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Autore: Evali    27/03/2021    0 recensioni
Un villaggio isolato, un popolo spezzato in due in seguito ad una terribile calamità, due divinità da servire, adorare e rispettare in egual modo: Dio e il Diavolo.
"- Io amo gli uomini.
- E perché mai io sono andato nella foresta e nel deserto? - replica il santo. – Non fu forse perché amavo troppo gli uomini? Adesso io amo Iddio: gli uomini io non li amo. L’uomo è per me una cosa troppo imperfetta.
- È mai possibile! Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella sua foresta che Dio è morto!"
Genere: Fantasy, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Fame
 
“Caro fratello,
non sono sicuro di star scrivendo bene, come mi hai insegnato tu ...
Sai, mi mancano le nostre lezioni di lettura e scrittura insieme.
Siamo riusciti a non far scoprire nulla alla mamma e a nostro padre, e ancora adesso non sospettano nulla.
Non so per quale motivo non sto ricevendo lettere da te.
Così ho deciso di mandartene una io, nonostante non sono bravo come te a scrivere.
Qui sta cadendo tutto a pezzi, Even.
Non so cosa sta succedendo. Nel giro di qualche giorno è come cambiato tutto.
Gli stregoni sono impazziti, i monaci anche, e noi tutti con loro.
Poi, sembra che i nostri due signori si siano alleati per punirci.
Per lo meno è quello che dicono tutti.
Dicono anche che è colpa tua... tua e della ragazza dai capelli rossi, la tua amica.
Io ovviamente non credo sia colpa tua, non lo crederò mai.
E anche se è colpa tua, sono i nostri signori che sbagliano allora.
Sai, da quando te ne sei andato non mi sono mai e poi mai tolto il ciondolo che mi hai donato.
Da quando lo indosso, la mia salute è migliorata tantissimo.
Il merito è tutto tuo, mio amato fratello.
Spero che sono nei tuoi pensieri come tu sei nei miei.
Ma soprattutto, spero che stai bene.
Sappi che prego per te tutte le sere, per saperti al sicuro.
Anche nostra madre, nostro padre e padre Craig pregano per te.
Riguardo quest’ultimo, purtroppo si è ammalato. Come oramai quasi tutti.
La terribile epidemia ci sta decimando. Non sappiamo più cosa fare.
Vorrei che tornassi, ma ho paura che ti ammaleresti anche tu.
Non so che cosa sperare.
Vorrei solo che mi avessi portato con te.
Se avessi saputo che saresti stati via così tanto ...
Nostro padre dice che sono dipendente da te. Dice che dovrei imparare a stare senza di te.
Ma, quello che penso io, è che tra fratelli dovrebbe sempre essere così, giusto?
Se vuoi sapere cosa pensa la mamma, invece ... lei sta vivendo peggio di chiunque questa situazione.
Ha costantemente paura ed è tremendamente agitata per qualcosa ... a volte la sento piangere e urlare, con nostro padre a consolarla ... sembra che qualcosa, o meglio qualcuno, la stia turbando.
Vorrei sapere dove sei, Blake.
Non so dove inviare questa lettera.
Io sono qui, sempre in attesa del tuo ritorno.
 
Con amore, Christopher”
 
Christopher Ioan prese la pergamena in cui aveva scritto la lettera con una certa difficoltà nel ricordare tutte le lezioni di grammatica impartite da Blake, e la chiuse su se stessa, richiudendola poi con della cera fatta colare sull’apertura.
Dopo di che, corse a lavarsi accuratamente le mani e andò a prendere la maschera, la indossò con minuzia, poi si recò in cucina e cominciò a riempire una cassa di tutta la frutta e la verdura che trovò sul bancone.
Infine, prese il cappotto e il mantello, infilandoseli.
- Dove stai andando? – gli domandò Heloisa entrando in cucina con sguardo stanco.
- A portare delle provviste ai malati – le rispose il bambino, prendendo la cassa e accingendosi ad uscire dalla porta.
- Fa’ attenzione – si raccomandò ella, vedendolo uscire.
 
Il ragazzino si svegliò di soprassalto, sospirando, rendendosi conto di essersi addormentato per l’ennesima volta con la maschera addosso, accanto al corpo emanciato della sorella.
Ad averlo svegliato, era una mano posata delicatamente sulla sua spalla, della quale si accorse sin troppo tardi.
- Ti sei appisolato di nuovo così. Non fa bene al tuo corpo dormire con la maschera addosso e passare così tanto tempo accanto a lei.
All’udire quella voce familiare, Maringlen si scansò immediatamente come scottato, senza neanche voltarsi a guardarla.
A ciò, Myriam gli si avvicinò nuovamente, senza scoraggiarsi. – Ora non vuoi neanche più parlarmi?
- Non voglio mai più vederti, è diverso – disse duramente lui, stringendo la mano debole della sorella.
- Marin-
- Hai maledetto padre Cliamon costringendolo ad uccidere o me o lei!! – esclamò egli, svegliando alcuni degli infetti presenti nell’enorme salone. – È colpa tua se ora lei è in queste condizioni!! Solo colpa tua!
- Abbassa la voce – lo esortò ella con calma. – Sai che non è così. L’epidemia è una disgrazia che può provenire solo da una forza superiore. Tua sorella si è ammalata indipendentemente da me.
- Non provare a rabbonirmi con questi mezzucci, Myriam.
Non sei altro che una bestia, una bestia spregevole.
Avresti comunque costretto padre Cliamon a scegliere chi uccidere tra noi due, incurante delle nostre vite, quasi come fossimo un tributo, carne al macello destinata ad essere sacrificata per placare i tuoi antichi tormenti! Non fai altro che condannare chiunque pur di ottenere un po’ di illusorio conforto! Hai agito sempre e solo per te stessa, da sempre! Ma ora ... ora hai passato il limite – le disse scattando in piedi, lontano da lei.
A ciò, Myriam si guardò intorno, notando quanti di quei malati semideliranti si fossero svegliati a causa della loro discussione.
Posò lo sguardo nuovamente sul ragazzino in piedi a qualche passo da lei.
Quelle parole le rimasero incise addosso, riuscendo nell’intento di riscuoterla, anche se di poco.
- Stai crescendo, ometto – realizzò ad alta voce, continuando a mantenere la calma. – Che tu fossi molto sveglio l’ho sempre saputo, ma ora parli come un adulto. È stata anche l’influenza di quella ragazza nel periodo che hai trascorso qui, a farti diventare così maturo ai miei occhi? – gli domandò alzandosi a sua volta, e riavvicinandoglisi con cautela.
- Voglio guardarti negli occhi quando ti parlo, faccino d’angelo. Vieni, andiamo nella stanza incontaminata, così potremo respirare un po’ di aria pulita mentre parliamo.
- No – si oppose egli.
A ciò, la giovane donna lo afferrò per il braccio fermamente. – Se dovrò trascinarti per costringerti a uscire da questa sala infetta e pregna di morte, lo farò senza problemi.
Maringlen cercò di sottrarre il braccio dalla sua presa, ma ella rinforzò la presa e lo strattonò.
Notandoli a distanza, la giovane serva del Creatore dalla pelle scura, oramai nota per la sua fervida fede e la capacità di placare gli animi delle malelingue grazie alla sua fiducia nell’uomo, si avvicinò ai due. – Vi è qualche problema qui? – chiese attirando la loro attenzione, rivolgendosi soprattutto a Myriam, fissando la mano della giovane donna arpionata al polso del ragazzino reticente.
- Non sembra che costui voglia venire con voi – aggiunse, in difesa di Maringlen.
A ciò, Myriam la fissò negli occhi, studiandola.
Era una creatura interessante, quella serva del Creatore, si ritrovò a pensare la strega.
- Mi permetto di dissentire. Il mio giovane amico intende farsi pregare quando gli si fa una richiesta semplice. Vorremmo solamente spostarci nella stanza incontaminata per non svegliare i malati.
A ciò, lasciandosi convincere, Maringlen sospirò, riuscendo finalmente a sfilare il braccio dalla presa della donna. – D’accordo, d’accordo. È inutile continuare a dare spettacolo – detto ciò, si avviò per primo verso la stanza incontaminata, seguito da Myriam.
Una volta entrati, entrambi si tolsero la maschera, liberando finalmente i loro volti dalla costrizione.
Erano soli.
Myriam prese posto in una delle sedie, mentre Maringlen rimase in piedi. – Che cosa vuoi da me, dunque?
- Solo parlare, te lo garantisco.
- E di cosa, di grazia?
- Non voglio nulla da te, Maringlen, te lo ripeto. Non vi è nessun tornaconto personale questa volta.
- Non ti credo.
- Sei davvero convinto che, in tutto questo tempo che avete trascorso con noi, tu e tua sorella, io non abbia iniziato a nutrire del sincero affetto nei vostri confronti, esattamente come Beitris?
- Certo che no. Ci hai sempre e solo usati – rispose deciso egli.
- Questa volta non si tratta di ciò che bramo, Maringlen.
È la mia vendetta personale contro chi mi ha tolto tutto, anni e anni fa, quella che sto mettendo in pratica.
