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Autore: Fran Truth    24/04/2021    0 recensioni
Crowley non si aspetta più nulla dalla vita: una laurea in astronomia presto ridotta a un hobby solitario e notturno, il lavoro come insegnate di fisica, il sabato sera al bar con gente sconosciuta. Una routine fiacca e maniacale rotta solo da qualche pomeriggio in compagnia di Anathema, sua collega e vicina di casa, e nulla più. Finché una telefonata dall’Italia non rompe tutti gli schemi, perché la figlia di sua sorella Helen, morta quasi sedici anni prima, è rimasta orfana e senza parenti. Isotta si vede così costretta a lasciare Trieste, il mare e Ilenia, il suo primo e ancora fragile amore.
Aziraphale credeva di aver finalmente trovato il suo equilibrio, barattando il mondo esterno con quello dei suoi libri, ma a un certo punto si ritrova a soffocare nella sua stessa bolla. Preso da un impellente desiderio di sfuggire a quella solitudine, pubblica un annuncio di lavoro alla porta della sua libreria. Isotta coglie quella che sembra una piccola possibilità di ripartire, ammaliata da quell’angolo di mondo che odora di carta e tè, una luce in fondo a quel tunnel di delusione. Quel fioco bagliore si avvicina sempre di più e, infine, illumina tutti e tre.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Non aveva mai trascorso l'estate così lontana da casa, senza suo padre, senza Ilenia, senza il mare. La stagione calda a Londra, questo se lo aspettava, era molto diversa da quella italiana: pioggia più frequente, meno temporali, temperature che di rado toccavano i venticinque gradi e meno ore di sole; fu costretta a rinunciare a costumi da bagno e pantaloncini, alle gite in barca e alla Slovenia, ma, come in Italia, era sola a casa per buona parte della giornata, essendo Crowley impegnato con la scuola. I primi giorni non osò mettere il piede fuori dal palazzo, intimorita dalla grandezza e dalla caoticità di quella città che aveva visto solo nei film, così diversa dalla sua placida Trieste, ma, spinta da un'indicibile curiosità, a luglio si tuffò tra la folla londinese armata di cartina. Passeggiò lungo il suo isolato e presto imparò a orientarsi, ma non aveva fatto ancora i conti con il resto di Londra. Tentata, si avventurò più volte oltre i confini di Camden e la sua poca praticità nelle uscite solitarie in luoghi così nuovi si fece vedere ben presto: scordava i punti di riferimento, imboccava tre volte la stessa strada senza accorgersene e non riusciva a capire l'immensa e colorata mappa della metropolitana o dove fermassero gli autobus.

Una volta, di ritorno da Piccadilly Circus, l'autobus su cui sedeva stava percorrendo una tratta del tutto opposta a quella che avrebbe dovuto seguire secondo i calcoli di Isotta. Seduta accanto al finestrino, osservava le strade sconosciute mentre il cuore accelerava e la bocca dello stomaco si sigillava e, colpita da un lampo di adrenalina, agguantò la borsa accanto a sé e scese alla prima fermata disponibile.

Si guardò attorno: non aveva mai visto quell'insegna, quel bar era nuovo, i palazzi troppo colorati, il Big Ben in una posizione anomala. Maneggiò la cartina balbettando sottovoce imprecazioni in italiano, con il volto privo di colore e il respiro sempre più irregolare. No, via la cartina, prima doveva calmarsi, prendere due grandi boccate d'aria, chiamare suo zio- no, doveva uscire da sola da quella situazione e Crowley era a scuola, a lavorare. Non poteva disturbarlo. Eppure, il solo fatto di guardare la cartina la faceva scoppiare in lacrime. Suo padre l'avrebbe additata come una bambina, avrebbe anche avuto ragione, forse, e non l'avrebbe più lasciata uscire da Trieste per due settimane, nemmeno con Ilenia.

Un piccolo tocco sulla spalla la fece saltare. «Ehi!». Voce estranea, di donna, giovane, un soffio di vento portò davanti ai suoi occhi delle ciocche rosso fuoco. Isotta si scusò in fretta, fin troppo, dato che rispose prima in italiano e poi in inglese.

«Stai bene?» chiese la sconosciuta. Alta, snella, con un giubbotto di pelle addosso, labbra scarlatte e due occhi azzurri che la fissavano preoccupata ma, Isotta ne fu certa, anche divertita.

Si diede uno schiaffetto sulla guancia. L'avrebbe presa per matta, ma ne aveva bisogno. «Sì, benissimo».

