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Autore: _Lightning_    22/04/2021    1 recensioni
Con il Giorno della Promessa all'orizzonte, Roy Mustang si ritrova a pensare sempre più spesso a Ishval, ai propri errori, e a cosa gli ha lasciato quel luogo se non ricordi dolorosi e sensi di colpa. Si imbarca così in una lunga reminiscenza con l'aiuto di Riza, fidata compagna di vita, nel tentativo di mettere finalmente a tacere i demoni che gli mordono la coscienza.
Dal prologo: «C’è qualche problema, Colonnello?»
È formale, distaccata, anche se siamo soli. Una pantomima sterile e autoimposta, affinata con gli anni.Non possiamo cedere, mai, nemmeno nel buio cieco di un vicolo dimenticato, o finiremmo per tradirci alla luce del sole con mille occhi intenti a scrutarci. L’abbiamo concordato in silenzio, che è ciò che di solito parla tra noi. Per questo adesso mi sento quasi un profano a romperlo, a voler trasmutare in parole ciò che mi passa per la testa. Ombre dense, a cui non dovrebbe mai essere data forma.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Maes Hughes, Nuovo personaggio, Riza Hawkeye, Roy Mustang | Coppie: Roy/Riza
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Primo Interludio

Ambizioni

 “Non sai bene se la vita è viaggio,
se è sogno, se è attesa, se è un piano che si svolge giorno
dopo giorno e non te ne accorgi
se non guardando indietro.
Non sai se ha senso.
In certi momenti il senso non conta.
Contano i legami.”

[Contano i legami – J.L Borges]

 




Marzo 1910
Rumpelstilzchen Pub, East City
23:30

 

«E questo sarebbe il tuo piano?»

«Sì. A grandi linee.»

«È un piano molto stupido.»

Hughes scuote la testa e beve un sorso di birra chiara, posando il boccale con un gesto brusco sul sottobicchiere di sughero. Si deterge la schiuma dal labbro e mi scocca un’occhiata indagatrice, col verde degli occhi reso più scuro dalla luce soffusa del pub.

Scuoto la testa: mi aspettavo una reazione simile, ma incasso comunque il colpo e abbasso lo sguardo sui rimasugli amarognoli della mia pinta rossa. Rimaniamo in silenzio, guardandoci intorno circospetti, ma nel locale affollato nessuno fa caso a noi.

È tornata la vita a East City, dopo mesi e anni di stenti al fronte, e oggi è particolarmente vivace, nell’anniversario della vittoria. Comitive miste di ogni età si affollano attorno al bancone e alle panche addossate ai muri, alcuni in divisa, altri in borghese, altri ancora a metà, coi pantaloni dell’uniforme e maniche di camicia. 

Gridano, brindano, fanno impazzire i camerieri e si attirano i richiami del gestore – che però ride anche lui sotto i baffi a manico d’ombrello e offre giri di bevute a tutti. Dietro il bancone occhieggiano foto sbiadite color seppia, che fanno cerchio attorno a quella più grande di un giovane in divisa, con gli occhi scuri come quelli del gestore. Dei crisantemi la adornano, fissati dietro la cornice, in un sipario bianco e appassito.

Non sento così tante risate tra militari dai tempi dell’Accademia; a tratti, quando risuona una più secca e alta, ho l’impressione di udire gli schiocchi dei fucili, quando riecheggiavano in lontananza oltre le dune di Ishval.

Hughes ferma una cameriera e ordina altre due birre, nonostante io non abbia nemmeno finito la mia. Ignora la mia occhiataccia.

«E dopo?» mi incalza inaspettatamente, tamburellando le nocche sul legno scuro.

«Cosa?» replico distratto.

Seguo i volteggi impacciati di due commilitoni che hanno improvvisato una mazurka fuori tempo in mezzo al locale, accompagnati dal battito ritmato di tacchi pestati sul pavimento. Hughes fa un gesto spazientito con la mano, richiamando la mia attenzione.

