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Autore: Fran Truth    24/04/2021    0 recensioni
Crowley non si aspetta più nulla dalla vita: una laurea in astronomia presto ridotta a un hobby solitario e notturno, il lavoro come insegnate di fisica, il sabato sera al bar con gente sconosciuta. Una routine fiacca e maniacale rotta solo da qualche pomeriggio in compagnia di Anathema, sua collega e vicina di casa, e nulla più. Finché una telefonata dall’Italia non rompe tutti gli schemi, perché la figlia di sua sorella Helen, morta quasi sedici anni prima, è rimasta orfana e senza parenti. Isotta si vede così costretta a lasciare Trieste, il mare e Ilenia, il suo primo e ancora fragile amore.
Aziraphale credeva di aver finalmente trovato il suo equilibrio, barattando il mondo esterno con quello dei suoi libri, ma a un certo punto si ritrova a soffocare nella sua stessa bolla. Preso da un impellente desiderio di sfuggire a quella solitudine, pubblica un annuncio di lavoro alla porta della sua libreria. Isotta coglie quella che sembra una piccola possibilità di ripartire, ammaliata da quell’angolo di mondo che odora di carta e tè, una luce in fondo a quel tunnel di delusione. Quel fioco bagliore si avvicina sempre di più e, infine, illumina tutti e tre.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Fin dall'istante in cui Isotta aprì gli occhi, con la mano di suo zio tra i capelli, l'aria intorno a sé le parve diversa. Straniera. L'aeroporto divenne una Babele priva di italiano dominante, disseminato di cartelli in mille lingue. La testa si fece pesante, una sensazione che riconobbe come completo smarrimento, come se recitasse la parte dell'italiano stereotipato in un mediocre cinepanettone. Seguì suo zio a testa bassa, evitò con quanta più cura possibile gli sguardi della gente, si muoveva come un automa e mormorò qualche parola sconnessa solo quando interpellata direttamente. Era un paradosso come, per anni - attorniata dai complimenti e dalle storie dei suoi professori di inglese, dalle foto ricordo di quella madre scozzese che mai aveva visto, - avesse desiderato poggiare i piedi su quella terra lontana e adesso, appena scesa dall'aereo, ci entrava come un cerbiatto impaurito. Nulla rispecchiava i programmi immaginati le sere prima di dormire: nessuna stanza d'hotel ad attenderla, nessuna guida turistica in mano, niente abiti estivi liberi nel vento o quel sapore malinconico che le città meravigliose sanno darti quando sai che dovrai lasciarle. E niente Ilenia.

A braccia incrociate, con le dita che tiravano a sé la maglietta, uscì dall'aeroporto. La macchina di suo zio, una Bentley d'epoca, iniziò a sfrecciare sotto la pioggia come un fulmine e Isotta dovette reprimere un conato di vomito, con gli organi che facevano su e giù. Dopo pochi minuti, implorò Crowley di andare più piano, ma lo fece in italiano senza pensarci e a voce così bassa che, con i Queen in sottofondo sparati al massimo che cantavano Don't Stop Me Now, lui nemmeno la udì. Lo pregò di nuovo e infine, strillando, scoppiò a piangere e si rannicchiò sul sedile, soffocando il viso tra le ginocchia.

Crowley accostò, ma Isotta tremava e, chiusa a riccio, non voleva guardarlo. Non voleva vedere nessuno, desiderava soltanto Ilenia, il suo calore, il loro mare, il meraviglioso periodo dei suoi dodici anni dove tutto era perfetto e immacolato, quando suo padre aveva ancora la testa sulle spalle e una compagna che tentava di fare la madre. Lo urlò, lo sputò fuori dalla gola, ma Crowley non capì una parola. Sorpreso, borbottò qualche parola lasciata a metà, le sfiorò la schiena e le porse dell'acqua, ma lei rifiutò tutto. Si accoccolò su sé stessa e gli diede le spalle. Sperò che la ignorasse, che guidasse e non le rivolgesse una sola parola, che si comportasse come se non esistesse, esattamente come aveva fatto per più di quindici anni. Agognava la solitudine della sua camera, un letto soffice su cui piangere senza limiti e un sonno pesante come il peggiore dei lutti.

Giunsero a Camden Town, dove la notte ancora non dominava gli animi degli studenti nei bar. Isotta e Crowley non si parlarono, salirono in silenzio le scale fino al loro appartamento e si coricarono. La sua prima notte, a Londra, fu irregolare e senza sogni.

