Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 17.12.2021
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Capitolo
Ventottesimo
Venerdì
26
settembre 1511
Si
fanno beffe di me quelli che mi vedono,
storcono
le labbra, scuotono il capo:
“Si
rivolga al Signore; Lui lo liberi,
lo
porti in salvo, se davvero lo ama!”.
(Salmo 21)
Prima
ancora della luce del giorno, l’accampamento di Nervesa
sguazzava in grande agitazione: i soldati raccoglievano in fretta il
minimo
necessario per la cavalcata che li attendeva, avendo ricevuto
l’ordine di
viaggiare leggeri e delegando ai compagni lì rimasti il
compito di caricare il
resto nei carri e di smantellare la tendopoli, bruciando ogni traccia
del loro
passaggio, prima di raggiungerli nel nuovo luogo designato dal
maresciallo.
Diversi
gruppi militari presero dunque la via di Montebelluna,
altri finsero di marciare verso il Barco, per dirigersi invece di
soppiatto
lungo la Piave fino alle basse. Artiglierie e carriaggi vennero diretti
verso
sud, con il Gran Maestro di Francia Jacques de Chabannes de la Palice
in testa,
armato di tutto punto e con la sua impresa ben visibile,
acciocché a Treviso lo
si riconoscesse da lontano, non giudicando savio avvicinarsi troppo
alle mura.
Il suo
piano consisteva in una parata dimostrativa, onde fiaccare
lo spirito dei marciani e far loro credere della sua grande potenza e
di ogni
mancanza di via di fuga; ciononostante, il cuore del maresciallo gli
martellava
in petto d’una sottile ansia, anch’egli timoroso di
una probabile reazione
negativa da parte degli assediati che, interpretando la sua apparizione
come un
tentativo d’attacco, avrebbero a loro volta potuto nuocergli
e in maniera
affatto dimostrativa. Fortunatamente per La Palice, egli aveva tenuto a
mente
la lunghezza della gettata dei cannoni, grazie alle informazioni
ottenute da
Mercurio Bua e Leka Busicchio, e pertanto aveva ordinato ai suoi uomini
per
nessun motivo al mondo di oltrepassare il livello soglia di sicurezza.
“Les
Allemands dovrebbero rientrare entr’oggi”,
spiegò La Palice a
Teodoro Trivulzio e a Galeazzo Pallavicino, i quali sarebbero rimasti
all’accampamento. “Assicuratevi di distruggere il
ponte, una volta che
l’avranno attraversato.”
“Dove
e quando ci riuniremo?”, s’informò il
marchese di Busseto,
intanto che il generalissimo montava a cavallo, aiutato da un suo
paggio.
“A
Torre di Maserada, non appena il grosso degli Allemands si
sarà
ricongiunto a noi”, rispose il francese. “Si Dieu
le veut, potrebbe già essere
stasera” e dopo essersi segnato, batté gli speroni
sui fianchi della bestia e
si pose a testa della colonna di gendarmi e cavalleggeri diretta a
Treviso.
Galeazzo
Pallavicino e Teodoro Trivulzio lo seguirono pensosi con
lo sguardo lungo l’intera discesa dalla collinetta
dell’Abbazia, per poi
voltarsi e rientrare nel cortile interno. Quand’ecco che nel
portone d’ingresso
s’imbatterono in Mercurio Bua e un suo famiglio, ambedue a
cavallo e vestiti
solamente della loro lunga e pesante casacca scura, sul capo il rigido
cappello
di feltro nero al posto dell’elmo, da cui
s’intravedeva sotto la fascia scura
che tratteneva le trecce tipiche dell’acconciatura degli
stradioti.
“Posso
domandarvi dove vi recate?”, inquisì acido il
Pallavicino, le
cui gote ancora bruciavano al ricordo della rampognata da parte del
greco-albanese
avvenuta il giorno precedente.
Gli
angoli della bocca del Bua si contrassero violentemente, gli
occhi scuri attraversati da un luccichio infastidito. Il suo famiglio
girò il
capo nella sua direzione, anticipando da quell’espressione
scocciata una
replica feroce e mordace a danno del marchese, dei suoi antenati e
della sua
progenie.
Contrariamente
ad ogni suo prognostico, il viso di Mercurio si
rilassò tranne per la sua presa alle redini. “A
San Salvatore, dai Conti di
Collalto, a porgere visita al povero conte di Gambara”,
rivelò infine con
sufficienza, come se stesse dialogando con un popolano e non un
aristocratico.
“Non
sarebbe un po’ troppo presto? Appena albeggia.”
“Vorrà
dire che le loro illustrissime signorie m’offriranno la
colazione”, non si scompose il condottiero, le cui nari
dilatate tradivano una
certa impazienza e insofferenza. Appunto per tagliar corto e terminare
lì
quella a lui fastidiosa conversazione, il capitano di ventura diede
un’accelerata alla marcia del cavallo, il quale
incominciò a trottare in
direzione del Castello, abbandonando lì, imbambolati peggio
di due allocchi,
gli interdetti nobiluomini lombardi.
L’obiettivo
finale della sua visita si presentava molto semplice:
se il conte Gianfrancesco ormai non poteva seguirli fino a Treviso,
sicuramente
i suoi uomini non sarebbero stati altrettanto scusati e Mercurio
meditava
d’aggregarli alla sua compagnia, giacché ambedue i
condottieri militavano per l’Imperatore.
Sarebbe stato folle, a seguito delle numerose perdite subite dai vari
agguati e
dalla pestilenza, di permettere a chicchessia di disertare il campo,
anche se
legalmente, cioè rimanendo accanto al proprio capitano
ammalato.
Tentar
non nuoceva: i bresciani del Gambara sicuramente non
appartenevano alla sua gente, però il Bua non voleva
lasciare nulla
d’intentato. Quei soldati avrebbero sempre fatto in tempo ad
essere
ridistribuiti tra le compagnie del Trivulzio, del Sanseverino e del
Pallavicino,
ma l’epirota voleva anticiparli e servirsi, alla peggiore,
dei migliori di loro
per lasciare a quei lombardi soltanto le briciole.
Come
profetato dal marchese di Busseto, in effetti l’arrivo molto
temprano di Mercurio scombussolò gli abitanti del Castello;
nondimeno, lo si
accolse ugualmente, indirizzandolo verso gli alloggi del Gambara mentre
gli
promettevano una pingue refezione.
La camera
del conte bresciano puzzava dell’acre e pesante tanfo
della malattia, un misto di sudore fresco e vecchio, di lenzuola umide
e
sporche, nonché d’umori e di feci che, malgrado la
premura del servo di
svuotare quanto più frequentemente il pitale, seguitava
testardo ad indugiare
nell’aria, ammorbandola. Mercurio storse inconsciamente per
un istante il naso,
grattandoselo come se potesse fisicamente strappare via quel lezzo
dalle
narici. S’avvicinò cauto al letto
dell’ammalato, pigliando una sedia e
sistemandosi a debita distanza.
Gianfrancesco
di Gambara sbatté le ciglia confuso, aguzzando la
vista come se non riuscisse a distinguere le forme del viso del
greco-albanese,
a malapena delineate dalla fioca luce mattutina. Si
scostò via dalla
fronte cinerea qualche ciocca di capelli bagnati e appiccicati tra di
loro,
puntellandosi debolmente sui gomiti onde poter discorrere meglio con
l’ospite
inaspettato. Il suo valletto, rapido, si premurò di
sistemargli meglio il
cuscino dietro la schiena.
“Che
posso fare per voi, capitano Mercurio?”, fu lo stanco saluto
del conte, in attesa che il famiglio terminasse di prepararlo,
avvolgendogli le
spalle con un pesante scialle di lana, poiché i brividi
avevano ripreso a
tormentarlo.
“I
vostri uomini”, venne subito al dunque il Bua,
“volevo sapere
che intenzione avete nei loro confronti.”
Il
bresciano lo fissò lungamente, per poi chiudere le palpebre
doloranti. “Starà al maresciallo La Palissa di
decidere. Per me, io li riporto
a Brescia. Alla fine non sono ancora morto e la mia compagnia non
è ancora
stata ufficialmente sciolta”, disse e i suoi occhi velati
dalla malattia
guizzarono d’un subitaneo fulgore di rimprovero.
“Indubbiamente”,
ribatté ineffabile Mercurio, incrociando al petto
le braccia. “Ciononostante, bisogna valutare ogni
possibilità ed essere pronti
all’evenienza.”
“E
voi in questo siete maestro”, sbuffò sarcastico il
conte Gianfrancesco,
guadagnandosi un’incurante scrollatina di spalle da parte del
condottiere.
“La
morte corrisponde ad una nostra fedelissima compagna”,
sentenziò quest’ultimo serafico. “Quando
mangiamo, quando cavalchiamo, perfino
quando scopiamo essa ci alleggia sempre sopra il capo.
Perché questo vostro
timore di discuterne apertamente? Ormai è risaputo che voi
siete gravemente
ammalato: potete guarire, potete raggiungere il Creatore,
però io non sono così
fatalista da dire: nulla ci garantisce il futuro. Io me lo voglio
garantire ed
eccomi qui per domandarvi di cedermi i vostri migliori
uomini.”
“Mors
tua vita mea?”, ridacchiò beffardo il Gambara,
scuotendo il
capo dinanzi a tanta pragmatica sfacciataggine.
“No,
piuttosto: fallire nel pianificare è pianificare di
fallire”,
lo corresse inflessibile Mercurio.
“Io
seguito a vivere e voi già vi volete servire dei miei
soldati?!”, s’inalberò il nobile
bresciano, verbalizzando finalmente il suo
malessere e indignazione. “Non avete neanche la decenza
d’aspettare?”
Il Bua
arricciò maligno la bocca in un sogghigno. “Vi
ricordo,
signor conte, che voi mi avete sottratto il mio prigioniero quando
caddi
ferito. Non azzardatevi a farmi la morale, in avidità siamo
colleghi.”
Il conte
Gianfrancesco mosse le labbra violacee come se volesse
difendersi da quella veritiera accusa; desistette, mordendosi frustrato
l’interno della guancia. Soltanto lui sapeva che non si
trattava d’ingordigia,
la sua, però non poteva certo rivelarlo all’altro
condottiero. “Ripeto: in caso
di mia morte, starà a La Palissa di ridistribuire la mia
compagnia. Fintanto
che vivrò, essa rimarrà ai miei
comandi”, fu la sua ultima parola e,
stranamente, il greco-albanese non si scompose, chinando in
accettazione il
capo.
Pazienza,
ci aveva provato.
“Si
vocifera che i tedeschi stiano ritornando dalla Patria del
Friuli e che il maresciallo abbia lasciato Nervesa”, riprese
più conciliante il
Gambara, interrompendo il teso silenzio interpostosi tra di loro.
“Corretto.”
“Quindi
quest’assedio si farà.”
“Così
parrebbe”, si grattò Mercurio il mento, osservando
il
paesaggio boscoso dalla finestra, là dove si stagliavano le
sagome dei monti
friulani sul cielo grigiastro e foriero dell’ennesimo
acquazzone. “Stando ai
nostri esploratori, la conquista della Patria è
pressoché completa. Gradisca è
flagellata da una pesante pestilenza e gli imperiali non demordono
nell’assedio. Ed io ho come la sensazione, che lì
i soldati non siano così
devoti da lasciarsi morire di peste per la difesa di San Marco, non se
hanno
una minima possibilità di salvare la propria pellaccia. Le
proposte di Georg
von Liechtenstein alla fine non appaiono così malvagie e
irragionevoli.”
“L’Imperatore
ne sarà contento”, asserì ambiguo il
nobile
bresciano, appoggiandosi stancamente sui cuscini. “Tutto sta
procedendo secondo
i suoi piani: ora come ora, gli manca d’occupare solo il
Cadore e Treviso. In
questo mi dispiace di deludere la Sacra Cesarea Maestà,
poiché mi trovo
impossibilitato a contribuire di persona.”
Le
orecchie vigili di Mercurio s’alzarono a mo’
d’antenna di
lumaca alla menzione del Cadore, regione mai nominata apertamente nei
piani di
conquista del Re dei Romani, non a seguito della debacle del 1509. Che
significava? Non dovevano limitarsi a Treviso? Già la Patria
del Friuli era
stato un fortunato fuoriprogramma, ma cos’erano tutte quelle
deviazioni? Senza
poi consultarlo, proprio lui che Maximilian aveva nominato suo
consigliere di
guerra!
