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Autore: ONLYKORINE    24/03/2021    8 recensioni
Amélie ha sedici anni e vive sull'isola con il padre e il fratellino Jerome. Un giorno scopre che Jerome tutte le sere porta all'orecchio una conchiglia e sorride. Cosa sentirà? Sarà una melodia? O una canzone? E soprattutto, perché lei non sente niente?
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La canzone del cuore

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Amélie asciugò l’ultimo bicchiere e lo ripose nello scomparto in alto, poi sciacquò la superficie del lavello e passò lo straccio per asciugare. Si diresse velocemente verso la sua camera per prendere il canestro con le foglie di palma: dopo cena andava sempre sulla spiaggia per fare cestini di foglie intrecciate da vendere ai turisti. Le piaceva guardare il tramonto e vedere il sole sciogliersi nel cielo come una saponetta lasciata troppo nell’acqua.

Stava uscendo dalla sua stanza quando, dalla porta aperta sul corridoio vide il suo fratellino prepararsi per andare a letto. Jerome aveva dodici anni, ma non era come gli altri bambini: lui viveva in un mondo tutto suo, fatto di regole, misure e numeri. Amélie si morse il labbro quando lo vide piegare i calzini prima di metterli nella cesta dei panni sporchi. Chi piegava i calzini per metterli da lavare? Nessuno che lei conoscesse, nessuno a parte Jerome.

Suo padre le passò accanto e si fermò a guardare oltre la porta anche lui. Amélie si girò verso l’uomo che le sorrise, triste; non aveva più visto suo padre sorridere da quando la mamma li aveva abbandonati, sei mesi prima.

“Vai alla spiaggia?” le chiese e Amélie annuì: era il posto in cui si rilassava, in cui le piaceva stare da sola a pensare. Le fece un cenno con il capo ed entrò in bagno.

Tante volte si era ritrovata a pensare a lui, al suo silenzio, al suo modo di stare in disparte. Era la mamma quella solare, di loro due. Sua madre si era trasferita sull’isola perché amava suo padre, ma era nata in Francia e non aveva mai perso del tutto il suo accento, tanto che qualcuno del villaggio la chiamava ‘la straniera’ o ‘la francese’. Lei rideva di questi soprannomi e non se la prendeva mai. Loro, invece, da quando erano rimasti soli facevano fatica anche a parlarsi.

Amélie si girò e spostò di nuovo lo sguardo verso il fratellino e lì si bloccò: Jerome stava sorridendo. E se c’era una cosa che faceva ben poche volte, era sorridere. Non perché fosse un bambino capriccioso o sempre arrabbiato: semplicemente rideva poco.

Così rimase a fissarlo: i denti, regolari e bianchissimi, erano mostrati appena nello spazio fra le labbra, in un sorriso quasi sognante. Poi, come era apparso, il sorriso svanì. Amélie fece appena in tempo a rendersene conto, ma era convinta di averlo visto davvero. Jerome aveva sorriso. Scosse le spalle e, velocemente, uscì dalla porta della cucina: doveva arrivare sulla spiaggia presto, altrimenti si sarebbe fatto subito buio.

Arrivata in spiaggia, si sistemò sulla sabbia, nel suo angolino preferito, vicino a una duna. Il mare era mosso in modo gentile, senza tempeste, ma con onde di media altezza. Amélie lo continuò a guardare, ipnotizzata: non era più entrata in acqua da quando la mamma se n’era andata.

Si mise a intrecciare le foglie in un gesto che conosceva da quando era bambina e continuò così, lanciando ogni tanto qualche occhiata al sole che si tingeva di fuoco e spariva nell’oceano. Solo un’altra persona era lì con lei: un ragazzo, probabilmente più grande, che stava facendo surf. Ed era bravo. Lo aveva visto anche nei giorni precedenti, ma doveva essere un turista, anche se non era alta stagione.

Quando il ragazzo uscì dall’acqua e lei alzò il viso dal suo intreccio, lui sollevò la mano in un gesto di saluto. Amélie si alzò di scatto, radunando velocemente tutte le sue cose, e dirigendosi verso casa, anche se di solito rimaneva sulla spiaggia ancora un po’, dopo che si era fatto buio.

Arrivò a casa trafelata e si appoggiò alla porta della cucina, una volta che l’ebbe chiusa alle sue spalle. Quando il cuore riprese regolarmente il suo battito, si diresse in camera sua nel silenzio e si preparò per andare a letto.

