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Autore: Letsforgethim    25/04/2021    0 recensioni
Gli antichi greci credevano che originariamente gli esseri umani avessero quattro braccia, quattro gambe e una testa con due volti.
Gli dei, temendo che il loro senso di felicità e completezza placasse il bisogno di adorarli, li divisero in due, condannandoli a vagare infelici sulla terra, per sempre in cerca dell'altra metà dell'anima.
Forse è per questo che Harry, incontrando per la prima volta gli occhi di Brittany, ha la netta sensazione di conoscerla già.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1.

 

 


 

Harry non era affatto una persona mattiniera, c’erano innumerevoli aggettivi che si potevano utilizzare per descriverlo – acuto, carismatico, talentuoso, divertente, affabile, altruista –, ma sicuramente non mattiniero.

Dormire era tra i primi posti nelle lista delle cose che più amava fare, eppure quella mattina i suoi occhi si erano aperti di scatto, come se d’un tratto fosse partito l’allarme della sveglia e avesse interrotto bruscamente il flusso dei suoi sogni, quando invece attorno a sé, in quella stanza completamente buia, regnava il più assoluto silenzio.

Allungò un braccio verso il comodino per recuperare il telefono che aveva abbandonato lì sopra la sera prima, dopo averci smanettato finché non aveva sentito le palpebre piano piano iniziare ad abbassarsi.

Strizzò gli occhi, infastidito dalla luce dello schermo che lo investì in volto, e un gemito lamentoso lasciò le sue labbra non appena fu in grado di mettere a fuoco l’orario sul display: erano solo le sei.

Buttò con noncuranza il cellulare vicino a sé sul materasso e si girò dall’altra parte per tentare di riaddormentarsi: era praticamente l’alba, che diamine si doveva fare a quell’ora se non dormire?

Continuò a girarsi e rigirarsi sotto le coperte per svariati minuti, togliendo e rimettendo il cuscino sotto la testa, voltandosi prima a pancia in giù, nella posizione che più preferiva per dormire, e poi supino, passando da un lato del letto a quello opposto più e più volte.

Quel letto era senza dubbio troppo grande per essere occupato da una persona sola, ritornò a pensare, certe notti tutto lo spazio vuoto accanto a sé sembrava diventare enorme, come se fosse pronto ad inghiottirlo da un momento all’altro, e non faceva che urlargli quanto nonostante al mondo ci fossero migliaia di persone che lo amavano e che lo sostenevano, la notte in camera si ritrovava completamente solo, abbandonato a se stesso, in balia dei suoi pensieri e delle sue preoccupazioni, senza avere nessuno con cui condividerli, nessuno che lo rincuorasse quando ce ne fosse stato bisogno; non aveva nessuno accanto a cui addormentarsi, nessuno da stringere tra le braccia e la mattina c’era sempre e solo quello stesso ed indefinito vuoto a dargli il buongiorno.

In realtà di ragazze ce n’erano state, così come c’erano state molte donne, ma non si era trattato mai di niente che andasse oltre il sesso, finito quello in nessuna occasione aveva sentito il desiderio o il bisogno di dormire con qualcuna di loro al suo fianco.

Si passò una mano stancamente sul viso, scostò le coperte di dosso e si alzò, era inutile rimanere lì steso con il rumore dei pensieri che si amplificava secondo dopo secondo.

Si infilò in bagno e rimase un bel po’ di tempo sotto la doccia, il viso rivolto in alto, verso il getto dell’acqua calda che gli ricadeva sulle spalle larghe, lungo le braccia muscolose e piene di tatuaggi, lungo la schiena e su tutto il resto del corpo, riuscendo in una qualche maniera ad allontanare – allontanare, non cancellare, purtroppo – i pensieri che gli stavano attanagliando il cervello e nello stesso momento facendogli distendere i muscoli ancora intorpiditi dal sonno.

Non sapeva come incominciare quella giornata, oscillava tra l’infilarsi i pantaloni della tuta e con la musica sparata a tutto volume nelle cuffiette andare a fare una corsa e il lasciar perdere l’abbigliamento sportivo e la musica e uscire a fare una bella e solitaria passeggiata, godendosi la tranquillità e il silenzio, relativo, di una Londra che non si era ancora del tutto risvegliata.

