivata a casa sua perché ero preoccupata per lui. Da giorni non rispondeva più ai miei messaggi e alle chiamate, né voleva vedere me o le bambine. Solo una volta siamo stati a cena insieme e mi sembrava stesse meglio.” Sospirò. “Ma mi sbagliavo.”
“Le ho anche scritto una lettera, prima di farmi del male.”
“Quando l’ho trovata, mi sono sentita mancare. Ho chiamato l’ambulanza,” riprese la cantante, con le lacrime agli occhi nel ricordare il momento in cui aveva letto quella lettera prima di trovare il fidanzato nel bagno, “e mi sono fatta spiegare come fermare il sangue, ma ce n’era tantissimo, dappertutto, io…” Tremò e inspirò profondamente. “Avevo paura di danneggiare qualcosa, che perdesse la mano o il braccio. Per fortuna la situazione era un po’ meno grave di quanto i medici si aspettavano, benché comunque seria.”
La recisione aveva interessato la pelle ma non del tutto il vaso sanguigno, per cui il braccio e la mano avevano avuto comunque vascolarizzazione e questo li aveva salvati.
Demetria parlò dei giorni nei quali Andrew era rimasto in ospedale, all’inizio troppo scioccato persino per parlare o mangiare. Veniva nutrito con una flebo e non c’era alcuna spiegazione medica per la sua condizione. Lo shock per il gesto compiuto e la morte della sorella gli avevano fatto perdere la volontà di reagire. Uno psichiatra e uno psicologo andavano da lui per aiutarlo, ma Andrew si rifiutava di parlare. Per fortuna quella situazione si era protratta per poco e piano piano si era ripreso. I seguenti giorni in ospedale non erano stati facili tra ricominciare a mangiare, a camminare e a muovere il braccio facendo esercizi di fisioterapia.
“Chi tenta il suicidio di solito va in psichiatria, un reparto in cui le persone con questi e altri problemi vengono aiutate, anche se non è detto che capiti. Io non ci sono finito, ma lo psicologo e lo psichiatra venivano da me ogni giorno per fare colloqui anche più volte, il personale mi ha tolto tutti gli oggetti con i quali avrei potuto ferirmi in qualsiasi modo e dovevo tenere sempre le porte aperte, anche quella del bagno, cosicché qualcuno potesse sempre tenermi sotto controllo mentre mangiavo e non solo.”
“Dev’essere stata dura” asserì Oberon.
“Molto, ma per fortuna lasciavano che Demi venisse a farmi visita.”
Andrew restava seduto composto, non tremava, ma ricordare era come sempre doloroso e non aveva mai avuto tanti sbalzi d’umore come in quei giorni orribili in ospedale, nei quali si era reso conto di essersi ritrovato per proprio volere a un passo dalla morte. Si era incolpato di essere stato troppo debole, detto che se solo fosse stato un po’ più forte avrebbe potuto evitarlo, ma non era servito a niente. Solo il tempo, l’aiuto della psicologa, di uno psichiatra, di Demi e delle bambine e sì, anche dei farmaci, tutti uniti alla sua forza, erano stati utili a farlo riprendere un po’, ma la strada era lunga. Aveva avuto ancora pensieri simili, soprattutto riguardanti l’autolesionismo, superarli era stato difficilissimo, ma l’aveva fatto senza procurarsi altre ferite. Non voleva ricaderci.
Terminato il racconto, l’uomo si appoggiò allo schienale della sedia e prese con mano tremante il bicchiere d’acqua che Eliza gli porgeva.
“Ci ho messo anche limone e zucchero.”
“Grazie, cara.”
Nessun altro parlò. Molti non se la sentivano di giudicare il suo gesto, perché non erano nella testa di Andrew e non capivano fino in fondo il dolore che provava. Chi tenta il suicidio, questo l’avevano capito, non lo fa per attirare l’attenzione, ma perché dietro ci sono delle motivazioni serie, una sofferenza estrema a causa della quale la persona in questione non riesce a chiedere aiuto, o pensa che non ne valga più la pena e che non ci sia più speranza. Noah seguitava a intrecciare le mani in grembo per separarle e riunirle.
“Amore, tutto bene?”
Sky gli accarezzò una spalla.
Pur non apprezzando quel tocco in un momento simile, Noah lasciò fare, annuì e guardò Andrew negli occhi con un’espressione indecifrabile.
“Non ti senti un egoista?” sbottò.
L’altro si limitò a fissarlo, non ritenendo saggio parlare, non ancora.
“D’accordo, non è facile chiedere aiuto, ascoltando le vostre storie l’ho capito. Ma arrivare addirittura a questo? Hai fatto soffrire Demi, con la quale forse stavi già insieme, e che ti ama con tutto il cuore.”
L’altro serrò i pugni. Non l’avrebbe mai colpito, ma chiudere le mani a quel modo fu più forte di lui. Anche se Noah non poteva comprendere fino in fondo il suo malessere, non avrebbe dovuto permettersi di dare un giudizio in maniera così diretta. Accidenti, c’era modo e modo di dire le cose. Spiazzato, deglutì a vuoto. Le parole di Noah l’avevano ferito, anche se non lo conosceva molto, facendo riaffiorare il senso di colpa che aveva provato per mesi dopo il tentativo di suicidio e sul quale, anche se non ne parlava quasi mai con Demi, continuava a lavorare con la sua psicologa, dato che ogni tanto ritornava a perseguitarlo. Demetria aprì la bocca, ma Andrew la fermò.
“Ci penso io” mormorò, poi si rivolse a Noah. “Sì, stavamo già insieme e sì, lo so e non sai quanto mi sono sentito da schifo per questo. Il dolore ci fa fare cose che non ci saremmo mai aspettati. La mente umana sembra forte, ma in realtà è fragile. Avrei potuto fermarmi e cambiare idea? Sì, se in quel momento fossi stato abbastanza lucido per capirlo, ma per qualche motivo a me sconosciuto non lo ero. Mi trovavo sull’orlo di un buco nero, anzi in parte ci ero già dentro, e vedevo solo il buio, la morte come unica via di salvezza, la sola cosa che mi avrebbe aiutato a non sentire più dolore.”