Non riguarda voi due.
- E invece ci riguarda eccome, perchè sono nostre le vite che stai chiedendo in dono.
È sempre stato così. Non ti è mai importato chi bisognasse sacrificare.
L’importante era ottenere quello che volevi.
Ci hai costretti a fare di tutto, mettendoci in pericolo innumerevoli volte, per trovare una dannata cura al tuo ventre sterile.
Niente ha mai funzionato, ma tu hai sempre continuato a chiedere, a pretendere, a forzarci – disse velenoso, avvicinandosi. – Anche quel bambino. Quel bambino che Beitris ha dovuto uccidere per recuperare la tua adorata Mandragora, quel bambino che ha rinchiuso dentro una teca di vetro come fosse una statua da adorare e servire, di giorno in giorno.
Alla fine ha funzionato? No, non ha funzionato neanche la pianta maledetta.
Quel sacrificio, come tanti altri prima di lui, non sono serviti a nulla.
E tu, tu continui a struggerti per questo.
La freddezza con cui disse tutto ciò, con le luminose iridi di miele impenetrabili puntate sulle sue, la sorprese non poco.
- Maringlen.
Ho sbagliato, me ne rendo conto.
- È tardi per rendersene conto.
- Ne sono consapevole – rispose, rimanendo in silenzio, restando a guardarlo, così come egli fece con lei.
Inconsciamente, lo sguardo le si posò su uno dei complessi disegni, di linee nere tracciate con cura, che marchiavano il suo corpo e la sua pelle indelebilmente, facendo comprendere a chiunque lo guardasse, a quale compagnia appartenesse. Allungò la mano sul suo collo, sfiorando una piccola porzione di quel marchio, armonioso e bello da guardare. – Lo ricordi? – gli domandò. – Questo te lo feci io, quando avevi all’incirca sette anni. Eri una piccola bestiolina inferocita, e tua sorella più di te. A Maroine lo fece Ephram, invece.
Maringlen, scagliato improvvisamente in quel ricordo distante, cambiò lievemente espressione, rimanendo immobile.
– Mi impegnai moltissimo a fartelo senza sbavature, nonostante ti muovessi e scalpitassi come un ossesso, sebbene ti avessi minacciato più e più volte che sarebbero stati guai se non avessi smesso di fare i capricci.
Ricordo ancora tutto, di quel giorno, sai? – lo informò, inclinando la testa di lato, osservando la sua reazione quasi impassibile. – Come puoi pensare che non mi importi minimamente di voi, di te, dopo tutto quello che abbiamo vissuto?
Maringlen non le rispose, volgendo gli occhi di miele altrove.
- Lo sai che il mercante dell’Est che sarebbe dovuto essere qui per voi due, la vecchia conoscenza del tuo caro padre Cliamon, ritarderà il suo arrivo a causa dell’epidemia?
La tua protettrice dai capelli rossi non te lo ha detto? – gli domandò cambiando nuovamente discorso.
- Come fai a sapere del mercante che dovrebbe venire a prenderci?
- Ho i miei metodi, lo sai.
Pover’uomo, appena avrà saputo dell’epidemia e di quanti morti ha seminato, gli si saranno rizzati tutti i pochi capelli rimasti sulla sua testa! – ironizzò, per poi riprendere. – Tuttavia, Judith ha confermato che egli non ha ancora rinunciato all’allettante possibilità di avere voi due. Intende raggiungere Bliaint non appena non vi sarà più traccia dell’epidemia.
- Judith o padre Cliamon lo hanno già avvertito che Maroine si è ammalata e che potrebbe non ...? – il ragazzino non riuscì neanche a pronunciare quelle fatidiche parole per completare la frase.
- ... che potrebbe non farcela? Certo, è stato avvertito da Judith e da Cliamon tramite lettera, diversi giorni fa. Ma lo hanno anche informato del fatto che tu sei sano come un pesce: egli ha detto che verrà comunque solo per te.
Maringlen schiuse la bocca, lievemente sorpreso.
- Sei d’accordo con questo? Saresti d’accordo sull’andartene di qui, sul lasciare la tua terra natale, le tue origini, solo per fuggire da qualcosa che non esiste?
Io, Beitris e gli altri ci siamo sempre presi cura di voi. Beitris soprattutto.
Ella vi ama più della sua vita, ultimamente ve lo ha dimostrato ampiamente.
Oramai, è come se il fulcro della sua stessa vita siate voi due gemelli. Non più la rivolta, non più la nostra libertà, ma voi due.
Quando ella guarirà, sperando che guarisca ... il vostro abbandono la farebbe soffrire terribilmente, portandola alle soglie della pazzia.
Non ne uscirebbe viva, Maringlen.
- In ogni caso, uno di noi due, tra me e Maroine, morirebbe comunque “grazie” a te, giusto? Anche nel caso in cui mia sorella dovesse guarire – esalò velenoso.
- Non è questo il punto ora. Se la malattia portasse via Maroine, come sicuramente accadrà, considerando quanto ella si sia oramai indebolita ... se anche tu te ne andassi, hai idea dell’immane dolore che provocheresti a Beitris?
- Non usarmi come scusa per autogiustificarti e scaricare la colpa su di me, solo perchè sei la prima a nutrire sensi di colpa nei suoi confronti, dal momento che le porteresti via uno di noi due, in ogni caso!
Saresti tu a portarla alla pazzia, non io.
- Ma se le rimanesse almeno uno di voi due, lei non –
- Oh, risparmiami le tue luride manipolazioni per convincermi a fare ciò che desideri!
Tutto questo non ha nulla a che vedere con l’abbandonare la mia terra e le mie origini! Ha a che fare solo con i tuoi sensi di colpa nei confronti dell’unica persona che si avvicini ad un’amica che tu abbia mai avuto.
Nascere a Bliaint è sempre stata una maledizione per me e per Maroine, fin dalla nostra nascita.
Abbiamo sempre vissuto tra la vita e la morte, in strada, abbandonati a noi stessi, trattati come animali, sfruttati e maltrattati solo perchè senza dimora!
L’unica cosa che ci avete davvero donato voi della compagnia, quando ci avete preso sotto la vostra ala, è stato insegnarci a difenderci.
Null’altro. Non ci avete dato davvero amore. Ci avete usati per i vostri scopi e null’altro.
Vi siete serviti della nostra furbizia, della nostra resistenza e capacità di sopravvivenza, di sfruttare anche le peggiori situazioni a nostro vantaggio. Vi siete serviti dei nostri corpi acerbi in grado di infiltrarsi ovunque, della nostra strabiliante somiglianza, del fortissimo legame che vi è tra noi, dei nostri bei visini, della nostra ignoranza.
Vi siete serviti di tutto. Di tutto ciò  che avevamo da offrire, per ottenere ciò che volevate.
E ci avete fatto improgionare, senza opporvi ai piani di Ephram, rischiando di farci finire al rogo solo per ottenere l’appoggio di Judith.
Ora non abbiamo più nulla da offrirvi, Myriam. Niente.
Non vi è più niente che posso darvi. Nè a te, nè a Beitris, nè a nessun altro.
- Accetteresti di essere svenduto nelle mani di un mercante di quei luoghi, dunque ...?
Accetteresti di finire nelle mani di quella gente immonda, totalmente diversa da noi, che non aspetta altro che ...
- Che cosa? So benissimo che le persone esterne al nostro villaggio ci considerano dei pezzi da collezione unici, e non vedono l’ora di mettere le mani sugli inestimabili abitanti del leggendario villaggio di Bliaint. Non mi preoccupa, sono pronto. Meglio lì che qui. Meglio altrove, qualsiasi sia il luogo, che qui.
Myriam sgranò gli occhi in risposta.
- Hai solo una vaga idea di cosa potrebbe accaderti ...? La tua amica e il tuo monaco ne hanno una vaghissima idea? Forse no perchè non sono mai stati fuori di qui, ma io sì, io ci sono stata. E ti garantisco, Maringlen, che quelli che sono là fuori non hanno il minimo ritegno per coloro che provengono dal nostro villaggio.
- Per quanto mi riguarda, non ne avete avuto neanche voi verso di noi.
Myriam affilò lo sguardo, cercando di carpire qualsiasi informazione in più dal viso deciso del ragazzino di fronte a lei.
Improvvisamente, comprese. – Capisco. Stai ancora sperando di riuscire a salvare tua sorella, non è così? Non sopporteresti la sua morte, d’altronde, ti conosco troppo bene. Come ho fatto a non pensarci prima?
La vuoi portare via di qui, vuoi che tu e lei siate lontani da tutti, da noi, da me.
Vuoi proteggerla da me.
Ancora non riesci a comprenderlo, faccino d’angelo? Maroine è una cadavere ormai.
A ciò, il ragazzino le si fece vicino in un batter d’occhio, arrivando ad un palmo dal suo viso. – Forse non ti è chiaro qualcosa di me, Myriam, qualcosa che non ti è mai stato chiaro: io non mi arrendo fin quando non ottengo quello che voglio. E se ti dico che mia sorella non morirà, ella non morirà.