«Supponiamo che tu diventi Comandante Supremo... cosa farai dopo?»

Boccheggio per un istante, spiazzato dalla domanda così diretta. In mio soccorso arriva la cameriera, che esegue a sua volta una sorta di danza per schivare i disastrosi ballerini alticci che le sbarrano la strada senza rovesciare il vassoio. Mi prendo il mio tempo per pagare, aggiungendo una mancia consistente, come se l’esuberanza dei miei colleghi ricadesse anche sulle mie spalle, pur essendo in borghese. Lei mi ringrazia con un sorriso sentito.

Hughes rimane in silenzio, rilassato contro lo schienale della panca, ma non schioda lo sguardo da me neanche per un istante. Sa perfettamente come farmi innervosire. Nascondo la faccia dietro l’orlo del boccale, prendendone un sorso esageratamente lungo – non la migliore delle idee, in effetti.

«Cosa vuoi che ti dica?» sbotto infine. «Pensavo fosse un’idea molto stupida.»

«Il piano è stupido. L’idea no,» mi rimbecca lui, strizzandomi l’occhio.

Lo scruto oltre il vetro, nel riflesso delle lenti che gli schermano in parte le iridi. Le borse violacee ricalcate attorno ai suoi occhi non si sono ancora del tutto riassorbite, nonostante sia ormai normale dormire intere notti di fila. Il marchio della guerra è sbiadito, ma ancora visibile. Io fatico ancora a non svegliarmi di soprassalto ogni paio d’ore, con un senso di asfissia e la destra nuda contratta nel vuoto.

«Non hai detto così a Ishval,» borbotto tra i denti.

«All’epoca ho detto che era un’idea motivata da speranze infantili, o qualcosa del genere. E lo penso ancora, ma a me non importa perché lo fai, ma cosa farai dopo

«Non ho ancora deciso,» rispondo seccamente. «Mi sembra il caso di concentrarsi sul come, per adesso.»

A questo punto, Hughes sospira platealmente e mi preparo ad essere preso in giro come al solito. Quando fa così gli scotterei volentieri le chiappe... ma poi chi starebbe ad ascoltare i miei deliri?

«Se non impari a mentire come si deve, caro il mio Tenente Colonnello, non arriverai proprio da nessuna parte,» mi dice con esagerata compassione nella voce, rimarcando il grado che mi hanno appioppato assieme a una medaglia al valore, in un mattino grigio e gelido.

Alzo gli occhi al cielo, mentre una parte di me spera che la discussione finisca qui. È stato un errore intraprenderla, ma sto diventando sempre più irrequieto e tormentato dal mio obiettivo così fumoso, spuntatomi nel petto in quel giorno di vittoria che non mi è mai sembrato tale.

Riza ha percepito il mio turbamento, ma non posso incontrarla fuori dall’ufficio senza richiamare l’attenzione. Ho già destato fin troppi sospetti con la richiesta di appuntarla come mia assistente personale; la sgradita nomea che si portano appresso gli affari di famiglia è servita a qualcosa, stavolta, e i superiori mi hanno accordato di avere attorno una "bella presenza", se mi faceva sentire "più a casa". 

C’è mancato poco che incenerissi il Generale Hakuro per quel commento. Ma ho imparato che, per calcare i corridoi dei Quartier Generali, devo inghiottire orgoglio e amor proprio – mio e altrui.

Di conseguenza, le nostre conversazioni si riducono a quei pochi minuti di pausa in cui riusciamo a rimanere soli. Sapere che è dalla mia parte mi rinvigorisce, ma da soli non possiamo minimamente pensare di attuare il mio progetto. Mi mancano i mezzi, e soprattutto gli agganci per scalare la gerarchia militare. L’appoggio di Grumman fa comodo, ma il fatto che lo abbiano dislocato da Central a East City parla chiaro. Io stesso non sono benvoluto dagli alti gradi.