Noah non era il solo a pensare che tentare di farla finita fosse un atto di egoismo. Molti, sulla Terra, erano purtroppo della medesima idea, forse perché non avevano mai avuto la sfortuna di arrivare a un punto in cui pensavano non sarebbe stato più possibile tornare indietro, perché non avevano mai nemmeno immaginato che la loro fine sarebbe avvenuta in quella maniera. Andrew non se la sentiva di giudicare il ragazzo, di dire che era uno stronzo a causa della sua opinione. Per un momento l’aveva fatto, ora si diceva che, nonostante il commento di Noah fosse stato insensibile e non essere compreso facesse più male di una pugnalata, era contento che lui non fosse mai arrivato a riflettere su quelle cose. Anche se non era detto che fosse così. Aveva conosciuto, molti anni prima, un ragazzo che aveva tentato il suicidio a seguito della morte del suo migliore amico; dopo tempo aveva commentato che, se avesse incontrato una persona che aveva tentato di uccidersi, le avrebbe dato dell’egoista e fatto capire che aveva sbagliato e che avrebbe dovuto solo vergognarsi di questo, perché il suicidio non è la soluzione. Grazie a Dio non l’aveva più rivisto, perché se allora era rimasto male per il suo commento, dopo quanto accaduto ci sarebbe stato ancora peggio. Anche se sia lui che Demi avevano riconosciuto il suo errore, lei non gliel’aveva mai fatto pesare.
“Io non ti giudicherò mai, Andrew” disse Christopher. “E raccontandolo dimostri di essere più coraggioso di quanto credi. Non avrai superato questo trauma, ma lo stai affrontando. Dire ad alta voce cos’è successo è un buon modo per fronteggiare la sofferenza e non solo.”
“Nemmeno io lo farò” intervenne Sky mentre Kaleia annuiva, d’accordo con lei. “Avrai anche sbagliato, come dici tu, ma non saresti mai arrivato a tanto se la vita non ti avesse dato tutte queste disgrazie. A volte porta proprio allo stremo, a quanto pare.”
L’uomo si asciugò gli occhi umidi di pianto e sorrise per ringraziare, non trovando parole sufficienti.
“Cosa… cos’hai risolto tentando di compiere questo gesto?”
La voce di Noah, più acuta in quel momento, lo fece sussultare.
“Adesso smettila!” lo ammonì la fidanzata. “Non ti sembra che stia già soffrendo a sufficienza?”
Il ragazzo si addolcì.
“Scusami, Andrew, non voglio farti star male in alcun modo. Non so nemmeno se credo che il tuo gesto sia egoista, a dire la verità non ho idea di cosa pensare. Vorrei solo capire.”
“Non devi rispondere se non te la senti” gli fece notare Sky.
“Non vi preoccupate. Ora che l’ho fatto e che non sono morto…” Tutti furono percorsi da un brivido gelido lungo la schiena a quella parola, anche lui. “Dicevo, adesso ti rispondo che non avrei risolto niente ammazzandomi. Ma allora era diverso. La mia speranza si era spenta del tutto, non vedevo più una ragione per vivere, né per me stesso né per nessun altro e pensavo che il suicidio fosse una soluzione, l’unica soluzione. Se tornassi indietro e provassi le medesime sensazioni, non so che cosa farei, ma mesi fa è questo che è successo. Ho provato a contrastare tutto ciò, ho lottato fino alla fine contro il dolore, contro quella voce che mi diceva di tagliarmi, ma la mia testa non era più connessa al presente ormai, pensava già alla morte.” La sua voce si era arrochita per lo sforzo di ricordare momenti tanto drammatici e tossì. La gola gli doleva come se non bevesse da giorni. “So che anche questa tematica è difficile da comprendere per voi, che nel vostro mondo nessuno si sarà mai tolto la vita e che il solo pensiero vi sconvolge. Ma purtroppo negli Stati Uniti, dove viviamo noi, il suicidio è la terza causa di morte.”
“Sono parole forti, le tue” sussurrò Kaleia, “ma anche vere, lo sento dal tremolio della tua voce, dallo sforzo che stai compiendo e ti ringrazio per questo.”
“Ci avete parlato di tematiche delicatissime alle quali non avremmo mai pensato e aiutati a riflettere e anche arricchiti” continuò Oberon.
“Grazie a voi abbiamo imparato cose nuove, che non avremmo mai saputo senza la vostra presenza” proseguì Isla e sorrise appena. “Questa, forse, si può ritenere una cosa positiva in mezzo a tutto il vostro dolore.”
Eliza spiegò che sì, per loro quell’argomento in particolare era inconcepibile. La vita era troppo preziosa, per quanto potesse essere difficile, per togliersela, anche se conoscevano il significato del termine.
“Forse,” aggiunse Isla, “essere circondati dalla natura aiuta noi e molte altre creature a non pensare nemmeno per un attimo a cose tanto orribili.”
“Siete fortunati” mormorò Demi. “Anche noi vorremmo vivere sempre in questa pace.”
Con noi si riferiva non solo a lei e ad Andrew, ma anche a tutte le persone che, nel suo mondo, soffrivano. Forse stare a Eltaria avrebbe potuto aiutare tanti a vivere una vita non certo perfetta o priva di problemi, ma più facile e meno tortuosa.
“Prima di farlo ho ascoltato una canzone di un gruppo chiamato Radiohead, che si intitola How To Disappear Completely, cioè Come scomparire completamente.”
Demi lanciò uno sguardo interrogativo al suo ragazzo.
“Ce l’ho nel cellulare, se vi va di ascoltarla.” Non avrebbe mai voluto farlo stare ancora più male. “Posso?”
Lui annuì.
La ragazza la trovò e la fece partire. Fin dalle prime note, tutti si resero conto che il suono di alcuni strumenti assomigliava a un lamento, il pianto inconsolabile di una persona che ha perso la speranza e si dissero che forse mesi prima Andrew stava piangendo, o avrebbe voluto ma non ci era riuscito.
That there, that’s not me
I go where I please
I walk through walls
I float down the Liffey
I’m not here
This isn’t happening
I’m not here, I’m not here
 