Faresti meglio a fidarti sulla parola, prima di continuare con le tue speculazioni.
- Non puoi salvarla!
- Certo che posso! Io sarei disposto a fare di tutto pur di salvarla, qualsiasi cosa!
Qualsiasi cosa!! – esclamò a perdifiato. – E quando dico qualsiasi, intendo davvero qualsiasi!
A ciò, Myriam sgranò gli occhi.
- Cosa c’è...? Non avevi pensato a questo ...?
Non hai pensato neanche al fatto che potrei tranquillamente prendere il suo posto, se è uno di noi due che deve essere sacrificato per te, vero? Padre Cliamon ne soffrirebbe in egual, sia che sia io o lei. Avresti la tua tanto agognata vendetta su di lui in ogni caso – affermò senza vacillare minimamente.
- Non avrebbe alcun senso. Lei è già malata, mentre tu no. Devi rassegnarti a questo fatto.
- Io non mi rassegnerò a nulla e sappi che non te la darò vinta.
Anche a costo di finirci io sottoterra, lei vivrà.
Calò il silenzio tra i due, i quali rimasero in quelle posizioni, fin quando la porta della stanza che si aprì non distrasse entrambi.
Da giorni, gli abitanti del villaggio ancora sani avevano cominciato a dividersi a gruppi, per assistere i malati nella cattedrale.
Il primo gruppo era già giunto la mattina, portando viveri, erbe e fiori per infusi e altri beni.
Dopo di che, alla sera, si riunivano tutti a pregare i rispettivi signori, per chiedere loro perdono e supplicarli di liberarli dalla tremenda epidemia.
Il primo gruppo di volontari varcò la porta della stanza incontaminata per togliersi la maschera e respirare un po’ di aria pulita, riprendendosi.
Tra loro, Maringlen notò la presenza di un ragazzino con un bellissimo ciondolo appeso al collo.
Realizzando fosse il ragazzino miracolato di cui parlavano tutti, si avvicinò a lui, allontandosi da Myriam.
- Ehi – richiamò la sua attenzione, facendolo voltare verso di sè.
- Oh .. buongiorno a voi – lo salutò educatamente il fanciullo. – Voi ... siete uno dei due gemelli, vero? Siete uno dei due ragazzini cresciuto da stregoni che erano stati imprigionati e che rischiavano il rogo, prima della ribellione?
Maringlen sgranò gli occhi sorpreso. – Sì, sono io. Ci conosciamo, per caso? Chi siete voi?
- Mi chiamo Christopher Ioan. Ho capito foste voi perchè vi ho visto spesso inginocchiato vicino al giaciglio di vostro fratello malato, nel salone. Voi due vi somigliate davvero tantissimo. L’ho capito per questo – gli spiegò sorridendo timidamente. – Sapete, sono venuto spesso a portarvi del cibo in più quando eravate imprigionati. La volta in cui avete visto un dattero cadere dalla grata della vostra cella, sono stato io a farlo cadere.
- Oh ... beh, grazie, allora. Per la vostra gentilezza.
- Non dovete ringraziarmi. L’ho fatto con piacere. Ad ogni modo, volevo dirvi che mi dispiace molto per vostro fratello – gli disse afflitto.
Dopo aver udito tali parole, gli occhi di Maringlen si posarono inconsciamente sul ciondolo che imperava nel petto di Ioan.
Quest’ultimo se ne accorse e abbassò il viso per osservarlo a sua volta, andando a toccarlo con una mano. – Vi piace il mio ciondolo?
Maringlen annuì. – Dunque è vero quel che dicono? Questo ciondolo vi ha fatto guarire dal vostro malanno? Inoltre, vi protegge anche dall’epidemia?
Indeciso se rispondere o no, Ioan annuì dopo qualche minuto, abbassando lo sguardo.
- Funziona anche con altri oltre voi?
- Non lo so ... – rispose sinceramente il fanciullo.
- Potreste ... potreste usarlo per aiutare mio fratello? – gli domandò speranzoso, puntando i suoi occhi chiari dritti nei suoi, senza lasciargli scampo. – Dato che voi ora state bene, potete farlo indossare anche a lui solo per un po’, giusto il tempo di farlo guarire dall’epidemia.
- Ma se lo farò indossare a vostro fratello ... poi dovrei farlo indossare a tutti i malati.
- No, non ce ne è bisogno. Non lo dirò a nessuno, lo prometto. Voglio solo che mio fratello guarisca. Vi prego, Ioan ...
Dinnanzi a quel viso colmo di speranza e di disperazione malcelata, il fanciullo cedette.
D’altronde, quel ragazzino non era come i maleintenzionati del villaggio che avrebbero voluto strappargli il ciondolo dal collo con la forza se solo avessero avuto la conferma che fosse proprio quello a farlo restare sano.
Glielo aveva domandato con gentilezza, quasi arrivando a supplicarlo.
Improvvisamente, si immedesimò in lui, immaginando ci fosse Blake su quel giaciglio, morente, al posto del fratello gemello del ragazzino dinnanzi a lui.
Avrebbe potuto concederglielo, se ciò fosse davvero servito a salvare suo fratello.
Poi, una volta che il fanciullo fosse guarito, si sarebbe ripreso il ciondolo di Blake. E non lo avrebbe ceduto più a nessuno.
A ciò, Ioan, lentamente e accuratemente, si accinse a togliersi il ciondolo, sotto lo sguardo infinitamente riconoscente di Maringlen.
Tuttavia, improvvisamente, non appena il ciondolo non fu più intorno al collo di Ioan, poichè questo lo poggiò tra le mani di Maringlen, il primo cadde addosso al secondo, come morto, cominciando a tremare tremendamente.
Maringlen si spaventò non appena notò il suo colorito quasi blu e quanto fosse fredda e dura la sua pelle.
Era come se, gradualmente, la vita del ragazzino stesse venendo dolorasemente risucchiata via da lui.
A ciò, avendo assistito alla scena a distanza, Myriam accorse dai due fanciulli biondi, aiutando Maringlen a reggere il corpo come senza vita di Ioan.
Fortunatamente, nessuno dei presenti intorno a loro sembrava prestare attenzione alla scena.
La strega resse Ioan come una bambola rotta tra le braccia, smuovendolo delicatamente, cercando di comprendere che cosa gli stesse succedendo.
- Maringlen, questo ragazzino sta morendo ...
- Cosa ... ma come ... come è possibile?
- Che cosa gli è successo?? Vi ho visti poco fa, sembrava essere sanissimo.
- Si è tolto il ciondolo!
- Dunque le voci sono vere ... è merito del ciondolo – realizzò la giovane donna. – Dammelo, dobbiamo rimetterglielo addosso o morirà tra le mie braccia.
Maringlen non se lo fece ripetere due volte e riallacciò la cordicella del ciondolo dietro la nuca di Ioan, il quale, dopo qualche secondo, sembrò quasi risvegliarsi dalla morte.
Spalancò gli occhi chiarissimi in un ansimo e riprese a respirare, seppur col fiatone.
- Cosa è successo ... cosa mi è successo ...? – domandò con un filo di voce, guardando la sconosciuta che lo stava reggendo tra le braccia, inginocchiata a terra.
Ella gli sorrise spontaneamente senza rendersene conto, cercando in ogni modo di cogliere nel volto di Ioan qualche somiglianza con lui.
A ciò, Ioan la fissò negli occhi. – Chi siete voi ...? – le domandò.
- Nessuno che conoscete, caro – gli rispose aiutandolo a rimettersi in piedi. – Come vi sentite?
- Ora bene ... ma prima ... non ricordo nulla di prima. Era come se ... se fossi ...
- Morto – rispose per lui Maringlen, facendo gelare il sangue del fanciullo appena ripresosi.
- Io ... mi dispiace, ma non posso dare il mio ciondolo a vostro fratello ...
- Lo so bene, l’ho visto con i miei occhi giusto un attimo fa che effetto vi provoca togliervelo anche solo per qualche secondo. Con quale potente magia è stata stregata quella collana?
- Non lo so. Me lo ha dato mio fratello prima di partire. Io non ...
Myriam lo guardò fisso negli occhi, senza distogliere mai lo sguardo.
Delicatamente, avvicinò le dita al ciondolo, sostandovi sopra solo per un po’, senza toccarlo, sotto gli occhi dei due fanciulli biondi.
Ciò che percepì provenire da quella pietruzza ovale dal colore indefinito, fu un’energia oscura, consumante, pericolosa.
Tolse la mano e posò di nuovo gli occhi su quelli di Ioan. - Vostro fratello deve amarvi molto – gli disse con voce dolce. – Abbiate cura di questo ciondolo e della vostra vita.
- E accettate un consiglio: non parlate a nessuno di ciò che è accaduto oggi. Evitate astutamente tutti coloro che vogliono mettere le mani sulla vostra collana. Non so cosa stia accadendo dentro quel ciondolo, ma se è la vostra vita ad essere in gioco dovete proteggerlo a qualsiasi costo.
Siete stato gentile con me e con mio fratello quando ne avevamo bisogno.
Questo è il minimo che posso fare per voi, Ioan.