Però Maes... è riuscito ad avere una carriera notevole e il fatto di lavorare per il tribunale militare ne fa una fonte d’informazioni preziosa. Ma solo adesso mi sono deciso a parlargli seriamente, durante una delle sue brevi trasferte a East City. 

Ci è rimasto di stucco: è passato un anno esatto da quando gli ho esposto la mia idea, a Ishval; probabilmente pensava che fosse una fantasia dettata dallo stress e dalla disperazione del momento. Non posso dargli torto. Sa che il fardello della guerra pesa più sulle mie spalle che sulle sue, ma è chiaro che non si aspettasse una posizione così netta da parte mia.

Mi ha investito di critiche e frecciatine per tutto il tempo, mentre gli esponevo di nuovo il mio progetto di scalata gerarchica, ma in fondo gli sono grato. Sono stanco di pensarci da solo, nelle lunghe notti insonni che passo a camminare per casa tormentato da incubi. È il momento di passare dalla fantasia alla realtà e mi serve tutto laiuto che riesco a trovare, per quanto parlarne mi faccia sentire esposto, oltre che un illuso.

«Devi avere almeno una vaga idea, no? O vuoi farmi credere che vuoi salire al potere solo per il gusto di farlo, con una politica del tutto utopistica e priva di fondamenta pratiche? Non è da te, Roy,» insiste Hughes, alternando birra e parole a un ritmo più sostenuto del mio.

Dal suo tono, capisco che in fondo è veramente interessato e che vorrebbe davvero aiutarmi. E che ha memoria esatta di ciò che gli ho detto a Ishval. Dellidea – sogno – di proteggere chi sta sotto di noi, in una piramide di responsabilità crescenti.

Però, speravo di parlare del come; magari in dettaglio del perché, ma il dopo...

Mi rendo conto che è una parte essenziale della questione, ma non sono ancora riuscito a elaborarla nel dettaglio, anche se sto studiando volumi e volumi di legislazione per capire cosa cambiare e come. Per ora ne ho rimediato solo forti mal di testa e scoraggiamento nel constatare quanto la macchina governativa amestriana sia cavillosa e complessa anche nelle vesti di Comandante Supremo. 

Un solo obiettivo mi è molto chiaro, ma so che Hughes mi prenderebbe per folle ed è esattamente quello che non vorrei condividere con lui.

Nel caos che ci circonda, sulle note di un’armonica stonata si leva d’
un tratto un coro sgangherato, fatto di toni allegri e canticchiati ad accompagnare parole cupe:

«La dolce Morte m’è venuta a cercare
E voi ditele, amici, ditele che con lei 
Non voglio, non voglio andare!»*

Le labbra di Hughes si increspano in un sorriso sardonico: lo stesso che abbiamo rivolto fin troppe volte alla Morte che avanza tetra e ghignante in quelle strofe goliardiche, mentre ci chiedevamo perché venisse a cercare e falciasse chi ci circondava, ma mai noi. Un brivido mi arpiona la schiena, e sono di nuovo in un pub affollato, non sul crinale di una duna spazzata dal gelido vento notturno, a guardare file di lenzuoli bianchi.

Mentre il canto e la musica proseguono in sottofondo, guardo Hughes negli occhi, cogliendo limprovvisa realtà dei fatti: di chi altro potrei fidarmi se non di lui e di Riza? 

La mia tensione non si allenta e rimango curvato in avanti con le braccia incrociate sul tavolo, estendendo un silenzio fin troppo lungo accompagnato dai canti di chi è sopravvissuto, con addosso gli occhi invisibili di chi, invece, non ha visto la fine della guerra.

Hughes ha smesso di incalzarmi e si guarda intorno con aria spazientita. Se fossimo soli, probabilmente finiremmo a discutere come al solito: io che cerco di rimanere impassibile e lui che mi urla contro finché non mi decido ad ascoltarlo o, nel peggiore dei casi, finché non ci azzuffiamo – come è capitato spesso in Accademia. 