In a little while
I’ll be gone
The moment’s already passed
Yeah, it’s gone
 
And I’m not here
[…]
Demi tradusse per tutti, fermandosi più volte per ricacciare indietro le lacrime. Al solo sentir parlare di un momento che era già passato, che se n’era andato e che la persona in questione sentiva di non essere lì, tutti capirono a cosa si riferiva o, almeno, a ciò a cui Andrew aveva associato quella canzone.
L’uomo terminò dicendo che stava continuando ad andare dalla psicologa e che si sentiva meglio, ma che non avrebbe mai dimenticato quell’esperienza.
“Così ora sapete tutto” sussurrò Demi alla fine. “Speriamo di non avervi turbati troppo.”
“Grazie per l’estrema fiducia che ci avete accordato” riprese Noah.
“Siete entrambe persone speciali, non dimenticatelo mai” si raccomandò Isla.
Tutti si strinsero in un abbraccio di gruppo pieno di affetto e calore dei quali Andrew aveva bisogno, perché a volte non servono altre parole, bastano i gesti.
“Grazie, ragazzi” sussurrò. “Vi ringrazio per tutta la comprensione, non so come…”
“Cerca di stare bene,” gli rispose Eliza con voce vellutata, “e ci avrai ringraziati abbastanza.”
 