- Vi ringrazio. Vi ringrazio moltissimo.
 
Finalmente, la destinazione era dinnanzi ai loro occhi, vivida e reale.
Dopo settimane di viaggio e di turbolenti ostacoli, erano finalmente giunti nel villaggio in cui viveva l’uomo che conosceva la corretta composizione della polvere nera.
Ephram si voltò a guardare Blake quando si palesò ai loro occhi la casa che Selma aveva indicato loro come la dimora di un certo von Hohenheim; mentre la strega si accinse a raggiungere la porta dell’abitazione prima di loro.
- Ce l’avete fatta, finalmente.
Al vostro posto farei i salti di gioia sul posto senza trattenermi – gli disse osservando il suo sguardo cupo, come velato da un lieve timore, ma con una determinazione di ferro.
Blake si avviò a sua volta verso la casa von Hohenheim, sapendo che, una volta entrato in quell’abitazione, non sarebbe più potuto tornare indietro.
Era arrivato fino a lì, sudando sangue e quasi perdendo la testa dal collo.
Era il momento.
Selma sembrava conoscere ciò a cui stava andando incontro, proprio come si aspettava.
Seguì i movimenti della donna, la quale bussò alla porta sbattendo il picchiotto dinnanzi ad essa due o tre volte.
Attesero per più di dieci minuti, provando a bussare più volte.
- Forse non è qui – ipotizzò Ephram.
- Impossibile – affermò la strega. – Lui è sempre in casa – aggiunse bussando per l’ennesima volta, stavolta facendo scontrare il picchiotto con la superficie della porta con più aggressività e più volte consecutivamente. - Philippus! Philippus, apri questa dannata porta prima che la apra con i miei metodi! – esclamò Selma. - Philippus!
A ciò, la porta venne aperta, ma non vi fu nessuno dietro di essa. Semplicemente si schiuse, permettendo ai tre di entrare.
Senza attendere oltre, Blake varcò la soglia, venendo invaso da un caldo innaturale, dato dalle finestre totalemente sbarrate della casa e dal camino al centro della stanza acceso e ben animato da un potente fuoco. Per un attimo, gli sembrò quasi di essere entrato nella fucina di suo padre.
- Che puzza di stantìo ... da quanto questo individuo non fa passare un po’ d’aria qui dentro? – si lamentò Ephram coprendosi il naso con un panno.
- Ah! Voi abitanti di Bliaint! Così ossessionati dalla pulizia da trovare ripugnanti anche i fiori che calpestate! - esordì una voce gracchiante per il disuso, ma giovanile.
A ciò, i tre seguirono la traiettoria di quella voce, giungendo ad una seconda stanza aperta, adiacente a quella più grande col camino.
Dentro, vi scorsero la figura di un uomo piegato su se stesso.
Osservandolo solo parzialmente, Blake avrebbe detto che avesse non più di trent’anni.
Quella stessa voce udita poco prima si elevò da quel corpo ricurvo. – L’ultima volta che ti ho vista, Selma, ero un mocciosetto spaurito e tu eri una ragazzina traumatizzata dalla scomparsa della sorella e dalla morte del fratello venuta a rovinare le giornate a mio nonno – disse senza voltarsi a guardarli. – Chi sono coloro che hai portato con te? – chiese poi.
- Come hai ben dedotto dall’affermazione schizzinosa di Ephram, sono con due abitanti di Bliaint.
Non sei contento? Se non sbaglio, quando eri quel moccioso impertinente che ho conosciuto, sognavi di incontrare un abitante di Bliaint.
In risposta, il giovane padrone di casa rise in una maniera bizzarra, alzando finalmente la testa, per volgere gli occhi stralunati e arrossati sui suoi “ospiti”.
- Ho udito talmente tante voci e chiacchiere di paese su di voi, senza che le avessi richieste, da ricordarmele una per una, nonostante nessuna delle bocche che le avesse pronunciate avesse mai visitato il “villaggio impenetrabile” che fa tanto parlare di sè.
Ed ora, mi rendo conto che qualcosa di quelle voci fosse effettivamente vero: belli e spocchiosi. Ma pericolosi neanche un centesimo di quanto si pensa siano.
Detto ciò, l’uomo sorrise di nuovo, senza motivo, questa volta voltando il viso verso la parte della stanza ancora non visibile dalla loro posizione.
A ciò, i tre avanzarono di qualche passo, notando la presenza di un letto che occupava quasi l’intera stanzetta, e sul quale imperava il corpo di un vecchio decrepito.
Nonostante la cera pessima e l’immobilità, sembrava ancora in vita.
- Vedo che il vecchio Philippus è giunto alla fine dei suoi giorni. Me ne rammarico – disse Selma con voce quasi divertita.
Blake si chiese dove fosse il padre del giovane uomo.
- Non ho tempo per badare a te, Selma.
- Certo. Voi von Hohenheim non avete mai tempo per nessuno.
- Non ti ho più vista dopo il piccolo “incidente” avvenuto a cinque giorni dal tuo arrivo e dalla tua sgradita permanenza in casa nostra.
- Ero in fuga dalla mia terra natale e in cerca di un riparo. Non potevo sapere a cosa sarei andata incontro.
- Cosa ti ha spinta a tornare qui dopo ciò che hai rischiato quel giorno? – le domandò egli alzandosi in piedi e avvicinandosi a loro, guardandola meglio. – Buon Dio, ora hai l’aspetto di una di quelle sciamane pagane vagabonde che pretendono di profetizzare nascita, morte e miracoli dell’universo.
- Sempre meglio che apparire come un fallito, che non ha realizzato neanche un quarto di ciò che la sua prestigiosa famiglia e le sue pretenziose ambizioni avrebbero voluto raggiungesse.
Non credevo di trovare una tale miserabilità nei tuoi occhi e nella tua persona, Philippus.
Sei rimasto in questo buco tutti questi anni a badare a tuo nonno, senza fare altro, senza neanche costruirti una famiglia come desideravi?
- Una famiglia ce l’ho ora.
- Ah sì? Bene, almeno è qualcosa – rispose ella derisoria. – E dove sono i fortunati, ora?
- Al di là del mare, lontano da qui. Dovevo continuare a restare al fianco del padre di mio padre fino alla sua dipartita. Questo non è posto per una donna e un bambino.
- “Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus”, ricordo bene? – pronunciò Selma attirando l’attenzione di Ephram e Blake. – Sarà questo il nome del bambino che avrà sulle spalle il peso di possedere il sangue dei suoi ostinati avi, tramandato da generazioni, così come suo padre, suo nonno, i suoi antenati e tutti i discendenti dopo di lui, giusto? Ah! Ho sempre trovato l’usanza del vostro villaggio di tramandare il vostro infinito nome intero di figlio in figlio a dir poco conturbante – aggiunse la donna. – Dunque, cos’è quella faccia stravolta? Non sei felice che il tuo vecchio spiri, così potrai raggiungere la tua bella e il tuo poppante?
- Non osare parlare così di mio nonno, maledetta – la ammonì lui puntandole il dito contro. – Devo portare a termine le sue ricerche, il suo operato. Per fare in modo che non vada sprecato ...
- Oh, povero Philippus ... mai stato al livello del suo prodigioso e noto nonno ... lui sì che è riuscito a dare un contributo a questo mondo buio e spento. Tu, invece? Eccoti qui, a cercare di non disperdere tutto quello che lui è riuscito ad ottenere, senza successo.
- Non riuscirai ad atterrirmi con la tua lingua biforcuta come facevi un tempo, donna – resplicò lui rivolgendole un sorriso distorto.
Il suo viso aveva qualcosa di strano.
Come se avesse trascorso intere lune rinchiuso, parlando solamente con un corpo privo di coscienza e con la fiamma del fuoco che si preoccupava tanto di tenere animato.
Oppure, di un uomo che aveva trascorso un’intera vita sotto il giogo di qualcuno che lo aveva costretto ad assistere ai suoi esperimenti sovrannaturali, isolandosi dal mondo esterno.
Philippus si grattò la testa e la chioma scompigliata con fare agitato, alternando stati di forte ansia, con momenti di incredibile lucidità, in un lunatico sali e scendi che stava dando la nausea a Blake.
- Oh, credimi, tra i tuoi tre ospiti, non sono certo io ad avere la lingua biforcuta – disse Selma voltando lo sguardo verso Blake.
A ciò, Philippus parve come riprendere coscienza della presenza degli altri due. – Giusto, giusto ... perdonatemi se non vi offro un infuso caldo, mi rendo conto di non essere il padrone di casa migliore del mondo – disse con finto sarcasmo, osservando i due. – Possiedi gli stessi segni che ha lui, sul corpo? - domandò a Selma, notando uno dei complessi marchi che copriva la pelle di Ephram sbucare sul suo polso.
La donna sbuffò, spazientita. – Se la mia conferma ti serve a fare una delle tue affermazioni banali e scontate sul mio vissuto a Bliaint come penso, non serve che te la dia. Piuttosto, siamo qui per un motivo.
- Già, mi stavo proprio chiedendo quale fosse ... il potente mordente, lo stringente motivo che ti ha spinta a tornare nel luogo dei tuoi più bui terrori ... – disse Philippus concentrandosi a guardare Blake questa volta.