Sono contento di averlo incontrato in un luogo pubblico. Almeno posso prendermi i miei tempi senza prendere anche un pugno in faccia. Anche se in effetti, da quando vive con Gracia, sembra essere più pacato. O forse è solo Ishval che ha stroncato del tutto quella sua vena ribelle, lavando via lanimosità di un tempo.

Libero la mia testa da divagazioni superflue e mi decido a parlare, scegliendo per un momento di non pensare alle conseguenze delle mie parole:

«Una delle prime... o delle ultime cose da affrontare sarà Ishval,» mormoro, quasi coperto dal chiasso circostante.

Vedo Hughes farsi attento, ma allo stesso tempo mettersi sulla difensiva.

«Ovvero?» chiede guardingo.

Poggio una guancia sul pugno, puntellandomi sul tavolo, e parlo quasi distrattamente, seguendo le venature contorte del legno, specchio dei miei pensieri.

«La maggior parte degli alti gradi attuali ha commesso crimini di guerra a Ishval o ne ha ordinato lesecuzione. Di certo non voglio che persone del genere rimangano impunite dopo la restaurazione del Parlamento e della democrazia. Si dovrà istituire un processo,» dico dun fiato.

Hughes poggia la tempia contro le dita tese, squadrandomi intento come se fossimo nel mezzo di una partita di poker dalle puntate stratosferiche.

«Bisognerà ripulire gli apparati militari dai criminali di guerra,» concorda, sempre cautamente, come se intuisse che ci sia qualcosa sotto. Unombra vela la sua voce nel pronunciare le successive parole: «Certo, nella doppia veste di Comandante Supremo esente da scrutinio ed "eroe di Ishval" sarà un tantino ipocrita presentare una proposta del genere, se...»

«È proprio questo, il punto,» ribatto con più freddezza di quanto vorrei.

Ci vuole qualche secondo prima che Hughes capisca appieno dove voglio andare a parare. Serra dun tratto i palmi attorno al boccale mezzo pieno, sbiancando le nocche, le sopracciglia aggrottate che tremano.

«Vorresti istituire un processo contro te stesso?» scandisce incredulo.

Non mi sorprendo di sentirlo pronunciare quellesatta deduzione: la perspicacia è sempre stata la sua dote più grande, nel bene e nel male. Non lho mai visto così sbigottito, ma passa rapidamente dalla sorpresa alla rabbia – o forse paura, al pensiero di vedere il suo migliore amico condannato a morte. Anchio ne avrei, al suo posto.

«È una follia!» sentenzia, il palmo reso a tagliare laria addensatasi tra noi. «Nessuno appoggerebbe mai una richiesta simile!»

«Noi no. Gli Ishvaliani sì,» rispondo laconico. «Abbiamo sette anni di debiti con loro e un primo passo potrebbe essere restituirgli la cittadinanza amestriana, se la vogliono. E così, in quanto minoranza riconosciuta, avrebbero il diritto di pretendere giustizia per i fatti della guerra civile,» spiego con una calma che non sento mia, la stessa che provavo sul campo di battaglia prima di un assalto suicida.

Hughes si poggia rigidamente allo schienale della panca.

«Spero che almeno, in quanto Comandante Supremo, avrai la lungimiranza di abolire la pena di morte, prima di fare qualcosa di simile.»

Esito: qui le mie idee in merito cominciano a farsi confuse. Non so ancora con chiarezza come gestirei lautorità di Comandante Supremo e Parlamento, né in che rapporti dovrebbero essere. Non so nemmeno se avrei il diritto di concedermi il lusso di scampare la morte – anche quello sarebbe un passo verso la democrazia e la civiltà, ma quanta parte di quei pensieri è rivolta a salvaguardare me stesso?