La ragazza ridacchiò. «Sicura, piccola?»

«Ho quasi diciotto anni» e non sono la tua sorellina.

Inclinò la testa di lato, senza smettere di sorridere. «Su, scherzavo. Sei straniera, vero? Ti serve una mano?».

«No» rispose secca. «No, ok, sì, non so che fare».

«Oh, è normale, piccola» finiscila. «Avanti, dove devi andare?»

La portò alla fermata per Camden e la salutò con un cenno della mano. Non le disse il suo nome. Tornata a casa, Isotta si bagnò il viso con l'acqua gelata, spargendola per tutto il pavimento.

La seconda volta che si perse non fu così fortunata. Sbagliò la fermata della metropolitana e imboccò l'uscita errata. Girovagò un po', nella speranza di capire dove fosse e in quell'istante, frugando nello zaino, una scarica di terrore si impossessò di lei: aveva dimenticato la cartina sul sedile della metro.

Quel pomeriggio tentò di calmarsi entrando in qualche negozio, ma ben presto si arrese. Chiamò suo zio con le mani che tremavano mentre cercava il suo numero nella rubrica. Si precipitò da lei prima della fine delle lezioni.

«Perché non mi hai chiamato subito?» le chiese quando furono in macchina. «Sarei venuto all'istante!»

«Eri a scuola, non volevo disturbarti».

«Ma chissenefrega - perché questo qui va così lento, dannazione - se ti perdi in mezzo a Londra di certo non ti mollo così».

«Il pedone!»

«Eh?»

«C'è una persona sulla strada!»

La schivò di striscio. «Se cammina in quel modo sa cosa rischia».

Isotta non si sarebbe mai abituata alla guida spericolata di Crowley nemmeno provandoci. Durante i due mesi passati insieme a lui, aveva arricchito il suo - magro - vocabolario italiano con parole come "frena", "piano", "attento", ma anche "porca puttana".

«A casa ti spiego come funzionano i mezzi» le disse.

Isotta fu punta nell'orgoglio. «So come funziona un autobus».

«Forse a Trieste, di sicuro non qui».

«Devo solo ambientarmi un po', in Italia uscivo poco da sola, papà non mi lasciava».

«Appunto». Poi si voltò verso di lei. «Aspetta, cosa? Ma hai quasi diciotto anni!»

«Lui non voleva, a meno che non ci fosse Ilenia. A malapena mi lasciava uscire dalla città».

Crowley mormorò scocciato un "cretino" mentre svoltava a sinistra. Dopo quell'evento, Isotta trascorse quasi ogni giorno in casa.

Suo zio la lasciò libera di fare ciò che più preferiva, ma lei si stancò presto di riguardare i suoi film. Non aveva voglia di leggere, né di studiare, sebbene avesse l'impressione che i libri abbandonati sulla scrivania la guardassero con rimprovero: non aggiungeva un segno a matita all'"Orlando Furioso", lasciato a metà, da almeno tre mesi, mentre le pagine di "Una voce dal lago", uno degli ultimi libri che Ilenia le aveva regalato, non vedeva la luce dalla fine degli esami.

L'unica lettura che si concesse in quel periodo fu quella dei quotidiani che suo zio portava a casa la domenica mattina. Fu in una ventosa giornata di fine luglio che, annoiata, sfogliando le pagine del "Financial Times", trovò un piccolo articolo incentrato su un giro di affari sporchi intorno ad alcune opere d'arte su cui si indagava nel triestino. Ritagliò il quadratino di carta e lo infilò tra le pagine del "Canzoniere" di Petrarca.

Per un po' si lasciò alla più completa pigrizia, ma solo quando Crowley non era in casa. Si sentiva vuota, come se il filo dell'apatia le avesse legato la mente e le mani. Guardava il mondo come un malato a letto guarda la pioggia battere sul vetro, come qualcosa che sì, esiste, ma in quel momento non è un problema suo. L'unica sua luce, in quel periodo in cui sembrava essere sempre notte, erano le videochiamate con Ilenia, quando si rilassava nella sua stanza con il PC sulle ginocchia, stesa a letto, con la voce di lei. Dietro lo schermo le appariva vicinissima, credeva di poter toccare la sua pelle solo alzando il dito. A volte ci provava, incontrando il calore del monitor. Insieme facevano qualche gioco infantile, anche online, oppure parlavano per ore e ore. Quando tutto finiva, Isotta chiudeva gli occhi e sognava il loro Castello, loro due sul molo, nei giardini. Le mancava il suo odore, quel profumo che non sapeva descrivere, la fragranza che diceva "è lei", che la inebriava insieme alla salsedine.

