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Autore: Doralice    09/04/2021    2 recensioni
Ispirata a un sogno che ho fatto stanotte, ecco una SamBucky in tre parti, post episodio 2 di TFATWS.
Estratto dal primo capitolo:
“Può essere che in quel sogno tu e Sam aveste obiettivi diversi?” suggerisce lei.
“Può essere.” concede.
“E qual era il suo obiettivo?”
“Vedere l’animale.” risponde subito, con il solito senso di efficienza che prova quando è focalizzato su una missione.
“E qual era l’obiettivo di Sam?”
Bucky ripensa al sogno. Al modo in cui Sam tiene in spalla il bambino, come lo guarda, come gli parla, come scherza con lui anche mentre lo mette giù perché è stanco di portarne il peso.
“Il bambino.” risponde, la consapevolezza che lentamente si fa strada dentro di lui, “Il suo obiettivo era il bambino.”
“Dunque Sam teneva letteralmente sulle spalle il proprio pesante obiettivo, che in teoria era anche il suo. Mentre lei era defocalizzato.” riassume la dottoressa, implacabile.
“Beh, messa così…”
“Messa così…” lei riprende le sue parole, “Cosa pensa del modo in cui Sam alla fine ha risolto la vostra diatriba?”
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: James ’Bucky’ Barnes, Sam Wilson/Falcon
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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The Boat

 

* * *

 

Delacroix Island. Circa 4000 anime spalmate su una lingua di terra lunga 20 chilometri, giù, ai confini sud-est della Louisiana. Piove metà dell’anno e l’altra metà ci pensa l’umidità ad affogarti. Non si sa bene se ci sia più acqua nel golfo da cui pescano o nel cielo sopra le loro teste, di sicuro c’è solo che a Sam mancavano molte cose di casa sua ma questa no. E nemmeno le zanzare.

Slap fa la mano sulla pelle sudata del collo. Mezza giornata su quel cazzo di motore e l’unico risultato è stato nutrire le zanzare locali.

Sam impreca e lancia la pinza nella cassetta degli attrezzi. Siccome è una di quelle giornale lì, la pinza colpisce il bordo e cade fuori con un tonfo metallico. Sam lo sa che non serve a niente, ma ha voglia di prendere a calci qualcosa, così dà un calcio alla cassetta. Quella si ribalta e gli attrezzi rotolano fuori da tutte le parti, facendo un gran baccano tra le paratie della barca.

Ora dovrà mettersi a raccattarli da terra, sotto la luce traballante dell’unica lampada accesa là sotto.

Sam si china e uno ad uno raccoglie gli attrezzi, riponendoli dentro alla rinfusa. La forza mentale di metterli anche in ordine non ce l’ha. Li raccoglie e, anche se sa che non sono infiniti, gli sembra comunque che non finiscano mai, ce n’è sempre uno che salta fuori nascosto in qualche angolo buio. E quando sono tutti dentro, lui chiude la cassetta ma non ci riesce, e grazie al cazzo, messi così ovviamente non ci stanno tutti e il coperchio non si chiude.

Sam spinge con le mani, come se potesse cambiare qualcosa. Spinge e impreca e sente la pressione aumentare dietro gli occhi e alla fine la cassetta la lascia lì. Si siede sul pavimento sporco, le mani unte di grasso premute sulla faccia e le spalle scosse dai singhiozzi.

Sam non è il genere di persona che ha problemi a piangere perché “non è una cosa virile” o stronzate simili. È che lui il tempo di piangere non ce l’ha. Non ne ha avuto proprio, di tempo, negli ultimi anni. E comunque, dopo aver sepolto i genitori, il cognato e il migliore amico, dopo aver perso compagni di squadra in una guerra sproporzionata per le loro forze, dopo aver trascorso cinque anni in un limbo ed essere tornato in un mondo completamente diverso ‒ Sam pensa di essere a corto di lacrime, ormai.

Ci è voluta una barca testarda per farlo cedere. Il carico di quei mesi gli mozza il fiato e lui butta fuori tutto di colpo, senza controllo, come se avesse aperto una diga stracolma.

Così se ne sta sul pavimento per un po’, i pensieri che si accavallano senza che lui riesca a metterli a fuoco e le emozioni, finalmente libere, che lo sopraffanno. Lontano, sente che è la cosa giusta da fare. Che era anche ora, diosanto. Che è quello di cui ha bisogno.

Sam accetta quello che prova. Fa schifo, ma lo guarda in faccia. Che non si dica che lui non affronta i propri demoni. E a poco a poco i singulti si quietano, le lacrime cessano, e lui si ritrova svuotato come un pupazzo di segatura.