- Ho udito la voce di tutti e due i vostri compagni sinora, tranne la vostra, ragazzo. Parlate – lo esortò con decisione.
A ciò, Blake gli rivolse uno sguardo eloquente che servì a fargli capire che gli sarebbe stato impossibile udirlo, unito ad un gesto di negazione con la testa.
- Cosa vi è accaduto al collo? – gli chiese poi.
- Come immaginerete, il mutismo forzato ha origini lì, buon uomo – lo informò Ephram.
- Non sono stupido, ragazzo – lo zittì Philippus, per poi tornare su Blake. – Fatemi indovinare: siete voi che siete voluto venire qui, non è così? A causa vostra Selma ha violato la promessa solenne fatta a se stessa di non mettere più piede in questa casa, per non affrontare le sue paure remote ... ho indovinato?
Che cosa cercate da me, ragazzo?
- Ciò per cui sono scappata da qui e ho giurato di non tornare – rispose per lui Selma.
A ciò, Philippus scoppiò in una grassa risata. – Davvero?!? Si tratta di questo?? Nonostante il pericolo che comporta l’utilizzo di quella miracolosa polvere del demonio, hai comunque accettato di portare queste due ignare “gemme” di Bliaint proprio qui??
- È stato lui a volerlo vedere con i suoi occhi – lo informò Selma.
- E tu glielo hai permesso?
Stavano parlando quasi come se lui non fosse nella stanza e ciò gli stava cominciando a dare sui nervi, in aggiunta alla situazione in generale.
Blake credeva che, una volta giunto in quella dimora, si sarebbe trovato davanti un uomo cosciente e consapevole di ciò che faceva, non un giovane erede folle che stava cercando di rimettere insieme i pezzi di un lavoro non suo, non sapendo da dove cominciare.
Avrebbe preferito parlare con il nonno di quell’uomo, se solo questo non fosse stato sul letto di morte.
Philippus ritornò con lo sguardo su di lui. – Sapete per quale motivo Selma è rimasta fortemente turbata da ciò a cui ha assistito qui, nel periodo in cui, casualmente, mio nonno stava lavorando sulla composizione della polvere nera?
- Non c’è bisogno di ricordarlo, Philippus ...
- Ha visto una persona che ha inghiottito la polvere nera, dinnanzi ai suoi occhi – disse a bruciapelo l’uomo. - Il corpo di costui è scoppiato e si è frantumato in decine e decine di pezzi di carne che fendettero l’aria, in un tripudio di sangue e viscere. Il rumore assordante è forse ciò che l’ha spaventata di più.
Io ho visto talmente tante volte mio nonno usarla sulle sue cavie animali, che, quando è accaduto il suddetto “incidente”, ciò non ha provocato in me alcun effetto, nonostante fossi un bambino – spiegò con naturalezza. - Ah, dimenticavo: la nostra cara amica in comune stava per rimetterci la pelle. Credo porti ancora i segni sul suo corpo di quel giorno – concluse riportando gli occhi stralunati su di lei.
Selma distolse gli occhi altrove.
Non poteva affermare che riportare alla mente quel funesto ricordo non le provocasse più alcuna reazione.
- Per quale motivo dovrei cedervi la composizione della polvere nera? A cosa vi serve? – domandò Philippus avvicinandosi ancor di più a Blake. – Voglio sentirlo dalla vostra voce.
Ephram e Selma rimasero attoniti di fronte a quella richiesta.
- Forse non ti è ancora chiaro un fatto più che lampante, mio vecchio amico ...
- Lo so, Selma: ha perso la voce. Ma voglio comunque sentirlo da lui – disse Philippus, continuando a guardare il ragazzo, fissando quegli occhi taglienti e sfidanti. – Facciamo un patto – continuò l’uomo. – Se riuscirete a dirmi il vostro nome e per quale motivo siete venuto fino a qui per ottenere la composizione della polvere nera, convincendomi a darvela, sarà vostra.
Dinnanzi a quella sfida pressocché fisicamente impossibile, Blake sorrise amaramente divertito e frustrato, serrando la mascella.
In una situazione normale, in una circostanza in cui avessi ancora ciò che mi appartiene di diritto dalla nascita, avrei ottenuto quella polvere in meno di un minuto di conversazione con voi, von Hohenheim.
State giocando sporco e sappiate che, in caso di necessità, non mi farò alcun problema nel farlo a mia volta.
Ephram si sedette, come in procinto di godersi tutto ciò che sarebbe accaduto da lì in avanti da una buona visuale.
- Vi state divertendo, stregone? – domandò Philippus al giovane appena accomodatosi, il quale sorrise di gusto.
- Molto, grazie per averlo domandato.
- Anche voi siete uno stregone? I vostri occhi dicono di no – disse Philippus rivolgendosi nuovamente a Blake. – Se lo foste anche voi, vi avrei cacciato via da casa mia senza neanche riflettere sulla possibilità di cedervi ciò che la metà degli uomini occidentali brama o comincerà a bramare da qui a qualche secolo.
Voi siete solo in anticipo sui tempi, a differenza degli altri.
Per quale motivo dovrei cambiare idea? – lo sfidò ancora. – Parlate. Voglio che mi parliate. E no, quello che sto dicendo non ha nulla di simbolico o metaforico. Pretendo che tiriate fuori la voce dalla vostra gola per riferirmi tutto quello che vi ho chiesto, in senso letterale.
Blake cercò di mantenere la calma e di ragionare lucidamente dinnanzi alla subdola e falsa furbizia di quell’uomo.
Continuò a guardarlo, rivolgendogli un’espressione di disprezzo, che Philippus accolse con un ghigno soddisfatto. – Ad ogni modo ... in attesa che voi soddisfiate la mia richiesta, ritengo che avere una dimostrazione pratica di ciò a cui andrete incontro se continuerete a voler giocare con quest’arma estranea a cielo e terra, potrebbe solo giovarvi.
Selma spalancò gli occhi, sbiancando impietrita, a quelle parole. – Philippus, no! Non vorrai ...
- Questa è casa mia, Selma! Posso fare ciò che desidero, ed è mia intenzione farlo – si impose lui. – I tuoi trucchetti da negromante non mi spaventano, in quanto io posseggo armi molto più potenti della tua magia nera, donna.
Ora stava delirando, la lucidità sembrava averlo momentaneamente abbandonato, e Blake si chiese se avesse assunto qualche sostanza particolare che gli provocasse tali effetti o ciò fosse solamente frutto del suo stile di vita.
- Che cosa vuoi fare, Philippus...? Rispondimi!! – insistette la donna, seguendolo mentre egli vagava per la casa come in cerca di qualcosa.
- Siamo ancora in tempo per uscire da questa casa e fare ritorno a Bliaint tutti interi - gli propose Ephram. - Diremo a chiunque che la polvere nera è solamente una leggenda che usano gli uomini orientali per incuterci timore, come già credono tutti coloro che ne hanno sentito parlare.
Ephram credeva di risultare allettante ai suoi occhi con una tale offerta in un momento di difficoltà come quello, non rendendosi neanche lontanamente conto quanto si sbagliasse di grosso.
Blake non gli prestò attenzione, continuando a concentrarsi sui movimenti sconnessi di Philippus, il quale cominciò ad imbottire la bocca di suo nonno mezzo morto di qualcosa che il ragazzo non riuscì a vedere a quella distanza, ma che potè ben immaginare.
- Non ha coscienza ... non ha più coscienza ... non sente più niente ... è più morto che vivo ... – continuava a ripetersi, autoconvincendosi di star facendo un favore al vecchio che lo aveva cresciuto, invece che di stargliela facendo involontariamente pagare per la vita solitaria, crudele e miserabile a cui l’aveva condannato.
- Philippus ... fermati, ti prego – lo supplicò Selma cercando di mantenere la calma, nonostante tutto. – Non commettere lo stesso errore che tuo nonno commise al tempo ...
- Quell’uomo era un millantatore e un truffatore accanito, Selma! – esclamò Philippus persistendo nella sua delicata operazione. – Meritava quella fine!
- Nessuno meriterebbe una fine simile!! Tuo nonno era un folle!
- Dovresti essere felice di ciò che sto per fare, dunque!
- Stai delirando! L’esplosione colpirà anche noi qui dentro, dobbiamo uscire di qui!
- Il ragazzo deve vedere a cosa sta andando incontro!
- No, che non deve! Se vuoi morire con il tuo vecchio, fa’ pure ma lasciaci fuori da tutto questo!
- Io sono Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus e decido io cosa accade nella mia dimora!
Blake cominciò a pentirsi di aver fatto tutta quella strada per giungere nella dimora di quel ciarlatano, ed Ephram con lui.
I due raggiunsero Selma e Philippus.
- Allontanatevi di qui! – li implorò Selma.
- Meritiamo di morire tutti qua dentro solo per aver preteso di eguagliare Dio con le nostre azioni impenitenti! – esclamò Philippus nel pieno del suo delirio, continuando a riempire il corpo del vecchio di polvere nera.