 
 
Quando gli Hall tornarono a casa e gli altri rientrarono, Mackenzie era in piedi e li stava osservando già da un po’. Non aveva aperto la finestra per non ascoltare, la tentazione era stata forte, ma si era detta che non desiderava mancare loro di rispetto. Aveva capito una cosa, però: doveva trattarsi di un argomento serio dato che quasi nessuno sorrideva o, se qualcuno lo faceva, accennava un sorriso che si spegneva subito. Forse la mamma aveva raccontato una delle cose tristi che le erano accadute in passato, o il papà aveva parlato della zia Carlie e del fatto che ora era in cielo con Gesù. Lei non sarebbe mai riuscita a dire a Eliza e alla sua famiglia dei propri genitori biologici, per quanto si fidasse di tutti loro non l’aveva mai fatto nemmeno le volte precedenti, ma era sicura che la mamma l’avesse già raccontato.
Spiegherò tutto a Mahel e Harmony?
Le due non sapevano che era stata adottata, lei non ne aveva ancora fatto parola dato che le conosceva poco. Ma se le avessero posto qualche domanda sui propri genitori avrebbe dovuto, e anche voluto dirlo perché non si vergognava affatto della propria adozione, né provava paura nel parlarne. La difficoltà, però, sarebbe arrivata dopo.
“E dove sono la tua vera mamma e il tuo vero papà?” avrebbero potuto chiederle.
Come rispondere, allora? Che erano morti e che un uomo cattivo li aveva uccisi davanti agli occhi suoi e di Hope? No, avrebbe sicuramente avuto una crisi, e nemmeno tanto leggera. Forse un flashback nel quale avrebbe rivissuto il trauma, o un attacco di panico o chissà cos’altro, tutte cose che gli insegnanti non sarebbero riusciti a gestire.
Io in questo sogno sono felice. Voglio continuare a esserlo.
Almeno lì, per un altro po’. Pregò Dio affinché quel desiderio si avverasse. Se le fosse stata fatta qualche domanda, avrebbe detto che non se la sentiva di rispondere. Era sicura che sarebbe tornata a Eltaria ancora, forse per anni o, chissà, per sempre, e che avrebbe rivisto Mahel e Harmony.
“Ciao Mackenzie!” la salutò la mamma e le diede un bacio.
Ciao. Dormito bene?
“Sì, grazie. Tu?”
Anch’io.
 
 
 