Sam si rilassa contro la paratia e respira. Respira. Respira.

Quando pensa di aver riacquistato il controllo, usa un lembo della maglia per asciugarsi la faccia. Poi afferra di nuovo la pinza e si rimette al lavoro.

Ha entrambe le mani bloccate dentro al motore quando il cellulare inizia a squillare. Sam impreca e toglie una mano da lì, la pulisce alla bell’e meglio sui jeans ed estrae il cellulare dalla tasca.

“Sarah?” incastra il cellulare tra la guancia e la spalla per continuare a lavorare, “Cosa c’è?”

Cosa c’è?! Sono le dieci di sera, Sam!

“Oh…” un’occhiata fuori e in effetti ormai è buio, “Scusa. Sono ancora dietro a quel problema al filtro.”

Lei sospira nella cornetta.

Non dirmi che stai ancora lì.

“Sarah‒”

Lascia perdere. Non hai mangiato, immagino. Hai fame?

“Da morire. Mi avete lasciato qualcosa?”

Certo.”

“Grande! Sto arrivando.”

Non c’è bisogno.”

“Hai mandato i ragazzi?”

A quest’ora? Domani hanno scuola, sono già a letto. No, sta arrivando il tuo amico.”

“Chi?”

Il tuo amico! Quello con la moto.”

“Non ho nessun amico con‒”

C’è un rombo sordo che proviene dall’esterno. A Sam è in qualche modo familiare: è quello che fanno le moto custom di una volta.

Sam?

“Uh… ci sentiamo dopo.”

Sam chiude la chiamata e mette via il cellulare. Mentre risale la scala per andare sul ponte, si pulisce le mani sulla maglia, che tanto ormai è da buttare via. Il cielo è coperto, ma la banchina è illuminata da qualche lampione. La moto fa una manovra e si ferma a qualche metro dal molo dove è ormeggiata la barca, poi il faro si spegne e con esso il rombo del motore.

“Ehi, James Dean.”

Bucky si leva il casco e lo guarda accigliato.

“Chi è James Dean?”

Sam sbuffa una risata incredula e scuote la testa. Poi guarda meglio.

“Quella è la moto di Steve?” Sam appoggia i gomiti sul parapetto e si sporge in avanti,

“Come l’hai avuta?”

Bucky smonta dalla moto.

“Non è che gli servisse.”

“Quindi hai derubato un vecchietto. Bravo.”

“Me l’ha regalata per il compleanno.” ribatte lui, “Tu cosa mi hai regalato?”

“L’onore di avere come amico la mia incantevole persona. Hai portato la cena?”

Bucky sale la scaletta e lo raggiunge, si sfila lo zaino dalle spalle.

“Sarah dice che ormai si è freddata.” apre la zip e tira fuori un sacchetto, “E che te lo meriti.”

Sam la prende e va giù, sotto coperta.

“Felice del fatto che siate già in sintonia.”

“È una donna con la testa sulle spalle.” gli sente dire mentre lo segue, “Mi ricorda mia madre.”

Sam accende la luce e lascia il sacchetto sul tavolo, apre l’anta della credenza per prendere un piatto. Poi si blocca, la mano sul pomello.

“Hai mangiato?” chiede a Bucky, fermo sull’ingresso della cabina.

“Sì.”

Sam lo fissa: non è vero, e si vede.

“Guarda che ce n’è abbastanza.”

“Non ho fame.”

“Sarah cucina bene. Devo dirle che non hai voluto mangiare quello che ha preparato?”

Bucky rotea gli occhi e sbuffa.

“Se mangio stai zitto?”

Sam sogghigna e gli porge il piatto: “No.”

Bucky si leva la giacca e prende posto al piccolo tavolo, borbottando tra sé come quel vecchio permaloso che è. Sam gli passa il resto delle stoviglie e insieme apparecchiano.

Sa di avere fame, ma non si accorge di quanta ne ha finché non apre il contenitore e annusa il tiepido odore delle spezie.

“Che cos’è?” chiede Bucky mentre lui impiatta.

“Questo, amico mio, è il dirty rice.” annuncia Sam con solennità, “Riso e carne, conditi con pepe di cayenna, pepe nero e ovviamente la sacra trinità.”

Bucky dà un assaggio e Sam lo osserva masticare. Non dice niente, ma la faccia che mette su è una reazione più che sufficiente. Nessuno può resistere al dirty rice, specialmente alla ricetta di famiglia.

