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Autore: FairyCleo    30/04/2021    1 recensioni
Dal capitolo 1:
"E poi, sorprendendosi ancora una volta per quel gesto che non gli apparteneva, aveva sorriso, seppur con mestizia, alla vista di chi ancora era in grado di fornirgli una ragione per continuare a vivere, per andare avanti in quel mondo che aveva rinnegato chiunque, re, principi, cavalieri e popolani".
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Goku, Goten, Trunks, Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il capitolo contiene un linguaggio scurrile

Zitti e Buoni*

I ragazzi avevano avuto bisogno di un po’ di tempo per riprendersi da ciò che avevano vissuto, soprattutto il giovane Joruno, vittima ignara, suo malgrado, di quell’attacco non del tutto imprevedibile. Non si sarebbero perdonati presto per l’atteggiamento di totale leggerezza che avevano assunto. In cuor loro non pensavano di potersi realmente imbattere in qualcosa di veramente pericoloso – escluso Trunks, ovviamente – e ora non sapevano bene come affrontare e sperare di superare quello che gli era capitato.
Josuke non si era allontanato neppure per un breve attimo dal capezzale del cugino, e lo stesso avevano fatto Trunks e Goten.
Il ragazzo aveva messo a loro completa disposizione la sua camera da letto, chiedendo al personale di servizio di non disturbare se non per portare loro il cibo e le coperte richieste, pregandoli gentilmente di non svegliare i suoi genitori per non impensierirli inutilmente.
Joruno era freddo come il ghiaccio, nonostante non avesse mostrato alcun tipo di sintomo conseguente all’aggressione subita, tant’è che, poco dopo essere arrivati a casa si era profondamente addormentato, lasciando a Trunks, Josuke e Goten l’arduo compito di tirare le somme.
I due piccoli mezzo sangue in un’altra occasione avrebbero divorato senza far troppi complimenti quello che gli era stato offerto, ma avevano perso l’appetito. Era troppo sconvolgente quello a cui avevano assistito, e dire che Trunks e Goten ne avevano viste, di cose, in quello strano periodo.
Il figlio di Vegeta continuava a pensare non solo all’episodio appena vissuto, ma a quello che aveva sentito o creduto di sentire.
 
“Attento-a-lui”.
 
Forse, lo stordimento dovuto alla sorpresa gli aveva fatto avere delle allucinazioni uditive. Più concretamente, però era certo di aver sentito chiaramente una voce che aveva solo lontanamente qualcosa di umano. Continuava a chiedersi se anche gli altri l’avessero sentita, ma non sapeva dove trovare il coraggio per porre loro quel quesito che lo stava tormentando. Era così giunto alla conclusione che, se non avessero aperto loro l’argomento, lui non lo avrebbe fatto. Meglio non essere preso per pazzo!
 
“Che cosa credere che fosse… quel coso? Perché lo abbiamo visto, giusto?”.
 
La timida domanda di Goten sembrava aver scosso tutti da quella sorta di stato catatonico in cui erano piombati.
 
“Io l’ho visto eccome. Great! Questo vuol dire che non sono impazzito!”.
“No, macché impazzito… Lo hai visto anche tu, Trunks, no?”.
“Sì. L’ho visto”.
 
Secco, lapidario, identico a suo padre all’apice del suo cinico e disumano splendore.
Trunks sembrava essere tornato a essere il bambino taciturno delle settimane precedenti, e Goten non aveva potuto fare a meno di notarlo.
 
Great! Ma cosa poteva essere? E perché Joruno non ricorda niente? Non ha neppure un graffio… Non capisco… Ho anche paura a fargli delle domande, sinceramente. E se risvegliassi qualcosa che non dovrei? Se attirassi… Sì, avete capito… Lui?” – aveva detto, facendo un gesto che mimava la presenza di corna sulla testa.
“Oh, andiamo! Josuke, non penserai veramente che possa aver attratto il demonio o qualcosa del genere? Non lo pensi, vero?”.
 
Goten era interdetto. Veramente Josuke poteva pensare una cosa del genere del suo amato cugino? Perché era proprio quello che aveva lasciato intendere!
 
“No… Non lo penso… Ma quella cosa mi ha fatto veramente paura… Non so voi come possiate essere così calmi, sinceramente”.
“A dire il vero, non so come dovrei reagire… Tutto sembra così inverosimile… Pensavo fosse un gioco… Invece… Siamo stati fortunati, però, a cavarcela senza un graffio… O no? Trunks, tu che ne pensi?”.
 
Il saiyan mezzosangue dai capelli color lillà si era preso qualche momento per rispondere. Cosa pensava? Che fosse tutta opera del mostro nascosto nel quaderno. Possibile che non si riuscisse in nessun modo a prevedere cosa avesse in mente? Quale fosse il suo assurdo piano? La verità era che non si sentiva abbastanza intelligente per pensare di poter immaginare cosa stesse pensando quello strano essere incorporeo. Era più furbo di lui, era sempre un maledettissimo passo avanti. Come poteva fare per riuscire a capire quale fosse il suo reale scopo? Cominciava seriamente a pensare di aver completamente sbagliato a cercare in lui conforto, a cercare in lui una sorta di spiegazione.
 
“Ma come ho fatto ad arrivare fino a questo punto? Lui è un nemico… Non mi ha dato quello che volevo. Non ha dato a Goten quello che volevo per lui”.
 
Il suo più grande desiderio era quello di dargli un padre, e non uno qualsiasi, ma il suo, facendolo diventare suo fratello a tutti gli effetti. Adesso, invece di essere vicini, di essere ancora più legati perché diventati effettivamente una cosa sola con Vegeta, erano più lontani che mai, e non perché Goten avesse fatto qualcosa nello specifico, ma perché era stato lo stesso Trunks ad aver capito di aver sbagliato in ogni suo singolo gesto, in ogni singola parola spesa pro e contro quel bambino che aveva tanto a cuore.
 