Alla fine optò per la seconda scelta.

Prima, però, il suo corpo stava reclamando con una certa urgenza una bella tazza di caffè bollente, con un cucchino non troppo pieno di zucchero – come lo prendeva abitualmente –, per riuscire ad affrontare quella giornata che, ne era certo, sarebbe stata molto, molto lunga.

La cucina si trovava in fondo all’appartamento, era a pianta aperta e comunicava con l’ampio e luminoso salotto – rischiarato dalla luce che proveniva dalle vaste portefinestre ad arco incastrare al centro del muro che dava sul porto turistico di St. Katharine, da altre due finestre di dimensioni inferiori, ma caratterizzate dalla stessa forma geometrica, posizionate sul lato est e ovest dell’ambiente e anche dalla luce proveniente dalle porte di vetro delle due terrazze presenti sul soppalco –, perciò gli fu impossibile non notare Gemma, rannicchiata su uno dei due divani color grigio tortora lì presenti.

Teneva il cellulare ancora in mano, il plaid le era scivolato quasi del tutto via nel sonno e ora a malapena arrivava a coprirle le ginocchia, decine tra fogli di appunti scritti a computer e pieni di annotazioni aggiunte successivamente a mano e post-it colorati sparsi tra il tavolino di vetro e il pavimento ai piedi del divano.

La sera prima era uscita a cena con una sua collega – Lauren, gli pareva gli avesse detto che si chiamasse –, stavano lavorando insieme alle rifiniture di un articolo sulle ultime tendenze di moda, sia in fatto di capi d’abbigliamento sia in materia di accessori, che bisognava presentare in redazione tra due giorni, doveva aver fatto molto tardi, tant’è vero che lui non l’aveva nemmeno sentita rientrare, e sicuramente aveva continuato a lavorare fino a che il sonno non aveva preso il sopravvento, non lasciandole né il tempo né tantomeno la forza per alzarsi e raggiungere la camera da letto che oramai, per usucapione, era sua di diritto.

Le si avvicinò e cautamente, per non rischiare di spaventarla, le tolse il telefono di mano e le rimboccò meglio la coperta; poi si chinò a raccogliere i fogli e li appoggiò in una pila a fianco del portatile grigio.

Erano passati quasi cinque anni da quando Gemma aveva lasciato Holmes Chapel e si era trasferita in maniera stabile nella capitale inglese.

I primissimi tempi aveva condiviso un appartamento con due sue amiche che aveva conosciuto durante il periodo da universitaria e che, proprio come lei, dopo la laurea avevano lasciato i loro paesi natali per Londra; successivamente, dopo oltre un anno di relazione con Michal, lui le aveva proposto di andare a vivere insieme nella casa che gli avevano regalato i genitori, in un quartiere che distava circa quaranta minuti di macchina dal centro.

Il rapporto che legava gli Styles era da sempre stato qualcosa di realmente unico e speciale, contraddistinto da una sintonia tale che in molte situazioni uno scambio di sguardi diventava sufficiente per capirsi e ogni parola, ogni frase detta, sarebbero solamente risultate superflue.

Harry e Gemma erano andati d’accordo sin da quando erano due bambini e quel legame non aveva fatto che crescere negli anni e maturare assieme a loro; persino durante l’adolescenza – l’età in cui si assiste ad un insieme complesso di cambiamenti, sia fisici sia mentali, che tendenzialmente comporta un aumento del livello di conflittualità tra fratelli, specialmente se di sesso diverso o se ci sono pochi anni di differenza tra di loro –, erano continuati ad andare avanti senza litigi, senza discussioni, riuscendo in ogni occasione a trovare un punto in comune su cui mettersi d’accordo.

Era stato proprio in quel periodo che Harry, nonostante tra i due fosse quello più piccolo, aveva iniziato a sviluppare un istinto di protezione nei confronti della sorella, un desiderio di preservarla e proteggerla da tutto quello che avrebbe potuto turbarla o ferirla, specialmente quando si trattava di ragazzi.