Demi sperò che le avrebbe visto fare più spesso, nella realtà, sorrisi luminosi come quello. Andò a svegliare Hope, la cambiò, la vestì e tornò con lei in cucina. Mackenzie si era infilata da sola una tuta da ginnastica e le scarpe, perfino pettinata, anche se Demi dovette comunque sistemarle i capelli e tutti furono pronti.
“C’è il dolce che ho preparato per voi ieri” trillò Sky aprendo il frigorifero mentre Eliza disponeva piatti, tazze, tovaglioli e cucchiai sul tavolo della cucina.
“Ci hai fatto una torta? Non ne sapevamo niente.”
“Ne erano a conoscenza solo le bambine e Noah, che mi ha aiutata a farlo, Demi. È una sorpresa per tirare su a tutti il morale. Sono stati giorni intensi per tutti, ma soprattutto per voi due” e indicò Andrew e la cantante “e ho pensato di fare qualcosa per aiutarvi a sentirvi meglio.”
I fidanzati sorrisero.
Quello di Sky era un gesto piccolo ma dal significato profondo. Si era preoccupata per loro volendo dare una mano come poteva. Non era da tutti, soprattutto visto che si conoscevano da solo una settimana esatta.
“Sei gentilissima, Sky, ti ringrazio” le rispose Demi abbracciandola.
“Infatti, grazie. Ma non avresti dovuto, non era necessario.”
Andrew le strinse la mano.
“Lo era, invece. Spero che la vita sarà più dolce con voi da ora in avanti.”
Festeggiarono brindando in modo insolito, sollevando tazze di latte o tazzine di caffè e gustando una torta golosa e dalla consistenza perfetta. I biscotti erano stati sminuzzati grossolanamente, ma non erano troppo grandi e si erano amalgamati bene al burro, alle uova e al cioccolato, che non risultava troppo amaro ma nemmeno dolcissimo.
È ottimo, Sky, bravissima!
“Sono felice che ti piaccia, Mackenzie.”
“Nella saga Kaleia non ha mai detto che eri tanto brava in cucina.”
“Anch’io ho i miei talenti nascosti, Demi.”
Tutti risero.
“La verità,” si intromise Eliza, “è che non sa cucinare molte cose.”
“Già, solo un paio di torte, la pasta e poco altro. Il che è preoccupante visto che ho ventiquattro anni, ma la mamma mi sta insegnando pian piano.”
“E a me nessuno fa i complimenti? L’idea è stata sua, ma come ha detto ho aiutato” puntualizzò Noah con voce lamentosa.
Andrew, Demi e Mackenzie si scusarono e gli diedero i suoi meriti.
Dopo colazione, Eliza consegnò alle bambine un piccolo zainetto leggero. Dentro c’erano una bottiglietta d’acqua, un succo di frutta e una brioche al cioccolato, nel caso durante la gita avessero avuto fame o sete. Demi la ringraziò per quel gesto tanto gentile e poco dopo lei, Andrew, Eliza, Chris e Kaleia partirono.
Perché venite anche voi a scuola? Chiese Mackenzie a fata e protettore.
“Non ve l’avevamo ancora detto, ma io e Kaleia vi accompagneremo oggi in gita. Siamo noi i volontari dei quali forse avete sentito parlare. Io starò con le due classi dell’asilo e Kaleia con la vostra, Mackenzie.”
Davvero?
La bambina non poteva crederci. Si era domandata chi li avrebbe accompagnati, ma mai si sarebbe immaginata che si trattasse di loro due. Kaleia era una fata, credeva che la mattina si allenasse e che non avesse tempo per questo.
“Sì, piccola. Stamattina niente allenamenti per me, ma non sarà un problema. Con la gravidanza faccio comunque meno sforzi e anche al mio piccolo o, chi lo sa, ai miei piccoli forse, farà bene stare all’aria aperta e immergersi con me ancor di più nel bosco e nella natura” rispose la ragazza, allegra.
“Pensi che saranno più di uno?” le domandò Demi, curiosa.
Aveva sempre sentito dire che le donne incinte hanno un sesto senso, che a volte riescono a indovinare il sesso grazie a loro sensazioni, o che se la pancia è più a punta potrebbe trattarsi di una femmina mentre se è più tonda di un maschio. Certo erano tutte credenze popolari, ma Dianna ne aveva parlato quand’era rimasta incinta di Madison, anche se non aveva nemmeno provato a indovinare il sesso. Con Demi aveva sbagliato, credendo sarebbe stato un maschio. E pensare che aveva anche scelto il nome: Dylan, perché si sposava bene con quello della figlia maggiore, Dallas. Quindi con Madison aveva fatto qualche congettura ma alla fine, Demetria lo ricordava bene, aveva detto che anche se si fosse trattato di un’altra bambina, lei l’avrebbe amata più della sua stessa vita come faceva con le altre due.
La voce di Kaleia la riportò al presente.
“Non saprei. Noi fate siamo connesse ai nostri piccoli fin dall’inizio, nel senso che per esempio li sentiamo muovere un po’ fin dai primi mesi, non solo dal quarto in poi, ma questo non mi aiuta a immaginare se saranno più di uno, né tantomeno il sesso. Posso solo dirti che mi auguro che nasca sano. Mi piacerebbe avere una femminuccia, ma anche fosse un maschietto andrebbe benissimo lo stesso.”
Poco dopo la fata disse agli altri di aspettarla un momento, si precipitò dietro un albero e, per quanto amasse la natura, non riuscì a trattenersi. Le sfuggì un conato di vomito e sputò saliva, ma per fortuna nulla di più. L’ondata di nausea che l’aveva assalita era stata forte, causata dall’odore di un fiore che al momento non riconosceva, ma che il bambino non aveva gradito.
Quando tornò, Christopher le passò dell’acqua dal suo zaino.
“Grazie.” Bevve a piccoli sorsi, poi riprese: “Scusate. Ce l’ho sempre al mattino, a stomaco vuoto, ma a volte anche durante e dopo colazione, come in questo caso.”
“Tranquilla, è normale” la rassicurò Demi. “Nel nostro mondo ci sono donne che invece la provano al pomeriggio o la sera, anche per tutto il giorno o di notte. Non c’è una regola fissa, ma le nausee dovrebbero passare presto.”
“Ti ringrazio.” Sapeva che tutto era nella norma, ma una rassicurazione in più non faceva mai male. “Lo spero, perché non sono tanto leggere.”
Kaleia prese qualche respiro profondo, bevve ancora, mangiò un pacchetto di cracker che si era portata e, non appena si sentì meglio, tutti ripresero il cammino.
Perché il bambino fa star male Kaleia, mamma?
“Non è colpa sua, tesoro. È il corpo che si deve ancora abituare un po’ alla presenza del piccolo. Ma andrà tutto bene, promesso. Ora sta meglio, vedi? E presto il malessere passerà.”
La bambina annuì e sorrise.
In realtà la spiegazione non era così semplice. Demetria aveva letto che le cause delle nausee non sono chiare, l’ipotesi è che vengano per proteggere mamma e bambino da cibi potenzialmente pericolosi per la loro salute o perché in gravidanza aumenta il livello di alcuni ormoni. Ciò che sapeva per certo, e su cui si affrettò a rassicurare la figlia, era che la nausea non è un sintomo che qualcosa non vada.
Una volta che Mackenzie e Hope furono in classe, Chris e Kaleia attesero fuori dalla Penderghast e gli altri si diressero all’orfanotrofio per un’altra giornata di lavoro.
 