L'ozio, però, diventò presto stretto e velenoso e alimentò dentro di lei fitti sensi di colpa: aveva bisogno di fare qualcosa, qualunque cosa per non sentirsi un peso in quella casa così estranea, ma altrettanto velocemente elaborò un modo per fuggire dalle coperte del letto. Osservando il frigorifero e la dispensa trovò solo cibi surgelati, già pronti, oppure alimenti molto semplici e facili da cucinare. Decise così di tornare operativa: Crowley pranzava a scuola, ma la sera lo accoglieva con una buona cenetta in cui di solito dominavano i sapori del Mediterraneo. Era quasi un dovere, per lei, fare qualcosa per lui. Sebbene non fosse un gran mangiatore, apprezzava sempre e il cuore di Isotta si riempiva di gioia ogniqualvolta entrava sorridente in casa e posava gli occhi sulle padelle o sul forno acceso. Inoltre, lei ritrovò il piacere tra i fornelli.

Recuperò anche i suoi quaderni di pasticceria che non toccava da mesi e sfornò torte e biscotti in quantità industriale. Conobbe i proprietari romani di un piccolo negozio di alimentari italiano poco distante da casa sua, che divenne il suo posto preferito per la spesa. Crowley dovette implorarla di moderarsi per evitare che i costi delle bollette toccassero le stelle, ma lei lo beccava spesso a rubare qualche delizia dalle scatole.

Impararono anche a convivere con le reciproche abitudini: Isotta teneva la porta di camera sua aperta e Crowley la sera abbassava al minimo indispensabile il volume della televisione, o apriva l'uscio d'ingresso il più piano possibile quando tornava tardi da una serata al bar. Sopportò le macchie di farina o di crema che ogni tanto Isotta lasciava e non fece più caso ai profumi intensi della cucina italiana. Lei, dal canto suo, si allacciava per bene la cintura in macchina, dove gli aveva strappato il permesso di mettere i CD della Winehouse, e iniziò a ignorarlo ogniqualvolta sbraitasse contro le sue piante, nonostante a volte avesse qualcosa da ridire.

«Perché hai buttato la piantina nuova? È sanissima!»

«Aveva una macchia sulla foglia» rispose lui senza guardarla. «Avrebbe dovuto crescere meglio! Servirà da lezione alle altre».

«Ah, se lo dici tu».

Di nascosto, recuperò quell'esserino e lo mise sul davanzale della sua finestra. Morì dopo tre settimane.

«Visto?» l'aveva punzecchiata Crowley. «Sei stata troppo buona».

Scuola permettendo, suo zio si procurò dei momenti per loro due. Quando il sabato non usciva per bere un drink con i suoi colleghi la portava fuori a cena nei pub e al cinema, visitarono insieme il British Museum, Buckingham Palace e salirono sul London Eye con Anathema e Newton («Il panorama puoi guardarlo anche senza attaccare il naso al vetro, sai?» l'aveva punzecchiata).

Compì diciotto anni il 29 di agosto. Quella mattina la destarono le dita affusolate di suo zio immerse nei capelli. «Auguri, principessa».

Si liberò dal bozzolo di lenzuola intorno al suo corpo e seguì suo zio in cucina, dove un cestone da picnic si ergeva, ancora aperto, sul tavolo da pranzo.

«Ti sei dato da fare». Fece per sbirciare, ma Crowley le chiuse il coperchio in faccia. «Dopo. Preparati, ché dobbiamo partire».

Non se lo fece ripetere: buttò giù il suo solito bicchiere di latte e, con ancora mezzo biscotto in bocca, si precipitò in camera per cambiarsi.

Pranzarono nella radura di un boschetto immerso nella campagna inglese, su una vecchia tovaglia a quadri che odorava ancora di ammorbidente.

Isotta, impaziente, aprì il cesto e lo trovò stracolmo. «Deve arrivare un esercito o aspetti un attacco di fame?».

«Non ridere, mi sono impegnato!».

«Non lo metto in dubbio. Con cosa sono i panini?».

«Un po' di tutto. A destra ci sono quelli che ti piacciono tanto, con formaggio e marmellata. Ho preso anche un salame dal negozio italiano, il tizio mi ha detto che ti sarebbe piaciuto, lo ha fatto arrivare da un paesino della tua regione».