Che fossero così uniti non era difficile da immaginare, lo si poteva intuire semplicemente vedendo la G tatuata sulla spalla destra del ragazzo o la scritta col nome completo della sorella tatuato in ebraico sul braccio sinistro, o anche ascoltando una delle canzoni che aveva scritto e inciso per lei nel suo ultimo album, o da come Gemma, ogni volta che lui tornava a Londra, correva a casa sua, abbandonando per una o due giornate – che non era raro si tramutassero successivamente in una settimana intera – il suo ragazzo.

“Non ci vediamo praticamente mai”, gli diceva sempre,“almeno quando sei qui voglio godermi più tempo possibile con te.”

E Harry non aveva assolutamente niente da obiettare, anzi, la presenza di Gemma in casa non poteva fargli che piacere, le loro chiacchierate la sera seduti sugli sgabelli in cucina davanti a un tè caldo o, nelle giornate un po’ più pesanti, con un drink in mano, riempivano il silenzio che altrimenti, non fosse stato per i rumori della televisione o per quelle poche volte in cui decideva di sedersi al piano o di strimpellare la chitarra, avrebbe regnato sovrano tra quelle spesse mura, la risata argentina della sorella contribuiva a metterlo di buonumore e a farlo sentire meno solo.

Una volta finito anche l’ultimo sorso di caffè, abbandonò la tazza nel lavello e finalmente si decise ad uscire di casa.

Lasciando perdere l’ascensore, imboccò le scale; arrivato al pianoterra salutò il portiere dietro al bancone della reception che, visti il giubbotto pesante e la sciarpa ancora addosso, doveva essere arrivato pochi istanti prima.

Un brivido gli corse lungo la schiena nel momento esatto in cui mise piedi fuori, l’aria gelida lo investì in pieno volto, andando ad infilarsi persino tra quel minuscolo spazio che separava la stoffa del cappotto dal lembo di pelle del collo e facendolo rabbrividire per la seconda volta in pochi secondi.

Era più che conscio del fatto che facesse freddo – lo era persino di pomeriggio, quando il sole era alto in cielo, figurarsi di prima mattina –, ma non si aspettava che facesse così tanto freddo.

Forse il problema era lui stesso, però, passare tanti mesi durante l’anno lontano dall’Inghilterra aveva finito per disabituarlo al suo clima.

Adesso era Los Angeles la sua seconda casa e lì, le temperature, non scendevano mai sotto i nove gradi centigradi.

Per un attimo fu tentato di tornare indietro, al caldo sotto le coperte, ma a fare cosa, si chiese subito dopo, a continuare a rimuginare?

No, grazie.

Perciò, affondò le mani nelle tasche del suo cappotto e iniziò a camminare.

Era questione di qualche minuto e il suo corpo si sarebbe iniziato ad abituare allo sbalzo termico e muovendosi avrebbe iniziato a scaldarsi.

Era ancora buio, erano le luci dei lampioni ad illuminare le strade.

Harry non aveva una destinazione, ma allo stesso tempo i suoi piedi sembravano avanzare da soli, guidandolo con una tale sicurezza e una tale disinvoltura – facendogli imboccare una via rispetto ad un’altra, scegliendo ad un bivio la destra sulla sinistra – che chiunque avesse posato l’attenzione su quel ragazzo avrebbe pensato che invece una destinazione c’era eccome, e lo stava aspettando con impazienza.

Mancava poco al venticinque e l’atmosfera natalizia che si respirava era splendida: aria di festa, di serenità, aria di famiglia, di pranzi e cene attorno a tavoli immensi per far posto a tutti i parenti, aria di regali, di abbracci, di sorrisi, aria di serate passate raccolti attorno al monopoli o ad un qualsiasi altro gioco, seduti vicino al camino ad ascoltare una storia che il nonno e la nonna non avevano mai raccontato, o che magari avevano già raccontato centinaia di volte, ma che era talmente bella che si rimaneva immobili, incantati ad ascoltarli come se fosse la prima.

Per molti era il periodo più bello dell’anno, e lo era anche per Harry.

Guardava le vetrine addobbate di luminarie, fili interminabili di luci colorate, finta neve, presepi, centinaia di Babbi Natale seduti nelle loro slitte stracolme di regali e trascinate dalle renne, il gigantesco e luminoso albero in Trafalgar Square, donato come ogni anno dalla Norvegia, e gli occhi gli scintillavano mentre ripensava a quando, da piccoli, lui e Gemma camminavano mano nella mano con la madre tra i mercatini e i negozi di Holmes Chapel, pregustando il momento in cui avrebbero scartato i regali.