«Questa decisione spetterà al popolo,» svicolo infine, contraendo la mascella. «Nella migliore delle ipotesi sconterò un paio di ergastoli, nella peggiore mi ritroverò a penzolare da un capestro,» concludo senza particolare emozione nella voce.

È unidea ancora così lontana da sembrare irreale, da avere un altro cadavere appeso al cappio. Vedo un guizzo brillante di paura nello sguardo di Hughes; sembra comprendere a stento ciò che dico.

Finisco la mia birra, mentre il vociare attorno a noi si fa più contenuto, anche se costante e ancora vivace. La leggerezza che sento in testa non è dettata dallalcool. È uneuforia malsana, che parte dalle radici dello stomaco e risale al cervello in flussi di eccitazione, paura e sollievo.

Hughes mi fissa allimprovviso con sguardo duro.

«E Riza?» chiede seccamente.

Mi ritraggo distinto. Scocco occhiate allarmate attorno a noi, come se finora non avessimo parlato di rivoluzioni e riforme e utopie, e fosse la semplice menzione di Riza a potermi appuntare addosso un mirino. Hughes sa di lei – lunico al mondo, il pilastro di fiducia su cui poggio metà della mia vita. Sa quanto vicino a un arteria sia affondata quella frase aguzza. Rispondo in fretta, sottovoce, anche se nel caos del pub riusciamo a sentirci a malapena a vicenda:

«È daccordo con me.»

«Intendevo: e Riza? Hai pensato a cosa le potrebbe accadere?»

Mi si secca la gola, la bocca impastata di luppolo e paura.

«Il processo trascinerebbe in tribunale solo gli ufficiali superiori allepoca, gli Alchimisti di Stato e i membri dellesercito che si sono dimostrati particolarmente sanguinari. Riza è al sicuro.»

Lo sto dicendo a me stesso?

«Stai parlando di uno dei cecchini che ha mietuto più vittime a Ishval: è prevedibile che sarà chiamata in giudizio. Come credi di scagionarla? Rivelando chi è lei per–»

Lo blocco, stringendogli il polso in una morsa. Anche quel colpo va a segno, doloroso. Sento il sangue defluire dal volto, ma la mia voce rimane ferma:

«Non ho intenzione di scagionarla.»

La scena si dipana nella mia mente cristallina, come ogni volta che il pensiero mi ha sfiorato: Riza al banco degli imputati in unaula di tribunale esageratamente grande, i membri della giuria imparruccati e avvolti da toghe nere che confabulano tra loro e il giudice che infine emana il verdetto con uno schiocco del martelletto. E io, sulla mia tribuna donore in divisa da parata, in silenzio e a capo chino, in attesa di salire io stesso su quel banco e di subire la stessa sorte.

Hughes mi guarda, le pupille ridotte a capocchie di spillo. Il sarcasmo che gli sfugge di bocca stona con la maschera di sbigottimento che è calata sul suo volto:

«Unottima linea dazione, davvero. E hai pensato, magari, di informarla di questa possibilità?»

Stringo la presa sul suo polso, non so nemmeno io se per frenare le sue parole o se per ancorarmi con più forza al presente. O se per trattenerlo qui, una volta pronunciato ciò che mi preme contro i denti.

«Nessuno di noi due pensa di avere il diritto di abbracciare chi amiamo con le mani sporche di sangue,» esalo in tono piatto.

Parole vecchie e pesanti riecheggiano nelle nostre orecchie. Glielo leggo nello sguardo, che ricorda quel giorno, quellalba livida in cui lho accusato di voler andare avanti con la propria vita rifugiandosi nel calore di una famiglia.

Hughes ammutolisce. Vedo emozioni contrastanti affollarsi sul suo volto: prima ira, poi incredulità, poi sembra fermarsi su un espressione che dovrebbe essere neutra, anche se le sue sopracciglia aggrottate e gli occhi improvvisamente infossati e cupi parlano chiaro. Abbasso lo sguardo, conscio di cosa ho detto. Della crepa su cui ho premuto.