“Abbiamo
combattuto fianco a fianco a Fornovo e a Novara. Mi
rincresce che non lo faremo anche a Treviso”,
dichiarò il greco-albanese
l’opposto dei suoi veri pensieri, studiando vorace ogni
singola reazione sul
viso stravolto del Gambara, in cerca della benché minima
informazione su quella
sgradita novità. In qualità di rappresentante
dell’Imperatore in campo, forse
egli sapeva qualcosa che Mercurio ignorava? In quel caso, doveva
apprenderlo
senza destare eccessivi sospetti. Non fosse mai che il conte
Gianfrancesco
riferisse al Re dei Romani della poca fiducia del Bua nei suoi
confronti.
“Sia
fatta la volontà di Dio”, mormorò
stanco l’ammalato,
sorprendendo il capitano degli stradioti, il quale strabuzzò
disorientato gli
occhi, sporgendosi inconsciamente in avanti, incredulo.
“Non
v’immaginavo così rassegnato”,
aggrottò la fronte, guardingo.
“Guarirete e presto anche”, fu il suo burbero modo
di consolarlo.
Peccato
che il conte Gianfrancesco non seppe apprezzare quel suo
gesto. “Nulla mi tange, nulla m’importa
più di questa guerra”, asserì infatti,
“voglio solo rivedere i miei figli e i miei nipoti prima di
morire.”
“Ritornerete
dunque a Brescia?”, si conformò mesto il Bua,
rammaricandosi nel suo intimo della svanita prospettiva di giovarsi di
quei
valenti soldati. “Non sarà un viaggio troppo
faticoso nelle vostre condizioni?”
“Dopo
l’incontro col cardinale Federico Sanseverino, sì,
ho
ottenuto il permesso da La Palissa di rientrare nei miei possedimenti a
Pralboino. Certamente sussiste il rischio che tiri prima le cuoia,
però … ”
però almeno sarebbe morto in sella, dignitosamente, non alla
stregua d’un
mendicante nell’altrui casa.
“Vi
penserò, una volta a Treviso.”
“Sì,
voi andrete a Treviso”, convenne il Gambara, abbozzando ad un
sorrisetto cospiratore. “Come condottiere della
Serenissima.”
Neanche
l’avesse punto uno scorpione, Mercurio balzò su
dalla
sedia, la quale cadde rumorosamente per terra, provocando uno
spaventato
sussulto nel servo del
conte. “Giammai!”,
ringhiò bellicoso il
greco-albanese, arrossendo alla stregua d’una mela matura,
indignatissimo da
quell’insinuazione che, se udita dalle orecchie sbagliate,
poteva costargli il
collo per tradimento e diserzione.
“Suvvia,
capitano Bua”, non si fece ingannare di certo il conte
Gianfrancesco da quella violenta reazione, semmai aumentando
l’estensione del
suo ghigno pressoché scheletrico a causa della malattia.
“Non nascondetevi
dietro un dito: voi siete un pessimo perdente, il vostro orgoglio
più forte del
vostro onore. Non sopportate l’idea di perdere: vi ricordo
che avete
abbandonato la Signoria quand’era in difficoltà a
Pisa contro Firenze; avete
abbandonato il Moro, dopo la capitolazione di Novara; vi siete stufato
di
servire il Re di Francia dopo la sua sconfitta da parte dei Cattolici a
Napoli.
Appunto perché ormai vi conosco abbastanza bene, scommetto
che, dovessero le
sorti della guerra incominciare a pendere dalla parte di Venezia, voi
ritornerete da lei, perché questa è la vostra
filosofia di vita: vincere e
sopravvivere ad ogni costo. E non vi biasimo, voi provenite da terre
infelici,
assediate da feroci e implacabili nemici, mentre noialtri
…”, e il nobile
bresciano scosse il capo, sospirando amaro, “noi ci siamo
rammolliti e abbiamo
perduto ogni dignità; ci siamo prostituiti per continuare a
vivere nei
privilegi, piuttosto di combattere per mantenere la nostra indipendenza
...”
“Massimiliano
sta conquistando con successo la Patria del Friuli e
lui stesso s’unirà alle nostre truppe
nell’assedio di Treviso. Voi farneticate
d’un futuro irrealizzabile”, si difese prontamente
Mercurio, avvertendo gocce
di sudore freddo scendergli lungo la nuca a causa della schietta e
impietosa
lista dei suoi cambi di partito. Di cosa l’accusava? Non era
forse un
mercenario? Non serviva il migliore offerente? Perché
rinfacciargli quegli
eventi passati?
“L’Imperatore
scenderà certamente, per invadere il Cadore e per
svernare o lì o in Friuli, al sicuro e rifocillato, mentre
voi e La Palissa
rischierete la vita e l’onore a Treviso”,
continuò imperterrito il Gambara,
tallonando serratamente cogli occhi ogni singolo movimento del Bua, il
quale
aveva meccanicamente raccolto la sedia, riprendendovi posto.
“Massimiliano sta
sfruttando l’esercito francese per i suoi piani di conquista
e, una volta
sottomessa l’intera Terraferma, forte della sua potenza
punterà alla Lombardia
ai danni del suo alleato il Re di Francia per rimettere sul trono
ducale di
Milano i figli esiliati del Moro, suoi cugini per matrimonio.”
Il volto
del greco-albanese si tramutò in duro granito,
inespressivo e imperturbabile, tuttavia al bresciano non sfuggirono le
lievi
contrazioni delle sue dita, tamburellanti indisciplinate sulle
ginocchia. Né
tantomeno sorpassò sul lento dilatarsi delle sue nari, come
se il condottiero
si stesse imponendo di non afferrarlo per la collottola e sguarattarlo
fino a
fargli vomitare le budella. “E se anche fosse?”,
giocò al nesci Mercurio in un
sibilo astioso, indeciso se arrabbiarsi di più contro se
stesso o contro
quell’infame dell’Habsburg, che ad ogni occasione
tentava di fregarlo. “A me
non cambierebbe nulla, poiché io servo
l’Imperatore.”
“Il
quale vi ha impedito di guadare la Piave e far provvista,
equiparandovi ai suoi alleati francesi. Vi sfrutta, ma non
v’apprezza”,
puntualizzò il conte Gianfrancesco, rinvangando sadicamente
quello spiacevole
dettaglio, il medesimo che, tempo addietro, Hironimo Miani aveva fatto
notare
al Bua.
Non
ti è sembrato strano l’ordine
dell’Imperatore, che sanciva la
Piave a limite invalicabile soltanto alle truppe francesi e ai tuoi
stradioti?
“Io
odio la Signoria e non cambierò mai bandiera!”,
gridò
subitaneamente Mercurio, onde chetare sia la voce del veneziano sia
quell’assurde calunnie da parte del Gambara.
“Eppure,
Massimiliano stesso sta nuovamente inviando proposte di
pace alla Signoria. Mi spiegate come mai uno che sta vincendo
così
sfacciatamente, all’improvviso vuole terminare in fretta la
partita? Perché sa
che non potrà conservare a lungo le sue vittorie, dovesse il
gioco proseguire
imperterrito!”
“Se
così fosse, allora vorrà dire che
militerò di nuovo per il Re
di Francia! Ma dalla Signoria non ci ritorno!”,
ribadì, battendo le mani
pesantemente sulle cosce, affatto contento di quel metterlo con le
spalle al
muro e al contempo di ridicolizzarlo. Passasse per il patrizio, che
certamente
agiva così per invidia e per confonderlo, ma pure ora il
Gambara spargeva sale
sulle ferite? Il rappresentante dell’Imperatore per di
più? Una noce nel sacco
non fa rumore, due però … Poteva sussistere la
minima possibilità che ambedue
stessero affermando il vero? Che Maximilian si stesse servendo
vigliaccamente
di loro, non stimandoli in realtà nulla?
Me
lo vedo Massimiliano cinguettarti a lavoro terminato: “Ben
fatto, Mercurio; bravo, Mercurio; ottimo lavoro, Mercurio! Grazie,
Mercurio, per aver sacrificato all’altare
del mio prestigio la tua
vita e quella dei tuoi uomini; grazie per aver rinunciato per amor mio
a tua
moglie e a tua figlia!”
“Ritornerete
al servizio della Signoria, eccome, similmente al
figliol prodigo e lei non vi lascerà mai più,
perché è matrigna: tanto generosa
quanto esigente ...”, concluse il discorso il conte
Gianfrancesco, socchiudendo
ieratico gli occhi, trionfante di quella sua certezza. Adesso il Bua
negava e
protestava, ciononostante non serbava amore per chi lo corbellava o non
gli
permetteva di guerreggiare a suo gusto, frenandolo nella vittoria.
Maximilian
lo stava sottovalutando, giudicandolo innocuo, invece del cavallo pazzo
che in
realtà era. Forse non oggi né domani
né fra un mese o un anno, ma il dì della
diserzione del greco- albanese quell’arrogante d’un
Habsburg si sarebbe pentito
di quella sua cecità e ciò sinceramente al
Gambara non suscitava alcun
sentimento di commiserazione.
“Voi
vaneggiate, signor conte. Io non abbandonerò mai il servizio
dell’Imperatore”, reiterò fumante il
capitano degli stradioti, crocifiggendo
con lo sguardo il serafico nobiluomo, che di fatti replicò
velenosamente
carezzevole:
“La
vostra famiglia l’ha già fatto, Mercurio Bua
Spata. E siete
voi forse un Caino, che leva la sua spada contro il suo medesimo
sangue?”
***
Il
capitano Andrea Vassallo controllava con un occhio l’armizzo
dei burchi, mentre con l’altro l’intenso viavai di
marinai sul barcharezo, i
quali stivavano al ritmo serrato e composto d’operose
formiche le staie di
farina sotto il bàito dell’imbarcazione.
Appollaiato in testa all’albero di
prua, stava di vedetta il gato, il quale
scrutava vigile
l’orizzonte in cerca d’eventuali sagome di
saccomanni o stradioti nemici,
prontissimo ad avvertire i suoi compagni e soprattutto i balestrieri
giunti
assieme a loro a mo’ di scorta.
Dal
fallito attacco a Musestre, tutti i duecentouno marinai giunti
da Venezia erano stati spediti a ritirare dai mulini le farine e ogni
burchio e
ganzàra ormeggiati lungo il Sile, i nervi a fiori di pelle
dall’ansia di
ritrovarsi a tu-per-tu coi Collegati. La trafelata staffetta
proveniente da
Treviso aveva avvertito il capitano Vassallo della partenza di buona
parte
dell’esercito nemico da Nervesa e di come si muovesse questi
lungo la Piave con
artiglierie e carriaggi: stessero pertanto in allerta e pronti a
possibili
assalti, avendo intravisto gli esploratori veneziani dei cavalleggeri
francesi
aggirarsi per la Callalta.
“Sior
capetanio”, s’avvicinò il
nochièr ad Andrea Vassallo,
toccandosi il bordo della bereta a mo’ di rispetto.
“Ghemo justo finio
d’armizar l’ultimo burcio. Co’
volé, semo pronti per desarmizar.”
Il
capitano annuì e ringraziò il nochièr
per il rapido ed
eccellente lavoro. “Levate el fèro!”,
comandò ai marinai, una volta salito sul
quartiero del burchio, mentre gli uomini scioglievano le cime dalle
dame e
drizzavano le vele ocra degli alborazi per navigare a
daredosso.
“Chiapar tuti i remi!”, ordinò Vassallo
ai rematori, che si preparassero
all’imminente voga.
Appena
l’ancora veniva issata a bordo della prodiera, ecco che
il gato dalla sua postazione
lanciò il temutissimo allarme:
“Cavali lizieri, sior capetanio!”
Andrea
Vassallo girò di scatto la testa nella direzione indicata
dal marinaio. Non scorgendo tuttavia niente, trovandosi troppo in
basso, si
diresse al poparìn dal pope e
da lì a sua volta gridò: “Calar
i remi in barba! Pupe, a stagando! Vogar a
la desperada!”
In
sincronia perfetta i vogatori sul lai de pope batterono i remi
in acqua e il burchio virò velocemente sulla destra, per poi
raddrizzarsi e
proseguire dritto accodandosi a quelli già in navigazione,
unitisi i prove sui
lai de mèso alla voga, al grido di “Dai de
longo!” e “Pògia la banda!”,
avendo
fortunatamente il vento in poppa, imbulando le vele e spingendo il
burchio in
avanti più agevolmente, malgrado la resistenza della
corrente contraria del
Sile. Il gato fece su cicogna e
segnalò, facendo manto, al
capitano dell’imbarcazione davanti loro
dell’avvistamento dei cavalleggeri
francesi. A catena venne l’informazione condivisa tra i
burchi e costoro
acquisirono improvvisamente velocità e l’eco di
“Premi! Premi!” riverberava
nella frizzante aria settembrina, mescolandosi al vento impetuoso
foriero di
temporale.