Dopo la lunga camminata si fermò davanti alla vetrina di un negozio di musica, incuriosito sia dallo stile e dai colori dei dischi esposti in bella vista che conferivano a donargli un’aria vintage, nonostante, scorgendo qualche titolo qua e là, aveva potuto notare che il locale era provvisto anche di musica contemporanea e moderna, sia dal fatto che quell’angolo della città sembrava essere rimasto completamente indifferente all’imminente arrivo del Natale, non si poteva scorgere nemmeno una lucina o un fiocco di neve creato con la carta o qualche adesivo a tema sulle vetrate, niente di niente.

Sounds of the Universe, recitava l’insegna, anch’essa rimasta inalterata.

Era un bel nome, originale, coerente.

Il cartello affisso sulla porta d’ingresso segnava le otto e trenta come orario di apertura.

Tirò fuori il telefono dalla tasca per controllare che ora fosse: non mancava tanto, per cui, non avendo niente di meglio da fare, scelse di aspettare lì davanti.

Ormai era talmente abituato ad essere fermato per strada come minimo una volta per uscita da qualcuno che, riconoscendolo, voleva scattarsi una foto con lui, ricevere un autografo e molto spesso anche solo scambiare due parole, che quando ciò non accadeva, proprio come quella mattina, gli sembrava insolito.

Da un lato era meglio fosse andata così, ogni tanto non era male tornare a sentirsi una persona comune e dimenticarsi che il proprio nome, il proprio viso, erano conosciuti in pressoché ogni angolo del globo terrestre.

Quella sensazione, però, durò molto poco.

«Porca vacca, Harry Styles davanti al mio negozio, in carne ed ossa. Se il buongiorno si vede dal mattino…»

Harry si voltò verso la voce stentorea alle sue spalle e sorrise incontrando lo sguardo meravigliato del ragazzo che aveva appena pronunciato quelle parole.

Immediatamente gli si disegnarono nelle guance due fossette, senza dubbi una delle caratteristiche che più lo distingueva. 

«Scusami», aggiunse lui, cercando di tornare in sé dopo la sorpresa iniziale, «ma non capita tutti i giorni di trovarsi di fronte ad una popstar mondiale. Comunque io sono Noah, è davvero un enorme piacere conoscerti di persona» si presentò, porgendogli una mano che il cantante accettò prontamente.

«Harry. Il piacere è tutto mio.»

Si mise da parte e lasciò che Noah aprisse la porta; lo seguì dentro solo dopo che il ragazzo ebbe acceso la luce, si fu tolto il cappotto e si fu sistemato dietro il bancone, il bagliore dello schermo del computer che si rifletteva sui suoi occhiali.

«Ti chiedo scusa se non ti ho dato nemmeno il tempo di aprire con la dovuta calma. I dischi in vetrina mi hanno incuriosito e non avendo impegni ho preferito aspettare qui davanti piuttosto che continuare a girare a vuoto» si scusò Harry, a disagio.

«Ma che, scherzi?» Scosse la testa. «Tutt’altro, mi fa veramente tanto piacere che il mio negozio abbia attirato la tua attenzione.»

«È tuo?» domandò stupito: quel ragazzo gli sembrava troppo giovane per essere proprietario di un negozio.

Noah annuì, senza distogliere lo sguardo dal computer, mentre muoveva velocemente le dita sulla tastiera.

«Era del mio bisnonno» rispose poi, tornando a fissare gli occhi in quelli di Harry. Era una situazione alquanto surreale, trovarsi lì seduto al suo solito posto mentre uno dei cantanti più famosi del mondo, di cui aveva anche gli album lì in negozio, era in piedi davanti a sé che aspettava, sinceramente curioso, la sua risposta. «È stato tramandato a mio nonno e infine è passato direttamente a me perché… beh, diciamo che mio padre non è quello che si può definire un appassionato di musica» gli spiegò, tirando su con l’indice gli occhiali che gli erano scivolati sul naso. «Stavi cercando qualcosa di particolare?»