«Mi fido della parola di Roberto» scavò a fondo nel cesto ed estrasse un sottile salame con un'etichetta attaccata. «Bassa friulana. Sono buoni questi».

Suo zio fece spallucce. Appoggiò lo zainetto sul terreno e tirò fuori una bottiglia piena di liquido ambrato. «Bicchierino?».

Isotta, con la bocca già piena di pane e formaggio, inclinò la testa. «Rum?».

«Non fare la santa, so che hai bevuto in vita tua».

Mandò giù il boccone e incrociò i piedi. «Sì, qualche goccio di birra, vino, quelle cose leggere...».

«Forse se lo dici guardando me e non l'erba sei più credibile».

«Va bene, dài! Una volta sola».

Suo zio aveva già riempito il fondo di due piccoli bicchieri di plastica. «Avanti, è il tuo compleanno».

Accettò il bicchiere e l'odore pungente le trafisse il naso. Lo ricordava più dolce nei babà che preparava con Ilenia. Senza respirare, lo scolò tutto d'un colpo e tossì mentre un intenso bruciore si fece strada in gola. «Cristo-»

Crowley le diede due pacche sulla schiena. «Non serviva buttarlo giù così. Dovrei insegnarti un po' di cose».

Isotta respirò dandosi dei colpetti sullo sterno. «Gli assistenti sociali non avevano detto che avresti dovuto darmi il buon esempio?».

Suo zio scoppiò a ridere e, invece del rum, si versò dell'acqua. «Infatti guarda tuo zio che, sapendo di dover guidare, non esagera. È un esempio abbastanza buono?».

«Sì, può andare».

Quando finirono di mangiare le crostatine preparate da suo zio (di forma irregolare e con il bordo bruciacchiato) lui le passò un pacchetto incartato con cura, verde e un poco flessibile. Sciolse il nastro smeraldo e rivelò due libri sottili, entrambi in inglese: un saggio sul cinema britannico contemporaneo e "Otello" di Shakespeare.

«Non sapevo bene che farti» disse. «Anathema mi ha aiutato un po'. Ho visto tutti i tuoi film e ho notato che avevi un po' di libri di Shakespeare, quindi ho pensato che...» si passò una mano tra i capelli. «Voglio dire, probabilmente ti aspettavi un diciottesimo diverso, io ho fatto del mio meglio e spero che ti sia piaciuto. Ho anche prenotato i biglietti per il museo del cinema, oggi è chiuso ma domani possiamo andarci, comunque...».

Isotta si coprì la bocca con la mano per nascondere la sua risatina. Suo zio in quel momento aveva un che di bambinesco, con le gambe incrociate e lo sguardo puntato verso il basso che tentava di giustificarsi. Posò i libri sulla tovaglia, gli si avvicinò e lo avvolse in un abbraccio leggero, senza stringere. Sollevò la testa e gli scoccò un rapido bacio sulla guancia scarna. «Va benissimo così» mormorò.

Lui non si era mosso di un millimetro né aveva cambiato espressione, ma il suo volto era diventato rosso come i suoi capelli. Si voltò verso di lei e, con le dita che tremavano, le fece un buffetto.

Camminarono per i boschi fino a sera, quando il cielo fu abbastanza scuro per ammirare le stelle.

*

Gli parlò della sua idea di cercare lavoro una settimana dopo il suo diciottesimo, durante una serata temporalesca che aveva annullato i piani di bevuta di Crowley. Sedevano insieme sul divano e guardavano "La morte a Venezia", uno dei tanti film che Isotta aveva portato dall'Italia. Proferì quelle parole mentre Tadzio lanciava uno sguardo languido, complice ad Aschenbach. Suo zio premette il tasto pausa.

«Un lavoro?»

«Sì» rispose Isotta. «Qualcosa di semplice, ovvio».

Crowley sospirò e si strinse il ponte del naso tra le dita. «Ascolta, se pensi che ci sia un problema di soldi sappi che ho tutto sotto controllo. Non devi preoccuparti di nulla».

«No, no, hai frainteso».

«Spiegati, allora».

Portò le gambe sul divano e prese a massaggiarsi il ginocchio con le dita «Non so ancora cosa fare... della mia vita, in generale. Se stare qui o andare in Italia a studiare. Ma non voglio passare un anno a non fare assolutamente niente e ormai è tardi per iscrivermi all'università. Inoltre in questo modo potrei anche mettere qualcosa da parte».

Crowley parve riflettere per un attimo. «Ok» le disse. «Effettivamente non so quanto sia intrigante l'idea di startene chiusa in casa per un anno».