*

Si svegliò avvolta nel torpore, con le coperte appiccicate alle gambe sudate. Rotolò pigramente verso l'altro lato del letto e, a occhi semichiusi, guardò i muri vuoti della sua stanza, la scrivania ancora abbandonata nell'angolo e gli scatoloni sigillati.

Lasciò che un braccio penzolasse dal letto, sfiorando il pavimento. Rimase in quella posizione per qualche minuto, mentre una foschia di pensieri sconnessi volteggiava per la sua mente: la pioggia, il viaggio, Londra. Si decise ad alzarsi solamente quando, dalla porta spalancata della sua stanza, si fece strada un vago odore di latte.

Entrò in cucina strisciando i piedi e gettò un'occhiata al suo riflesso sul frigorifero: i capelli mossi, lunghi fino al mento, parevano esser stati attaccati a ciocche con la colla. La maglia del pigiama, troppo lunga, le copriva solamente una spalla, mentre l'altra era rimasta del tutto nuda a causa della manica scivolata verso il braccio. Teneva la schiena curva.

«Buongiorno, principessa!» esclamò suo zio. Isotta si voltò: seduto con le gambe accavallate, leggeva un manuale di astrofisica sorseggiando vodka. Dietro di lui si ergeva un muro di piante lussureggianti. «Dicono così in quel film che ti piace tanto, no?»

Isotta trovò la forza di annuire, strofinandosi gli occhi. Il sorriso di suo zio si spense e assunse un'espressione seria.

«Ti ho fatto il latte» disse. Diede due colpetti alla sedia accanto a lui. «Su, vieni qui».

Obbedendo, Isotta gettò un po' di zucchero nella tazza e bevve con lentezza, sbocconcellando un biscotto. Avrebbe voluto chiedere a suo zio del caffè, ma rimase zitta. Si sentiva meno di un ospite, in quella casa.

«Qual è il problema?»

«Cosa?» fu così diretto che rispose in italiano. «No, volevo dire... cosa?»

«Come "cosa"? Ti sei vista?». Crowley tenne la mano aperta e la mosse su e giù per tutta l'altezza di sua nipote. «Sembri un condannato che va a farsi impiccare».

Di fronte al mutismo di Isotta, che era tornata a braccia incrociate, Crowley tentò un approccio diverso. «Ok, ascolta. Di certo non mi aspetto tu faccia fin da subito i salti di gioia, ma almeno ti va di dirmi cosa ti preoccupa più di tutto?». Appoggiò il libro sul tavolo. «Sei scoppiata a piangere in macchina. È ovvio che tu non stia bene».

No che non stava bene, ma, in quell'istante, Crowley non era la persona che avrebbe scelto per confidarsi. In realtà, nessuno lo era. Nemmeno Ilenia.

Cercò di sviare la conversazione. «Ho solo avuto un momento un po'... così. Fine, davvero», poi aggiunse «E l'aereo, non l'avevo mai preso. Avevo paura».

«Fai schifo a mentire, sai?»

Lei non disse nulla.

Crowley sospirò. «Senti, Isotta» picchiettò le unghie dipinte di nero sul tavolo. «Nessuno che ha un "momento così" si mette a strillare, a piangere e a rannicchiarsi in quel modo. Sull'aereo hai dormito come un angioletto. E poi mi hai detto di essere stata in Irlanda, non credo tu ci sia andata a nuoto».

Attese qualche secondo. Non ricevendo alcuna risposta, annuì e riprese il libro.

«Non mi va di parlarne» sussurrò Isotta infine. «Tutto qui».

Suo zio la guardò perplesso. Provò a incontrare gli occhi di Isotta, ma sua nipote aveva lo sguardo puntato al pavimento. «Va bene» disse. «Va bene. Ma ti prego, non raccontarmi balle».

Passarono il resto della mattina a sistemare ciò che ancora si trovava negli scatoloni. Innanzitutto misero in ordine decine di libri, organizzando gli scaffali in due sezione principali: una di romanzi moderni e l'altra di tomi ricolmi di sottolineature, note e post-it. Crowley conosceva pochi di quei nomi, ma riconobbe le cantiche della Divina Commedia suddivise in tre libri mastodontici dalla copertina rigida e accuratamente illustrata con l'acquerello.