“Ala!
Ala!”, s’incoraggiavano tra di loro i rematori del
burchio
del Vassallo, l’ultimo della colonna d’imbarcazioni
e pertanto il più
vulnerabile. Sia i pupe che
i prove grugnivano
dallo sforzo improvviso, i volti rigati da rivoli di sudore e la loro
camicia
divenuta semitrasparente, attaccandosi alla pelle.
“Bativóga! Bativóga!”, li
esortava il portolàn davanti
al pope tra uno
sbuffo e l’altro, dando il ritmo alla vogata, sempre
più rapida e indiavolata.
“Bativóga, fioi de Sen Marcho!”, si
sgolava, sputando fuoribordo il sudore che
gli colava in bocca.
Assicuratosi
d’essersi ben allontanati dalla pericolosa riva, il
capitano Andrea ritornò allora al quartiero, coordinando
l’allineamento dei
balestrieri all’impavesata a
pògia, i quali sistemarono rapidi i
loro pavesi rossi, tenendo i saccomanni francesi sottotiro, non appena
questi
si palesarono sulla riva del fiume, uscendo finalmente allo scoperto,
anch’essi
armati di balestre.
“Zòso!
Zòso!”, fece cenno il capitano ai vogatori
d’abbassarsi
quel tanto da ripararsi dietro i pavesi, quest’ultimi che
presero a tremare dal
secco colpo incassato delle frecce nemiche. “Premi!
Bativóga!”
“Ala!
Ala!”
Un
cavalleggero francese, seguendo il tragitto del burchio e
giudicando d’aver trovato una fessura tra gli scudi difensivi
sull’impavesata,
finì puntualmente fiocinato prima ancora di prendere la mira
da un balestriere
marciano e con lui anche il compagno che l’aveva appena
raggiunto; ambedue cascarono
rumorosamente in acqua, dopo aver rotolato sulla riva fangosa e
ricoperta di
giunchi, tanto da persuadere gli altri francesi a desistere
dall’impresa e
ritornare sui propri passi, realizzando quanto pure loro si trovassero
sulla
traiettoria nemica.
Fortunatamente,
Melma non distanziava troppo da Treviso e la
sospirata sagoma del torrione di San Polo e del porto si
palesò in fretta.
“Quatro de bone!”, comandò giubilante il
capitano Vassallo, acciocché
l’equipaggio rinforzasse il ritmo e la spinta della vogata,
in un’ultima
accelerazione verso la salvifica meta finale. “Quatro de bone
e semo salvi!”
“Premi!
Premi!”
“Bativóga!
Bativóga!”
“Oh
… ehi! Oh … ehi!”
Ancora
gli ultimi tratti di fiume …
“Vòge!”,
giunse l’agognato ordine agli orecchi degli sfiniti
rematori. “Leva remo!”, gridò il
capitano Vassallo all’equipaggio di cessare la
vogata, alzando i remi fuor d’acqua, non prima che i vogatori
s’accasciassero
per qualche istante su di essi, respirando a grosse boccate e
detergendosi il
sudore dalla fronte con le maniche altrettanto bagnate. Nel frattanto,
delle barchette
guidavano le manovre dei burchi, in modo ch’attraccassero
al logo de
sbarco e i morè assieme
ai marinai meno stanchi si
prepararono a scaricare le staie di farine.
Dalla
fretta con cui venne sbrigata l’intera manovra e dalle facce
tese dei soldati al porto, il capitano Andrea intuì lesto
che lui e il suo
equipaggio non erano stati i soli ad aver avvistato e incrociato dei
contingenti francesi.
E la sua
teoria venne confermata infatti dal serrato rullo di
tamburi provenienti dalle casematte e da ogni angolo delle mura,
seguito a
ruota dalla campana del Campanón de 'l Cànpo e
dal grido di “Arme! Arme!” dalle
sentinelle a Porta San Tomaso.
“Dov’è
il magnifico sier Provedador?”, afferrò il
Vassallo un
fante per il braccio, bloccandolo. “Debbo comunicargli un
fatto molto grave!”
“Al
bastion di la Madona!”
In
brevissimo tempo, mentre il capitano correva da sier Zuam Paulo
Gradenigo, i soldati marciani si posizionavano precisi e puntuali
ciascun al
suo posto, avvezzi ormai alle continue esercitazioni; Giorgio da
Cattaro,
Michiel Scariolo, Paulo da Venezia e Gasparo de la Mola - i bombardieri
della
porta e del torrione di San Tomaso fino a quello di San Bartolomeo
- presero rapidi posizione dietro ai loro sacri,
falconetti e alle
bombardelle e spingarde, mentre i balestrieri e gli archibugieri
venivano
diretti alle loro postazioni dal condottiero Carlo Corso, il quale
mandò uno
dei suoi fanti ad avvisare il capitano Renzo di Ceri.
Un timido
sole fece capolino dalle densi nubi grigiastre,
segnalando il raggiungimento di metà mattina e soprattutto
illuminando i
luccicanti corsaletti dei tre distaccamenti di
duecento cavalieri
ciascuno, capitanati personalmente dal maresciallo Jacques de Chabannes
de La
Palice, ben visibile grazia alla sua imponente armatura e alle alte
piume del
suo pennacchio scosse dall’umido vento di levante. Un
palafreniere teneva fermo
il cavallo del maresciallo per il montante del filetto, mentre i due
vessilliferi accanto a lui sventolavano i gigli di Francia,
l’aquila imperiale
e l’impresa della casata del generalissimo.
Malgrado
la grande e minacciosa pompa e lo schieramento compatto,
le tre compagnie se ne stavano cautamente a debita distanza, muovendosi
piuttosto sul proprio lato quasi stessero costeggiando le mura, non
osando
avanzare verso di esse, chiaro segno che si trattava la loro di una
manovra
dimostrativa, senza alcun’intenzione di provocare uno scontro
diretto. Questo
finché un gruppo di sedici cavalieri francesi si
portò più presso e fu allora
che il comandante Carlo Corso diede ordine ai balestrieri di scoccare
le loro
frecce: nessun nemico venne colpito, ciononostante i francesi
rincularono
prontamente, avendo capito d’essersi appropinquati troppo, se
le balestre
potevano comodamente raggiungerli.
“Riusciamo
a colpire la Palissa?”, s’informò Renzo
di Ceri,
fissando avido dalla finestrella il vessillo accanto a cui stava
solenne e
impettito il generalissimo francese, sovvenendosi l’Orsini
del panico degli
imperiali alla battaglia di Tai di Cadore, quando Rinieri della
Sassetta aveva
infilzato con la sua picca il comandante tedesco Sixt von Trautson.
Uccidi il
pastore e il gregge si disperde, chissà se la morte di La
Palice non avesse
sortito il medesimo effetto …
Più
e più volte Giorgio da Cattaro posizionò e
riposizionò la
bocca del sacro, spingendolo quanto più possibile in avanti
onde allungare il
tiro. “No, si trova troppo lontano”,
s’arrese infine il bombardiere, piccato
quanto il capitano delle fanterie, che imprecò rabbioso tra
i denti.
Improvvisamente,
un colpo di colubrina fendette l’aria e la riempì
sia d’acre odore di polvere da sparo sia di nitriti
spaventati ed esclamazioni
di sorpresa: Girolamo da Faenza, bombardiere al bastione della Madonna,
aveva intercettato
quei sedici cavalleggeri che, malgrado l’avvertimento dei
balestrieri di Carlo
Corso, imperterriti avevano continuato a girare attorno alle mura lungo
il
fiume Botteniga. Sicché, il comandante Cipriano da
Forlì, infastidito da
cotanta arroganza, aveva dato ordine di sparare un colpo, con la
benedizione
del provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo, lì a controllare
quelle manovre
sospette. Dopodiché, sceso il patrizio veneziano dal
bastione, salì egli a
cavallo per raggiunse Porta San Tomaso e il capitano Orsini.
“Per
l’intera Corte Trionfante, cosa crede di concludere La
Palissa con questa sua buffonata?”, tuonò il
capitano Vitello Vitelli,
aggregandosi al duo. Era giunto di gran fretta dalla sua postazione e
il suo
cavallo, eccitato dalla corsa, ancora si ribellava agli ordini delle
redini del
morso, scuotendo nervoso il capo e indietreggiando.
“Sarà
certamente venuto a studiare il territorio, in particolare
dove piantare le artiglierie e dove accamparsi indisturbati”,
riassunse Renzo
di Ceri la sua personale teoria. “Di sicuro si
sarà informato sul tiro dei
nostri cannoni, poiché per il momento è
impossibile colpirlo. E con seicento
cavalieri dubito voglia attaccare. Vuole soltanto
intimidirci.”
“Dunque
risponderemo alla paura con la paura”, sentenziò
spiccio
sier Zuam Paulo Gradenigo. “Capitano Vitello, uscite assieme
a tutti i vostri
balestrieri. Vi faranno da scorta le nostre compagnie di stradioti al
gran
completo.”
“Volete
ingaggiarli in combattimento?”, reclinò il capo il
condottiero, assottigliando pensoso gli occhi, confuso da quella
tattica assai
drastica.
“La
Palissa sa che non gli conviene: alla fine dei giochi, non
può
contare che su seicento uomini e per di più si trova
sprovvisto d’artiglieria.
Se vuole evitare un’inutile mattanza, non gli rimane altro
che indietreggiare e
ritirarsi, se voi avanzerete compatti”, capì
invece Renzo di Ceri l’intenzione
del provveditore, ritrovandosi d’accordo con lui: se il
maresciallo voleva
mostrare i denti, loro gli avrebbero risposto mostrando i propri.
In quel
momento si presentò il capitano Andrea Vassallo,
arrestando bruscamente la sua corsa e, piegatosi a metà,
poggiò le mani sulle
ginocchia, ansimando, prima di ripigliarsi e annunciare a sier
Gradenigo:
“Magnifico sier Provedador, zelenza. Abbiamo avvistato
pattuglie di saccomanni
a Melma: per un soffio siamo riusciti ad evitarli, portando al sicuro
tutti
burchi e le farine!”
Sier Zuam
Paulo aggrottò la fronte, affatto contento di tale
novità e al contempo non sorpreso da essa: se invero
l’esercito nemico aveva
levato il campo da Nervesa, era ovvio che prima o poi i rispettivi
soldati si
sarebbero imbattuti e scontrati tra di loro. “Non si tratta
soltanto di una
manovra dimostrativa o d’avanscoperta”,
confidò infine il patrizio i suoi
sospetti ai due capitani di ventura, “bensì di uno
specchietto per le allodole:
mentre noi ci focalizziamo su monsignore di La Peliza e i suoi
gendarmi, i
saccomanni e i cavalleggeri francesi ci saccheggiano alle nostre spalle
i
mulini del Sile e tutte le terre della bassa lungo la Piave. Astuto, il
franzoso.”
“Non
è improbabile che i suoi si trovino ancora
lì”, commentò cupo
l’Orsini, non avendo considerato anche
quell’aspetto del piano del
generalissimo francese.
“Allora
ripaghiamolo della stessa moneta”, suggerì Vitello
Vitelli, raddrizzandosi in sella. “Domanderò al
capitano Piero da Novelon di
darmi dodici dei suoi archibugieri per rimpolpare la mia compagnia,
oltre a
cento fanti, i quali si staccheranno e cavalcheranno fino a Melma a
difesa dei
mulini e in particolare per spazzar via questi molesti mosconi
gallici.”
“Oramai
quest’assedio avrà luogo, è
ufficiale”, concluse il
capitano delle fanterie, acconsento immediatamente alla richiesta del
collega
di cedergli gli uomini necessari alla sua manovra. “Possiamo
soltanto
posticiparlo di qualche giorno, ma non più
evitarlo.”
“L’importante”,
rimarcò gravemente sier Zuam Paulo, “è
che i loro
esploratori non s’avvicino mai a Porta Altinia,
poiché sappiamo corrispondere
al nostro punto debole. Mi recherò subito a conferire coi
connestabili alla
porta e ai bastioni adiacenti, nonché coi loro bombardieri.
Anche il Castello
che presidia la via per Mestre verrà allertato.”
“Alcuni
nostri esploratori ancora non sono rientrati dalla loro
perlustrazione: voglia il Cielo che già stasera scopriremo
l’esatta ubicazione
del nuovo accampamento nemico”, s’augurò
Vitello Vitelli, mentre Renzo di Ceri
domandò al provveditore:
“Orlando
da Bergamo ha ripreso la sua postazione sul campanile di
San Nicolò?”