 

***

 

Il giorno dopo, Amélie guardava suo fratello che faceva colazione: non c’era niente di diverso in lui, infatti non sorrise mai, per tutto il giorno.

Prima di andare a letto, la ragazza si appoggiò al muro del corridoio, proprio vicino alla stanza di Jerome e lo spiò. Sì, lo stava spiando, non c’era un altro modo per descrivere ciò che stava facendo, ma Amélie voleva proprio sapere cosa aveva scatenato il sorriso sul volto del ragazzino il giorno prima.

Riuscì a osservarlo per ben venti minuti, in tutte le sue piccole manie, i gesti ripetuti, le cose spostate e rimesse a posto, fino a quando la ragazza non vide, sul comodino di Jerome, una conchiglia. Era una di quelle grosse conchiglie con le striature, quelle che in paesi dove il mare non c’era le fabbriche realizzavano con la plastica, ma lì da loro, si trovavano praticamente ovunque.

Era una bella conchiglia, chiara, con delle linee dalle sfumature rosa e blu che scivolano sulle coste rigide. Il ragazzino la prese e la portò all’orecchio. In quel momento il suo viso si distese: gli occhi chiusi, il mezzo sorriso sulle labbra e il volto in estasi, come se fosse cullato dal mare.

Poco dopo, Jerome appoggiò di nuovo la conchiglia sul comodino e radunò le cose per andare in bagno a prepararsi per dormire. Amélie si spostò dal corridoio e aspettò che lui lasciasse la stanza per precipitarsi dentro.

Una volta davanti al comodino del fratello, allungò la mano e prese la conchiglia, soppesandola: era spessa, infatti era più pesante dalle solite conchiglie, ma per il resto non aveva niente di particolare. La portò all’orecchio, lanciando allo stesso tempo occhiate alla porta, ma non sentì niente. La portò davanti agli occhi, era normale che non si sentisse niente: solo nelle storie e nei film, dalle conchiglie si sentiva il rumore del mare.

Jerome tornò in quel momento e la trovò lì. “Che fai?”

Amélie scosse la testa e le spalle, in un gesto noncurante. Si avviò verso la porta per uscire e andare in spiaggia ma poi, troppo curiosa, sull’uscio si fermò e si girò verso il fratello. “Cosa senti nella conchiglia?”

Jerome, un bambino che sua madre chiamava ‘il mio ometto speciale’, inclinò la testa e le disse: “Sento la mamma che canta la sua canzone”.

Amélie spalancò gli occhi: la mamma cantava prima di andare a letto. Era un suono che lei ricordava ancora e doveva essere la stessa cosa per Jerome. Nell’imbarazzo di non poter dire di sentirla anche lei, annuì e uscì dalla stanza velocemente, scontrandosi con suo padre sull’uscio. Dal suo sguardo triste la ragazza capì che aveva sentito la conversazione, così si affrettò a raggiungere la spiaggia.

Mentre intrecciava le foglie nervosamente, Amélie ripensò a sua madre: sei mesi prima era morta a causa di un brutto male. Aveva passato l’ultimo mese di vita a letto ed era spirata come una foglia di palma dimenticata al sole.

Un mese dopo la sua morte, Amélie aveva scoperto che sua madre non aveva voluto curarsi, ma aveva preferito lasciarsi morire. Era una cosa che l’aveva fatta arrabbiare: se si fosse curata, ora sarebbe stata lì con loro. Aveva sentito il dottore dire a suo padre che lei ‘aveva fatto una scelta’, ma secondo Amélie, sua madre aveva semplicemente deciso di non combattere e così aveva perso. Aveva perso loro e loro avevano perso lei. Era una cosa che la riempiva di rabbia.

“Ciao, Amélie.”

La ragazza sobbalzò al suono di quella voce. Alzò gli occhi e guardò il ragazzo con la tavola da surf, in piedi lì vicino a lei, mentre i suoi capelli scuri gocciolavano acqua salata e il suo sorriso sfrontato la faceva sentire più piccola dei suoi sedici anni.

“Ci conosciamo?” chiese, quasi balbettando. Si guardò intorno per vedere se ci fosse qualcun altro a parte loro sulla spiaggia e si rese conto che si stava facendo buio. Presa com’era dai pensieri di sua madre non si era accorta del tramonto.

“Sono Hiapo, non ti ricordi di me?” Il sorriso del ragazzo si spense, ma sul viso di  Amélie se ne dipinse uno spontaneo, mentre realizzava le sue parole.

