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Autore: BlueBell9    13/04/2021    6 recensioni
Rosier si lascia sfuggire un sorriso crudele.
«Sai cos'è la paura, Fenwick?» gli chiede inaspettatamente, strappandolo dai suoi pensieri e riportandolo alla cruda realtà, a quel sotterraneo umido e scuro. «È quel motore che pompa il sangue nelle tue vene, ordina ai tuoi polmoni di incamerare ossigeno ad ogni costo e ti costringe a venire a patti con te stesso. Con le tue emozioni, le tue convinzioni, i tuoi
ideali» termina beffardo, il sorriso che diventa più ampio.
Benjy corruga le sopracciglia, disorientato.
«Sembri conoscerla bene» ironizza tagliente, non capendo dove voglia andare a parare.
Rosier si stringe nelle spalle, sereno.
«È mia vecchia amica da tanto tempo» rivela sbrigativo. Poi gli occhi verdi gli si accendono per l'esaltazione. «Facciamo un gioco» propone animandosi.
«Non ho nessuna intenzione di prestarm-»
«Chi non gioca muore» precisa il Mangiamorte, amabile. «Chiamiamolo
cosa sarei disposto a fare per lei».
[Seconda classificata al contest "Magicamente controversi!" Indetto da Shallo sul forum di EFP]
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Antonin Dolohov, Benjy Fenwick, Evan Rosier, Mangiamorte
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Questa storia partecipa al contest “Magicamente controversi!” Indetto da Shallo sul forum di EFP.















«Posso sedermi?»
Sussultò, voltandosi all'indietro con un guizzo di panico. Suo zio era lì, silenzioso come uno spettro, appoggiato di schiena alla corteccia di un albero. Aveva le braccia incrociate al petto, i capelli scuri tirati all'indietro e la solita espressione indecifrabile sul volto. Si chiese da quanto tempo lo stava osservando e se lo avesse visto piangere.
Si affrettò a passarsi una mano sotto gli occhi, così da eliminare le rimanenti tracce di pianto, prima di annuire e chinare il capo per la vergogna.
Lo sentì avvicinarsi lentamente, con quel passo appena udibile grazie alle foglie secche disperse sul terreno, e sedersi sul masso accanto a lui. Non disse nulla, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e gustandosi i piccoli suoni – il cinguettio degli uccelli, la rapida corsa di qualche coniglio, lo scroscio d'acqua del fiumiciattolo più ad est – che interrompevano il silenzio che ammantava il bosco.
«Da ragazzo adoravo questo posto» ricordò monocorde, accennando un sorriso che sapeva di nostalgia. «Passavo più tempo qui che al castello. Tuo nonno detestava vedermi rientrare solo per cena. Diceva che era inammissibile perdere tempo a bighellonare in giro quando bisognava consolidare il potere e il prestigio della famiglia. Non ha mai capito nulla» affermò risoluto, con leggero sprezzo, lo sguardo perso davanti a sé. «Non può costruire un bel niente se prima non conosci te stesso».
Il bambino alzò appena il capo, quanto bastava per incrociare lo sguardo dell'uomo fisso su di lui.
Ai suoi occhi, suo zio era sempre stato una figura grandiosa ed invincibile. Aveva visto uomini cedergli il passo, piegandosi in inchini servizievoli ed esibendo sorrisi untosi. 
Mangiamorte sussurravano alle sue spalle, alcuni con malcelata ammirazione e altri con palese disprezzo. A suo zio non era mai importato del parere della gente: in qualsiasi discussione, anche con coloro che lui chiamava traditori del proprio sangue, il suo viso non aveva mai espresso nulla. Né piacere, irritazione o altro. Era semplicemente la maschera di qualcuno incapace di provare emozioni.
È quello che mi piace far credere, gli aveva raccontato una sera mentre gli rimboccava le coperte, alle persone spaventa vedere che non c'è altro dietro il mostro.
Eppure con lui non lo era mai stato, un mostro. I mostri in casa sua erano altri: gli uomini incappucciati che si presentavano ad orari improbabili, a volte nel cuore della notte, che lui spiava dalla ringhiera della scala all'ingresso, che avevano tatuato sulla pelle un marchio assetato di sangue e sofferenza, o quello che si aggirava per il maniero con un sorriso affilato e lupesco, desideroso di dispensare punizioni con la bacchetta.
Quello era il peggiore. E lui lo odiava.
«Perché si è arrabbiato, stavolta?» domandò suo zio, apatico, evocando quel mostro dai suoi pensieri.
Lui esitò un secondo, torcendosi le mani.
«Non riusciva a far quadrare dei conti e ha punito un Elfo» rispose, ripensando con un brivido alla scena che aveva visto nello studio. Ancora sentiva nelle orecchie le urla di quella creatura e il suo stomaco si rivoltò al ricordo di tutto quel sangue. «Voleva che guardassi mentre dilaniava il corpo di Tim perché poi avrebbe fatto lo stesso a me. Sono scappato appena ne ho avuto l'occasione» confessò con un tremolio patetico nella voce.
Il bosco era un buon rifugio: suo padre detestava macchiarsi gli stivali e l'orlo del mantello di fango. Non sarebbe venuto a cercarlo.
«E perché?»
«Avevo paura» ammise lui, arrossendo per la vergogna.
Suo zio inarcò appena un sopracciglio, impassibile.
«Mio fratello ha sempre avuto la propensione a prendersela con quelli più deboli, sicuro di poter fare quello che vuole senza subire le conseguenze. La verità è che non c'è soddisfazione in una vittoria facile, è la fatica che rende dolce e appagante il trionfo» illustrò con noncuranza. «Senza contare che ci sono modi più intelligenti per annientare una persona» continuò con l'ombra di un ghigno a solleticargli le labbra. Spostò lo sguardo su di lui, il verde spietato di quelle iridi che lo inchiodava sul posto. «La paura che provi è tutta nella tua testa. Puoi controllarla, comprenderla, piegarla, affinché possa diventare un'arma da usare contro i tuoi nemici» spiegò con dolcezza.
Lui lo fissò, le labbra dischiuse e il volto pallido. Il sangue gli martellò violentamene nelle tempie mentre quella famigliare sensazione d'orrore che era solita artigliargli le viscere e tormentarlo la notte, strappandogli il sonno e facendolo tremare fin dentro le ossa, venne sostituita da una scarica di eccitazione. Gli scorreva nelle vene, potente e ammaliante, accarezzandogli la mente con una serie di promesse.

Non dovrai mai più piegarti, gli sussurrava nelle orecchie quella nuova emozione, niente più dolore, niente più urla. Sarà il tuo mostro quello steso sul pavimento con la schiena insanguinata.
«E come?» pigolò, affascinato da quella prospettiva.
«Ti interessa imparare a dominarla?»
Lui annuì più volte, trepidante.
«Non voglio essere come mio padre» sbottò con uno slancio di determinazione, aggrottando la fronte.
Un uomo che si faceva beffe dei più deboli, che rideva delle loro disgrazie e del loro dolore, ma che tremava alla presenza di qualcuno che riteneva più potente.

Un vigliacco, si disse. Fu un pensiero che trasformò i suoi lineamenti infantili in una smorfia di puro disgusto.
Suo zio rise di una risata feroce, vibrante di gioia e soddisfazione, che riecheggiò tra le fronde degli alberi, facendo innalzare in volo un paio di uccelli. Lo guardò con tale orgoglio che lui faticò quasi a crederlo possibile: nessun adulto lo aveva mai considerato come qualcuno di cui essere fiero, né gli aveva mai rivolto un sorriso tanto luminoso.
«Ragazzo mio, puoi diventare 
molto peggio di lui».