Mentre Isotta era intenta a smistare alcuni abiti, lui soppesò un grosso manuale e lo sfogliò velocemente: le pagine, sottili e fragili, scritte in maniera fitta e microscopica, erano segnate da numerosi parole a matita che non fu in grado di leggere, con punti esclamativi o di domanda, cerchi e, talvolta, piccole caricature. Ogni tanto, spuntava un'immagine in bianco e nero.

«Cos'è questo?» le chiese. Trovava quella quiete insopportabile, un muro da abbattere.

Sua nipote si voltò. «Ah, il "Decameron"».

«Deca-che?»

«"Decameron"» ripeté più lentamente. «È una raccolta di novelle del quattordicesimo secolo».

«Odiavo il quattordicesimo secolo» borbottò tra sé e sé. «E di che parlano?»

«Tante cose» appese una maglietta e dedicò a Crowley tutta la sua attenzione. «Amori felici o infelici, morte, politica, religione, commercio, fortuna, beffe, ingegno...»

«Tutto qui dentro?»

«Sì, sono cento».

«E le hai lette tutte?»

«In quella versione ancora no».

«In che senso "questa versione"?»

Isotta si chinò e afferrò un altro libro enorme dalla mensola più bassa. Glielo passò. «Qui le ho lette tutte. Sono riscritte in italiano moderno. Settecento anni fa la prosa era molto diversa: più complessa, con termini ora desueti, le frasi erano più lunghe e spesso venivano usate strutture tipiche del latino. Il verbo alla fine, per esempio». Tacque di colpo. Abbassò il volto e tornò ai suoi vestiti, ma Crowley non aveva intenzione di lasciarla andare così: aveva trovato una crepa a l'avrebbe rotta, anche a testate.

«Raccontamene una» sparò. Notando lo sguardo sconcertato di Isotta, ripeté: «Raccontamene una. Mica so leggere l'italiano, io. Avanti, una a caso». Non che gli interessasse sul serio. Non insistette troppo per non far cadere quella farsa, ma, in quel momento, gli parve l'unico modo per guadagnare un briciolo di fiducia, o almeno un barlume di felicità. Se parlare di quelle cose la faceva stare bene, che ne discutesse per ore.

«U-una qualsiasi?». Rimuginò un secondo, poi prese a parlare come una macchinetta. «Beh, c'è quella di Tancredi e Ghismunda. Lui è il principe di Salerno, ed è ossessionato da sua figlia. Quando rimane vedova non la vuole più maritare e la tiene rinchiusa nel palazzo. Ghismunda però è giovane e si stanca presto: decide quindi di trovarsi un amante e sceglie Guiscardo, un valletto di corte, e lo invita in una grotta poco distante».

Crowley, al contrario di quanto aveva creduto, si ritrovò immerso nella vicenda. Isotta non tartagliava più, anzi, parlava fluentemente e sembrava più rilassata. Non incrociò le braccia, stava retta in piedi e mise le mani in tasca. Quando finì, suo zio rimase un po' deluso.

«E muoiono? Così?»

«Te l'ho detto che parlavano anche di amori infelici».

Qualcuno bussò all'ingresso, due colpi delicati. «Crowley!»

Era una voce femminile. Isotta si agitò. «Chi è?»

«Oh, è Anathema. La nostra vicina. Vieni, così la conosci». Senza aspettare una risposta, le prese la mano e la trascinò fino alla porta. Quando aprì, vide Anathema con un sacchetto in mano che emanava un profumo dolce e invitante. Al suo fianco, Newt salutò con fare impacciato. «C-ciao, Crowley».

«Salve ragazzi». Diede un colpetto alla schiena di Isotta. «Lei è mia nipote».

«Buongiorno» fece lei, piano.

«Mi chiamo Anathema, insegno storia nella stessa scuola di tuo zio». Indicò Newt, che accennò un saluto con la mano. «Lui è il mio ragazzo».

Crowley li invitò a entrare e Isotta lo aiutò a preparare tè e caffè. Anathema aveva portato dei biscotti alla vaniglia appena sfornati, che porse alla ragazza con un gran sorriso stampato in volto.

«Com'è andata in Italia?» chiese Newt sorseggiando del tè.

«Molto bene» disse Crowley. «Ma tante scartoffie. Davvero, una montagna».

«Immagino» fece Anathema. «Dovremmo andare anche noi in Italia, è un posto meraviglioso». Si rivolse a Crowley. «Ai ragazzi manchi, comunque».

«Dubito che il professore di fisica possa "mancare"».

«Avanti, a loro piaci».