So che si aspetta delle scuse, o almeno che io aggiunga qualcosa, ma non voglio farlo. Hughes ha scelto di vivere la sua vita come meglio crede e io ho il diritto di fare lo stesso.

Hughes attende che io aggiunga qualcosa, invano. Quando capisce che non ho intenzione di farlo, si sottrae di scatto alla mia mano e si alza dal tavolo senza dire una parola. Mi sento mancare la terra sotto i piedi. Una parte di me vorrebbe fermarlo, ma rimango inchiodato al mio posto. 

Se è così che deve andare, se siamo davvero diretti verso destinazioni separate, in questa vita, così sia. Potrò sempre aspettarlo in cima.

Hughes tira fuori dal taschino della giacca un pacchetto di sigarette, mostrandomelo. La rabbia non abbandona il suo volto.

«Non ne fumo una da quasi un anno,» mi annuncia, quasi distrattamente. «Vado a sbollire fuori.»

«Maes...»

«Non rovinare tutto,» mi zittisce però lui, perentorio, e mi volta le spalle uscendo dal locale lasciandomi con quelle parole insensate a ronzarmi in testa.

Lo scampanellio della porta si perde nel vociare chiassoso degli altri tavoli, ancora impegnati a brindare e a ridere tra loro. Rimango seduto, da solo, con un boccale mezzo vuoto davanti a me.

Chiudo lentamente gli occhi e mi maledico. In un solo colpo ho perso non solo il suo appoggio, ma probabilmente anche la sua amicizia. Forse dovrei disperarmi, o semplicemente accettare il fatto di essere un povero pazzo che crede di poter cambiare il mondo da solo. Il punto è che non vorrei doverlo fare da solo.

Ma non sarebbe la prima volta che Hughes mi fa notare, a ragione, che sto sbagliando.

E se fosse così? Se stessi sbagliando?

È con calma sfrigolante di tenue energia repressa che mi rendo conto di non avere alcuna intenzione di demordere. Anche se stessi sbagliando. Anche se lintero mondo si trasformasse in un fiume di fango e sangue da traversare da solo – non da solo, mai, non finché avrò lei a guardarmi le spalle.

E non mi avrebbe forse già sparato, se stessi sbagliando?

Sento il cuore rallentare i battiti e un velo ovattato coprirmi le orecchie. I miei pensieri sono nitidi e puntano in ununica direzione. È il senso di calma irreale che mi avvolgeva sul campo di battaglia prima dello scontro. Una brutta, ma utile sensazione che non provo da quasi un anno. 

Mi sembra così familiare da essere rassicurante, ormai intessuta alle vene e i tendini pronti allo scontro. Mi ci abbandono, recuperando il controllo in pochi secondi. 

Nulla di ciò che verrà potrà mai essere peggio di quello che ho già vissuto, di questo almeno sono certo. Nessun dolore che potrò provare sarà mai pari a quello che ho inflitto.

Rimango così in attesa, sentendomi di nuovo in guerra.

 


 

Hughes rientra dopo quasi venti minuti, ancora scuro in volto, ma apparentemente più preoccupato che arrabbiato. Si avvicina e ha un lieve moto di sorpresa nel vedere la mia espressione, forse aspettandosi di trovarmi in lacrime o quantomeno abbastanza sconsolato. 

Trova invece ad attenderlo i famigerati "occhi da assassino" di Ishval, in cui so che ogni uomo dotato di coscienza si rispecchia.

Si siede nuovamente, tamburellando con le dita sul legno, come cercando le parole giuste. Alla fine, sembra rinunciarvi e incrocia le braccia, guardandomi storto:

«Sei cambiato,» mi dice inaspettatamente. «Stavolta davvero.»