“Dobbiamo
ringraziare quel formidabile capo-bombardiere, se
abbiamo avvistato immediatamente monsignore di La Peliza”,
gli rivelò sier
Gradenigo, trattenendo a stento un sornione sogghigno soddisfatto e
ringraziando l’occhio di falco del bergamasco.
“Bisognerà raddoppiare la
guardia e rimanere vigilantissimi: la Peliza ha fatto la sua mossa e
non si può
escludere che sia perfino riuscito a convincere i Todeschi a
riattraversare la
Piave. Ricordatevi, che quest’ultimi ritornano con provviste,
artiglierie e
munizioni sottratte alle roccaforti della Patria del Friuli. Ergo, ora
come ora
dobbiamo attenderci ogni sorta d’iniziativa da parte dei
Collegati.”
“Possano
crepare all’inferno, se s’avvicinano a queste
mura!”
“Dio
v’esaudisca, capitan Lorenzo Orsini degli Anguillara, Dio
v’esaudisca …”
Ignari di
quanto si pianificava all’interno di Treviso, il
maresciallo de La Palice, i capitani du Boisy, du Molard e Giulio
Sanseverino
studiavano in un misto di stupore e sgomento le nuove e robuste mura
difensive,
chiedendosi se in verità non avessero fatto stavolta il
passo più lungo della
gamba.
In tale
massiccia opera bellica già altrove s’erano
imbattuti, ma
mai costruita in sì poco tempo, come se Treviso li avesse
sempre attesi, pronta
a combattere.
“Non
è una città”, mormorò
esterrefatto Sanseverino, “è una fortezza
vera e propria!”
Sbatteva
le ciglia, incapace di conciliare i vaghi ricordi
d’infanzia, che possedeva della capitale della Marca, con
quanto gli si stava
presentando innanzi. Nelle occasioni in cui aveva transitato per
Treviso –
quando appena decenne aveva accompagnato i suoi fratellastri Galeazzo,
Gaspare
e Antonio Maria ad una giostra a Venezia o semplicemente quando da
lì si recava
per raggiungere i feudi di Cittadella di suo padre, il fu Roberto
Sanseverino,
condottiero della Serenissima - Giulio si sovveniva
di antiche e
cadenti mura piombate, alte, merlate, costruite di pietre cotte come ai
tempi
degli Scaligeri, facilmente abbattibili da pochi colpi di cannone. Le
undici
porte cittadine le aveva viste chiuse poi da un risibile catenaccio,
manco si
trattassero del recinto di una fattoria. E la città,
appunto, espansa
notevolmente fuori dalla mura in otto popolosi borghi, gaudente e
sonnacchiosa.
Nulla di
tutto ciò era rimasto, tranne il vorticoso abbraccio del
Sile e della Botteniga che assieme ai tre Cagnan circondava possessivo
Treviso,
due fiumi di risorgiva venerati sin dai tempi antichi, prima ancora dei
Romani,
dove valorosi guerrieri lanciavano le loro spade in offerta alla Grande
Dea
Madre loro protettrice.
“Abbiamo
assediato fortezze ben più sofisticate”,
scrollò le
spalle Soffrey du Molard, che in diciassette anni di guerre in Italia
poteva
ben vantarsi di aver ammirato (e distrutto) numerose roccaforti e
città,
“queste mura, anche se nuove, non resisteranno ai cannoni che
ci arriveranno
dal Friuli. Men che meno a quelli ferraresi giuntici da
Vérone. E non sarà
certo un misero fossato e un po’ d’acqua sporca a
fermarci”, aggiunse
tracotante.
Al che il
Sanseverino digrignò i denti, infastidito da cotanto
pressapochismo. “I nostri cannoni non potranno niente contro
la forza di ben
due fiumi, poiché quest’ultimi ci impediranno
anche solo d’avvicinarci alla
città”, ribadì in un soffio. E
proseguendo: “Il mio signor padre, il fu Roberto
Sanseverino d’Aragona, mi raccontò che, nel 1356,
il re Luigi d’Ungheria aveva
provato a costruire delle gallerie sotto le mura di Treviso, ma il
terreno era
talmente impregnato d’acqua da far crollare la loro volta,
seppellendo vivi i
genieri!”, e il labbro inferiore del capitano delle fanterie
guascone tremò
impercettibilmente dinanzi a quella macabra vicenda militare,
immaginandosi
assai vivamente le urla di quei disgraziati, soffocati da fango e acqua.
“Tutte
le fortezze posseggono un punto debole”, intervenne La
Palice per togliere d’impaccio il suo ammutolito
connazionale. “Basta trovare
quello di Trévise e lì bombardarlo senza tregua,
finché non s’otterrà una
breccia. Dopodiché, costruiremo delle zattere per entrare in
città.”
“Ma
cosa ci attenderà, lì dentro?”,
cogitò ad alta voce Sanseverino.
“Se così velocemente hanno eretto una cinta
muraria alla moderna, chi ci
assicura che non abbiano avuto tempo e modo di costruire un controfosso
all’interno, subito dopo le mura?”
In quel
caso, gli assedianti si sarebbero trasformati in sorci in
trappola, alla mercé della furia degli assediati, i ruoli
rovesciati.
“Finora
sembra che sparino soltanto dai bastioni …”,
allungò il
collo du Boisy, seguendo i movimenti dei sedici cavalleggeri mandati in
avanti
in esplorazione.
“Magari
è quel che ci vogliono far credere”, storse la
bocca La
Palice. “Attendono che i nostri si spostino davanti ai
bastioni e lì
colpiscono, acciocché non si sospetti l’esatta
ubicazione della loro
artiglieria.”
“Le
avranno posizionate anche lungo le mura?
All’interno?”
“Non
si deve escludere come possibilità.”
Un
ritmico e sordo rullare di tamburi interruppe bruscamente il
maresciallo, costringendolo a fissare interdetto il gruppetto di sedici
che,
disobbediente agli ordini impartitogli, aveva fatto scompostamente
dietrofront
e stava cavalcando rapidissimo verso le loro fila.
“Guardate!”,
indicò allarmato Giulio Sanseverino, “hanno aperto
Porta San Tomaso!”
I tre
comandanti francesi aguzzarono la vista, afferrando di
riflesso le redini delle rispettive cavalcature. Dietro ai fuggitivi,
infatti,
usciva una colonna compatta tra balestrieri a cavallo e stradioti,
occupando a
guisa di fiume in piena quasi l’intero orizzonte davanti a
loro. Tra di essi
riconobbero immediatamente i capitani Vitello Vitelli e Troilo Orsini
che
portava il vessillo dorato di San Marco, assieme agli altri capi degli
stradioti - i Paleologi, Giorgio Rati, Andrea Pera, Dimitri Megaduca e
Teodoro
Clada.
“Tenete
il passo!”, ordinò Vitelli, al che i giovanissimi
tamburini tradussero musicalmente l’ordinata marcia da
mantenere. “Se ad un
tiro di balestra i francesi ancora non si schiodano dai loro posti,
liberissimi
di caricarli! Nessun prigioniero, tranne per: La Palissa, du Molart, il
Boissi
e Sanseverino!”
“Marco!
Marco!”, risposero in coro i balestrieri e gli stradioti,
quest’ultimi battendo la zagaglia sulle targhe a
mo’ d’accompagnamento ai
tamburi.
I
marciani procedevano in tal guisa lentamente al ritmo cadenzato
dettato dai tamburini, i muscolosi cavalli che battevano impazienti gli
zoccoli
sul fango, sollevandolo; al contempo, la loro marcia possedeva un
ché di
pesante e minaccioso, le armi di ogni soldato pronte all’uso,
senza però mai
cedere all’impulso d’accelerare e caricare
l’avversario.
“Marco!
Marco!”
Il
messaggio appariva inevitabilmente lampante: se i francesi non
avessero ceduto il terreno, avrebbero trovato guerra e morte sotto le
mura.
Mancò pochissimo che ambedue gli eserciti si squadrassero
specularmente dritti
negli occhi, respirando i soldati malamente e scoccando sguardi ora
supplici
ora ansiosi verso i rispettivi comandanti, che li dessero un ordine
chiaro e
preciso, se attaccare o indietreggiare o continuare a marciare, ma che
non li
abbandonassero lì nel dubbio.
“Per
oggi ritiriamoci”, proferì infine il maresciallo
La Palice
dopo un lungo e meditabondo silenzio, cedendo dinanzi
all’impossibilità
d’uscirne vivo in caso di scontro e apprendendo quanto oramai
la sua
dimostrazione di forza avesse perduto efficacia, a confronto di quella
veneziana. “Fate suonare la ritirata! Senza dare le spalle,
non finché non
saremo fuori tiro!” e i tamburini francesi fecero da
contrappunto a quelli
marciani, in un guerresco concerto.
Gradualmente,
la linea dei Collegati indietreggiò, guadagnando
terreno rispetto a quella veneziana, che anzi aveva rallentato il ritmo
di
marcia, una volta afferrato il piano dell’avversario.
“Ho
commesso un errore”, ammise a malincuore La Palice a du
Molard
e du Boisy, aggiungendo poi a denti stretti: “Non saremmo
dovuti venire in un
sol gruppo. Domani ci presenteremo in più distaccamenti: uno
qui a Porta San
Tomaso; uno a Porta Santi Quaranta; uno a Santa Bona; uno a Fontane ed
uno
infine a Melma. E lo vedremo, se les Vénitiens posseggono abbastanza gente per
rincorrerci in tutte le
direzioni!” e detto questo calò irritato la celata
dell’elmo, avendo incominciato
a piovere.
Vous avez seulement gagné
un autre jour de paix,
pensò rancoroso il generalissimo francese,
battendo gli speroni sul fianco del cavallo. “A San Giorgio e
a Torre di
Maserada!”, comandò ai gendarmi e lancieri.
Le
milizie francesi sparirono così all’orizzonte dopo
aver
guadagnato sufficiente terreno per voltarsi e galoppare via, senza
però
accorgersi del drappello di marciani che, staccatosi dalle retrovie dei
balestrieri e stradioti, le rincorrevano in via parallela in direzione
di Melma.
***
Rientrato
fumante d’ira eppure calmissimo all’Abbazia di
Sant’Eustachio, Mercurio Bua prese subito da parte Leka
Busicchio e, ordinato
ai suoi stradioti di non essere disturbato per nulla al mondo,
riferì al
collega quanto svelatogli dal conte Gianfrancesco di Gambara, omettendo
convenientemente la bislacca profezia da parte del bresciano, che
più di ogni
altra cosa l’aveva turbato.
Leka
aveva ascoltato ogni dettaglio in rigoroso silenzio, le gote
che gli si tingevano di vermiglio ad ogni spiacevole rivelazione, in
particolare quando Mercurio gli presentò anche le
dichiarazioni del suo
prigioniero, confrontandole con quelle del Gambara. I due notarono
troppe
coincidenze da considerarle semplici calunnie per invidia o i
vaneggiamenti di
un moribondo, semmai vi scovarono una logica precisa, cinica e affatto
onorevole nei confronti dei loro sforzi per vincere quella dannata
guerra.
“E
se corrispondesse ad una strategia per aizzarci l’uno contro
l’altro?”, vociò infine Busicchio il suo
intimo dubbio, tormentando i guanti di
cuoio. Avevano favellato in greco, acciocché nessuno dei
comandanti italiani e
francesi potessero origliare per caso i loro discorsi. “Il
conte di Gambara non
ha mai dimostrato una grande trasparenza nelle sue alleanze
…”, esplicò molto
diplomaticamente la sua opinione, poiché neppure il Bua
rifulgeva di
cristallina fedeltà verso i suoi committenti.
Nondimeno,
il greco-albanese non sembrò darsene cruccio,
ribattendo piuttosto: “L’ho pensato
anch’io, che credi? Tuttavia, congetture
sospette a parte, nei fatti concreti né il Gambara
né il veneziano hanno
mentito” e si alzò dallo sgabello, pigliando la
brocca e servendo sia lui che Leka
di un abbondante boccale di mosto. “Certo, se davvero
Maximilianos avesse per
piano di pugnalare Loudovíkos alle spalle, dopo aver
terminato la conquista
della Terraferma veneta, obiettivamente a noi ciò non
farebbe né caldo né
freddo.”
“Purché
l’Imperatore non cambi partito in piena guerra,
ché
noialtri saremo i primi a crepare, sgozzati nel sonno dai nostri
ex-alleati. M’inquieta
questa sua improvvisa richiesta di pace”, commentò
secco Leka, paventando un
voltafaccia del Re dei Romani ante di permettere alle sue truppe
d’allontanarsi
in un posto sicuro. “In ogni modo, non m’appare
malvagia come strategia: alla
fine, noi serviamo Maximilianos e ci troveremmo sul carro del
vincitore, no?”