«C'è qualche annuncio su Internet, magari posso farteli vedere».

«Se ti può aiutare, va bene, ma sei sicura di voler proprio lavorare? Non vuoi fare, che so, un corso di perfezionamento di inglese? O di qualche altra materia che ti piace?»

«Ho il C1 di inglese» ribatté. «La lingua per me non è un problema e al momento non sono del tutto sicura di voler continuare con letteratura. Voglio pensarci su, ma voglio anche ripartire in qualche modo».

«Capisco» disse Crowley. Si girò verso di lei. «E cosa ti piacerebbe studiare, oltre a letteratura?»

La mano si Isotta sul ginocchio si rilassò. «Non lo so, sinceramente. Non c'è nulla che mi appassioni tanto quanto quella, ma al tempo stesso non sono convinta».

«Ma perché? Insomma, guarda quanti mattoni hai. Arriveresti più preparata della metà degli studenti».

«Papà...» si interruppe un attimo, Crowley fece una smorfia di disappunto. «Diceva che coi libri non avrei concluso nulla. Credeva che la letteratura fosse un hobby per finti colti e professoroni. In Italia la vita è un po' dura per chi si laurea in materie umanistiche».

«Be', tuo padre non c'è più» sbottò. «Nessuno può dirti cosa fare, nessuna materia è per "finti colti" e se sei brava a fare qualcosa fidati che la gente ti vuole. Anche il padre di Anathema le disse una cosa del genere, quando andò all'università: ripetere a pappagallo quello che ha fatto gente morta e sepolta secoli fa è una perdita di tempo».

«E l'ha lasciata studiare comunque?»

Crowley ridacchiò. «Diciamo che... Anathema sa il fatto suo. Se vuole una roba se la prende. Adesso insegna con me ed è amatissima dai ragazzi».

Isotta sorrise. «Dice che lo sei anche tu».

In risposta, scosse la testa serrando le labbra. «Gn. Sarà». Ritornò serio. «Comunque hai molto tempo per pensarci. Riguardo a tutto, dico... l'università, il lavoro, se stare qui o andare in Italia». Il film ripartì. «Se ti serve qualcosa... comunque... beh, io sono qui. Lo sai».

Lo disse quasi sforzandosi, come se faticasse a formulare le parole, ma Isotta ne fu contenta in ogni caso. In fondo non aveva nessun altro se non lui.

La sera successiva Isotta rimase alzata fino a tardi per guardare "Schindler's List". Poco prima della fine del film, Crowley entrò raggiante e anche un po' ubriaco. Ciondolava contro le pareti, ma riuscì a raggiungere il tavolo della cucina.

«Principessa, ho trovato qualcosa che ti piacerà» biascicò. Le mostrò una foto scattata con il cellulare. Era un po' scura, ma Isotta fu in grado di leggere tutte le parole scritte a mano su un foglio di carta. La grafia era sottile, dritta e delicata: la libreria "A. Z. Fell & Co" cercava una persona che potesse aiutare il proprietario nella vendita e nella schedatura dei libri. Non vi erano particolari requisiti, se non la maggiore età.

Isotta sentì il suo cuore fare un balzo. «Dove hai trovato questo posto?» chiese con un filo di voce.

Crowley inclinò la testa e si mise a guardare il soffitto. «Mh, aspetta, era... Soho. Sì, Soho. Non è lontano».

«Soho?» ridacchiò. «Sei andato in uno strip club?»

«Io?! Ma ti pare» affondò sulla sedia. «Ci sono cose molto più belle».

«Beh, in vino veritas» mormorò Isotta. «Vieni, ti porto a letto».

In un attimo, fu davanti al suo portatile. Digitò il nome della libreria, ma non comparve alcun sito o notizia rilevante. Scoprì però che si trattava di un negozio che vendeva anche prodotti antiquari e vi era una foto che illustrava uno scorcio dell'interno: scaffali ricolmi di coste marroni e rosse si ergevano contro i muri ricoperti da carta da parati nera. Intravedeva anche un soppalco retto da quattro colonne ocra in cui si apriva un foro rotondo con una ringhiera a fare da circonferenza. Vide due poltrone gialle, alcuni tavolini e tappeti persiani. Aveva un'atmosfera anticheggiante, un posto che aveva spesso visto nei film e che aveva sognato per anni.