- Cosa possiamo fare per farti cambiare idea?? – domandò Selma arrendevole.
Erano tre contro uno, avrebbero potuto immobilizzarlo in qualsiasi momento.
Tuttavia, se lo avessero fatto, egli non avrebbe mai rivelato la composizione della polvere nera.
Avrebbero dovuto farlo parlare in un modo o nell’altro, rifletté Blake tra sè.
Decise che ci avrebbe provato.
Aprì la bocca, sforzando la gola fino all’inverosimile.
- B... Blake ... – la voce, se quel distorto e bassissimo rumore così si poteva davvero chiamare, gli uscì fuori grave, rotta, innaturalmente graffiante e dolorosa da udire.
Il suo nome. Era la prima informazione che lui voleva sentir uscire dalla sua bocca.
Non appena esalò quel suono, gli altri tre si immobilizzarono, voltandosi a guardarlo.
Lo sguardo di Philippus si accese di una strana luce. Soddisfatto di se stesso, si avvicinò al ragazzo, con ancora le mani sporche di polvere nera. – Avete visto?! Sapevo che ne eravate capace! Era questo quello che volevo!! Avanti! Avanti,  Blake, continuate! Continuate a parlare e a dirmi quello che voglio sapere da voi!!
La gola gli bruciava come se fosse percorsa da rovi ardenti, motivo che lo spinse a provare ancor più odio cieco nei confronti di quel folle.
- Ditemi a cosa vi serve!! – insistette l’uomo.
- Se ... ve lo dirò ... – la voce era sempre più rotta e rauca, come provenisse dagli antri degli inferi, e il dolore che sentì corroderlo per lo sforzo lo stava logorando. - ... mi direte la ... composizione ...
- Sì, lo farò.
- ... E me ne darete ... due sacche ... da portare a Bliaint ...
- Avete la mia parola!
Improvvisamente, la gola cominciò a bruciargli insopportabilmente, portandolo a stringersi le mani intorno al collo, trattenendo le urla di dolore.
Ciò fu tuttavia utile a distrarre Philippus il tempo necessario che permise a Blake di afferrare il pugnale che teneva al riparo nella sua cintola e a puntarlo al collo dell’uomo senza quasi essere visto.
Philippus indietreggiò, con la lama a premergli sulla pelle che ricopriva la giugulare.
Blake lo fulminò.
“La composizione” gli disse, ma senza che dalla sua bocca uscisse alcun suono.
- Non posso rivelarvela ... – disse Philippus indietreggiando ancora, alzando le mani al cielo.
A ciò, la lama perforò una piccola porzione della gola dell’uomo, ma senza andare in profondità.
“Non ve lo ripeterò un’altra volta”
Per quale motivo bramavate udire qualcosa che non esiste più, insulso inetto?
Ottenere l’impossibile? Questo è quello che desiderate?
Questo è quello che vorremmo tutti, ma non per questo saremmo tutti ad ottenerlo.
Prima che qualcuno riuscisse a realizzarlo, Philippus indietreggiò tanto da far precipitare la lampada ad olio a terra, rompendola.
Il pavimento di legno cominciò a prendere fuoco, arrivando velocemente al giaciglio in cui era sdraiato il corpo quasi senza vita e imbottito di polvere nera del vecchio.
Fu una frazione di secondo.
Selma afferrò il braccio di Blake con forza, trascinandolo fuori casa con sè; Ephram fu il primo ad affrettarsi ad uscire dall’abitazione, lanciandosi sul vetro della finestra più vicina; mentre Blake fu l’unico a preoccuparsi di trascinare fuori dalla dimora in fiamme anche Philippus.
Uno scoppio tremendo e dal rumore assordante fendette il vento gelido.
Non seppe quanto tempo fu trascorso, quando riaprì gli occhi, ritrovandosi sdraiato sul prato intorno alla dimora, circondato dalle macerie bruciate della casa e da quelli che riconobbe come pezzi di carne e di sangue vivo, nonostante la vista abbannata. Blake tossì più volte, percependo le orecchie fischiargli terribilmente, una sensazione che non aveva mai provato prima, e che lo atterrì dal dolore.
Fortunatemente, era riuscito ad uscire dalla casa in tempo a non rimanere ferito dalla terribile esplosione, anche grazie alla prontezza e all’esperienza di Selma.
Solo dopo qualche secondo visualizzò le figure di decine di uomini, donne e bambini intorno a loro, intenti a fissare la catastrofe inorriditi.
- Di nuovo!!
- È accaduto di nuovo!
- Il flagello divino ci ha colpiti ancora!!
- La polvere del Demonio è piombata su di noi tramite questa dimora maledetta!
- Von Hohenheim!! A morte, von Hohenheim! A morte voi e tutte le vostre generazioni avvenire! Siate maledetti!
La voce del villaggio si stava facendo sentire, ma Blake riuscì a carpire a malapena qualche sillaba provenire da quelle bocche distorte, contorte e terrorizzate, a causa dell’interminabile e rumoroso fischio alle orecchie.
- Tutto bene...? – udì quel suono ovattato provenire da una voce familiare.
- Sì ... – rispose voltandosi verso la fonte di quella voce, trovando Ephram accovacciato accanto a lui, con il volto stravolto e parecchi graffi addosso.
Il giovane stregone spalancò gli occhi nocciola nell’udire per la prima volta la voce del ragazzo, provenire quasi totalmente pulita e immacolata dalle sue labbra.
Blake se ne accorse a sua volta e ammutolì, attonito, ma troppo invaso da mille sensazioni diverse per realizzare tutto ciò che stava realmente accadendo.
- Avete il labbro spaccato... – lo riscosse nuovamente Ephram, portandolo a toccarsi il mento macchiato di sangue.
- Dov’è Selma? – domandò sentendo anche la propria voce ovattata.
Ephram lo aiutò a rimettersi in piedi e i due accorsero verso la sagoma di Selma accartocciata a qualche metro da loro.
La donna si stringeva la coscia in maniera convulsa, imprecando a denti stretti e urlando di dolore.
- Maledizione ...! Ho scampato già una volta la morte o la mutilazione a causa di quel flagello ... sapevo che il nostro Signore mi avrebbe punita se fossi tornata qui!! – urlò verso i due, i quali le scoprirono la gamba dalla sottana per controllare l’entità della ferita.
- Hai visto ora?! – esclamò prendendo il viso di Blake e alzandolo verso di lei per guardarlo negli occhi. – Hai visto che cosa è in grado di fare?!? Hai appurato quanto pericolosa e temibile sia l’onnipotenza di quella polvere?! Ora, dimmi, vuoi ancora portare quel flagello a Bliaint?!?
- Selma, devi calmarti! – la esortò Ephram mentre le fasciava la coscia semi scorticata.
- Non sento niente!! – gli rispose Selma disperata. – Non sento più niente!!!
Dopo diverse altre urla, la donna svenne per il dolore e lo spavento, portata via da due fanciulle del villaggio, che la condussero a casa loro per medicarla.
Il giovane Philippus lo trovarono steso su un’altra porzione di prato, a faccia in giù, con una ferita aperta alla testa.
I due ragazzi convinsero le levatrici a prendersi cura anche di lui, a medicarlo, garantendo loro che, in cambio della loro gentilezza, non avrebbero più rivisto l’uomo mettere piede nel loro villaggio.
Lo avrebbero esiliato, non permettendogli più di tornare alla sua terra natale, pena la morte.
Nonostante non avesse ottenuto la composizione per creare la polvere nera, Blake non si diede per vinto e, la sera del disastro, dopo essersi ripreso dall’accaduto, tornò sul luogo dell’esplosione, in cerca anche solo di qualche granello rimasto.
Cercando e ricercando tra le macerie, tra le pagine dei libri arsi sparsi ovunque, tra gli appunti, le formule e i risultati degli esperimenti, trovò anche un piccolo sacco ancora intatto, contenente l’agognata e tanto odiata polvere nera.
Soddisfatto, Blake racimolò tutti i frammenti di pagine di appunti che riuscì a recuperare, insieme al sacco, e tornò nella dimora in cui avrebbero trascorso la notte prima di rimettersi in viaggio per tornare a Bliaint.
Il suo interminabile viaggio era finalmente giunto al termine.
Rientrato nella casa della famiglia della levatrice che li stava ospitando, Blake venne richiamato da Ephram, il quale, gli fece segno di avvicinarsi al giaciglio in cui era sdraiato e accudito Philippus.
L’uomo sembrava avere appena ripreso conoscienza e possedeva uno sguardo vuoto, totalmente differente da quello che aveva avuto fino a prima dell’esplosione.
Blake si avvicinò, guardando prima Ephram, poi Philippus, il quale ricambiò la sua espressione rivolgendogliene una interessata e curiosa, quasi come fosse la prima volta che lo vedesse.
- Che succede? – domandò il ragazzo, sedendosi accanto al giaciglio.
- Come vedete ... si è svegliato. Tuttavia ... – pronunciò Ephram, non sapendo esattamente quali parole utilizzare.
- Tuttavia ...? – insistette Blake.