Quelle parole mi suonano familiari, ma non riesco a collocarle del tutto. Sono perse nelle nebbie del laudano che mi offuscavano il cervello dopo essere risorto dalla morte. Non so se si aspetti una risposta da parte mia, ma nel dubbio aspetto che venga al punto, chiedendomi se quello volesse essere un complimento.

«Se mi avessi chiesto scusa, ti avrei spaccato la faccia,» dice senza mezzi termini. «Ciò che hai detto o lo pensi, o non lo pensi. Non avrebbe avuto senso chiedermi scusa. Saresti stato solo un ipocrita, e lipocrisia non è una delle qualità che cerco nel mio futuro leader,» mi spiega, notando la mia espressione interdetta.

«Lo penso,» gli confermo. «Ma–»

«Non venirmi a dire che non giudichi le mie scelte.»

«Non le giudico,» ribatto ostinato, accigliandomi al suo tono.

Sono contento per Hughes dal profondo del cuore. Sono contento che abbia una moglie, e un figlio in arrivo; sono contento che sia riuscito ad appendere gran parte dei fantasmi di guerra nellarmadio assieme al mantello bianco. Sono contento di una felicità che punge il cuore se cercassi di afferrarla.

«Ma non le condivido, perché io non potrei mai farle.»

«Però vorresti

Anche questo colpo va a segno in profondità, insinuandosi fra le costole come un bisturi.

«Certo che vorrei,» mi ritrovo a mormorare.

Non ci provo nemmeno, a mentire, o a celare la lucidità che mi ha appannato gli occhi, oltre la quale scorrono tutte le possibilità che potrei – che potremmo avere – se solo scegliessimo di prendere unaltra strada. 

Ma la nostra è fatta di sangue e fango.

«E ci stai rinunciando.»

Non ho neanche la forza di annuire per paura di versare le prime lacrime da un anno a questa parte. Non abbasso gli occhi, che si asciugano da soli come se una ventata di vento torrido li avesse sferzati.

Hughes sembra riflettere ancora, indeciso. Poi la sua espressione si ammorbidisce di una singola tacca e unombra di sorriso mesto gli attraversa il volto.

«Da quando ti conosco ti ho sentito desiderare ununica cosa per te stesso: stare con chi ami. Se sei disposto a rinunciare a questo per fare ciò che ritieni giusto, non posso più dire che siano dei sogni infantili o delle fantasie.» Maes torna serio, scrutandomi attentamente. «Mi chiedo solo se ti rendi conto di cosa stai facendo.»

Batto le palpebre asciutte e intravedo gli scorci dei miei dormiveglia: campagna assolata, un vecchio olmo sopravvissuto a mille tempeste, le colline ricamate di vigneti. Una casa di mattoni bianchi con un giardino curato, da cui sono stati estirpati fantasmi ed erbacce. Silenzio, pace. Il canto delle allodole al mattino, il frinire dei grilli la sera. Pozzanghere limpide dacquazzoni estivi in cui specchiarsi senza paura del riflesso.

Una vita che mi è sfuggita tra le mani come sabbia e che ha vita solo dietro le mie palpebre.

«Ce ne rendiamo conto entrambi,» replico con semplicità.

Da qualche parte dentro di me, qualcosa si scheggia nel dare voce a queste parole, e so che non sarà la prima volta.

Hughes fa un cenno dassenso e il suo sguardo si fa improvvisamente distante, come se fosse impensierito da altro. Forse pensa a Gracia, al figlio in arrivo, al privilegio che si è preso nel preferire una vita felice a una vita di ammende.

Vedo sempre Ishval di fronte a me. Un sole cupo che ho scelto di guardare direttamente e che continua a gettare unombra densa alle mie spalle, sui passi compiuti. Maes, quel sole, ha scelto di non guardarlo, di schermarlo agli occhi di chi ama, ma incombe alle sue spalle e proietta unombra sui passi che compie.