“Cos’è la sacra trinità?”

Sam ci acciglia: “Cipolle, sedano e peperone. Dove sei cresciuto?”

“Brooklyn.” Bucky mastica un pezzo di carne, “Si fa col pollo?”

“Maiale, manzo, pollo… è lo stesso.” gli spiega tra un boccone e l’altro, “Mamma metteva sempre pollo e Sarah segue la sua ricetta.”

Lui annuisce e continua a divorare il piatto.

“E meno male che non avevi fame.”

Bucky addenta una forchettata e gli lancia un’occhiataccia.

Solo che quella lì non è fame, Sam ne sa qualcosa. Se lo ricorda il sapore dei piatti di sua madre quando tornava a casa in licenza. Si ricorda bene il primo boccone rubato dalla pentola di Sarah dopo il Blip, dopo Thanos, dopo tutto.

“Da quant’è che non mangiavi così?”

“Mh?”

“Roba cucinata in casa.”

“Da ieri.”

“I noodles istantanei e le uova al tegamino non contano.”

Si guardano.

“Okay.” Bucky finisce di masticare e si reclina sulla panca, “Non mangio così dal ‘43.”

È la prima volta che sembra aprirsi con lui e Sam non saprebbe cosa dire, così sta zitto.

“Non faccio un sacco di cose dal ‘43.”

Sam deglutisce il boccone e assieme a quello la sensazione di stare entrando in punta di piedi in una dimensione che ancora non hanno osato esplorare.

“Tipo?”

Bucky fa una smorfia ed evita il suo sguardo, come se il pensiero di proseguire lo mettesse a disagio.

“Ti ricordi a Manipoor, quando mi hai chiesto come stavo?”

Per un momento quel cambio di argomento lo spiazza, ma Sam non è un consulente per niente.

“Non ti ho mai chiesto come stai tu.”

Sam deve fermarsi e sedersi meglio. Davanti a lui, Bucky è rigido sulla panca, la mascella tesa e gli occhi sfuggenti.

“Quando vuoi.” lo invita.

Lui lascia andare un sospiro.

“Magari metti giù la forchetta.” gli suggerisce, “Sai quanti anni ha quel servizio? Ci ho imparato a mangiare da piccolo.”

Bucky guarda la forchetta che tiene in mano e quando nota di averla piegata fa un verso di disappunto. Con cautela la rimette dritta.

“Come stai?” dice mentre posa la forchetta con delicata precisione.

Sam sorvola sulla voce impostata, perché per una volta sa che non lo sta prendendo per il culo.

“Da schifo.”

Niente giri di parole, niente finti ‘bene grazie e tu?’, niente di niente.

Bucky annuisce e sembra davvero a disagio, ma allo stesso tempo non pare tirarsi indietro. Testardo come sempre.

“Vuoi parlarne?”

A Sam scappa da ridere e lui lo nota. Ecco che lo fissa con quello sguardo che fa quando le cose attorno a lui vanno per i cazzi loro e il suo cervello non ci arriva.

“No.” Sam apprezza lo sforzo, davvero, ma oggi non ce la fa, “Ma grazie per il pensiero.”

Bucky annuisce, non sembra convinto.

“Ehi.” lo richiama, “Dico sul serio.”

È bello, qualche volta, essere visti.

Sam non lo sa se il messaggio è arrivato del tutto, ma Bucky sembra rilassarsi un po’ ‒ per quanto sia capace di rilassarsi uno come lui. E lui, con lo stomaco pieno di buon cibo di casa e il cuore pieno di quell’affetto inaspettato, abbassa la guardia. Tutta la tensione della giornata gli si carica lentamente addosso, piegandolo alla stanchezza.

“Dovresti dormire.” gli dice Bucky alzandosi e prendendo i piatti.

Sam sbadiglia e si stiracchia, lo aiuta a sparecchiare.

“Dovrei. Ma prima devo finire una cosa.”

“Fammi vedere.”

Sam obbietterebbe che lui non ne sa niente di barche, ma è troppo esausto per discutere. Lo porta giù, al vano motore.

“Non sembra tanto diverso dal motore di un M2. Qual è il problema?”

“Il problema…” Sam sospira, si strofina la faccia stanca tra le mani, “È che questa è una vecchia signora scontrosa che sta cadendo a pezzi e io non so più come parlarci. Il mio vecchio era capace, lui aveva il tocco giusto.”

Bucky allunga la mano bionica per ispezionare dentro.

“Mh.” fa con aria pensierosa, “Ti dispiace se le dò un’occhiata io?”