 
 
Le due sorelle non stavano più nella pelle. La più piccola aveva ascoltato Lucy parlare e la mamma e il papà avevano detto che anche lei, con i propri compagni, sarebbe andata al Giardino. Ma quando? E dov’era? E come mai lì all’asilo non ce n’era uno? Sì, esisteva un cortile con qualche giostrina, ma il verde non era molto. Prima di partire le insegnanti raccolsero le circolari firmate, come Mister Baxter nella classe di Mac, fecero uscire tutti i bambini e li lasciarono sfogare. Hope corse, saltò, andò sullo scivolo e fece su e giù per diverso tempo, infine volle salire su un’altalena e la maestra la spinse.
“Più alto! Più alto!” gridava, mentre la donna aumentava la velocità e lei rideva.
“Tieniti sempre, mi raccomando, Hope.”
 “Sì.”
Dopo una ventina di minuti, le insegnanti riunirono i bimbi in cerchio in mezzo al cortile e imposero il silenzio.
“Oggi andremo al Giardino di Eltaria” iniziò la maestra di Hope, più anziana, passandosi una mano tra i capelli ricci e grigi. “I bambini più grandi ci andranno un altro giorno. Vedremo gli animali e impareremo tante cose. Ma è un posto tranquillo, non bisogna fare tanto rumore.”
“Esatto” proseguì l’altra, con i capelli lunghi e biondi che le ricadevano lungo le spalle fino alle scapole. Il suo viso aveva meno rughe di quello dell’altra e sorrideva sempre. “E ci saranno anche alcuni bambini del primo anno delle elementari, solo una classe. Ma anche se non potrete fare tantissima confusione sarà divertente, promesso.”
Dopo averli contati e detto i nomi e i cognomi per sicurezza, le maestre li misero in fila per due, si posizionarono una in testa e l’altra alla fine della coda e partirono.
 
 
 