- Qual’è il vostro nome, signore? – domandò Ephram allo stranamente spensierato Philippus, facendo storcere il naso a Blake per una domanda tanto banale.
Ma il ragazzo si ricredette non appena udì la risposta dell’uomo:
- Non lo so. Non ricordo il mio nome – rispose con tranquillità Philippus, con la stessa espressione persa di un bambino che aveva perduto la strada di casa.
- Non ricordate chi siete? – continuò Ephram.
- No – confermò l’uomo, guardando prima uno e poi l’altro, accennando un sorriso ingenuo. – Voi due ... sapete dirmi chi sono io, cosa ci faccio qui e qual è il mio ruolo?
I due ragazzi si guardarono tra loro rivolgendosi, a vicenda e tacitamente, tante di quelle domande da risultare innumerabili.
Era davvero possibile?
Come era possibile che fosse accaduto?
Perchè non avevano mai udito una cosa simile accaduta a qualcun altro, altrove?
Poteva accadere anche ad altri?
Che significava tutto ciò?
Quell’uomo era davvero una persona nuova, da poter plasmare a piacimento da capo a piedi?
Ma soprattutto: in lui erano rimasti ancora stralci di ricordi della sua vita passata e degli esperimenti che aveva condotto suo nonno? Ricordava la composizione della polvere nera e i vari usi che se ne potevano ricavare?
- Ditemi ... ditemi qualcosa. Chi sono io? Chi siete voi? – lo riscosse nuovamente colui che un tempo era stato Philippus e che ora non era più nessuno.
Blake distolse lo sguardo da Ephram e lo riportò sull’uomo, rivolgendogli un sorriso incoraggiante e rassicurante.
Evidentemente lo stregone non gli aveva ancora detto nulla e aveva preferito aspettare lui per capire il da farsi.
A ciò, Blake prese le redini della situazione, ben felice di farlo. – Potrete decidere voi chi essere, d’ora in avanti – gli disse. – Decidete voi da solo il vostro nome, signore – lo esortò sorridendogli.
L’uomo sorrise di rimando e si guardò intorno, genuinamente combattuto, per poi posare gli occhi dal taglio felino sul piatto con gli avanzi della pietanza che aveva consumato poco prima, al suo risveglio.
- Come avete detto che si chiama quello che mi è stato servito da mangiare?
Ephram alzò un sopracciglio in risposta. – Intendete la carne che avete consumato? È carne di uccello.
- E come avete detto che si chiama?
- Quaglia. È carne di quaglia.
- Bene. Questo. Questo sarà il mio nome: Quaglia – disse fieramente a Blake, come se avesse appena raggiunto un grande traguardo.
- Molto piacere, Quaglia – gli rispose Blake sorridendogli ancora incoraggiante. – Io sono Even Blake e, d’ora in poi, saremo compagni di viaggio.
 
Un dolore allucinante invase il suo corpo.
Delle immagini sconnesse si susseguirono nella sua mente: il prato bagnato di vino, di stralci di sangue e altri liquidi; le persone sopra di esso che si muovevano convulsamente, confusi e fuori di sè.
Il focolare che avevano acceso e che aveva animato i festeggiamenti fino a quel momento, ora era quasi spento.
Stava litigando, litigando furiosamente con qualcuno che sembrava ... se stessa.
Le lunghe ciocche cremisi arruffate, gli occhi rabbiosi e più neri del buio pesto che li circondava, il bellissimo vestito che aveva indossato quel giorno al matrimonio ...
Non vi era alcun dubbio.
Judith si stava accapigliando con un corpo che era il suo, ma dominato da qualcun altro che non era lei.
Con chi stava discutendo tanto selvaggiamente...?
In quale corpo si trovava lei?
Era più alto, sicuramente più alto del suo.
Spinse il proprio corpo dinnanzi a sè, facendolo barcollare tremendamente all’indietro e quasi perdere l’equilibrio.
Non ricordava di possedere una forza tale ... non era mai stata così forte fisicamente.
Non vi era abituata e non sapeva come gestirla ...
Il corpo maschile che stava abitando quella notte venne improvvisamente attaccato da colui o colei che abitava il suo, che, ripresosi dalla violenta spinta, gli si scagliò contro.
Il dolore che sentiva nelle zone basse di quel corpo nuovo, la stava lasciando quasi senza fiato ...
- Perchè...?!? – le chiese la sua stessa voce, nonchè la voce disperata di chiunque si trovasse lì dentro.
Avrebbe dovuto ricordare ... perchè non ricordava ...?
- Perchè, Judith?!?! Quel corpo è mio!! Mio!! Non puoi servirtene come vuoi!!
Dunque era così...? Che cosa gli aveva fatto? Che cosa aveva fatto a quel corpo estraneo che ora le stava facendo provare tanto dolore ...? Era stata lei stessa a provocarsi un dolore simile...?
Che cosa aveva fatto a colui che le stava urlando contro con gli occhi lucidi di furia, annebbiati dal vino e dagli effetti del rito a cui si erano sottoposti.
Con la coda dell’occhio, notò Naren seduto a terra e rannicchiato su se stesso.
Stava ... piangendo?
- Sai ... non ho alcun problema ... nel ricambiare il favore. – esalò la propria voce dominata dallo sconosciuto, ora gelida, che sembrava così diversa da come l’aveva sempre udita uscire dalla propria bocca.
Era algida, ribolliva di un’ira velenosa, pericolosa, vendicativa ...
La spaventò. Chiunque stesse abitando il proprio corpo la spaventò.
- Non ti dispiace, vero ...? Se faccio lo stesso ...
Non ti dispiace se mi servo del tuo corpo come più mi aggrada ...?
Per farti sentire come mi sento io ora e come mi sentirò quando tutto questo finirà ...
Una vendetta degna della tua spregevolezza ... del tuo egoismo ... della tua fame ... della tua spietata noncuranza ... – continuò colui che si trovava dentro il suo corpo, avvicinandosi gradualmente a Naren, persistendo nel guardare lei, tuttavia.
Le sue forme, le sue curve, il suo vestito sporco e strappato che aderiva alla sua pelle ...
Vedersi dall’esterno, da occhi non suoi ... le fece rendere conto quanto fosse peccaminosa quella visione, quanta lussuria e voluttà sprigionasse il suo giovane corpo, carezzato dalla chioma infuocata, distortamente ornata da quello sguardo freddo e vendicativo che non le apparteneva ... ma che, tuttavia, rendeva tutto quel quadro ancor più accattivante e irresistibile.
Quando Naren alzò lo sguardo in lacrime e distrutto dai sensi di colpa sulla Judith fasulla .. la sua espressione si incrinò.
Egli sapeva che non era lei ad abitare quel corpo ... lo sapeva ...
Eppure, la carne ... la debolezza della carne dell’uomo che amava e la crudele sensualità di colui che stava abitando il proprio corpo, contribuirono a far agire Naren, senza che quest’ultimo lo volesse davvero.
Era guidato dal desiderio, completamente accecato da esso ...
Era dominato dalle sensazioni che il corpo della sua amata, quel corpo che aveva desiderato così tanto stringere, assaporare, penetrare, fondere a sè, gli stava provocando.
Un momento di debolezza.
Un momento di debolezza che vale una vita intera ...
Mentre la Judith fasulla allargava le cosce e si sedeva addosso al suo amore proibito, esattamente dinnanzi ai suoi occhi, continuando a guardarla crudelmente, sentì il proprio cuore fermarsi ...
- No ... – esalò con quella voce maschile che non riconosceva come sua.
- No! Van, no! Non farlo!! Non sono io, Naren!! Non sono io!!! Io sono qui! C’è qualcun altro lì dentro! Non sono io!!! Si sta vendicando!! Si sta solo vendicando!
Di cosa si stava vendicando...?

Quella domanda martellò la sua mente mentre continuava a urlare a Naren, avvicinandosi ai due per dividerli.
Nonostante il corpo maschile che abitava fosse troppo dolorante per permettersi di compiere movimenti troppo avventati, fece per scagliarsi su di loro, ma, non appena incontrò gli occhi di Naren a distanza, si bloccò.
Gli occhi lucidi di Naren che la guardavano, consapevole di non star stringendo davvero lei, ma qualcun altro, qualcuno che della sua amata non possedeva nulla se non il suo bellissimo contenitore.
Gli occhi di Naren lucidi di lussuria, di senso di colpa, di cedevolezza, di frustrazione, di perdizione.
Le mani del suo uomo strinsero, strinsero senza timore le carni delle cosce del meraviglioso corpo che si trovava sopra di lui e lo dominava, conducendo le danze. Strinsero non riuscendo a fare a meno di farlo, non riuscendo a fare a meno di toccare, di saggiare, di lasciarsi trascinare da quel desiderio che da troppo tempo gli stava tormentando i lombi senza dargli tregua.
Egli le rivolse un’ultimo sguardo ancora lucido, pronunciandole qualcosa in labiale che la fece rabbrividire:
“Perdonami, amore. Perdonami, per ciò che sto per fare ...”
E lei restò a guardarli, da spettatrice, per tutto il tempo dell’atto, selvaggio e spettacolare, nonostante Naren non resistette quasi per nulla dentro quel corpo tanto bello e bramato.