Mercurio
roteò il boccale, studiando assorto il liquido spumoso
dentro d’esso. “Io bado ai fatti”,
asserì grave, “e quest’ultimi mi stanno
parlando chiaro: riservandoci il medesimo trattamento dei francesi,
Maximilianos ci ha dimostrato quanto poco gliene cali di noialtri,
anzi, pure
ci cava dalle spese.”
“Ma
…”
“Se
davvero ci considerasse alla pari dei suoi soldati, perché
ci
ha impedito d’attraversare la Piave e di rifornirci in
Friuli?”, lo interruppe
veemente il Bua, zittendo un intimidito Busicchio, che
s’ingobbì quasi su se
stesso, sopraffatto da quello scatto violento.“Se davvero ci
tenesse a
noialtri, perché non muove quel suo culo austriaco e non si
presenta qui, a
combattere al nostro fianco? Sul serio quell’inconcludente
pusillanime è
convinto, che per amor suo il re Loudovíkos gli
regalerà altre milizie e
danari? Per chi l’ha scambiato? Per un Monte di
Pietà?”, proseguì furioso
Mercurio, puntando l’indice contro Leka, che boccheggiava
sconvolto una
parvenza di replica, abortendola subito dopo, appurando la sua
incapacità di
ribattere a quelle lecite obiezioni. “Quello che abbiamo,
abbiamo per
quest’assedio: il Re di Francia non ci invierà
altro, poiché, contrariamente a
Maximilianos, non spreca né tempo né uomini a
casaccio.”
“Di
sicuro gli imperiali già staranno rientrando a Nervesa e
…”,
farfugliò spaesato Leka, sudando freddo. “E
così … così … supereremo di
gran
numero i veneziani a Treviso … Insomma, non vuole il Re di
Francia risarcirsi
tramite bottino?”
Il
condottiere greco-albanese sogghignò malevolo.
“Quale bottino?
La conquista di Treviso andrà soltanto a vantaggio di
Maximilianos, non certo
di Loudovíkos, poiché così hanno
deciso nei patti di Cambrai: la terraferma
veneta e tutte le sue ricchezze passeranno all’Imperatore.
Quindi o il Re di
Francia rompe l’alleanza con l’Imperatore e si
prende per sé Treviso, oppure
s’impegnerà il minimo indispensabile e il biasimo
cadrà su Maximilianos, che
non è intervenuto tempestivamente.”
“E
noialtri?”
“Tra
i due medici litiganti, chi ci rimette è il
paziente”,
sentenziò amaramente sardonico Mercurio, ritornando a
sedersi accanto al
collega. “Noi moriremo, amico mio, e nessuno ci
ringrazierà.”
Il
capitano stradiota abbassò il capo, colto da subitanea e
frustrata rabbia: sapeva d’essere un mercenario, una spada in
vendita, eppure
possedeva abbastanza amor proprio da non voler essere sacrificato per
colpa
dell’altrui idiozia o avidità. E si dolse della
sua miopia, per non aver saputo
decifrare in tempo gli strani e contradditori atteggiamenti del Re dei
Romani:
tanto prodigo e affabile, quanto doppio e opportunista, che si cuciva
il manto
di gloria con le altrui pelli.
Leka si
morse il labbro inferiore, spiando di sottecchi la figura
immobile e bellicosa del suo collega; per un istante, nutrì
una certa invidia
verso di lui, rimpiangendo di non possedere il medesimo intuito
né la sfacciata
ambizione d’imporsi, anche di malagrazia, tra i grandi della
terra. Mercurio
Bua Spata dettava le sue condizioni per servire come voleva lui, non il
suo committente.
“Che
facciamo allora? Non possiamo disertare.”
Il Bua
intrecciò pensoso le dita tra di loro, portandole sotto il
mento. “Niente per il momento: tacciamo e fingiamo ignoranza,
ma al contempo
accarezziamo i francesi e ce li facciamo amici”,
bisbigliò pianissimo a qualche
centimetro dalla faccia di Leka. “Se la congettura del
Gambara dovesse
rivelarsi una calunnia e una strategia per seminare zizzania,
rivelandola
troppo presto a La Palice noi ci macchieremmo di tradimento e ci
impiccherebbero senza neppure darci l’ultima assoluzione.
Tuttavia, se il conte
stesse dicendo la verità? T’immagini quali
benefici possiamo trarne da
Loudovíkos?”
“Il
quale non sarà contento d’apprendere, come il suo
alleato stia
progettando di sottrargli Milano, per ridare il ducato ai due Sforza
esiliati.”
“Utili
marionette dell’Impero, riportando quest’ultimo
alla
medesima espansione dei tempi antecedenti al Barbarossa: questa
è la grande
missione di Maximilianos”, convenne il Bua, riproducendo
nella sua mente
l’ultimo suo incontro
tête-à-tête con Maximilian, la sua
faccia dal naso
deforme, la sua stazza robusta, il suo carattere sanguigno e collerico
ben
mascherato da cavalleresca cordialità.
Il
greco-albanese riascoltò i progetti
dell’Imperatore,
pronunciati enfaticamente dinanzi ai suoi comandanti, cancellieri e
cortigiani,
di come rivendicasse all’Impero il Friuli e la contea di
Gorizia; di come
considerasse la maggior parte delle città venete
appartenenti alla camera
imperiale e soprattutto di come insistesse intransigente sui diritti
ereditari
che deteneva sulla Marca Trevigiana. L’Habsburg
s’era perfino spinto a
progettare per Venezia un destino di città libera
assoggettata all’Impero, che
avrebbe inglobato tra quelle della Lega Anseatica, fruttandogli enormi
ricchezze e rendendolo il re dell’universo mondo, una volta
che avrebbe
sconfitto, grazie alle sue nuove galee, i Turchi.
Il
condottiere ri-analizzava gli estasiati elogi dell’adulante
seguito di Maximilian, di quel lodarlo come un rapido decisionista
contrariamente a quel temporeggiatore di suo padre, il fu imperatore
Friedrich.
Decantavano la sua genialità e il suo coraggio fuori
dall'ordinario, che lo
precipitavano nelle avventure più arrischiate, chiamandolo
osannanti “l'Ultimo
Cavaliere”. E a Mercurio non era sfuggito lo sguardo di
trionfo
dell’Imperatore, quel suo darsi arie ieratiche da
predestinato, da Cesare
Augusto redivivo, da Carlo Magno, gloriandosi fino alla nausea delle
sue
vittoriose scaramucce contro i francesi di Louis XI e gli Ungheresi e
le città
venete che gli avevano praticamente aperto le porte senza manco
combattere,
cozzando contro la magra figura di Maximilian a Padova, in un vero,
cruentissimo assedio.
Sicché,
ripensando a tutto questo e specialmente al volto del Re
dei Romani con la sua espressione perennemente soddisfatta e benevola
di chi
non aveva mai dovuto lottare in vita sua per il proprio posto al mondo,
che
Mercurio allargò perfido il sorriso mentre una sadica gioia
gli fluiva nelle
vene, realizzando che lui – un semplice condottiero, un
nobile decaduto, uno
straniero di poco conto – poteva intralciare questa sorta di
semidio in terra,
sconvolgendogli i piani; lui poteva competere con un sovrano; lui
poteva
umiliare un Habsburg.
“Se
il Gambara ha affermato il vero”, gongolò
perversamente il
Bua, tremando quasi dall’emozione che tale notizia gli
procurava, “allora egli
m’ha conferito un enorme potere sull’Imperatore, il
potere di distruggere i
suoi sogni di gloria e di conquista e di consegnarlo alla Storia come
un
perdente” e levando lo sguardo verso Leka,
continuò esaltato: “Un potere, di
cui ho intenzione di giovarmi alla prima occasione a noi favorevole.
Noi non
moriremo in questa guerra, amico mio. Noi sopravvivremo e pisceremo
trionfanti
sulle tombe dei nostri nemici!”
Busicchio
grugnì un risolino, coprendosi velocemente la bocca onde
soffocarlo e non destar sospetti.
“Nel
frattempo”, decise pragmatico il greco-albanese,
accomiatandosi dallo sgabello, “continuiamo la nostra recita.
Pallavicino e
Trivulzio si trovano al ponte in attesa degli imperiali: direi di
recarci lì
anche noi e di aiutarli.”
“La
Palice ti tiene in grande stima”, puntualizzò
Leka,
trattenendo il collega all’ultimo. “Forse anche a
lui interesserà salvare la
pelle, dovesse quest’assedio presentarsi più
complicato del previsto …”
Mercurio
annuì pensoso: effettivamente, a quell’aspetto non
ci
aveva pensato. A Louis più di tanto non importava
dell’esito dell’assedio,
tuttavia sarebbe stato sollevato nell’apprendere del ritorno
a Milano del suo
maresciallo, sano e salvo e in un sol pezzo, no?
Di
sicuro, considerato che fino a sera non potevano spostarsi
comunque da Nervesa, al capitano di ventura non rimaneva altro
passatempo, se
non di riflettere e valutare i mille
scenari spiegatisigli innanzi.
L’ennesimo
sgradito crampo serrò le viscere d’Hironimo, manco
lo
stessero straziando con le medesime tenaglie di San’Agata e
Sant’Apollonia e di
conseguenza interrompendo all’improvviso la sua litania di
preghiere. Il
giovane si strinse il ventre cogli avambracci, piegandosi in due in
avanti, fin
quasi a sbattere la fronte per terra, accucciandosi, le orecchie piene
degli
acquosi gorgoglii seguiti da spasmi muscolari. Aveva già
vomitato appena
destatosi, la bocca impastata d’un retrogusto rancido; in
seguito, erano
incominciati quei dolori atroci allo stomaco e una gran voglia
d’evacuare,
malgrado il patrizio si stesse trattenendo con tutto se stesso,
serrando
testardo le gambe.
Purtroppo
per lui, la pressione aumentò al punto che Hironimo
avvertì fluire liquidi anche involontariamente, eludendo la
sorveglianza sempre
più fiacca dei suoi muscoli. Sicché, costretto ad
arrendersi all’evidenza che
gli avevano dato da bere acqua marcia e che nulla l’avrebbe
salvato dalla
dissenteria, il giovane preferì sopportare ai suoi termini
quell’ennesima
umiliazione, piuttosto di lasciarsi cogliere impreparato. Oramai il suo
naso
aveva perduto ogni facoltà di distinguere gli odori, tanto
l’aria mefitica
della cella s’era ammorbata d’ogni sgradevole puzzo.
Alzandosi
incerto sulle gambe, Hironimo avanzò a tentoni al buio,
seguendo il perimetro murale fino a giungere al primo angolo
disponibile. Lì si
sollevò la tunica, si cavò di dosso le mutande,
allargò le gambe e concesse
quel breve sollievo al suo corpo, in realtà il primo passo
verso la più
umiliante delle morti. E mentre gli si bagnavano le gambe, il viso gli
si rigò
specularmente di lacrime: pur rassegnato del suo destino, al contempo
non
voleva lamentarsi con Dio e la Madonna anche di quello, non
giudicandosi degno
di altre richieste. Ciononostante, il suo cuore non riusciva a non
protestare
l’ingiustizia di crepare in maniera sì degradante,
per quanto adeguato
contrappasso per la sua naturale superbia.
Aveva
già domandato troppo alla Vergine d’intercedere
presso il
Padreterno, onde risparmiarlo dal fuoco dell’inferno. Pure
doveva rincarare la
dose di pretese, di una morte onorevole e famosa? Non
montarti la
testa, Hironimo, ti basti ciò che t’è
stato concesso.
Finito
ch’ebbe, il giovane si trascinò cauto dalla parte
opposta
del suo gabinetto di fortuna, guidato dalla fioca luce della fessura
della
porta, raggomitolandosi lì accanto nel tentativo di
respirare un poco d’aria
fresca e di schiarirsi il cervello divenutogli una massa informe di
lana
grezza, tanto la scarsa ossigenazione unita alla febbre gli provocavano
capogiri ed emicranie. Si leccò le labbra secche,
raschiandosi la gola e
sputando catarro. Dopodiché, spogliatosi della tunica,
l’appallottolò e se la
pose sulla pancia, così da riscaldarla e attutire i crampi.
Infine,
riprese a pregare.
Ed
orando, ricordava e meditava sulla sua breve vita, sugli errori
commessi, sulle sue superficialità ed ingratitudine. In
particolare, lo
tormentava il pensiero angoscioso di non poter riappacificarsi con la
sua
famiglia, di non poter chieder perdono a coloro che aveva offeso e,
rimpianto
più pesante da digerire, di non aver alcuna
possibilità di rimediare, di dare
un senso e una direzione alla sua esistenza.