Baratro



«Tutte le creature hanno paura».
«Anche quelle che mettono paura?»
«Certamente, soprattutto quelle».
Batman Begins







Urla, si dibatte e affonda le unghie con disperazione nelle tempie mentre ogni singolo nervo del suo corpo si tende, contorce e brucia come migliaia di aghi nella carne. Il dolore è talmente soffocante che quasi non riesce a respirare.
E poi all'improvviso, esattamente come è venuto, tutto svanisce.
Solo allora si rende conto di essere sdraiato su un pavimento gelido, immerso in un lago di sudore. Batte un paio di volte le palpebre per mettere a fuoco il soffitto di pietra e un gemito gli sfugge dalle labbra, un suono basso e flebile, simile a quello di un animale morente mentre i polmoni si riempono di nuovo, a fatica, di ossigeno. Trema per angoscia e l'incredulità di essere ancora vivo,
 il cuore che gli martella furioso nel petto come se volesse sfondargli la gabbia toracica.
«Posso continuare tutto il giorno» dichiara una voce crudele.
Arrancando, Benjy Fenwick riesce a sollevare il capo.
Dolohov troneggia sopra di lui, avvolto in un mantello scuro e con la bacchetta stretta tra le dita. Nonostante il viso sia distorto in una smorfia irritata per quello che ritiene un insulso tentativo di opporsi al suo interrogatorio, i suoi occhi azzurri bruciano di gioia.
È un sadico che si nutre della sofferenza altrui, realizza Benjy in un lampo di lucidità.
«Non esagerare» lo rabbonisce Travers con un sorriso disimpegnato, in piedi accanto all'altro Mangiamorte. «Non lo devi uccidere» gli ricorda morbido.
«Pensi che non lo sappia?» stride Dolohov, aspro, le labbra arricciate a scoprire i denti. «È fortunato che ci serva vivo, altrimenti lo spedirei a fare compagnia ai fratelli Prewett».
«E ai McKinnon» aggiunge Travers, deliziato, mordendosi il labbro inferiore al ricordo. «Grande serata, quella. Non sai cosa ti sei perso, Antonin. Suppliche, sangue e un uso alquanto creativo dell'Imperius. È stato sicuramente il mio lavoro migliore» considera a bassa voce, quasi tra sé, accarezzandosi compiaciuto la barba.
Benjy non riesce a smettere di fissare i due uomini che parlano tranquilli tra di loro come se non si trovassero nelle segrete di qualche castello, in piedi su un pavimento umido e viscido di sangue, dopo aver appena finito di torturare un uomo e senza badare al resto dei prigionieri appiatti in un agghiacciante silenzio contro le pareti.
La parte più razionale di lui – quella che cerca di scrollarsi di dosso il torpore della paura per fare il punto della situazione – si chiede da quanto tempo si trovi lì, se la sua Mary ha informato l'Ordine della sua sparizione e se qualcuno si stia prendendo la briga ricercarlo. 
No, si dice, passandosi la lingua sulle labbra screpolate e insanguinate che ha martoriato con i denti mentre era sotto Cruciatus, è inutile sperare. Non uscirò vivo da qui.
«È ovvio che non vuole parlare, Antonin» riprende Travers, scoccando a Benjy un'occhiata quasi dispiaciuta. «Un vero peccato, non trovi? Ci risparmierebbe tanto di quel lavoro...»
«Voglio vedere per quanto rimane di questa convinzione» sputa Dolohov, storcendo il viso in una smorfia minacciosa. «Tempo altri dieci minuti e la Cruciatus gli scioglierà la lingu-»
«Mi annoio».
Dolohov e Travers si voltano indietro, sul viso un'espressione di identico stupore.
A Benjy quasi sfugge un gemito strozzato quando realizza di essersi dimenticato del suo terzo carceriere, quello che è rimasto per tutto il tempo su una sedia dall'altra parte dei sotterranei, nascosto nell'ombra ad ascoltare le sue grida. Non sa il perché ma la calma di quella voce lo preoccupa più di quella vibrante d'ira di Dolohov o del falso rammarico di Travers.
Forse perché, elabora il suo cervello, sai di cosa lui è capace.
«Come?» domanda Dolohov, gelido.
«Ho detto che mi annoio» ripete Rosier, paziente, ignorando l'irritazione dell'altro Mangiamorte. «È un'ora che sono rinchiuso in questo umido sotterraneo a guardarti torturare inutilmente Fenwick» spiega apatico.
«Allora dacci una mano invece di ciondolare!» abbaia Dolohov, rabbioso, digrignando i denti. «Non mi sto divertendo».
«Avrei detto il contrario» considera Rosier, quasi sovrappensiero.
Benjy sente la sedia strisciare indietro e trattiene il respiro. Lo vede emergere dall'oscurità con il passo lento e sicuro, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni. Si ferma accanto ai suoi compagni, inclinando il capo di lato e soppesandolo con lo sguardo.
Evan Rosier ha il volto di un ragazzo e gli occhi di un vecchio. Dietro le fiamme che bruciano in quelle iridi verdi, c'è uno scintillio di feroce perspicacia. C'è il desidero di scavargli la mente, di 
capirlo, di farsi strada dentro di lui per scoprire ogni singola debolezza. Vuole guardargli l'anima, piegarla, dilaniarla e assoggettarla.
Vuole distruggermi dall'interno, pensa Benjy, raggelato, deglutendo a fatica.
«Non parlerà con la Cruciatus» decreta infine Rosier, certo, senza smettere un attimo di guardarlo. E Benjy ha la sensazione che più guarda quegli occhi e più gli stia concedendo frammenti di sé. «È uno di quegli sciocchi che si crede un eroe» commenta incolore.
«Stai dicendo che finora ho solo perso tempo?» domanda Dolohov, sferzante.
Rosier alza le spalle con noncuranza.
«La Cruciatus funziona» insiste Dolohov, scoccandogli un'occhiata risentita. «Bisogna solo avere pazienza. Cedono tutti, alla fine» afferma convinto, annuendo con il capo. «Ma se tu hai un'idea migliore...»
Rosier inarca appena un sopracciglio a quella palese provocazione, voltando lo sguardo verso l'uomo alla sua sinistra.
«Così da prendermi anche la responsabilità del fallimento?» ironizza, lasciandosi sfuggire un sorriso lieve. «Così da essere punito dal Signore Oscuro al tuo posto?»
«Se pensi di riuscire a farlo parlare...»