Venne, la inseminò più e più volte, ripetendolo, come insaziabile, maneggiando quel corpo vivo e caldo come fosse una bambola, una splendida bambola che ha acquisito vitalità con lo scopo di soddisfare i peggiori e più proibiti appetiti.
E colui che era causa di tutto questo, che era responsabile di aver sedotto Naren senza il minimo sforzo, che si stava vendicando crudelmente di lei, stringeva i denti e serrava la mascella, sopportando tutto, pur di farle del male, pur di ferire, macchiare e contaminare quel corpo, che avrebbe abbandonato la mattina seguente.
Quando Naren si liberò del suo seme per l’ennesima e ultima volta, svuotato nell’anima e nel corpo, crollò, ansimante e sull’orlo delle lacrime, sopra colui che aveva l’aspetto della donna amata.
Senza alcuna espressione in volto se non un velo di soddisfazione, colui che abitava il corpo della fanciulla si liberò schifato del peso morto di Naren sopra di sè, e si rialzò in piedi, riabbassandosi l’abito sulle gambe bagnate fradice di seme, senza alcuna cura.
- Che cosa hai fatto ...? – esalò con quella voce maschile che stava iniziando ad odiare, distorta dai suoi ricordi confusi e ovattati.
A ciò, la se stessa fasulla si avvicinò a lei.
- Sei un demonio... – gli disse, vedendolo sorridere ferito in risposta.
- Lo sei stata tu prima di me. Conosci la regola dell’occhio per occhio.
- Che cosa ho fatto...? Che cosa ho fatto con il tuo corpo...?
- Non lo ricordi più?
- Ha dei vuoti di memoria... Io lo amo ... Lo amo, e tu me lo hai portato via ...
- Non temere: è solo una notte.
Sarà pur sempre tuo il corpo che dominerà le sue memorie.
- Non possiamo. Noi non avremmo potuto farlo! Hai rovinato tutto!! Tutto! Tutti i sacrifici che avevamo fatto finora!
- Lui lo voleva. Lo voleva così tanto, da star per impazzire – le rispose velenoso. - Gli ho dato semlicemente quello che voleva, Judith.
Il proprio sguardo, il proprio viso dominati da lui ... erano totalmente diversi, pensò la ragazza, memore della propria immagine allo specchio.
- Ora che il suo seme è dentro di me... finiremo bruciati entrambi!! E con noi il bambino che potrei mettere al mondo!! – realizzò orrendamente, sentendo il proprio spirito disintegrarsi, pezzo dopo pezzo.
- É per tale motivo che lo hai fatto? Per questo hai commesso un’azione tanto ripugnante, Judith, usando il mio corpo per provare quelle sensazioni che bramavi tanto provare e sentire sulla tua pelle, senza rischiare di venire fecondata dal seme del mostriciattolo per cui hai perso la testa?
Lui si è divertito quanto ti sei divertita tu, quando lo hai convinto ad assecondare le tue voglie e i tuoi vizi? – gli domandò rabbioso. – É bastato a te ma non a lui a quanto pare ...
- No ... non posso averlo fatto. Stai mentendo ... io non ricordo ...
- Toglimi una curiosità: com’è stato? Appagante? Doloroso? Avvilente?
Ti sei ricordata di essere in un corpo da uomo e non da donna mentre godevi?
Sai, io non l’ho sentito perchè ero nel tuo corpo in quel momento, come lo sono ora.
Ma, ahimè ... ho visto tutto.
Eppure ... sarò io a pagarne le conseguenze domani mattina, quando tornerò ad occupare quel corpo che hai massacrato con tanta sconsideratezza.
Solo a causa della tua fame.
La tua mostruosa fame.
- Non puoi star dicendo il vero ... non puoi star dicendo il vero! Io non l’ho fatto! Io non ti ho fatto nulla! Non ho costretto Naren, non ho costretto nessuno! Io non ricordo!
- Credevo avresti impiegato molto di più a forzarlo a violare un corpo che non era quello della sua amata.

Speravo in questo.
E invece ... ti sono bastate due paroline dolci e lussuriose sussurrate al suo orecchio.
Che cosa gli hai detto, eh?
Gli hai detto di immaginare te mentre consumavate l’atto?
Gli hai detto che tu avresti goduto e sentito tutto con lui, fino all’ultimo potente e vigoroso gemito?
Gli hai detto che sarebbe stato come farlo con te, ma solo con l’anima?
Non si è lasciato neanche pregare, il mostriciattolo ... ha eseguito ogni tuo ordine senza fiatare, con solo un insignificante velo di turbamento su quel visetto tondo e ripugnante.
E gli è piaciuto. Eccome se gli è piaciuto... il suo volto e il suo corpo parlavano per lui.
Ma mai quanto è piaciuto a te ... schifosa serpe.
- Smettila!! Taci quell’antro velenoso e menzognero!!
- Ti credevo diversa – le disse avanzando verso di lei, spingendola a indietreggiare sempre più.
- Taci!! Vattene da me, dannato!!
- Finchè avrò il tuo corpo e tu il mio, non me ne andrò da nessuna parte.
- No!!
Troppo tardi si rese conto di aver indietreggiato troppo: quando il piede si posò nel vuoto, incontrando solamente rami secchi, rovi e spine sul ciglio di una fossa, prese coscienza di non potersi aggrappare a nulla.
Cadde dentro la fossa, piombando dentro un enorme cespuglio di rovi e di rose spinose.
Si svegliò di soprassalto da quel sogno che solo un sogno non poteva essere.
I capelli rossi sudati e attaccati alla fronte, le membra tremanti, le mani artigliate alle lunzuola del giaciglio, il fiato spaventosamente corto.
Non aveva mai avuto un ricordo tanto vivido e ovattato insieme, durante un sogno.
Finalmente, stava riuscendo a recuperare dei ricordi di quella maledetta nottata che aveva segnato la sua intera esistenza.
Tuttavia, non era più certa di voler sapere.
L’ira infiammante nei confronti di colui che un tempo amava la animò ancor di più, facendole venire voglia di urlare a squarciagola durante la notte, incurante di svegliare l’intera cattedrale.
Cercò di calmarsi e di regolarizzare il respiro, ripercorrendo dolorosamente tutto ciò che aveva appena sognato e ricordato.
Non poteva aver commesso qualcosa di tanto orrido e marcio.
Lei non era tanto marcia.
O, per lo meno, era sempre stata convinta di non esserlo, autoconvincendosi di aver sempre voluto agire per il bene comune.
“La tua mostruosa fame.”
Ricordò quella frase pronunciata con tanto ribrezzo e astio.
Provò a ricordare anche il timbro e il colore della voce appartenuta al corpo maschile che aveva abitato quella notte.
Ma non riusciva a ricordare, poichè lo sentiva distorto, come lontano.
L’unico indizio che aveva, risiedeva nell’atteggiamento e nelle parole che le aveva pronunciato egli, annebbiato dal disprezzo e dalla vendicativa rabbia che lo animava.
L’unico con il quale avrebbe voluto sfogarsi e parlare di tutto ciò, l’unico che stava vivendo un tormento simile al suo in merito a quella nottata, al momento era disteso su un giaciglio in mezzo agli altri malati, in bilico tra la vita e la morte.
Judith si massaggiò le tempie, trattenendo la rabbia e le lacrime.
Oramai non sarebbe più riuscita a riprendere sonno, perciò si alzò in piedi, prendendo a massaggiarsi il ventre.
Accese una candela e raggiunse lo specchio appeso sopra il tavolino della stanza.
Guardò la propria immagine riflessa.
Improvvisamente, la voglia di sfogare tutte le lacrime che aveva in corpo si fece più intensa.
Poggiò la candela sul tavolino, unica fonte di luce che le permetteva di accedere alla vista del suo procace corpo da fanciulla coperto dalla vestaglia di lana pregiata che gli fasciava seno, ventre e fianchi.
Si abbracciò da sola, stringendo le dita sulle braccia candide, premendo fino a farsi male, senza alcun motivo.
“Ma a me non fa male” . La frase che ripeteva sempre da bambina.
Naren aveva violentato il suo corpo.
Lei non l’aveva sentito perchè l’aveva sentito qualcun altro, ma ne stava subendo le disastrose conseguenze.
E i giorni seguenti all’accaduto non aveva provato alcun dolore solamente perchè da bambina aveva sperimentato dolori ben peggiori.
A me non fa male.
Eppure, quella notte era affamata.
Aveva fame di violenza su di sè, non solo di lussuria.
Aveva talmente tanta fame, da aver commesso una violenza irreparabile sul corpo di un altro, solo per provare il brivido e l’ebbrezza di un uomo che la violava ancora, ferocemente, fino alla pazzia, tanto bramoso di lei fino al punto di godere e provare piacere nell’intrattenere un rapporto sessuale con un altro uomo.
Quest’ultimo, invece, sicuramente l’aveva sentito il dolore, nei giorni seguenti, e, forse, lo sentiva ancora.
A tanto era arrivata la sua fame.
 
 
 
 
 
   
 
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