Sebbene
nato nel privilegio e nell’abbondanza, mai aveva
considerato d’usarli per dare un utile e cristiano contributo
alla società; non
aveva mai voluto migliorarsi né nello studio né
in un’occupazione, vivendo
sugli sforzi altri. Accecato dall’egoistica ricerca di
felicità e di piacere
personale, s’era trasformato in niente di meno d’un
parassita, una sanguisuga.
Eppure da bambino era sempre stato così proattivo e pieno
d’idee! Quanto s’era
impigrito nella mollezza degli agi, il suo ingegno impiegato soltanto
al
soddisfacimento delle sue immediate voglie. Ripensò invece
ai suoi primi anni,
quando progettava di divenire Capitano Generale da Mar e
d’emulare le famose
imprese del suo trisavolo sier Zuanne Miani; quando seguiva contento
Madre
nelle sue opere di carità; ripensò ai suoi
maestri, all’agostiniano don Jacomo
Batista Aloisi e ai Canonici Regolari, i quali avevano tentato
d’educargli la
mente e il cuore, per farlo crescere nella pietà e nel
buonsenso.
Virtù
ambedue per troppi anni bellamente trascurate, adesso però
rifiorite spontaneamente: buonsenso perché Hironimo vedeva e
comprendeva i suoi
errori e altrettanto chiaramente progettava e anelava tantissimo di
porvi
rimedio; pietà perché comprendeva come Dio fosse
sempre stato presente nel suo
cuore e nella sua mente, per quanto il giovane patrizio
l’avesse accantonato
per idoli più appaganti e lusinghieri, soffocando e tacendo
la Sua presenza
nella melma dei vizi in cui era caduto, specialmente durante la sua
breve
carriera militare. Si dolse, Hironimo, di aver dovuto aspettare
l’ora della sua
morte per rientrare in se stesso, usando le parole della parabola del
figliol
prodigo, da lui conosciuta fino alla nausea e pertanto su cui mai
s’era
particolarmente soffermato a meditarne i profondi contenuti.
Ora si
sentiva come quello stolto e viziato ragazzo, che aveva
disprezzato l’amore del padre, la sua buona fortuna per una
vita di vuota e
inconcludente voluttà. Sarebbe però riuscito come
lui, si chiedeva Hironimo, ad
alzarsi dal porcile e partirsene per invocare perdono?
Era
impossibile, si disse.
Anche se
percepiva una certa purificazione della sua anima, che
diveniva più leggera e serena, allo stesso modo essa si
stava disancorando dal
suo corpo sfinito dalla malattia e dalle sevizie. Umanamente
prevedendo, era destinato
a perire, forse quel giorno stesso, o l’indomani o fra
qualche settimana …
Hironimo pregava e piangeva, supplicando di morire bene,
d’evitargli la morte
eterna. E tuttavia … morire a neanche venticinque anni, nel
fiore della sua
giovinezza, all’apice delle sue forze sia fisiche che mentali
… Aveva sprecato
tante occasioni, lo ammetteva, ma terminare così la sua
esistenza, senza una
possibilità di riscatto?
Nell’angolo
più oscuro e più tenace del suo cervello gridava
una
voce ben chiara, che no, non voleva un tale triste e anonimo epilogo,
che non
avrebbe gettato all’ortiche gli insegnamenti dei suoi
genitori, dei suoi
maestri, riducendoli ad una misera conversione in punto di morte.
Sarebbe
corrisposta all’ennesima ingratitudine da parte sua.
Ieri
t’eri tutto rassegnato di morire e avevi accettato la tua
sorte e oggi, all’improvviso, domandi di scamparla? Sei
davvero un codardo!,
gli
rimproverò un’altra voce dentro di sé.
Taci! , gli rispose caparbia
quell’altra. Sì,
voglio vivere, voglio ritornare in libertà, ma non per
continuare la vita di
prima! Voglio porre rimedio ai miei sbagli, voglio genuinamente espiare
le mie
colpe, voglio riacquistare grazia presso Dio!
Parli
così perché ti stai – letteralmente
– cagando addosso
all’idea di crepare in una cella buia, umida e puzzolente.
Una volta libero ti
dimenticherai di ogni tua promessa e saremo daccapo: muori invocando
perdono, è
più onorevole!
Hai
ragione, sono sempre stato un bue tardo. Ma ciò non
significa
ch’io mancherò di provarci e riprovarci, anche nel
fallimento! Padre mi disse,
che un uomo che non sa mantenere la parola data non vale nulla ed io
… io
m’impegno a ritornare ad essere degno d’appellarmi
cristiano …
“…
qual vuol grazia e a Te non ricorre, sua disïanza vuol volar
sanz'ali …”, mormorava Hironimo incessantemente la
preghiera dantesca,
riflettendo su ciascuna parola, dandosi coraggio e vigore nella sua
risoluzione, che non fosse dettata dal capriccio di un momentaneo
terrore,
bensì di una concreta proposta di vita.
Un’altra
reminescenza gli volò dinanzi agli occhi: Hironimo si
rivide bambino, furtivamente zampettando in camera del suo omonimo
prozio, sier
Hironimo Miani “il Pizzochero”, il quale da giorni
giaceva ammalato nel suo
letto, confortato dai parenti ed in particolar modo dal suo padre
spirituale,
uno dei Canonici Regolari, che veniva ogni giorno a confessarlo, a
pregare e a
leggergli testi sia biblici che di teologia in generale. Sier Hironimo
non
aveva mai goduto di buona salute e ora che la fibra resistente della
gioventù aveva
lasciato posto a quella delicata della vecchiaia, pur avendo raggiunto
un’età
veneranda, egli soffriva più acutamente ogni malanno che si
buscava e quello,
alas, sarebbe stato quello fatale.
Hironimo
aveva nutrito una particolare predilezione verso quel suo
prozio, il quale si dimostrava comprensivo e dolce nei suoi confronti,
quasi un
benevolo nonno, invece di quel ruvido burbero di suo figlio, sier Zuan
Francesco, che lo rimprovera costantemente, appellandolo
“pendaglio da forca”
due giorni su tre.
In quel
ricordo, Hironimo era scivolato di nascosto nella stanza
dell’ammalato, sedendoglisi accanto e cullando la sua grande
mano rugosa e
sottile tra le sue cicciotte e piccoline, quella mano appoggiata su
“Le
Confessioni” di Sant’Agostino. Il suo prozio
s’era destato dal sonnellino,
sorridendogli a mo’ di saluto e guardandolo teneramente con
quei suoi grandi
occhi buoni.
Il
giovane patrizio non si sovveniva esattamente di ogni parola
scambiatasi tra di loro in quell’ultimo incontro terreno,
tranne del regalo che
“il Pizzochero” gli fece, la famosa lettera di don
Paulo Maffei, il canonico
regolare che, moltissimi anni addietro, aveva rifiutato
l’allora adolescente e
postulante sier Hironimo, la cui salute fragile non lo rendeva idoneo
alla vita
ecclesiastica. Nondimeno, il religioso lo aveva rassicurato che anche
da laico
poteva vivere da buon cristiano e che anzi, i suoi sforzi sarebbero
risultati
doppiamente graditi al Signore, poiché chi viveva nel mondo
subiva maggiormente
il morso delle tentazioni, rispetto a coloro che vivevano fuori
d’esso.
All’epoca, Hironimo era rimasto assai deluso da quel dono,
avendo sperando in
un balocco e i contenuti di quella missiva puntualmente obliati. Ora,
però, gli
riaffiorarono nitidissimi dal profondo mare della sua memoria e poteva
quasi
udire la voce flebile del prozio recitarglieli: “Procuri
Hironimo di
condurre una vita ordinata, raccolta, laboriosa e devota; fugga le
cattive
compagnie e le occasioni di peccato con la custodia attenta e
perseverante dei
propri sensi. Col prossimo usi la massima carità, negli
esercizi di devozioni
non ricerchi lo straordinario. I miracoli, le visioni, le estasi sono
dono di
Dio, anziché questi doni cerchi sempre la grazia
santificante che rende accetti
a Dio e non concepisce neppure un sentimento di invidia verso i
privilegiati
del Signore. Un confessore pieno di prudenza e di santo timore di Dio
gli farà
da guida nel difficile cammino della perfezione.”
“E
quando ti senti lontano da Dio o indegno ai Suoi occhi, prega
la Sua Santissima Madre, poiché nessuna grazia a Lei nega:
in gremio Matris
iacet sapientia Patris, nel grembo della Madre giace la sapienza del
Padre!”,
gli aveva rivelato sier Hironimo, indicando la copia
dell’affresco miracoloso
di Treviso, un regalo dei Canonici Regolari al loro benefattore e che
“il
Pizzocchero” teneva esposta in camera sua, davanti al suo
letto quando ormai da
esso non riusciva più alzarsi.
Ecco!
Ecco dove l’aveva sentita quella frase!
Il
giovane Miani si puntellò sui gomiti, aggrappandosi al
ruvido
legno della porta della sua cella e si sedette scompostamente sui
talloni. Si
sforzava di delineare i contorni sfocati di quel dipinto,
ché sapeva aver
scorto sia nel piccolo altare di famiglia sia nel Monastero della
Carità,
gestito dai Canonici, gli stessi che si trovavano a Santa Maria
Maggiore a
Treviso. Non aveva mai avuto tempo di lì recarsi,
né per curiosità né per
devozione, non nei suoi anni adulti almeno, forse da bambino, ma senza
serbarne
alcun ricordo. Eppure tutti in famiglia avevano nutrito una grande
devozione
verso di Lei.
Pieno di
fiduciosa speranza, Hironimo congiunse le mani
rattrappite dal freddo e si rivolse piangendo alla Madonna, sperando
che non si
scandalizzasse per quel suo improvviso cambio d’idea,
domandandoLe umilmente un
altro tipo d’intercessione.
“Madona
Sanctissima, Verzene Maria”, si raccomandò allo
stremo
delle sue forze, “tante sono le mie sofferenze per i
maltrattamenti e gli
insulti inflittimi, ma nulla paragonato alle offese da me perpetuate
verso il
Tuo Dilectissimo Fiolo Jesu Cristo. So che a malapena merito di morire
a Lui
riconciliato, eppure Ti supplico d’intercedere per me presso
di Lui, affinché
mi sia concessa una seconda possibilità. Sulla mia vita, sul
mio onore, Ti
giuro che non fallirò stavolta. Mi correggerò e
mi riporterò sulla retta via.
Non Ti deluderò! Prometto, se riuscirò a
riacquistare la libertà, d’andare in
pellegrinaggio al Tuo santuario a Treviso, dove graziosamente operi
miracoli
per avvicinarci a Nuostro Missier Domeneddio e contemplare la Sua
Divina Misericordia:
mi recherò lì scalzo e in camicia, da penitente;
farò celebrare Messe di
ringraziamento …”
Per
molte, molte ore Hironimo ripeté quel suo voto, insensibile
a
qualsiasi stimolo esterno e perfino i crampi non lo tormentavano
più. In lui
era finita la paura, esisteva soltanto quella promessa alla Madonna.
Tanto
questa sua determinata orazione lo aveva privato delle poche
energie rimastigli e di conseguenza indotto ad un breve assopimento, da
non
accorgersi di come avesse appoggiato il capo sulla porta,
sicché, quand’essa
s’aprì, il patrizio si ritrovò
scaraventato malamente per terra, la vista
traballante dall’impatto.
Rapido,
tentò goffamente d’indossare la tunica, grato sia
del buio
sia d’aver avuto sufficiente premura di rinfilarsi le
mutande, dopo i dolorosi
affari nell’angolino. Purtroppo per lui,
l’indumento gli venne tolto malamente
di mano, mentre lo si afferrava per i capelli e lo trascinarono fuori
dalla
cella, spintonandolo violentemente contro il muro tra beceri insulti ed
esclamazioni disgustate in un misto tra greco e albanese.
Neanche
il tempo di capire che accidenti stesse succedendo, che
una gelida secchiata d’acqua gli venne scaraventata contro,
strappando ad
Hironimo un gemito di protesta per quell’ennesimo supplizio
alla pelle già di
suo infreddolita. Un panno pesante – che il giovane Miani non
capì se si
trattasse di una coperta o di una mantellina – gli venne
avvolto sulle spalle,
che fungesse sia da telo per asciugarsi sia da vestimento.
Dopodiché, il
famigliare e sinistro tintinnio delle catene rivelò al
patrizio come, dopo
tanti tentennamenti, il campo finalmente si fosse deciso a levarsi e
che dunque
erano venuti a pigliarlo più per quel motivo, che per
accertarsi delle sue
condizioni. Non che personalmente gli facesse alcuna differenza
– sempre
prigioniero rimaneva – però almeno Hironimo, in
cella, non aveva quella
fastidiosa palla al collo a piegarlo a momenti a metà,
né il ferro a
raschiargli a sangue l’epidermide.