«Ma io 
so di riuscirci» afferma Rosier, non con arroganza ma con sicurezza. «Come so che la mente umana è molto più pericolosa di qualsiasi incantesimo» continua criptico.
Dolohov gli rivolge un ghigno di sfida.
«Allora dimostramelo».
Rosier continua a sorridere, sarcastico, guardandolo di sbieco.
«Come vuoi» sospira condiscendente. «Però vi chiedo di lasciarmi solo: non mi piace avere un pubblico».
Travers sorride intrigato mentre Dolohov scuote la testa, il viso corrucciato in una smorfia nauseata.
«Il solito presuntuoso» lo sbeffeggia quest'ultimo, offensivo. «Riderò del tuo fallimento, Rosier».
«Di' a Greyback di portarmi quello che gli ho chiesto, piuttosto» ribatte lui, atono e immobile, attendendo che i suoi compagni gli lascino campo libero.
Appena la pesante porta della cella si chiude con un cigolio inquietante, il Mangiamorte appella la sedia con un incantesimo non verbale. Si lascia cadere sopra mollemente, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, bacchetta in pugno, e sporge il busto in avanti. Socchiude appena le palpebre, fissandolo sagace.
«Non credo di aver mai avuto il piacere, Benjy Fenwick» esordisce infine, composto, azzardando persino un sorriso di cortesia. «Che cosa si prova a strisciare ai piedi di uno di quelli di cui ti credi tanto superiore?»
Benjy stringe le labbra in una linea dura e risentita.
«Non ti dirò dove sono nascosti i Potter» sputa simulando coraggio, nonostante non riesca nemmeno a mettersi seduto. Con una smorfia di fastidio, è costretto ad osservare il suo carceriere accovacciato sul pavimento, i muscoli doloranti e incapaci di rispondere ai suoi comandi.
Rosier si limita a lanciargli un'occhiata penetrante che non cela l'ironia.
«Perché non lo sai» afferma sicuro, senza smettere di sorridere. È appena una piega delle labbra ma gli ingentilisce i lineamenti del viso. «Sei troppo in basso nella scala gerarchica. A dire il vero, non comprendo la tua utilità all'interno dell'Ordine: non hai amicizie influenti, non sei particolarmente abile nei duelli e le tue strategie lasciano parecchio a desiderare. Sei una pedina sacrificabile. Dubito che Silente abbia questi grandi progetti per te».
«E allora perché stai perdendo il tuo tempo con me?»
«Perché voglio delle informazioni e, a differenza di Dolohov, so come ottenerle dai soggetti più caparbi» spiega quieto. «È quasi un anno che il Signore Oscuro cerca i Potter e, se non li ha trovati lui, significa che sono nascosti sotto Incanto Fidelius. Quindi c'è un Custode Segreto. E chi può essere?» domanda pensieroso. «Silente? Probabile ma in tal caso le nostre possibilità di trovarli si riducono fino a svanire. Fingiamo per un attimo di escluderlo. Chi ci rimane? Sirius? Certo, fin da bambino ha dimostrato un certo sprezzo per il pericolo e considera Potter come un fratello, ma non ti pare scontato? Tutti sono a conoscenza della loro amicizia e, questo, renderebbe Sirius una scelta poco saggia. Il Custode Segreto è, per sua stessa definizione, segreto quindi perché semplificarci la vita e scegliere qualcuno di così prevedibile? No, non credo affatto che sia lui» confessa, scuotendo il capo. «Ragioniamo che, chiunque abbia accettato l'incarico, sappia di esporsi ad un rischio mortale e chiediamoci: chi sarebbe disposto a morire per James e Lily Potter?» domanda, piantandogli quegli occhi verdi e freddi addosso. «Mi vengono in mente solo due nomi, due soli individui che hanno passato i setti anni di Hogwarts attaccati al mantello di Potter: Lupin e Minus. Quindi» continua, piegando il capo e sfoderando di nuovo quel sorriso gentile. «Chi è dei due?»
«E cosa ti fa credere che io lo sappia?» replica Benjy, ruvido. «Prima hai affermato il contrario!» gli ricorda velenoso.
«E lo penso ancora» conferma Rosier, sereno. Sbuffa, distogliendo lo sguardo e scuotendo il capo quasi con compatimento. «È un peccato che nessuno si ricorderà di te, Fenwick. Sei stupido ma cerchi disperatamente di essere leale fino alla fine» riflette posato. «Lo ha fatto anche Fabian Prewett. Un po' mi è dispiaciuto per lui: era un grande mago».
«E tu lo hai ammazzato» recrimina Benjy, sforzandosi di scacciare l'angoscia al ricordo della morte dell'amico.
A pensarci bene, quella è stata la prima volta che ha visto Rosier in azione. All'inizio non gli aveva prestato particolare attenzione – era solo un altro Mangiamorte senza nome – fino a quando non lo aveva visto tenere testa a Fabian. Era un 
ragazzino – uno dei tanti che si erano diplomati ad Hogwarts qualche anno addietro – eppure i suoi incantesimi erano letali e precisi, e il suo stile di duello imprevedibile e subdolo.
«Dolohov lo ha ammazzato» puntualizza Rosier, senza alcun rimorso, rigirandosi la bacchetta tra le dita. «Io mi sono limitato a renderlo 
innocuo» ricorda distrattamente. «E poi, cos'è questo biasimo che sento? Anche tu hai ucciso, vero Fenwick?» insinua mellifluo.
«Mai persone innocenti» proclama Benjy, fiero. «Solo mostri come te».
Ora che lo osserva così da vicino, si accorge delle ombre violacee sotto i suoi occhi e dell'aria stanca. Il Mangiamorte ha la faccia di chi non riesce a dormire bene la notte e, per un folle istante, Benjy si chiede che cosa tenga sveglio Evan Rosier. Forse la consapevolezza e il senso di colpa per aver distrutto tante vite gli tormenta il sonno?
Ma no, pensa con acredine, figurati se a lui importa di loro. Dovrebbe avere un cuore per provare qualche tipo di sentimento.
Rosier si lascia sfuggire un sorriso crudele.
«Sai cos'è la paura, Fenwick?» gli chiede inaspettatamente, strappandolo dai suoi pensieri e riportandolo alla cruda realtà, a quel sotterraneo umido e scuro. «È quel motore che pompa il sangue nelle tue vene, ordina ai tuoi polmoni di incamerare ossigeno ad ogni costo e ti costringe a venire a patti con te stesso. Con le tue emozioni, le tue convinzioni, i tuoi 
ideali» termina beffardo, il sorriso che diventa più ampio
Benjy corruga le sopracciglia, disorientato.
«Sembri conoscerla bene» ironizza tagliente, non capendo dove voglia andare a parare.
Rosier si stringe nelle spalle, sereno.
«È mia vecchia amica da tanto tempo» rivela sbrigativo. Poi gli occhi verdi gli si accendono per l'esaltazione. «Facciamo un gioco» propone animandosi.  
«Non ho nessuna intenzione di prestarm-»
«Chi non gioca muore» precisa il Mangiamorte, amabile. «Chiamiamolo 
cosa sarei disposto a fare per lei».
E proprio nell'istante in cui finisce di parlare, che la porta della cella si apre con rumore metallico. Greyback entra con un ghigno tagliente sul volto, trascinandosi dietro una figura più piccola, tremante ed arrendevole.
A Benjy basta una sola occhiata perché il cuore perda un battito. Stretta tra le grinfie del Lupo Mannaro, con gli occhi marroni colmi di lacrime e terrore, c'è la sua piccola Annie, la bambina che lui e Mary hanno desiderato così tanto mettere al mondo.
Con un scatto energico, cerca di rimettersi in piedi ma le gambe cedono non appena tenta di distenderle. Cade in ginocchio, picchiando le rotule contro la dura pietra del pavimento ma nemmeno bada al dolore, troppo impegnato a fissare ossessivamente la sua bambina, a scacciare quel ronzio sordo che fischia nelle orecchie – è solo panico, può controllarlo – e a farsi venire un'idea per portarla fuori da lì. Lontana dai quei mostri, lontana da Rosier.
«Dolohov ha ragione: la gente diventa chiacchierona sotto Cruciatus» riprende quello, carezzevole. «E tu zio non ha resistito nemmeno cinque minuti prima di rivelarci l'ubicazione del rifugio della tua famiglia. Non fartene una colpa. È una delle debolezze dell'uomo» lo consola.
«E Mary?» gracchia Benjy, la voce spezzata e flebile. «Dov'è?»
«
Chi?» chiede Rosier, corrugando le sopracciglia con educata confusione.
«Mia moglie. Dov'è mia moglie?»
Il Mangiamorte si volta a guardare il Lupo Mannaro, che, ghignando, mostra una fila di denti gialli e affilati.