Sam scrolla le spalle. Tanto, peggio di così non potrebbe andare.

“Basta che non mi vieni a svegliare.” lo avverte risalendo la scaletta.

Già concentrato sul motore, Bucky gli risponde con un grugnito. Sam scuote la testa e se ne torna sottocoperta, si sdraia su una delle brande e non fa in tempo pensare quanto gli fa male la schiena che sta già dormendo profondamente.

Quando si sveglia, con i raggi del sole dritti in faccia e le urla dei gabbiani, gli sembra di essersi appena addormentato e allo stesso tempo di aver dormito per giorni. Si obbliga ad alzarsi e a sciacquarsi la faccia. Fuori il cielo, per grazia di divina, è limpido. Prende una tazza dalla credenza e accende la macchina del caffè, con la sensazione di aver dimenticato qualcosa. Quando se la ricorda, riapre la credenza per prendere un’altra tazza.

Giù nel vano motore, Bucky sta pulendo e sistemando gli attrezzi nella loro cassetta, con la stessa maniacale cura con cui l’ha visto pulire i suoi coltelli.

“Buongiorno.” gli dice porgendogli una tazza, “Sei stato qui tutta notte?”

“Tanto non riesco a dormire.” Bucky beve un sorso e poi fa una smorfia, “Dio, ricordami di insegnarti come si fa il caffè.”

Sam alza gli occhi al cielo.

“Ho sistemato il filtro. E forse anche quel problema a una delle valvole. C’è comunque un connettore da cambiare.”

Sam lo guarda con diffidenza. Poi si sporge, allunga una mano dentro il motore, tasta. Lo guarda di nuovo: non sta dicendo balle, il filtro sembra davvero a posto. Tutto il resto sono problemi minori.

“Come hai fatto?”

Bucky si stringe nelle spalle: “A volte c’è bisogno di un’altra prospettiva.”

Sam non sa cosa dire. Non sa nemmeno cosa provare. È stato dietro a quella dannata barca per giorni, si è sporcato fino al midollo, ha sudato, imprecato, schiacciato dita. Ha litigato con Sarah per quella barca, un milione di volte. Poi spunta lui dal nulla e risolve il problema principale? La Paul & Darlene è lungi dall’essere pronta a lasciare il molo, ma se non altro adesso Sam vede davvero una possibilità.

“Okay.” finisce il caffè con un solo sorso e batte un pugno sulla paratia, “Mettiamoci al lavoro.”

Lavorano per il resto della giornata, fermandosi solamente verso mezzogiorno per mettere qualcosa sotto i denti, di fatto saccheggiando la dispensa di tutto quello che contiene. La metà del tempo litigano su come procedere, l’altra metà su come coordinarsi, e alla fine riescono a litigare persino su chi si è sporcato di più.

“Va bene, vuoi il podio? Ecco qua!” a tradimento, Sam gli passa sulla faccia una mano unta di grasso di motore.

Bucky sbuffa come una locomotiva e Sam se la ride mentre scappa in cabina di pilotaggio. Quando lo raggiunge si ferma sulla porta, a fissarlo con uno di quei suoi sguardi mentre si pulisce la faccia con uno straccio.

“Stai peggiorando la situazione.”

“E di chi è la colpa?” gli ringhia.

Sam si volta, una mano sulla leva di accensione della barca e una trepidazione addosso che non sentiva da molti ‒ troppi ‒ anni.

Gli occhi azzurri nei suoi, Bucky annuisce in silenzio, e Sam tira la leva.

Il rombo è tanto familiare quanto lontano nei suoi ricordi, al punto che quasi pensa di esserselo immaginato. Poi Sam vede i gabbiani che volano via spaventati e capisce che no, non è una fantasia.

Per Sam è strano pensare che fino a ventiquattro ore prima era da solo a rincorrere quel miracolo, mentre adesso può condividere questo momento con qualcuno. Si sono divisi il carico e non è stato facile, anzi, sono stati più volte sull’orlo di ammazzarsi a vicenda. Ma ci sono riusciti.

“Ci siamo riusciti.” si volta verso Bucky, il sorriso talmente ampio da fargli male alla faccia, “Buck, ci siamo riusciti! Portiamola fuori!”

E Sam è talmente felice, talmente su di giri all’idea di poter finalmente sganciare dal molto la Paul & Darlene, da non si accorgersi di due cose.

Che Bucky non si è lamentato del modo in cui l’ha chiamato. E che sta sorridendo ‒ sta sorridendo davvero.

 
   
 
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