“Hiapo! Non ti avevo riconosciuto!” Hiapo era un ragazzo dell’isola, prima che se ne andasse in un college del continente, e abitava in fondo al paese; loro erano cresciuti insieme. Amélie continuò a guardarlo, cercando di memorizzare tutti i suoi cambiamenti: non lo vedeva da due anni.

“Mi hanno detto che sono cambiato molto… neanche mia nonna mi ha riconosciuto” esordì, quasi imbarazzato. “Vieni ancora tutte le sere. Ma non hai mai fatto il bagno: una volta…” disse, mentre si asciugava i capelli con un asciugamano.

Amélie lo interruppe prima che lui raccontasse di quando passavano tutta l’estate nell’acqua. “Non nuoto più… da dicembre…”

Lui annuì e lei lo vide un po’ in imbarazzo. Amélie immaginò che sapesse già tutto. “Mi spiace di non essere tornato per il funerale…” disse, infatti. La ragazza scosse le spalle e lui le si sedette accanto.

“Mio padre dice che sei arrabbiata.”

Amélie sbuffò: il padre di Hiapo era il dottore che aveva curato sua madre e le loro famiglie si conoscevano da tutta la vita.

“Ma che ne sa tuo padre? Io non sono arrabbiata per niente!” La voce stridula e nervosa contrastava con le sue parole, mentre lei si rendeva conto quanto fosse vero: era arrabbiata con sua madre. Ce l’aveva con lei per quello che le aveva nascosto, per essersi lasciata morire invece che tentare di restare in vita per lei. Ma soprattutto perché Amélie sentiva la sua mancanza ogni giorno.

Hiapo le bloccò un braccio mentre lei stava per scappare e quando Amélie, trattenendo le lacrime scosse il capo, lui continuò: “Non volevo… “

“Io… È vero, sono arrabbiata” ammise e si sgonfiò come se avesse trattenuto quel segreto da troppo tempo e si sfogasse solo in quel momento. Chissà, forse era proprio così. “Sono arrabbiata con mia madre perché se si fosse fatta aiutare, se avesse lasciato che i dottori la curassero, ora sarebbe qui. Con noi. Con me”.

Raccontò a Hiapo, l’amico d’infanzia, quello che aveva passato e di come avesse saputo che sua madre non aveva voluto cure finché non era stato troppo tardi e lei lo aveva sentito come un tradimento.

Dopo un’ora, passata seduti sulla sabbia, alla sola luce delle stelle, dopo mille aneddoti e ricordi, Hiapo l’accompagnò a casa e le disse, davanti alla porta: “Non tenerti dentro questa rabbia”. Amélie annuì e non disse che parlare con lui era già stata una medicina, che aver pianto e riso in riva al mare le aveva risollevato l’animo. Erano due anni che non vedeva Hiapo e solo in quel momento aveva scoperto quanto le fosse mancato.

Amélie entrò in casa e, quando aprì la porta della sua stanza, vide sul letto un libro con sopra un biglietto adesivo, di quelli gialli. Si avvicinò e lo prese in mano. Sul biglietto, la calligrafia di suo padre diceva: ‘Questo è il diario di tua madre. Forse può aiutarti’.

Si sedette sul letto e iniziò a sfogliare il diario: la scrittura fine ed elegante della madre le riempì gli occhi, mentre il suo cuore si colmava delle emozioni descritte. Quando, dopo svariate ore, Amélie chiuse il diario, aveva fatto una grande scoperta: sua madre non aveva rifiutato le cure, ma aveva rinunciato una terapia lunga e dolorosa che l’avrebbe portata via da casa e le avrebbe impedito di stare vicino ai suoi figli. Sarebbe vissuta più a lungo, sì, ma senza di loro.

Sua madre non aveva scelto di non lottare, aveva scelto la famiglia. Aveva scelto lei.

Era l’alba quando Amélie mise piede in camera del fratello e, senza una ragione particolare o un buon motivo, si avvicinò al comodino e prese la conchiglia.

Se la portò all'orecchio e chiuse gli occhi; quando li riaprì Jerome la stava guardando e le chiese, come se avesse capito tutto: “L’hai sentita, vero? Hai sentito la canzone del cuore?”

Lei annuì e una lacrima le scivolò sul viso. Era proprio la canzone del cuore, quella che cantava la mamma.

Dopo un’ora Amélie bussava alla porta di Hiapo.

“Andiamo in spiaggia. Voglio fare il bagno con te” disse, appena lui aprì la porta.

Hiapo sorrise e lei si sentì la ragazza più felice del mondo.

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