Ma
muoversi da Nervesa significava avvicinarsi a Treviso e dunque
la piccola, minuscola prospettiva che qualcuno dei suoi compatrioti
mandasse
una squadra per far incursione nel nuovo accampamento, liberandolo e
costì
permettendo d’adempiere al suo voto.
Traballando,
l’ex-castellano venne scortato dai due stradioti fino
al cortile dell’Abbazia; il cielo s’era scurito
senza tingersi del tipico
arancio del vespro, ingrigito dalle nubi livide e gonfie di quella
pioggia che
cadeva incessante, impregnando il terreno di fango rossastro. Uno
scenario
deprimente, che tuttavia Hironimo assaporò dopo giorni
confinato in quella
tomba di cella, annusando a pieni polmoni l’aria fresca e
terrosa, il profumo
del fogliame autunnale, della resina degli alberi e della pietra umida
del
monastero. Gli parve di ritornare un poco alla vita.
Quand’ecco,
che un odore più nauseabondo distrusse quel piccolo
suo idillio: tanfo di stoffa bruciata, proveniente da fuori le mura
dell’Abbazia, infiltrandosi sornione e ammorbando qualsiasi
cosa su cui si
posasse, uomini, animali, piante.
“Capitano,
siete sicuro di non volerlo mettere sui carri? Neanche
si regge in piedi, ‘sto qua!”, discuteva nel
frattanto uno dei due stradioti
che sorreggeva per le braccia Hironimo, il quale trasalì,
realizzando
all’improvviso di trovarsi davanti a Mercurio Bua: il
temporaneo accecamento,
dovuto alla brusca esposizione alla luce dopo giorni di rigoroso buio,
e lo
spaesamento generale avevano impedito al patrizio di valutare
l’ambiente
circostante.
Il
condottiere lo studiava dall’alto della sua cavalcatura con
un’espressione tra il crucciato e lo schifato, segno che
ancora l’arrabbiatura
per la sua tentata fuga non gli era passata. I rivoli d’acqua
piovana sul suo
volto esacerbavano quei suoi lineamenti accusatori, così
come il riflesso delle
torce accese, svanendo ad ogni istante che trascorreva la luce diurna
per
quella serale. Il suo odio e disprezzo nei confronti del veneziano
apparivano
palesi ed Hironimo non glielo rimproverava, non tanto per aver
progettato di
scappare – reazione ovvia e naturale nella sua condizione
– bensì per aver
infierito, insinuando cattiverie su cattiverie nei confronti della
moglie del
Bua, ch’egli doveva amare assai, a giudicare da come
arruffasse le penne
ogniqualvolta la si menzionasse.
“Camminerà”,
sentenziò brutale Mercurio, battendo sui fianchi del
cavallo per raggiungere il suo soldato, il quale gli cedette
immediatamente le
catene onde condurre a piedi il suo prigioniero. “E se non
cammina, lo scuoio a
frustate!”, gli promise minaccioso, iniziando la marcia fuori
dall’Abbazia.
I primi
passi si rivelarono una tortura per Hironimo, non avvezzo
a camminare scalzo e soprattutto in un terreno così
scivoloso, affondando quasi
nel fango. Scendendo la collinetta sulla quale s’ergeva
l’Abbazia, più volte
dovette puntare i talloni onde non rotolare giù,
sbilanciandolo in avanti la
palla di cannone al collo, il cui peso aumentava anche grazie al trotto
del baio
turco del Bua. Giunti sulla piana, il giovane Miani ansimò
sfinito, respirando
male, il corpo e il viso bagnato di sudore, pioggia e limo.
Approfittando
di un attimo di pausa, Hironimo gettò indietro il
capo e, aperta la bocca, catturò l’acqua piovana,
assetato. Così facendo scoprì
anche da dove proveniva quell’immondo fetore:
l’intera tendopoli ai piedi
dell’Abbazia era stata bruciata, sennonché la
pioggia battente, avendo reso
difficoltosa l’operazione, aveva costretto i francesi ad
applicare olio e pece
per conferire presa e vigore del fuoco contro l’acqua,
ricreando uno scenario
pressoché infernale.
Tale
opinione dovettero condividerla anche le truppe tedesche
appena rientrate dalla Patria del Friuli, osservando disorientate la
desolazione che li circondava. Il grosso d’esse aveva
ripassato la Piave
portando seco un soddisfacente bottino composto da viveri, artiglierie,
munizioni e anche da gente a servizio, questo sotto gli sguardi vigili
dei
comandanti Teodoro Trivulzio e Galeazzo Pallavicino, i quali avevano
poi
ordinato ai guastatori e genieri di staccare il ponte dagli ormeggi di
sinistra
e di pilotare i barconi lungo la corrente, in attesa di nuove
istruzioni.
Malgrado
quindi un ritorno vittorioso, nessuno dei soldati
francesi e italiani guardava con amore quelli tedeschi, né
li consolava né
rallegrava la prospettiva di mangiare finalmente
qualcos’altro che non fosse
pane nero, carne secca e mosto, semmai li portava a scrutare gli
imperiali
pieni d’odio, giurando a quegli opportunisti disertori
vendetta alla prima
occasione propizia. Infatti, non sopportavano di contemplare i tedeschi
pasciuti e ben equipaggiati d’armi e danari, mentre loro
– pur in diversa
misura - avevano dovuto patire la fame e la malattia per rimanere
fedeli agli
ordini impartiti.
Il
capitano Jacob Empser e i suoi compari avanzarono verso gli
altri condottieri, allegri, spavaldi e ignorati degli strali
lanciatigli da
costoro. “Una vero successo”, si vantò
il tedesco a voce ben alta, “siamo
penetrati nella Patria del Friuli a guisa di coltello nel burro,
catturando
prigionieri di spicco” e guardò con sufficienza
Mercurio e Hironimo, il quale,
nelle condizioni in cui si trovava, pareva invero un villano qualunque,
“abbiamo ammassato un ricco bottino, specialmente un gran
numero di cannoni che
aspettano solo d’essere trasportati. A parte qualche
città ostinata, non
abbiamo incontrato grande resistenza: questo significa che la gente ben
conosce
quale sia il suo vero padrone.”
Teodoro
Trivulzio abbozzò ad un sogghigno di scherno.
“Anche qui
nella Marca, la gente ben sa chi sia il suo padrone”,
replicò ambiguo e il
marchese Pallavicino, assieme al Bua, allargarono la bocca in un
sorriso poco
raccomandabile, ogni screzio estinto dalla comune antipatia nutrita
verso il
capitano tedesco.
“Dove
si trova il resto delle vostre milizie?”,
s’informò spiccio
Galeazzo, vociando la collettiva curiosità.
“A
Gradisca d’Isonzo, al comando di Georg von Liechtenstein e di
Fran Krsto Frankopan”, rispose prontamente il capitano Jacob,
“dopodiché si
muoveranno a Motta di Livenza e da lì ci raggiungeranno. Non
abbiamo scordato
la missione affidataci dal Kaiser.”
“Me
ne consolo, per un attimo avevamo temuto il contrario”,
asserì
falsamente sollevato Mercurio, provocando un lieve rossore nelle guance
del
comandante tedesco. “In ogni modo, avrete occasione di
narrare di persona le
vostre favolose avventure al maresciallo La Palice, il quale ci attende
a Torre
di Maserada, dov’è stato allestito il nuovo
accampamento.”
Il
capitano Empser strabuzzò gli occhi. “Partiamo
immediatamente?”, balbettò, guardandosi intorno.
“Ma … abbiamo marciato senza
tregua per giungere qui in tempo, almeno un giorno per riposarci ce lo
dovete!”
A quella
protesta un’esclamazione indignata gorgheggiò in
risposta
dalle gole del Pallavicino e del Trivulzio, mentre il condottiere
greco-albanese
contorse il volto manco soffrisse di coliche, spronando il suo cavallo
ad
avvicinarsi a quello del tedesco. E una volta avutolo a qualche spanna
dal suo
naso, Mercurio gli scoccò una tale occhiata, da eguagliare
quella del dantesco
Minosse al momento del giudizio delle anime dannate.
“Potete
immaginare”, sibilò velenosissimo,
“quanto ce ne può
fottere, che voialtri siete stanchi?” e puntandogli contro
l’indice guantato.
“Il Gran Maestro di Francia ha parlato chiaro: stasera
partiamo per Torre di
Maserada e lì vi ci porterò, capitano Jacob, se
vivo o morto impiccato, starà a
voi deciderlo!”
Dall’alto
della collinetta, ritti in piedi davanti al portone
dell’Abbazia, l’Abate e il monaci benedettini
osservavano silenziosi la colonna
di fiaccole che si spostava in direzione di Treviso, nonché
i falò e i densi
fumi neri provenienti dalla piana sottostante. Man mano che
l’esercito
franco-imperiale s’allontanava, alcuni frati caddero in
ginocchio, congiungendo
le mani e piangendo il loro sollievo per la dipartita di quei satanassi
in
terra.
“Dio
mi perdoni, se per la prima volta in vita mia auguro a
qualcuno di crepare e anche male”, mormorò livido
l’Abate, le nari frementi di
rabbia dinanzi allo sfacelo e contaminazione di quel luogo di pace e di
preghiera.
***
“Maledetto
il budello cane delle loro mamme, ch’el diavolo se li
mangi e li caghi in eterno!”, imprecava il governatore di
Gradisca, il conte
Baldassarre Rimbotti di Scipione, afferrando abilissimo la picca di un
lanzichenecco: tiratolo a sé, gli piantò il
pugnale sotto il mento, facendo
fuoriuscire dalla bocca la lama insanguinata. Sfilatala, il senese
scansò via
il moribondo con un calcio, preparandosi in contemporanea a
fronteggiare il
prossimo avversario e a raggiungere i suoi fedelissimi al porticciolo,
dove li
attendevano dei sandoli e zopoli pronti a navigare l’Isonzo
per portarli in
salvo.
La rabbia
del condottiero non era rivolta unicamente agli
imperiali, che stavano dilagando peggio delle cavallette nella
conquistata
Gradisca, bensì nei confronti della sua medesima compagnia
– quei figli di
troia malnata! – che, esausti e falciati dalla peste,
s’erano ammutinati e
avevano aperto le porte ai tedeschi, accettando le tentatrici
condizioni di
resa da parte dei comandanti Georg von Liechtenstein e Fran Krsto
Frankopan,
guidati quest’ultimi dal re dei traditori, quello spergiuro
di Antonio
Savorgnan, il medesimo al cui fianco, fino a qualche settimana
addietro,
Baldassarre aveva combattuto a Conegliano e a Sacile, fidandosi del
valore e
della dedizione del conte friulano.
Gran
bella cosa, invero!
A
peggiorare le cose, Georg von Liechtenstein aveva imposto una
taglia fortissima sulla testa del conte senese, desideroso di
distinguersi agli
occhi dell’Imperatore portandogli in dono il governatore in
catene e così sia i
suoi uomini sia quelli del Frankopan stavano rivoltando sottosopra
Gradisca pur
di catturare il temibile condottiero, soprannominato
dell’Occhio a causa di una
ferita procacciatasi in un duello, che lo rese, giovanissimo, guercio
ma non
per questo meno letale in battaglia. Ed fu infatti la tracotanza e
dappocaggine
dei lanzichenecchi e pandur croati a salvare Baldassarre di Scipione,
poiché
quegli sprovveduti, notandolo losco, lo sottovalutavano e lo
affrontavano
sbadatamente, ignari della sua maestria nell’arte guerresca.
“Chi
è ancora vivo e chi è ancora fedele a San Marco,
mi segua
alle barche!”, gridò il condottiero al gruppetto
di soldati marciani allo
sbaraglio, mulinando la spada grondante di sangue in direzione del
porticciolo,
sperando che suo figlio Giulio e suo nipote fossero riusciti ad
imbarcarsi in
tempo. Li aveva perduti ambedue di vista nel furore della zuffa, non
appena
quei maledetti cani traditori s’erano ribellati,
rivoltandoglisi contro.
Gli
ultimi rimastigli fedeli, riconosciuta la voce del loro
capitano, lo seguirono velocissimi, approfittando del buio e del
marasma
generale: conquistata la fortezza, molti degli imperiali stavano
pensando più a
far bottino, che a catturare prigionieri. Baldassarre, correndo tra i
vicoletti
oscuri e infilzando chiunque gli sbarrasse il cammino, riconobbe di
striscio il
suo paggio, malmenato ma con la picca in mano e, afferratolo per la
manica, lo
trascinò seco.