Frenò presto la sua gioia: un luogo simile necessitava di cure precise. Forse quella libreria aveva più bisogno di una persona qualificata rispetto a una ragazzina appena maggiorenne, ma al tempo stesso pensò che provare non costasse nulla. Dentro di sé, però, sperava di aver trovato la sua occasione. Aveva passato due mesi nel vuoto più totale: doveva rinascere e quella libreria pareva il grembo perfetto per farlo. Per la prima volta, dopo settimane, dormì con la gioia nel petto.

Quando si sentì abbastanza sicura, andò a visitare Soho nel tardo pomeriggio. Non era molto lontano da Camden, quindi era certa che, se avesse di nuovo avuto problemi con i mezzi, avrebbe potuto ripercorrere la strada a piedi.

Non aveva intenzioni particolari: entrare, dare un'occhiata, conoscere il proprietario, magari comprare qualcosa, massimo un quarto d'ora di tempo. Aveva la possibilità di visitare quello che sarebbe potuto essere il suo luogo di lavoro e non farlo le sembrava un vero spreco. Inoltre, non varcava la soglia di una libreria da mesi.

Si godette la tiepida calura della sera, mentre osservava i locali prepararsi per la nottata. Un quartiere a luci rosse era qualcosa di completamente nuovo per lei, ma tentò di non distrarsi. Armata di una nuova cartina, aveva programmato il tragitto per intero. Per evitare di perdersi, chiese qualche indicazione e infine arrivò davanti alla porta della libreria. Il nome, scritto in giallo su fondo cremisi, stonava insieme all'abbondanza di titoli accattivanti, irriverenti e talvolta a sfondo sessuale che dominavano Soho.

Entrò con cautela, udì il suono di una campanella, mormorò un incerto "buongiorno". Un uomo, all'incirca della stessa età di suo zio, sedeva alla cassa con un libro in mano e una tazza di ceramica con due ali d'angelo accanto. Aveva i capelli corti, ricci e talmente biondi da risultare quasi bianchi ed era giusto un po' paffuto, ma la cosa che colpì di più Isotta furono i suoi abiti: indossava un lungo cappotto beige e un gilet marrone su cui spiccava un papillon di tartan. Un orologio da taschino baluginò nella debole luce della sera.

Quando si accorse di Isotta, alzò il volto e ricambiò il saluto. Le sorrise: aveva un'aria benevola e dolce.

Iniziò a girovagare per gli scaffali e il profumo della carta e dell'inchiostro le avvolse la mente come una droga. Stava bene, lì. L'aria era fresca e accogliente, il silenzio appena rotto dal rumore delle pagine un suono migliore di un'orchestra.

Diede una rapida occhiata ai manuali più antichi, ma una sensazione di disagio la prese d'assalto. Di sbieco, cercò di capire se l'uomo la stesse controllando e non aveva tutti i torti: non si era alzato, ma spostato quanto bastava per tenerla d'occhio senza farsi notare troppo. Non appena si allontanò dalla sezione dei libri pregiati, però, riprese a leggere per conto suo.

Sfogliò alcuni libri di narrativa britannica e, mano a mano che pescava e riponeva i titoli, avanzò verso la letteratura classica. Vide un libro non molto corposo posto sugli scaffali più alti, con la costa viola e il titolo in bianco, "The professor, by C. Brontë". Sollevandosi sulle punte dei piedi, lo afferrò con i polpastrelli e quasi le cadde.

«Cara-»

«Ah!»

Si girò di centottanta gradi. L'uomo vestito all'antica le stava sorridendo, ma non appena udì il suo urlo di spavento si fece minuscolo.

«Scusami! Non volevo farti paura...». Indietreggiò di un passo.

Isotta, ripresa, gesticolò freneticamente con le mani. «No, no, ero solo... No, volevo dire, non fa niente, sul serio».

Lui sembrò rasserenarsi. «Volevo solo dirti che chiudo fra pochi minuti».

«Uh, sì, ho finito».

L'accompagnò alla cassa. Isotta gli allungò una banconota da dieci sterline e lui infilò il libro in un sacchetto. «Sei in vacanza?» le chiese.

Lo guardò stranita. «No, perché?»

«Non sei di qui, giusto?»

«Mh, no, sono italiana», prese il sacchetto. «Vivo qui».

Annuì. «Capisco». Chiuse la cassa. «Scusa ancora per prima».

«Non c'è problema, davvero».

Si salutarono e Isotta lasciò il negozio. A parte lo spavento, le aveva fatto una buona impressione. Il foglio che Crowley le aveva mostrato era ancora appeso alla porta a vetri.

Appena rincasò iniziò a scrivere la bozza del curriculum da inviare.

   
 
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