«In realtà no, no.»

«Va bene, allora ti lascio curiosare in pace. Posso chiederti una foto prima che tu inizi il tuo giro?»

«Ma certo.»

Scattato il selfie, Noah aggiunse: «Ah, Harry, dimenticavo di dirti che i dischi sono sistemati tutti per tipologie e le sottocategorie sono in ordine alfabetico. E il piano superiore è tutto dedicato al jazz, nel caso fossi interessato.»

«Va bene, grazie.»

«Se hai bisogno di qualcosa non esitare a chiedere.»

Gli scaffali erano alti quasi fino al soffitto e stracolmi, dovevano esserci migliaia di articoli lì dentro.

Stava scorrendo le dita sui dorsi delle copertine quando si sentirono le prime note di Air on G String di Bach riempire l’ambiente.

Curioso di vedere se c’erano anche i suoi due album, provò a cercare sotto la S del suo cognome, S-O, S-P, S-Q… e poi la campanella sopra l’ingresso tintinnò, attirando la sua attenzione e facendolo girare in quella direzione.

Le prime cose che notò della ragazza che aveva appena varcato la soglia furono le guance e la punta del naso arrossati dal freddo.

Lunghi capelli biondi le ricadevano sulle spalle e quando un sorriso fece capolinea sul suo volto, increspandole gli angoli delle labbra verso l’alto, Harry non seppe definire cosa accadde dentro di sé, fu come essere travolti da una marea di sensazioni.

Distolse per un attimo lo sguardo, disarmato, stupito di se stesso, ma un istante dopo i suoi occhi erano di nuovo su di lei, come attratti da una calamita.

Era come se la conoscesse, come se l’avesse già incontrata in passato, ed era strano perché allo stesso tempo aveva l’assoluta certezza di non averla mai vista prima d’ora.

Lei non parve notarlo, scambiò qualche parola con Noah e poi si posizionò davanti ad uno degli scaffali, squadrandolo dall’alto verso il basso.

Harry seguì i suoi movimenti, la guardò mettersi i capelli dietro le orecchie e poi prendere un vinile dalla copertina gialla e rigirarselo tra le mani.

Non riusciva a smettere di guardarla.

Voleva parlarle. Doveva parlarle.

Prima, però, non sarebbe stato male trovare una scusa per andare a farlo.

Gli balenò un’idea, abbastanza ridicola a dirla tutta, ma sempre meglio dello starsene lì fermo, imbambolato a fissarla.

Tornò a cercare il suo album e non appena lo trovò si diresse, insicuro, verso di lei, il cuore che martellava sempre più forte contro il petto a mano a mano che la distanza tra di sé e quella sconosciuta tanto interessante davanti ai suoi occhi diminuiva.

Da quando in qua era ritornato a sentirsi così agitato – e così goffo – prima di parlare con una ragazza?

Nemmeno fosse tornato ad avere sedici anni e avesse perso tutta l’esperienza e la spavalderia che invece aveva acquisito col passare degli anni.

Allungò l’album verso di lei e «Che ne dici di questo?», le chiese, mentre senza che se ne accorgesse un morbido sorriso gli si era dipinto in volto.

«Non penso che a mio padre possa interessare l’album di…» Brittany alzò lo sguardo verso di lui e Harry lesse la sorpresa nei suoi occhi, grandi, scuri e profondi, nel momento in cui lo riconobbe, «Harry Styles» concluse infatti la ragazza, la voce più flebile rispetto all’inizio della frase.

A Londra c’erano quasi nove milioni di persone, quale era la probabilità di ritrovarsi in una fredda mattinata di dicembre alla stessa ora, nello stesso posto in cui si trovava Harry Styles?

Eppure eccolo lì, davanti a sé, talmente vicino che poteva persino sentire il suo profumo, i capelli ricci che gli ricadevano a piccoli ciuffi sulla fronte, il sorriso sulle labbra rosse, le guance scavate dalle fossette e quegli occhi verde smeraldo che continuavano a scrutarla curiosi, scintillanti.

Brittany non si era nemmeno lontanamente accorta che ci fosse qualcun altro all’interno del negozio, pensava di essere sola, mentre lui l’aveva vista ed era addirittura andato a parlarle.