Nella classe di Mackenzie fu tutto più tranquillo. Mister Baxter fece sedere tutti ai propri posti e l’appello. Parlò loro del fatto che avrebbero imparato tante cose su piante e animali e consigliò ai bambini di portare un quadernino per scrivere qualche appunto, più che altro per avere un ricordo della gita. Nessuno ne aveva uno, come l’uomo aveva immaginato. Del resto, chi porta qualcosa inerente alla scuola in un giorno del genere?
“Li ho presi io per voi” concluse, distribuendoli.
I bimbi lo ringraziarono.
“Verrà qualche altra classe?” chiese Mahel.
“Alcune del vostro anno ci sono già state, una alla volta per non creare confusione, ma oggi con noi ci saranno i bambini più piccoli dell’asilo.”
“Conoscerò meglio tua sorella!” esclamò emozionata Harmony.
Già. Ti avverto, a volte è una peste.
“Oh, dai, non sarà poi così male.”
Prima conoscila davvero e poi vediamo.
Mahel e Harmony risero.
“Con noi verrà anche Kaleia, una fata che ha deciso di proporsi come volontaria, mentre per l’asilo sarà presente suo marito.”
“Non sono quelli che ti ospitano?” domandò Mahel.
Lo fa la mamma di lei, ma sì.
Il brusio nella classe era continuo. Mackenzie non aveva portato Lilia, così come Hope aveva fatto con Agni. Forse non si sarebbero annoiati durante la gita, ma per le due era più facile imparare senza di loro, soprattutto per la più grande che avrebbe anche dovuto scrivere e, magari, toccare qualche pianta, non avendo quindi il tempo di occuparsi di una cagnolina, per quanto la amasse. I due cuccioli si erano lamentati ma Mackenzie aveva promesso loro, con un sorriso e qualche carezza, che sarebbero tornati tutti presto. E comunque Sky era a casa, quindi avevano compagnia.
L’insegnante disse che sarebbero partiti a breve, il tempo di segnare che erano tutti presenti, ma i bambini continuavano a parlottare, alcuni come Mackenzie stringevano le mani a pugno, altri muovevano le gambe o battevano piano i piedi a terra. L’uomo sorrideva, contagiato dal loro entusiasmo. Quando si alzò e i piccoli lo seguirono ed esplosero in un grido di gioia. Mackenzie, Harmony e Mahel si abbracciarono, altri spiccarono un salto, poi però si ricomposero, si misero in fila per due e uscirono con l’insegnante in testa.
“¡Esperadme! Vengo anch’io.”
Mister Ramirez li raggiunse correndo in corridoio.
“Non hai lezione, oggi, Carlos?” gli chiese Alan Baxter.
“No, domani. Oggi sarebbe stato il mio día libre, ma ieri ho parlato con la Direttrice e detto che, dato che i bambini non sono pochissimi, sarebbe stato meglio essere in due. Mi fido di te, Alan, ma in due es más fácil. Mi ha dato il permesso di partecipare ed eccomi qui.”
Mackenzie gli sorrise, felice di rivederlo.
“Perfetto, benvenuto a bordo.”
I bambini risero per quella frase e l’uomo si avvicinò proprio a Mac.
“Ciao. Allora, sei felice di andare a conoscere un altro luogo del nostro mondo?”
Contentissima, Mister Ramirez! rispose con un gran sorriso.
Quando vide Kaleia, la piccola si limitò a sorriderle e a salutarla con la mano in modo che i compagni non le facessero domande o non pensassero che la fata preferiva lei rispetto a loro. Meglio evitare problemi almeno in quel sogno, visto il bullismo vissuto a scuola. La classe camminò verso il Giardino con i bimbi dell’asilo a poca distanza. E mentre le chiacchiere riempivano l’aria di allegria, Mackenzie non smetteva un attimo di scrivere per parlare fitto fitto con le compagne.
 
 
 
CREDITS:
Radiohead, How To Disappear Completely
 
 
 
NOTE:
1. nel memoir Dianna scrive che cedeva Demi sarebbe stata un maschio e che avrebbe desiderato chiamarla Dylan per il motivo di cui abbiamo parlato.
2. Non sono riuscita a trovare informazioni su cosa succede dopo un tentato suicidio in California. Non ho parlato dell’esperienza in psichiatria perché non ci sono mai stata, né ho letto abbastanza testimonianze da capire davvero come sia vivere là dentro. Ma ho precisato la questione dello psichiatra, lo psicologo e delle porte aperte e gli oggetti tolti perché ne ho sentito parlare in una delle esperienze che ho ascoltato su YouTube, e mi pareva appropriato aggiungerlo, dato che Andrew era considerato un paziente che doveva essere controllato, in quanto avrebbe potuto ritentare il suicidio in qualsiasi momento.
Mi rendo conto che una cosa del genere si può fare solo in psichiatria e non nel resto dell’ospedale, ma per quanto ci abbia pensato non sono riuscita a fare meglio di così. In ogni caso, cerco sempre di scrivere cose realistiche, o più veritiere possibili.
3. ¡Esperadme! = aspettatemi!
   
 
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