Dopotutto, cosè peggio tra il cercare di riparare i torti compiuti e il cercare di fingere che non siano mai accaduti? Maes non si pentirà mai di ciò che ha scelto per sé, ma non potrebbe mai nemmeno dimenticare di cosa si sono sporcate le mani con cui lha scelto.

«Ci sto,» sbotta infine, quasi con veemenza, e quasi sobbalzo sulla panca.

«Davvero?» riesco solo a chiedere stolidamente, quasi balbettando.

«Mi hai mai visto più serio?»

Scruto i suoi occhi verdi e non vi è alcuna scintilla di giocosità. È lo sguardo che gli ho visto a Ishval, ma privo della rassegnazione di una guerra inutile e inconcludente. Cè anche lo spettro della consapevolezza che non ci si può lasciare tutto alle spalle come credeva. Cè motivazione, in quegli occhi.

«Certo, dovremo smussare un po gli angoli di un piano abbastanza rozzo, passare mazzette a destra e a manca, raccogliere consenso e mille altri dettagli... ma ci si può lavorare,» aggiunge con fare saccente, un sogghigno che gli chiude le labbra.

Mi lascio sfuggire un sorriso che scioglie finalmente la tensione sul mio volto.

«Ero certo che ti avrei convinto,» lo stuzzico, portando indietro un gomito a poggiarmi sullo schienale. Inarco un sopracciglio. «Ho un fascino innato, dopotutto.»

Lui sorride di rimando, con insolenza, accettando di far finta che nulla sia successo, anche se sappiamo entrambi che non è così – o forse è così tra noi, anche se abbiamo appena deciso di riscrivere la storia.

«Già stai diventando borioso come i tuoi superiori.»

«Mi ambiento in fretta.»

Hughes sbuffa divertito, poi alza un braccio e fa portare altre due birre. Stavolta non mi oppongo. Sui boccali è stampigliato il dragone bianco rampante, ci facciamo caso solo ora. Lo fissiamo entrambi, per poi scambiarci unocchiata complice. Hughes alza il boccale verso di me.

«Al futuro Comandante Supremo di Amestris, allora,» dice sottovoce, sullo sfondo di canti e risa soffuse.

Un senso di piacevole aspettativa mi scuote il petto. Sorrido sghembo e alzo il mio boccale di rimando.

«Al futuro,» rispondo semplicemente, con un tintinnio di vetro.

 

 



Fine Primo Interludio


 


Note:

*La canzone è un adattamento rivisitato di Death Will Never Conquer dei Coldplay, di cui vi consiglio l’ascolto.
– Ci sono dei riferimenti al capitolo extra del manga "His Battlefield Once More", in cui Roy accusa Maes di voler avere una famiglia, pur con le mani sporche di sangue. È un confronto estremamente bello e significativo e vi lascio il link qua accanto se volete dargli un’occhiata-> https://fma-facts.tumblr.com/post/164919360816/his-battlefield-once-more-book-in-figure
– Quando si accenna al carattere irruento di Maes, mi riferisco sia all’extra sopracitato che all’anime 2003, in cui prende letteralmente a pugni Roy, sia all’OAV che ripercorre il loro periodo all’Accademia.
– Attenzione ai banner in alto: quelli in bianco e nero indicano la linea temporale di Ishval, quelli a colori invece trattano di momenti non legati alla guerra (precedenti o successivi).

Note dell’Autrice:

Cari Lettori,
piccolo (non proprio) aggiornamento a sorpresa, perché ho questo capitolo nel cassetto da fin troppo tempo e non ne potevo più di tenerlo sottochiave :’)
Ogni 3 parti della storia ci sarà un "Interludio" con fatti inerenti alla vita di Roy prima e dopo Ishval. Sono strapieni di headcanon e riferimenti a manga, anime, OAV ed extra, quindi se qualcosa non dovesse essere chiaro, battete un colpo ♥

Grazie a chi ha letto, votato e/o commentato gli scorsi capitoli!
Alla prossima,

-Light-

   
 
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