Perché era andato a parlarle?

Era bellissima, pensava Harry nel frattempo, incantato a guardare quegli occhi di un castano scuro che sprizzavano sincerità, gentilezza e spiccavano in contrasto col viso candido, quasi angelico, e le labbra, dal taglio elegante, pitturate di rosa.

Si passò la lingua sulle sue, di labbra, in soggezione.

«Da quando in qua gli artisti vanno in giro per i negozi a vendere i loro dischi di persona? È una nuova tecnica di marketing?» gli chiese lei, scherzosa, inclinando un po’ il volto.

Harry rise. «No, niente marketing, ho solo pensato che magari potessi aver bisogno di qualcuno che ti sappia consigliare della buona musica.»

Si pentì nell’esatto momento in cui quelle parole lasciarono le sue labbra; dentro alla sua testa erano parse perfette, ma non appena le aveva pronunciato erano suonate così vanitose alle sue orecchie che si maledisse per averle dette: l’ultima cosa che voleva era che lei si facesse un’idea sbagliata della sua persona, perché lui era quanto di più lontano dall’essere vanitoso ci fosse.

Anche se non capiva come mai dovesse importargliene così di tanto di cosa potesse o non potesse pensare di lui una sconosciuta. 

La ragazza, però, sembrò cogliere la sua ironia perché rispose al sorriso.

Oddio. È tutto così surreale.

Solo dieci minuti prima stava passeggiando con il suo caffè caldo tra le mani e ora era eccola lì a scambiare battute e sorridere ad Harry Styles.

Non poteva essere vero, stava pensando di darsi un pizzicotto per vedere se non fosse tutto solo uno strano sogno dal quale si sarebbe svegliata pensando a quanto reale era sembrato.

Harry stava per chiederle che album fosse quello che teneva tra le mani quando il cellulare iniziò a vibrare e suonare dentro alla tasca del suo cappotto.

Sempre nel momento meno opportuno, pensò, trattenendosi dallo sbuffare.

Lesse sullo schermo il nome di Jeffrey e fu costretto a rispondere, l’amico conosceva bene Harry e sapeva quanto poco mattiniero fosse, perciò non l’avrebbe mai chiamato a quell’ora se non fosse stato qualcosa di importante.

Seccato da quella brusca interruzione – desiderava ancora stare lì a parlare con quella ragazza – e insieme un tantino in ansia per il motivo dietro alla chiamata, si scusò prima di uscire fuori: «Scusami, devo rispondere.»

Brittany aveva sentito qualcosa di molto simile alla delusione farsi spazio dentro di sé nel secondo in cui era scattata la suoneria del telefono, immaginando che lui avrebbe interrotto la conversazione, ma si strinse nelle spalle come a dire che non c’era alcun problema e seguì con lo sguardo la sua figura uscire fuori dal negozio.

Si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e si impose di smettere di pensare al siparietto così surreale che si era appena svolto – ma soprattutto smettere di pensare agli occhi verdi di Harry che l’avevano guardata con una sincera curiosità e un’attenzione totale per tutto il tempo – e tornare a dedicarsi a ciò per cui era entrata lì dentro, ovvero trovare i regali per suo padre.

Harry non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso dall’inizio della sua conversazione telefonica, ma doveva essere abbastanza lungo perché sentì la porta del negozio aprirsi e voltandosi in quella direzione vide Brittany uscire, un sacchetto di carta in mano.

Anche lei lo vide, poggiato con la schiena contro il muro, la mano libera in tasca.

Gli regalò un ultimo sorriso e dopo aver mimato un «Ciao» con le labbra, si girò e iniziò a camminare nella direzione opposta.

Cos’altro avrebbe dovuto fare?

La voce di Jeffrey continuava a parlargli nell’orecchio, ma l’attenzione di Harry era rivolta altrove.

Una vocina dentro di sé gli stava urlando di andarle dietro, di seguirla, ma i suoi piedi sembravano incollati al marciapiede e ormai era troppo tardi, la ragazza aveva svoltato l’angolo ed era sparita dal suo raggio visivo.

Non sapeva niente di lei, non le aveva chiesto nemmeno come si chiamasse.

   
 
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