«Se lo dici tu».

Loro due continuarono a discutere. Newt spostò la sua sedia e si sporse verso Isotta. «Allora...», lei alzò la testa. «Che impressione ti dà Londra?» Lo disse in modo quasi imbarazzato, senza guardare la ragazza in viso.

Lei boccheggiò prima di rispondere. «È... caotica. E grande, molto grande». Rimase su un piano il più generale possibile. «E piove» aggiunse in fretta scorgendo numerose gocce sul vetro della finestra dietro Newt. «A Trieste di solito fa molto caldo in questo periodo».

«Oh, capisco» si grattò la nuca, cercò di attirare con gli occhi l'attenzione di Anathema, ma forse non voleva interrompere la sua discussione con Crowley. «Hai già qualcosa in programma?»

Isotta pregò ogni dio perché quella conversazione blanda terminasse. «Non so, farò un giro per i quartieri più famosi. Magari visiterò qualche museo».

«Mh» mormorò lui. «Sono belli i musei».

«Già».

Newt si appoggiò allo schienale e non disse altro. In seguito, la salutò insieme ad Anathema e aggiunsero: «Se serve qualcosa, siamo qui di fianco».

«È brava gente» disse Crowley quando si congedarono. «Di loro ti puoi fidare».

Annuendo, Isotta prese a sparecchiare e a sciacquare le tazzine. Suo zio la raggiunse e le diede una pacca sul braccio. «Lascia, faccio io. Potresti mettere i dolci di Anathema nella scatola blu vicino al frigo?»

Obbedì. L'odore di vaniglia, invece di farle venire l'acquolina, la nauseò. Aveva l'appetito sotto zero, sebbene avesse bevuto un misero bicchiere di latte zuccherato e ingurgitato un biscotto. Già prediceva la preoccupazione di Crowley a pranzo.

«Comunque» disse suo zio. «Hai sentito che Anathema insegna storia. Anche tu vuoi insegnare, no?»

«Sì, letteratura. Per ora l'idea è quella».

«Ogni tanto facci una chiacchierata. Ti saprà consigliare sicuramente meglio di me».

Borbottando un "mh-mh", Isotta tornò nella sua stanza. Crowley, nel frattempo, rifletteva su cosa avrebbe potuto fare per toglierle quell'espressione da funerale che aveva in volto. Anche lui avrebbe dovuto parlare con Anathema, magari sull'argomento "come alzare a lungo termine l'umore alle persone senza sembrare un completo idiota o perdere la testa".

Sfogliò qualche pagina del saggio che aveva lasciato sul tavolo, ma concentrarsi era impossibile. Udì il rumore di oggetti spostati che proveniva dalla camera di Isotta, come sempre lasciata aperta. Attese qualche minuto, poi sbirciò dentro.

Negli scatoloni c'era ancora qualcosa, ma ormai buona parte della stanza era occupata da libri, DVD e gingilli vari: pupazzetti, calamite, souvenir, fotografie. Due cose lo catturarono in particolare: un grande disegno fatto a mano raffigurante una caricatura di Dante Alighieri, con una citazione che non fu in grado di leggere, e un poster di Amy Winehouse. Fu in quell'istante che una lampadina gli si accese nella mente.

«Hai finito?» le chiese in fretta. Si maledisse subito, probabilmente era apparso seccato.

«Uh, beh, sì».

«Prendi giacca e ombrello, ti porto in un posto che ti piacerà».

«Ma fuori piove».

«Meglio, ti adatti subito al clima».

Camminarono in fretta lungo la strada affollata. Isotta gli stava attaccata: forse, pensò Crowley, non era abituata a passeggiare in mezzo a un tale grumo di gente e temeva di perdersi.

Grondanti di pioggia, raggiunsero la statua in bronzo di Amy Winehouse, miracolosamente scevra di turisti. Quando Isotta sollevò il cappuccio, Crowley vide i suoi occhi spalancarsi. Sorrise, oh Signore come sorrideva. Rimase immobilizzata per qualche secondo, poi iniziò a saltellare davanti a suo zio. «Oddio, oddio, mi fai una foto? Ti prego, una sola!»

A Crowley ci volle un attimo per realizzare che lo scricciolo bagnato davanti a sé era sua nipote e non un sosia alieno. «Certo, certo. Veloce però, ché tra poco mi sa che diluvia».

Sorridendo insieme a lei, pensò Dio, Satana, chiunque, datemi la forza.

   
 
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