«Avevi detto di volere solo la bambina» risponde rauco, senza riuscire a celare il divertimento. «Non mi avevi detto che ti serviva anche la donna».
E mentre a Benjy vorticano una serie di immagini terribili davanti agli occhi, mentre pensa a quello che quella bestia ha fatto a Mary – l'ha uccisa sotto gli occhi di Annie? – e sente una rabbia cieca divamparli nel petto, Rosier inarca appena un sopracciglio con vago rimprovero.
«Immagino di essere stato ingenuo» continua atono, facendo una smorfia. «Puoi andare Greyback».
«Ti dispiace se resto?» domanda questo, passandosi la lingua sulle labbra, affamato. «Adoro quando li fai crollare».
«Non lo ripeterò due volte» ribadisce Rosier, gelido, scoccandogli un'occhiata significativa.
Contrariato, Greyback lascia il braccio di Annie ed esce con pesanti passi dalla cella, chiudendosi la porta alle spalle.
La bambina, rimasta immobile e silenziosa per tutto il tempo, fa rimbalzare lo sguardo spaventato dal Mangiamorte al padre e, dopo un secondo di ansiosa incertezza, scatta verso il genitore. Benjy spalanca le braccia, pronto ad stringerla a sé, quando Rosier evoca una barriera azzurrina che cala tra di loro e divide il sotterraneo in due parti: Annie rimane da una parte, Benjy e gli altri prigionieri dall'altra.
Con un secondo incantesimo – un Petrificus Totalus, probabilmente – la bambina viene immobilizzata sul posto.   
«Passo ad illustrarti le regole del gioco» riprende Rosier, tranquillo. Benjy non può fare a meno di sentirsi a metà tra l'allarmato e il furioso. Vederlo così vicino a Annie, pensare a quello che lui potrebbe farle, annebbia la sua ragione, facendolo sentire debole e vulnerabile. «È molto semplice: ti faccio delle domande, tu mi rispondi. Puoi mentirmi, naturalmente, ma se me ne accorgo, paghi pegno».
Benjy deglutisce, inquieto.
«E in che cosa consiste questo pegno?» chiede titubante.
«Qualcuno muore» chiarisce Rosier, appoggiando rilassato la schiena al legno della sedia. «Decidi tu se tua figlia o uno degli altri prigionieri, per me non fa differenza».
Benjy abbassa la testa, nascondendogli il viso. Nel silenzio che segue sente solo il suo respiro diventare più affannoso.
«È solo una bambina» tenta, incredulo e orripilato, gli occhi incollati al pavimento.
Rosier sospira, annoiato.
«E questo dovrebbe proteggerla?» domanda piano, senza intonazione. «Sono sempre i bambini a pagare il prezzo delle scelte degli adulti» considera con un punta di amarezza.
«Non hai un briciolo di compassione» proclama Benjy, impetuoso, vomitandogli addosso tutto la sua collera. Se non ci fosse quella dannata barriera e se il suo corpo non fosse così debole, gli si scaraventerebbe contro e lo strangolerebbe con le sue mani. Niente gli darebbe più piacere.
Rosier rimane immobile, indifferente al risentimento e all'odio che gli vede sgorgare dallo sguardo.
«L'ho finita da tempo» dice solo, imperturbabile.


«Respira».
Evan si sforzò di ubbidire, cercando di ignorare quell'odore di sangue che sentiva ancora nelle narici e che gli sconquassava lo stomaco, riportandogli alla mente il macabro spettacolo che si era concluso meno di una decina di minuti prima nei sotterranei.
«Respira» ripeté suo zio, scostandogli con un gesto incredibilmente dolce i capelli dalla fronte sudata. «Ecco, così».
Evan, i polmoni che incanalavano più ossigeno e quella sensazione di nausea che si ostinava a tormentarlo, sollevò il capo e il sorriso dell'uomo era lì, ad accoglierlo.
«Quello che
Sewlyn ha fatto» iniziò roco, con la voce spezzata.
«Lo so» lo interruppe suo zio, comprensivo. «Ma siamo in guerra, Evan: le vittime sono inevitabili».
«Li ha torturati» sottolineò lui, pronunciando quelle parole con incredulità e accusa. «Non era necessario infierire così, non era necessario 
mutilare».
Suo zio sospirò leggermente, abbassandosi quanto bastava per essere alla stessa altezza di un ragazzino di dodici anni.

Ecco, si lasciò sfuggire lui, mortificato. L'ho deluso. Deludo sempre.
«È stato sgradevole» concordò, invece, l'uomo, sottovoce. «Però necessitavamo di quelle informazioni e Selwyn non avrebbe calcato tanto la mano se loro si fossero limitati a darcele senza troppe storie» osservò grave. Le sue labbra ebbero un fremito prima di piegarsi in una linea amara e lo sguardo si incupì. Gli afferrò i capelli castani, spingendogli la testa in avanti fino ad appoggiarsi alla sua fronte e scrutandolo dritto negli occhi. «Ho visto la tua reazione quando lui ha iniziato ad interrogarli» e, qui, Evan non riuscì a trattenere il rossore che, traditore, gli imporporò le guance, né quel moto di vergogna che lo investì. «Non sono deluso» confessò suo zio, schietto, stringendogli i capelli in una morsa quasi dolorosa. «È normale provare compassione, all'inizio. Con il tempo imparerai a sopprimerla».



«Prima domanda: prima che il Signore Oscuro lo cercasse, hai visto spesso Potter in compagnia di Lupin e Minus al vostro quartier generale?»
Benjy piega le labbra verso il basso, un'espressione ostile che si fa strada sul volto pallido.
«Ah, già» riprende Rosier, sbadato e sfoggiando un sorriso di scuse. «Mi sono dimenticato di illustrarti la regola più importante: se non mi rispondi, farò tornare qui Greyback. Gli lascerò carta bianca su come straziare la carne della bambina e ti costringerò a guardare. Per quanto tempo, dipenderà da lei» scrolla le spalle, apatico, gettando ad Annie una lunga occhiata valutativa «Di solito nessuno resiste per più di un paio di giorni ai suoi denti ma magari tua figlia è l'eccezione che conferma la regola».
Negli occhi scuri di Benjy balugina un lampo di panico.
«Non puoi farlo» sfiata debole.
Il sorriso di Rosier diventa più ampio.
«Ah no?» sospira beffardo, inarcando un sopracciglio. «Non posso? Mi spiace contraddirti ma se voglio far torturare qualcuno, lo faccio. Se ritengo opportuno uccidere, uccido. E se voglio qualcosa, me la prendo» illustra disinvolto, senza mutare espressione. «Allora, mi rispondi o devo far tornare qui Greyback?»
Benjy serra le labbra, frustrato. In fondo, si dice, è un'informazione di poco conto. Non può capire nulla dalla mia risposta.
«Credo di sì» dice, infine, senza sbilanciarsi. «Nelle riunioni facevo più attenzione ad ascoltare come agire piuttosto che guardare chi parlava con chi» aggiunge piccato, senza riuscire a trattenere l'acredine.
«Lo credi o lo sai?»
«Lo so».
Rosier annuisce più volte, abbassando appena il capo, pensieroso. Nel silenzio che segue, Benjy non può fare a meno di guardare Annie, immobile accanto al Mangiamorte. Si sforza di farle un sorriso, ma quello che esce è una smorfia amara e traballante. Sua figlia ricambia con uno sguardo spaurito e umido.
«Hai mai passato del tempo con Lupin o Minus?» continua Rosier, pretendendo attenzione.
«È capitato».
«Quindi li conosci?»
«Non ci siamo raccontati la nostra vita, se è quello che vuoi sapere» replica Benjy. «Eravamo in missione, non a bere al pub» non riesce a fare a meno di aggiungere, stizzito.
Sa che sta tirando la corda continuando a provocarlo ma il Mangiamorte non sembra farci caso. Lo osserva con blando sarcasmo, con quel sorriso garbato sulle labbra e la mente che rimugina attentamente sulle informazioni appena ottenute.
A Benjy preoccupa saperlo così calmo. Quasi rimpiange Dolohov e il suo Cruciatus.
«Sono sempre stati presenti alle riunioni dell'Ordine?»
«Sì».
«Entrambi?»
«Sì».
«Pegno» scandisce Rosier, le iridi verdi scintillanti di trionfo. «Non sei un bravo bugiardo. Voce stridula e pupille dilatate sono un chiaro indicatore di menzogna» spiega davanti all'occhiata sbalordita dell'altro. «Loro o lei?» domanda semplicemente.
Benjy rimane immobile, congelato.
«Veloce, Fenwick, non ho tutto il giorno» lo esorta Rosier, spazientito, alzando per un momento gli occhi al soffitto.
L'uomo volta indietro il capo, lentamente, e osserva timoroso quella schiera di prigionieri che ricambiano il suo sguardo con il panico dipinto sul volto. Si sente orribile per quello che sta per dire ma sa bene di non avere altra scelta.
«Loro» mormora piano, abbassando il capo sul pavimento per evitare di vedere morire l'innocente che ha appena condannato a morte.
Stringe i pugni, conficcandosi le unghie nelle carne, e il dolore risveglia l'odio per il Mangiamorte.
«Quello che preferisci» concede quello, tranquillo. «Prego».
Benjy non crede ai suoi occhi quando vede scivolare la sua bacchetta sul pavimento lurido della cella. Alza lo sguardo, giusto in tempo per vedere Rosier riattivare quella barriera azzurrina e assume una muta espressione interrogativa.
D'accordo che è debole e non ha nessuna possibilità di spezzare l'incantesimo del Mangiamorte ma perché quest'ultimo dovrebbe aiutarlo fornendogli un'arma?
«Che cosa significa?» non può fare a meno di chiedere, allibito.
Rosier inarca un sopracciglio, inclinando il capo.
«Uccidine uno» spiega spiccio. «Ah, già, tu non uccidi gli innocenti. Beh, temo che stavolta dovrai andare contro la tua morale» afferma senza preoccuparsi di celare la soddisfazione che prova.
Benjy scuote furiosamente la testa, deglutendo e rifiutandosi di raccogliere la bacchetta.
«Non posso farlo» biascica frastornato.
Non può uccidere qualcuno solo perché glielo ordina quel figlio di puttana. Le altre persone presenti in quel sotterraneo non gli hanno fatto nulla di male, sono solo vittime. Come lui, Annie e Mary.
«Certo che puoi» lo contraddice Rosier, suadente. «Basta che fingi che sia un Mangiamorte. Credimi, mentire a se stessi ti aiuta».