Un acuto
coro di nitriti li costrinse ad arrestarsi, appiattendosi
contro il muro: una fila di centottanta fanti friulani era riuscita ad
accedere
alle scuderie e ad appropriarsi dei cavalli, galoppando e caricando i
soldati
tedeschi e croati, sciabolati e calpestati senza alcuna via di scampo,
le
strade troppo strette per scansarsi e trovar riparo. Li guidavano
Mathio,
Todaro e Franceschin Spiron dal Borgo, quest’ultimo fermatosi
un istante
davanti al conte di Scipione.
“Ci
apriamo una via tra questa marmaglia, signor Governatore”,
gli
comunicò concitatamente il condottiere friulano,
“non ci sono sufficienti
imbarcazioni per tutti: Marano la raggiungeremo a cavallo. Iddio sia
con voi!”,
si congedò, battendo di piatto la lama sul fianco del
corsiero, sparendo
inghiottito dalla notte e dalla bolgia infernale cittadina.
“Muoviamoci!”,
intimò Baldassarre al suo paggio, le armi levate e
pronti ad ogni attacco.
Sulla
riva dell’Isonzo fluttuavano sandoli e zopoli carichi di
soldati e di civili, ognuno che portava il minimo necessario per
affrontare il
viaggio fluviale fino a Grado.
“Salite!
Salite! Rapidi!”, incitava i fuggitivi il provveditore
sier Alvixe Mozenigo, aiutando le donne e sollevando lui stesso di peso
i
bambini, dalle gambe troppo corte per salire a bordo da soli.
“Vai, vai! Calar
i remi in barba! Bativóga!”, incitò
egli sia il pope sia il provier dello
zopolo, che si staccò dal barcharezo, raggiungendo gli altri
già partiti.
“Padre!”,
corse incontro Giulio al genitore e Baldassarre,
malgrado la situazione disperata, si tolse un piccolo e rapidissimo
sfizio
d’afferrare il figlio dietro la nuca e di baciargli la
fronte, ringraziando
Iddio, la Madonna e la sua concittadina Santa Caterina per aver
impedito la sua
cattura. Fu inoltre lieto d’apprendere come suo nipote
già si trovasse al
sicuro sulle imbarcazioni dirette a Grado.
“Ora
sali, svelto!”, spronò il condottiero senese suo
figlio e il
paggio, spingendoli su di un sandolo. Poi, rivolgendosi a sier Alvixe:
“Signor
Provveditore, Gradisca è perduta, le nostre compagnie in
gran parte ammutinate.
I Dal Borgo sono riusciti a scappare a cavallo, si stanno dirigendo a
Marano
con 180 uomini e armi.”
“E’
stato quel giuda iscariota d’Antonio Savorgnan a fomentare la
ribellione, vero?”, fu la domanda retorica del Mozenigo, i
lineamenti stravolti
dalla fatica di giorni d’assedio serrato, appesantito
dall’epidemia di peste.
L’ex-governatore
mostrò i denti, esauriente risposta.
“Le
artiglierie?”
“Perdute,
signor Provveditore. Non siamo riusciti a chiodarle
tutte in tempo.”
Sier
Alvixe aspirò a fondo l’aria, portandosi una mano
sugli occhi
brucianti dal fumo e dal sonno arretrato. “Se Trevixo
verrà conquistata per
mano dei miei stessi cannoni, giuro che non me lo perdonerò
mai finché campo”,
dichiarò sconfitto e umiliato per aver perduto quella
preziosissima fortezza in
terra friulana, deludendo la fiducia della Signoria, privata adesso di
ulteriori territori e sempre più indifesa.
Di
sentimenti meno drammatici rimaneva invece il conte Rimbotti,
che gli posò incoraggiante una mano sulla spalla.
“Appena saremo approdati a
Grado, voi portate questa gente in salvo in Istria, mentre io mi
recherò a
Marano, ricongiungendomi alle milizie dei magnifici messeri Giovanni
Vitturi e
Girolamo Savorgnan. L’Imperatore Massimiliano ha vinto una
battaglia, non la
guerra! Finché respiriamo, non gli concederemo un attimo di
requie!”
E Alvixe
Mozenigo capì infine, il motivo per cui il Re dei Romani
voleva in catene l’indomabile condottiere, del cui coraggio e
cinque ferite
frontali il medesimo Re di Francia s’era complimentato, una
volta avutolo
dinanzi tra i prigionieri di spicco dopo la sconfitta
d’Agnadello.
“Mi
domando”, aveva
confidato il sovrano al suo gran
scudiero Galeazzo Sanseverino, “se faccia o
meno un buon affare ad
accettare il suo riscatto e a liberarlo”.
Buono
forse per Louis, pessimo per Maximilian.
***
Tanto le
vittorie ottenute nella Patria del Friuli avevano resi
giovali e baldanzosi i soldati imperiali, tanto quelli francesi li
tolleravano
a malapena, marciando accanto a loro di malavoglia, ogni occasione
buona per
bisticciare, sicché i rispettivi comandanti
s’erano ritrovati costretti a
formare due gruppi separati, onde evitare d’attirare troppo
l’attenzione, nella
marcia notturna da Nervesa a Torre di Maserada e San Giorgio.
Hironimo
procedeva zoppicando e barcollando in stato pressoché
sonnambolico, a momenti trascinato da Mercurio, che lo costringeva a
proseguire, altrimenti si sarebbe accasciato sul primo ciuffo
d’erba
disponibile. I ceppi e le manette gli stavano scavando sulla carne viva
e i
piedi erano divenuti un’informe massa di piaghe e fango;
quanto al cerchio al
collo, il peso talvolta diveniva talmente insopportabile da impedirgli
di
respirare appropriatamente, il che non si presentava ideale,
considerato il
catarro nei polmoni.
Dietro di
lui lo seguivano gli altri prigionieri d’ambo i sessi,
anche loro fiaccati dai maltrattamenti, dalla fame e dalla pestilenza.
Ogni
tanto qualcuno tentava una disperata fuga, approfittando di un attimo
di
distrazione dei soldati e soltanto per via del buio pesto si rinunciava
ad
inseguirli. Chi invece cadeva per terra e non riusciva a rialzarsi,
finiva
seccato da un lanzichenecco, morendo tra le risate sue e degli altri
imperiali,
tra le occhiate di biasimo dei francesi e degli italiani e quelle
impotenti dei
loro compagni di sventura.
Poi, si
riprendeva in silenzio la marcia.
Il
giovane Miani socchiuse gli occhi, concentrandosi sul dolore
fisico, acutizzandolo onde rimanere vigile: non dubitava che il Bua
l’avrebbe
difeso d’analogo destino, al contempo però non
s’azzardava a tentare la sorte,
cadendo, poiché sapeva che difficilmente si sarebbe rimesso
in piedi. Le sue
labbra secche pertanto ripetevano mute continue litanie di richieste di
soccorso alla Madonna, di proteggerlo, di liberarlo, di dargli la forza
di
continuare a camminare.
“No!
No! Per pietade, no! Nol coparme! Nol coparme!”
Sia il
patrizio che il condottiere greco-albanese si girarono di
scatto verso quel grido angosciato, proveniente da un contadino,
disteso prono
per terra, il volto talmente pallido e sudaticcio da riflettere
l’arancio delle
torce. Il giovane uomo era inciampato su una qualche radice e tanto la
febbre e
gli stenti lo avevano debilitato, da impedirgli di sollevarsi, le sue
braccia e
le sue gambe troppo deboli da sostenerlo. Immediatamente, un soldato
tedesco
gli s’era parato davanti, punzecchiandolo con la punta della
propria picca,
intimandogli di rialzarsi. Ma questi piangeva e strisciava per terra,
invocando
una pietà che non avrebbe ricevuto.
“Ajudo!
Mariaverzene ajudo!”, supplicava, coprendosi
d’istinto il
capo, come se bastasse proteggere quello per salvarsi la vita.
“Ajudo!”, levò
le braccia in direzione dei suoi compagni, che s’ingobbirono,
afflitti e
impotenti, già scansati via dalle picche dei lanzichenecchi
che simili agli
avvoltoi pregustavano il pasto di carne e sangue.
“Oh,
Mariaverzene! Oh, Mariaverzene!”, e quella maschera di
terrore e disperazione s’incrociò allo sguardo
d’Hironimo, che tremò da capo a
piedi, nascondendosi il viso tra le mani.
“Avanti,
ammazzalo! Che bisogno c’è di
giocarci?”, gridò snervato
un mercenario italiano della compagnia del Pallavicino.
Il
tedesco lo fissò, sorrise e levò l’arma
per infilzare
l’indifeso contadino.
“No!
No! No!”
“No!”
La picca
cadde a metà, tranciata in due con precisione chirurgica,
studiandola il lanzichenecco incredulo e spaventato a morte.
“No”,
riecheggiò di nuovo il ruggito di Mercurio Bua, il quale
portava la punta della spada alla gola del mercenario imperiale.
“Non ci
saranno più esecuzioni”, riprese lapidario il
condottiero, la cui voce tremava
impercettibilmente come la sua lama. “Chi cade e rimane
indietro, verrà
lasciato indietro alla misericordia di Dio”,
sentenziò e nessuno, neppure i comandanti
suoi colleghi, ebbero il coraggio di contraddirlo.
“Incominciando da te”,
strisciò bene le parole a mo’
d’avvertimento, imitato dalla sua spada,
ch’accarezzava, arrossandolo, il pomo d’Adamo del
soldato tedesco, che
intimidito rientrò nella sua fila. “E
tu”, scudisciò Hironimo, il quale
incassò
in silenzio e senza colpo ferire, “guai a te, se ti cimenti
di nuovo in queste
momarie!”
“Ripartiamo!”,
l’appoggiò il marchese Pallavicino e tutte le
compagnie lì presenti, a testa bassa, obbedirono per una
volta obbedienti e
mansuete. “Avrete tempo e modo d’uccidere
Veneziani!”
Hironimo
s’accarezzò imperturbabile la nuova ferita,
neanche fosse
stato un estraneo ad aver subito la frustata, ponendosi in ginocchio e
liberando l’incredulo contadino dalla prigione del suo corpo.
Si levò il panno
dalle spalle, rimanendo praticamente nudo tranne per le mutande, e
avvolse il
corpo febbricitante e tremante dell’altro, nettandogli via il
fango dal volto
rigato di lacrime e muco. “Dammi la mano”, disse al
giovane, passandosi il
braccio sul collo, aumentando così il peso già di
suo notevole a causa della
palla di cannone. Cinse poi la vita del villano, issandolo su.
“Cammina con me,
fradelo. Ti sorreggo io.”
Stringendo
i denti e ignorando il dolore, la fatica, la pioggia
battente che gli colava sul collo e sulla faccia, lo sforzo di
sorreggere sia
la balota di granito sia il corpo non proprio leggero del contadino,
Hironimo
si riportò accanto ad un pallidissimo e basito Mercurio,
superandolo. Il greco-albanese
si costrinse a ripigliarsi dal suo torpore, il cuore che gli batteva
talmente
forte in petto, che gli pareva di sputarlo. Un istante, un istante e il
suo
prigioniero gli era sfuggito letteralmente di mano, gettandosi a guisa
di scudo
sopra quel villano, proteggendolo dal colpo di picca.
Se non
avesse posseduto riflessi abbastanza pronti …
Mercurio
scosse il capo, inducendo un lieve trotto al suo
corsiero. Sporgendosi in avanti, riprese le catene
d’Hironimo, il quale lo
fissò appena, riabbassando docile il capo e proseguendo
imperterrito nella sua
ciondolante e scoordinata marcia.
Non era
stato il gesto folle del veneziano ad aver sconvolto il
Bua – no, a quelli s’era abituato, reputando quella
peste bubbonica capacissima
di ogni stramberia.
No.
Era stato
il suo sguardo, così fermo, imperscrutabile, lontano.
Mercurio
ancora non riusciva a dargli un nome, ma sicuramente in
esso non vi trovava un uomo spezzato, semmai il contrario.
Continua
…
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Tre
giorni di piogge consecutive portano consiglio e mi
sento molto solidale con ambedue gli eserciti, costretti a lavorare
notte e dì
sotto d’essa, cambiandosi soltanto in letto.
Ormai
manca pochissimo al famigerato capitolo X e speriamo di
renderlo al meglio!
Anticipo,
ma lo ripeterò, che una volta terminata la seconda parte
di questa storia, partirò con la revisione, che non
sarà drastica, lo prometto,
quindi non abbiate paura voi gentilissimi lettori che siete giunti fin
qui.
Per una
volta niente noticine: meglio per me!
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!