«Che cosa ti sta succedendo?»
«Che intendi?»
«Da quando hai passato l'inverno da tuo zio sei strano» buttò lì lei, corrucciando il viso in una smorfia che lui aveva sempre trovato buffa.
«È una tua impressione» si limitò a dire, noncurante, tornando a posare lo sguardo su quel libro che gli stava tenendo compagnia durante quel pomeriggio di pioggia ad Hogwarts.
«Evan» lo ammonì lei, e il suo nome suonava così dolce pronunciato da quelle labbra, socchiudendo gli occhi scuri con vago rimprovero. Occhi che lo riportavano indietro ad un tempo in cui la guerra infuriava lontana dalle proprietà delle loro famiglie –
 lontana da loro –, quando i sorrisi e le risate bastavano per sconfiggere le lacrime e sanare le ferite insanguinanti del corpo e dell'anima.
O così credeva. Erano solo sciocche illusioni infantili, le loro.
Non aveva mai capito nulla del mondo finché suo zio non l'aveva trascinato fuori da quella gabbia dorata dove suo padre l'aveva condannato a marcire.
«Va tutto bene» affermò rassicurante, stendendo le labbra in un sorriso pieno d'affetto. Stava diventando sempre più facile mentire e fingere di essere solo un ragazzino del Secondo Anno di Serpeverde. Provava appena una fitta di malessere quando constatava che nessuno si stava accorgendo della sua metamorfosi, che nessuna si rendeva conto che quel ragazzino stava annegando in un baratro di oscurità e sangue.

Diglielo, urlò con feroce supplica un voce nella sua mente, dille tutto. Dille quello che hai visto, quello che lui ti ha insegnato. Dille che ti sta facendo paura quello che stai diventando. Lei ti aiuterà, lo ha sempre fatto.
Sì, pensò Evan con agghiacciante calma, afferrandole la mano che lei aveva precedentemente posato sul tavolo di legno della Biblioteca e stringendola sotto la sua. Finché non ne sarà disgustata.



Benjy appoggia le mani in terra, per darsi la forza di portarsi in ginocchio. Impugna la bacchetta, ritroso, prima di sospirare sfinito e voltarsi verso il resto dei prigionieri.
Si sente sull'orlo di un baratro, di un confine che non si è mai permesso di oltrepassare. Ha sempre detestato uccidere e ha fatto di tutto per evitarlo, se poteva. È la linea che separa il bene e il male, si è detto, noi da loro. I Mangiamorte uccidono per piacere, noi per necessità.
Eppure ora sta per ammazzare una persona la cui unica colpa è quella di trovarsi nel luogo sbagliato al momento sbagliato.
La sua vittima, quella che ha scelto di sacrificare, trema quando capisce le sue intenzioni. È un uomo, poco più vecchio di lui, dai capelli scompigliati e bianchi. Lo fissa con occhi spiritati, singhiozzando in un pianto straziante.
Benjy, odiandosi con tutto se stesso, stringe la presa sulla bacchetta.



«Puoi farlo?»
Evan guardò l'uomo che aveva di fronte, una creatura rattrappita per la paura che ricambiava con occhi spalancati e supplicanti. Era disarmato e ferito, totalmente alla loro mercé.
Di riflesso non poté fare a meno di chiedersi se anche lui era apparso così, debole e patetico, di fronte a suo padre. Quel pensiero bastò per cancellare il principio di compassione che stava inevitabilmente affiorando, scacciato via da una furia cieca, rancorosa e sanguinaria.
Suo zio era al suo fianco, immobile nel suo mantello scuro e con il volto pallido imperturbabile.
«Il Signore Oscuro vuole essere certo che tu abbia la tempra per fare ciò che è necessario» continuò pacato e rapido. «La formula la conosci. Puoi farlo, Evan?» ripeté secco.
Lui si rigirò la bacchetta tra le dita.
«Chi è?»
«Un nemico» risponse suo zio, monocorde. «Non ti serve sapere altro».
Si trovavano in una zona isolata, persi da qualche parte nella campagna inglese, a decine di miglia da un qualche centro abitato. 
La Traccia è svanita nel momento in cui ho compiuto diciassette anni, considerò avveduto, e il Ministero non saprà mai quello che sto per fare.
No, fermatigridò una parte di sé, che lui immaginava con irritazione avere le fattezze del bambino che era stato. Quel bambino inutile e piagnucoloso, spaventato persino dalla sua ombra. È il punto di non ritorno. Tu non sei in grado di uccidere!
Evan socchiuse gli occhi verdi, infastidito, e, quasi a volergli dimostrare quanto si sbagliasse – non era più un bambino, non aveva più paura –, alzò la bacchetta davanti a sé.
«
Avada Kedavra».
Pensava che si sarebbe sentito male nello spezzare una vita, così, senza motivo.
Invece, non sentì 
nulla.



«Avada Kedavra».
Il corpo dell'uomo scivola sul pavimento, accasciandosi in un posa scomposta.
Benjy fa a malapena in tempo a vederlo, prima di abbassare con vergogna il capo. Quasi ha la tentazione di lanciare via la bacchetta, tanto la nausea e il ribrezzo che prova per se stesso lo sta affogando. Questo, unito alla consapevolezza che lo rifarebbe altre dieci, cento, mille volte se servirebbe per salvare Annie.
Non sono migliore di Rosier, pensa stordito, senza riuscire a guardare né il suo carceriere né tanto meno sua figlia. Ho appena ammazzato e riesco solo a pensare agli effetti che questo avrà su di me, invece di di rammaricarmi per la vita che ho stroncato.
«Ammetto di essere deluso» la calma della voce di Rosier squarcia quell'oblio oscurità che è diventata la sua mente. «Credevo che ci volesse di più per spezzarti» considera asciutto.



«Hanno ucciso, Evan».
Sapeva che sarebbe arrivato questo momento. Lo sapeva, eppure in cuor suo aveva sperato fino all'ultimo che non sarebbe successo. Che avrebbero avuto più 
tempo.
Tempo per cosa esattamente? Non riuscì fare a meno di pensare una parte di lui, ribollendo di irritazione. So da anni come la pensa: lei e la sua maledetta pietà per quei Sanguemarcio di cui le piace tanto circondarsi. Sono pronto a questa reazione.
Ma non era pronto a dirle addio.
Fu un pensiero che non riuscì a controllare, che si stagliò con forza nella sua mente e che, per un attimo – un solo, 
maledetto, attimo – lo rese incapace di sostenere quello sguardo inquisitore.
«E allora?» domandò annoiato. «Ne parli come se fosse qualcosa di importante» concluse incrociando le braccia al petto e appoggiandosi alla parete di pietra alle sue spalle.
«Ma ti devi importare!» insistette lei, accalorandosi e spalancando quegli occhi scuri come se non lo riconoscesse. «Tu non sei così» decretò sicura, appena tremante, scuotendo impercettibilmente il capo.
Lui sbuffò piano, limitandosi ad inarcare un sopracciglio.
«E come sarei?»

Debole, sussurò una voce odiosamente simile a quella di suo padre alle sue orecchie. Non sarai mai altro che questo.
Tanto bastò per mandargli il sangue al cervello e fargli conficcare con rabbia le unghie della mano destra nella lana del maglione che gli copriva l'avambraccio.
«Non sei senza cuore» disse semplicemente lei, con assoluta sicurezza. Tra le sue mani continuava a stringere convulsamente quella copia della 
Gazzetta del Profeta, recante le ultime notizie riguardanti le scomparse e le uccisioni da parte dei Mangiamorte. «Non so che cosa ti stia succedendo ma è da quando frequenti tuo zio che non sei più lo stesso, e io sono stufa di fingere che vada tutto bene. È per colpa sua?» chiese apprensiva. «È lui che ti ha messo in testa-»
«Evita di tirarlo in ballo» la bloccò lui, brusco. «Lui non c'entra».
«E allora perché è sotto processo per omicidio?»
«Strano» commentò Evan, sprezzante. «Ho sempre pensato che prima di condannare un uomo bisognasse aspettare il verdetto del Wizengamot. Te lo hanno insegnato i tuoi amici Grifondoro a giudicare senza conoscere i fatti?»
Lei voltò il capo, stringendo le labbra.
«Senti» riprese, continuando a stroppicciare il giornale per il nervosismo. «So che gli vuoi bene e che lo consideri come un padre ma tutta questa situazione mi preoccupa. 
Tu mi stai preoccupando, perché in questo periodo mi sembri ancora più distante del solito. Puoi parlamene, lo sai» mormorò con dolcezza, allungando una mano per stringergli il braccio.
Evan si allontanò ancor prima che lei riuscisse a sfiorarlo.
«Di cosa?» replicò sferzante e irritato. «Di cosa si prova ad essere il nipote di un 
ipotetico Mangiamorte? Passo, grazie».
«Vorrei solo sapere che sta succedendo» confessò lei, piano. «Perché non sopporto di vederti in questo stato».
«E allora stammi alla larga».
La vide sgranare gli occhi e corrugare la fronte, incredula. Rimase per un secondo immobile, come per assicurarsi di aver sentito davvero quelle parole poi, quando constatò la serietà sul suo volto, abbassò il capo e si portò una mano alla bocca tremante.
Il primo singhiozzo, Evan lo sentì appena. Il secondo gli si piantò in mezzo al petto come una coltellata, togliendogli il fiato e facendogli precipitare quella maschera di indifferenza che si era tanto impegnato nello sfoggiare.
Lei non lo guardò neppure, la mano premuta contro la bocca che cercava di soffocare qualsiasi lamento e le guance bagnate dalle lacrime. Per questo non vide il dolore sul volto di Evan né il gesto che lui aveva fatto di alzare il braccio verso di lei.
Non vide nulla.
Ma lui sì e, mentre la guardava allontanarsi in tutta fretta, con movimenti frenetici e impacciati, riportò il braccio lungo il fianco, scostando il capo a sinistra. E nonostante stesse facendo del suo meglio per non provare nulla, sapere di averla ferita, di averla persa – e con lei tutto quello che restava di lui, di quel bambino – gli dilaniò l'anima e gli procurò un genuino senso di disgusto per se stesso.



«Dicevamo che Lupin e Minus non erano sempre presenti alle vostre riunioni» afferma Rosier, riprendendo il filo del discorso e calamitano l'attenzione di Benjy che, suo malgrado, torna a fissarlo. «Come tutti gli altri membri dell'Ordine, suppongo. Immagino che è così che il Custode dei Potter si nasconda: fingendo di eseguire altri incarichi mentre sta rintanato come un topo. Ora ti chiedo... chi tra i due ti è sembrato più strano?»
«Remus» risponde Benjy, stupendo se stesso per la velocità con la quale quella verità gli è scivolata fuori dalle labbra. «Ci sono dei momenti in cui si comporta in mondo strano. Non sembra nemmeno lui» espelle riluttante.
Il Mangiamorte gli rivolge un'occhiata scettica.
«Da quello che so, gli succede una volta al mese» afferma criptico, alludendo a qualcosa che lui non riesce a capire. «Che intendi con strano?»
Benjy esita, leccandosi le labbra. Non sa nemmeno lui come spiegarlo ma ogni volta che ha intravisto Remus, gli è sembrato di scorgere qualcosa di oscuro dietro a quelle iridi color miele. Quasi come se ci fosse altro oltre al ragazzo modello uscito da Hogwarts con ottimi voti e il fidato alleato dell'Ordine. E questo lo ha portato spesso a chiedersi se, viste le continue vittorie dei Mangiamorte che sembrano quasi anticipare ogni loro mossa, tra di loro non ci sia una...
«Spia?» domanda Rosier, leggero, gli occhi verdi illuminati d'ironia. «Una ci deve essere sicuramente. Non ti sei chiesto come mai abbiamo trovato tuo zio?»
«Non è possibile» esplode Benjy, spalancando gli occhi sconvolto e sentendo un nuovo fiotto di paura artigliargli le viscere. «Impossibile» ripete flebile.
Rosier lo grazia di un sorriso dolce.
«E perché mai?» lo provoca amabile. «Capita di cambiare schieramento, specie se si è dalla parte dei perdenti» commenta logico.
Perché non siamo come voi, vorrebbe rispondergli Benjy ma quella frase suona ridicola persino alle sue orecchie. Aggrotta per un momento la fronte mentre una sequenza di domande e dubbi che si è sempre sforzato di sopprimere in tutti quei mesi, tornano prepotentemente a galla e si impongono con forza nella sua mente. Tutti gli agguati che hanno subito, i morti caduti, la disperazione che hanno provato... davvero uno di loro – uno dei buoni – li ha venduti?
Ha senso, elabora rapidamente. Se così non fosse, Mary non sarebbe morta e Annie non sarebbe in questo fetido sotterraneo. Qualcuno ha parlato.
Ma chi? Si trova a scorrere nella testa i volti sorridenti dei compagni dell'Ordine, le stesse persone nelle quali ha affidato la sua vita e con cui ha pronunciato il giuramento di liberare il paese da quella piaga rappresentata da Tu-Sai-Chi e i suoi seguaci.
Deve essere Black, sentenzia con genuino disgusto. Quella famiglia è tutta marcia.
«Spero che elaborerai in fretta lo shock» commenta Rosier, spassionato, infilando la mano nella tasca del mantello. Tira fuori un rettangolo che immediatamente riconosce come un pacchetto di sigarette Babbane. Questa è buona, pensa Benjy, frastornato, Evan Rosier che utilizza una diavoleria del genere. «Vorrei finire questo gioco prima di sera. Più tardi ho degli impegni» rivela, accendendo una sigaretta con un colpo di bacchetta e aspirando una lunga boccata. Lo vede rimanere immobile, a contemplare quel fumo grigio e dall'odore nauseabondo con aria meditabonda. «Minus non è uno che dà nell'occhio, vero?» riflette serio, aggrottando la fronte e lanciandogli un'occhiata perforante. «Probabilmente si fa fatica a ricordarsi quando è presente e quando no. Quasi come se fossi invisibile» conclude con l'ombra di un ghigno a solleticargli le labbra.
A Benjy quasi si rizzano i peli quando intuisce quello che il Mangiamorte vuole fargli capire. E, nonostante si senta esausto, si ritrova a scuotere il capo convulsamente.
«Non è Minus» si affretta ad aggiungere, ansioso, mentre il suo cervello inizia ad analizzare che, sì, forse quel ragazzino cicciottello potrebbe non essere così candido come ha sempre realizzato. E allora si rammenta che, prima che Voldemort decidesse di designare il figlio dei Potter come nemico, Minus era solito fermarsi al quartier generale e che non aveva mai avuto il coraggio di scendere in campo ed affrontare il nemico con la bacchetta in pugno, preferendo tirargli un ruolo dietro alle quinte. Ruolo che gli avrebbe potuto permettere di spiarli e controllarli per tutto il tempo, senza che lui o altri si accorgessero del suo doppio gioco. «Minus non lo farebbe. Se c'è una spia è Black» si costringe a dire.
Evan ride sommessamente, continuando a fumare beato.
«Non ci credi nemmeno tu» asserisce divertito. «Scegline un altro» aggiunge, indicando con un cenno del mento i prigionieri ammassati contro la parete, che iniziano a gemere terrorizzati.
«Non ho mentito» protesta Benjy, accalorandosi. Ignora l'occhiata infastidita di Rosier e rifiuta di impugnare la sua bacchetta, che giace abbandonata accanto al suo ginocchio.
Il Mangiamorte, dopo aver sollevato gli occhi al soffitto con quello che pare profonda irritazione, si degna di scoccargli un'occhiata di sfida prima di agitare la bacchetta con un gesto secco.
Le urla strazianti di Annie riempono immediatamente le pareti dei sotterranei. Benjy vede il suo corpicino contorcersi per terra, strangolato da un dolore che lui conosce bene, cercando una pace agognata quanto impossibile.
«Potevi evitarle tutto questo» commenta Rosier, implacabile, accendendosi un'altra sigaretta e indifferente a tutto.
«Fermati, lo farò» dichiara Benjy, disperato, afferrando alla svelta la bacchetta e supplicandolo di smetterla.
Solo quando Annie smette di dimenarsi come un naufrago, schiacciato dalla furia delle onde e alla disperata ricerca di ossigeno, Benjy deglutisce, rendendosi conto di quello che sta per fare.
«Non ti preoccupare» lo tranquillizza Rosier, accondiscendente. «Il secondo assassinio è più semplice» afferma con l'aria di chi lo sa bene.



Attendeva con ansia questo momento. Lo aveva sempre fantasticato più volte nei corso degli anni, progettando ogni dettaglio con meticolosa attenzione e valutando qualsiasi variabile o imprevisto.
Sarebbe stato grandioso. 
La vendetta deve esserlo, aveva pensato più volte.
Si era aspettato di provare un ammasso di sentimenti contrastanti – rabbia, euforia, gioia –, di esaltarsi nel vederlo strisciare ai suoi piedi e di ascoltare con profondo compiacimento le sue suppliche.
Invece era andata diversamente.
Dopo averlo disarmato e reso innocuo, sentiva solo una intensa delusione.
Suo padre, il mostro che lo aveva terrorizzato per tutta la sua infanzia e che aveva passato la sua adolescenza a lanciargli occhiate nervose e impaurite – ironico che fosse stato l'unico ad accorgersi del suo cambiamento – giaceva rannicchiato sul pavimento, tremante e con la camicia linda che iniziava ad imporporarsi.

È di questo essere patetico che avevo paura?
«Non puoi farlo» singhiozzò con voce talmente esile che si spezzò più volte. Lo guardava con occhi supplicanti e le labbra tremanti. «Evan» mormorò, sperando forse di impietosirlo.
Lui lo fissava senza davvero vederlo. Quello che 
vedeva invece era una sequenza di ricordi che gli rammentavano la violenza e la rabbia che quel mostro gli aveva vomitato addosso per anni, insieme alla convinzione di essere debole ed insignificante.
Non si sarebbe liberato dal suo giogo se non fosse stato per suo zio.
«Rilassati» lo tranquillizzò Evan, seduto su una sedia al centro del salotto deserto. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un pacchetto di sigarette – vizio pessimo ma ottimo modo per calmare i nervi e pensare – e ne accese una con un colpo di bacchetta. «Il peggio deve ancora venire» affermò distaccato.
«Non mi uccidere» gemette ancora suo padre, mostrando nemmeno un briciolo di dignità. «Non voglio morire».
«Credimi: dopo tutto quello che ti farò, la morte sarà una liberazione».



Non sa nemmeno lui come sia successo.
Forse è semplicemente stanco o forse si è reso conto che non vale nemmeno la pena combattere. Tanto non servirebbe a nulla, perché piegherebbe la sua morale se dovesse scegliere tra la causa a cui ha prestato giuramento e la sua bambina.
Così si ritrova a dirgli tutto quello che l'altro vuole sentire. Non ci prova nemmeno a mascherare la verità o ad aggiungere qualche bugia. Si limita a far sgorgare fuori le parole dalla sua bocca, in una litania lenta ed affaticata.
Non ricorda nemmeno quante persone ha ucciso né il loro volto. Dopo il secondo morto, si è imposto di non guardarli in faccia mentre la Maledizione senza Perdono gli succhiava via la vita, conscio che la loro, di vita, non è nemmeno paragonabile a quella di Annie.
«Ti ringrazio» afferma infine Rosier, cordiale. «Mi sei stato davvero utile».
«Ti prego» farfuglia Benjy, ormai completamente sconfitto. Si azzarda ad alzare il capo, guardando il suo aguzzino negli occhi. «Ti supplico non ucciderla. Fai di me quello che vuoi, ma risparmia lei».
Rosier ricambia con uno sguardo gelido, continuando ad aspirare boccate di fumo. Tuttavia, solo per un breve istante, brilla qualcosa in quelle iride verdi che Benjy non riesce proprio ad interpretare se non come una certa tristezza e fragilità. È una visione tanto rapida quando inaspettata, sufficiente però per lasciarlo senza parole.
«Sei un buon padre, Fenwick» afferma Rosier, piano, gettando a terra il mozzicone di sigaretta e annuendo impercettibilmente con il capo. «Non tutti i figli sono stati così fortunati».
Non è una promessa. Non è niente ma nel momento in cui lo sente dirgli di essere rapido con il suo addio, Benjy non riesce a reprimere quel sorriso di gratitudine nel sapere che Annie sopravviverà.



Il braccio tremò, scosso da spasmi dolorosi e incontrollabili, mentre rivoli di sangue colavano da quel segno che gli era stato appena impresso. Il teschio lo fissava con orbite vuote, la mandibola spalancata da cui spuntava un serpente sinuoso dagli occhi spietati e funesti.
Evan non riuscì a smettere di fissare il Marchio Nero, lucido e ancora rovente, spiccare sulla pelle pallida.
Una mano gli strinse la spalla, una presa salda e vigorosa.
«Ben fatto, ragazzo» sussurrò suo zio, un sorriso trionfante ed orgoglioso ad illuminargli il volto austero.





Rosier entra nel momento in cui si sta gustando il suo secondo scones.
Lo vede avvicinarsi a loro, comodamente seduti sui divani del salotto, e gettare una breve occhiata distratta al tavolino imbandito per il tè delle cinque. Alle spalle del Mangiamorte, Travers si stupisce nel trovare la bambina di Fenwick, che fluttua serenamente addormentata in un sonno incantato.
«Cerchiamo Minus» esordisce Rosier, spiccio. «Fenwick ha detto che ha dei parenti in una piccola contea nel Galles occidentale. Basterà un rapido consulto all'anagrafe del Ministero per saperne più. Naturalmente» continua con quella sfumatura sarcastica nella voce. «Una volta scoperta la città, vediamo di usare un minimo di discrezione. La Polisucco sarà sufficiente per permetterci di indagare senza dare nell'occhio».
Leccandosi via le briciole che gli sono rimaste attaccate ai polpastrelli, Travers inclina il capo.
«Dici che si è nascosto lì?» chiede interessato.
Rosier scrolla il capo, alzando per un istante le sopracciglia con incertezza.
«Può darsi» ammette leggero. «La gente è solita rifugiarsi nei luoghi con cui sente un legame».
«Sono solo supposizioni» replica Antonin, derisorio, sorseggiando il suo tè.
Rosier non pare essersela presa. Dal modo in cui si sfrega le tempie, Travers ipotizza che sta per avere uno dei suoi soliti attacchi di mal di testa ed è probabile, a giudicare dalla postura rivolta verso la porta, che non veda l'ora di andarsene per ingurgitare un filtro lenitivo.
«Se vuoi perdere il tuo tempo a cercare Black, fa pure» replica Rosier, quieto, facendo un cenno di congedo con il capo.
Sta già per allontanarsi quando la voce di Travers lo costringe a rimanere ancora nel salotto.
«Che hai intenzione di fare con la bambina?» domanda curioso.
«Ti interessa?» ritorce Rosier, degnandolo di un'occhiata stanca e spazientita.
«Di solito ti sbarazzi subito di tutti i testimoni» ammette stupito, agguantando un altro scones dal piatto fumante che un Elfo ha portato nella stanza pochi minuti prima. «Immagino che Greyback sarà stato ben felice di occuparsi di Fenwick».
Rosier si lascia sfuggire un sorriso beffardo.
«Non preoccuparti, Travers» lo assicura lieve, alludendo alla bambina. «Non andrà a spifferare la chiacchierata che ho avuto con il suo vecchio».
Travers incurva le labbra in un sorriso deliziato.
«Di questo, non ho alcun dubbio» confessa, domandandosi in che modo toglierà di mezzo quella piccola seccatura. Probabilmente utilizzerà un Avada Kedavra. Rosier è solito fare un lavoro pulito e detesta i fiumi di sangue che invece eccitano il Lupo Mannaro.
«Come sei riuscito a far parlare Fenwick?» si inserisce Antonin, scoccando al Mangiamorte più giovane uno sguardo di puro disprezzo che però non riesce a celare l'interesse.
Rosier esita un momento, scuotendo appena il capo.
«A volte, per piegare un uomo non serve per forza utilizzare la violenza. Basta capire come ragiona, a cosa tiene» illustra celere e incolore.
Antonin alza gli occhi dalla sua tazzina, puntandogli addosso quegli spilli slavati e crudeli.
«E funziona con tutti?»
«Sprechi il tuo tempo con me, Dolohov» afferma Rosier, sollevando le sopracciglia e storcendo il viso in una smorfia di sarcasmo e disprezzo. «Tutti quelli che amavo sono morti» taglia corto, asciutto.
«Non proprio tutti» lo contraddice Travers, masticando compito e sorridendo ambiguo. «C'è sempre Avery» svela ed è una sua sensazione o vede i lineamenti di Rosier distendersi con quello che pare genuino sollievo?
«Avery, sì» conferma Rosier, di nuovo padrone di sé. Inclina il capo, assumendo un'espressione scettica. «Che è uno dei nostri. Mi chiedo perché dovresti infastidirlo» commenta inespressivo, congedandosi dal salotto.





«Non ti penti di quello che fai?»
Quella domanda lo costringe a distogliere lo sguardo dalla vastità azzurra che si estende sopra la sua testa.
«Credevo che questo fosse territorio neutrale» afferma Evan, impassibile, accendendo con il capo alla campagna nel Northumberland. Una zona di terra brulla, circondata da catene montuose, che ha sempre costituito un piccolo porto sicuro, un rifugio nel quale la guerra e tutto quello che comporta non riesce ad insozzare.
Lei si volta, girata sul fianco e con la testa sorretta da una mano, aggrottando appena la fronte con quell'aria meditabonda che ha sempre avuto fin da bambina.
«È così» risponde onesta, sondandogli il viso con i suoi attenti occhi scuri. «Solo che... a volte mi chiedo perché ti ostini tanto a fingere di essere il mostro che non sei» dice con un velo di rammarico nella voce, ben consapevole di inoltrarsi in un terreno scivolo, rischiando di spezzare quell'equilibrio al quale sono giunti faticosamente dopo anni di lontananza e finta indifferenza.
Evan le rivolge uno sguardo penetrante e infastidito. Sa che lei non ha mai accettato l'idea di vederlo combattere per una causa che ritiene folle e sbagliata e che finga di non sapere che quelle mani sono ricoperte di sangue innocente.
Lasciandosi sfuggire un sorriso mite, lui si limita a spostarle una ciocca dei capelli scuri da davanti agli occhi.
«Il mondo non sarebbe d'accordo, Emme» mormora con lieve ironia.
«Il mondo non ti conosce, Evan».









E finalmente siamo arrivati alla fine. Questa storia è stata davvero una Odissea, tanto che ho pensato di più volte di abbandonarla e cambiare. Però l'idea mi piaceva quindi ho cercato di combattere contro lo sconforto e il nervosismo per portarla a termine.
Da una parte sono emozionata, dall'altra scettica. Emozionata perché è la prima volta che abbandono la New Generation per addentrarmi nella Old. Scettica perché non era esattamente così quello che avevo in mente. Tuttavia nella vita bisogna essere ottimisti e accettare che questo è il massimo che potevo fare.
Una piccola spiegazione prima di lasciarvi alle note. Ho scelto di scrivere di Evan Rosier perché di lui si sa poco o nulla: era uno dei più temuti Mangiamorte, probabilmente era spietato, ed è uno di quei personaggi che mi affascinano un sacco. Non mi dilungo troppo perché non vorrei condizionarvi con le miei idee, spero solo di averlo reso in maniera credibile.
Grazie per essere arrivati fin qui.
Alla prossima,
Blue



Sanguemarcio: le traduzioni italiane hanno fatto un gran casino tra Nati Babbani e Mezzosangue. Considero Sanguemarcio un insulto rivolti ai Nati Babbani.
Evan Rosier: saltellando su Google, ho scoperto che Evan ha iniziato Hogwarts nello stesso anno di James, Sirius e compagnia bella. Non so perché ma l'ho sempre creduto più vecchio, forse perché mi ricordavo le parole che Silente rivolge a Voldy («Allora, se dovessi andare alla testa di Porco adesso, non troverei un gruppo – Nott, Rosier, Mulciber, Dolohov – in attesa del tuo ritorno? […]» va da sé, naturalmente, che il Rosier in questione non è Evan ma lo zio).
Arco temporale in cui si svolge la storia: visto che nomino l'omicidio dei McKinnon, avvenuto per mano di Travers e altri Mangiamorte, siamo teoricamente tra il luglio e l'ottobre del 1981, ovvero alla fine della guerra.
Dico teoricamente perché mi sono resa conto, quando ormai avevo terminato la storia, che Evan muore un anno prima della caduta di Voldy. Mi sono quindi presa la libertà di posticipare la sua dipartita.
Minus: qua, ammetto di essermi basata su ipotesi. Ho trovato che Minus passava informazioni ai Mangiamorte già dal 1979. Ora, com'è possibile che per quasi tre anni non sia mai stato beccato da qualcuno? Poi, però, ho pensato che l'avesse fatto in anonimo, così da rimanere “neutrale” e salire sul carro dei vincitori. Al termine del 1981, la situazione ha fatto sì che Minus si schierasse dalla parte dei Mangiamorte, rivelando solo a Voldemort la sua identità. Per questo Evan lo cerca, non sa che è una spia.
Ah, naturalmente è stato Minus a rivelare l'ubicazione del Custode Segreto dei Fenwick. Probabilmente lo aveva sentito senza che Benjy se ne accorgesse.
Perché Evan chiama Sirius con il suo nome: penso che essendo coetanei e rampolli di famiglie purosangue, si conoscessero. Che andassero d'accordo, è un altro discorso
Lo chiama Black solo davanti agli altri Mangiamorte.
La ragazzina che compare nei ricordi di Evan e alla fine: spero di avervi fatto capire che si tratta della stessa persona.
Non avevo assolutamente intenzione di fare un copia incolla della storia di Lily e Piton. Sì, ha un suo peso ma non è determinante, tanto che Evan non tradisce i Mangiamorte per lei.
Per quanto riguarda la sua identità... so che nel fandom vi è la tendenza ad associare Evan con Dorcas Meadowes ma io lo vedo troppo con Emmeline Vance.



   
 
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