“Trunks? Sei con noi?”:
“Eh? Sì… Sì, Josuke, sì… Sono qui… E non so se siamo stati fortunati o meno. So solo che non voglio più uscire di notte, anche se dovremmo tornare a casa, Goten… Papà è solo…”.
 
La voce triste del suo migliore amico gli aveva spezzato il cuore, riportandolo alla realtà e facendolo sentire in colpa verso l’uomo che tanto amava e rispettava. Era vero: Vegeta, era solo a casa, non aveva amici, non aveva nessun conoscente che potesse fargli compagnia, e saperlo solo in quella fredda casa, dopo quello che avevano vissuto, dopo lo spavento che avevano provato, gli aveva rabbuiato il cuore.
 
“Sì, è vero… Lo abbiamo lasciato solo… Siamo stati egoisti e… E cattivi”.
“Credo che tu abbia ragione… Torniamo a casa?”.
“Sì”.
 
Josuke li aveva presi entrambi per mano, fissandolo con quei suoi grandi occhi blu. Le pupille erano velate di lacrime, le mani sottili e candide tremavano, e persino la sua strana capigliatura aveva smesso di essere perfetta, simbolo del tumulto interiore che stava provando.
 
“Per favore, non allontanatevi. Non al buio, non dopo quello che abbiamo vissuto. Ho rischiato di perdere Joruno, stanotte, e il solo pensiero mi fa rabbrividire… Non riesco neanche a pensare cosa proverebbe vostro padre se vi perdesse. Non dategli un dispiacere. Si trova in casa, sta bene, ne sono sicuro. Restate qui, dove possiamo stare insieme e proteggerci a vicenda. Domattina presto andremo insieme a casa a salutarlo e poi andremo a scuola. Vi prego, non andate via… Non adesso, non stanotte, non da soli. È troppo pericoloso. Restate qui… Per piacere… Restate qui”.
 
I due piccoli saiyan si erano guardati per un breve attimo, ancora sorpresi da quel gesto così intimo e inaspettato, e Goten era certo di essere arrossito. Come dire di no a quel ragazzo così generoso che stava mostrando tanta preoccupazione nei loro riguardi? Si conoscevano da così poco, eppure Josuke provava un affetto così sincero e genuino da averli spiazzati.
 
“Va bene…”.
Great, Trunks!”.
 
Sì… Per Josuke poteva anche essere fantastico, great, e forse lo sarebbe stato, se fossero stati in un altro luogo, in un altro tempo, in un’altra vita.
 
*
 
Si erano svegliati di buon’ora, e avevano appreso da Josuke che suo cugino era sceso all’alba in giardino per curare le piante. Sembrava che l’evento spiacevole della sera prima non lo avesse minimamente sfiorato, come se non fosse mai avvenuto.
I domestici avevano preparato un’abbondante colazione, e i bambini avevano fatto bella figura prendendo posto in maniera impeccabile e adoperando ogni posata nel modo più corretto: gli insegnamenti di Bulma, alla fine, si erano rivelati utili. Per un attimo, avevano smesso di pensare alla loro misera condizione, avevano smesso di pensare a quanto logori e brutti fossero i loro vestiti ed erano tornati a essere due bambini felici che si godevano un momento di pace con i loro nuovi amici.
 
Josuke aveva mantenuto la promessa: lui e Joruno avevano accompagnato Trunks e Goten fino a casa, e per tutto il tempo non avevano fatto altro se non fare domande su Vegeta. I loro genitori non si erano visti a colazione, e per quello che avevano potuto intendere dai loro racconti, non li avrebbero visti per tutto il resto della giornata: erano troppo impegnati per trascorrere tempo accanto a due ragazzini come loro.
Forse, era per questo che Vegeta sembrava loro così interessante: un uomo che non solo andava a lavorare per sfamare i suoi figli, ma si occupava di loro in tutto e per tutto, senza mai lamentarsi, senza mai far pesare ai bambini la loro stessa esistenza.
Vegeta sembrava una sorta di eroe, di divinità leggendaria, agli occhi dei due cugini, e Goten non aveva nascosto un sorriso di orgoglio e di soddisfazione, perché non poteva non essere più d’accordo con quel pensiero espresso più tramite la mimica che le parole.
Su quegli stessi volti carichi d’entusiasmo, però, si era accesa una punta di delusione nel momento in cui, giunti presso la porta di casa, avevano constatato che Vegeta non fosse in casa.
 
“Papà? Papà? Ma dove sei?”.
 
Trunks era perplesso: era troppo presto affinché potesse pensare che fosse uscito per andare a lavoro, ma la cosa più curiosa era che sembrava che non avesse trascorso la notte in casa. Il letto era intonso e freddo, il cuscino era gonfio e fresco, nell’acquaio non vi erano piatti e le sul tavolo non c’erano i sacchetti con la loro merenda. Era come se Vegeta non fosse stato a casa, la notte scorsa, e se avesse avuto qualche conoscenza o qualche amico la cosa avrebbe potuto avere senso, ma considerando che così non era, dove poteva essere andato?
 
“Trunks… Che gli sarà capitato? Dove sarà, adesso? Non si allontana mai a quest’ora… È davvero troppo presto…”.
“Sì, lo so… Non so che fare… Non so se andare nei campi… Magari c’era un carico da consegnare in anticipo ed è dovuto uscire prima da casa con la scusa della nostra assenza… O magari è andato al mercato…”.
“Andiamo, non agitatevi: è inutile. Andiamo prima nei campi e se non dovesse essere lì andremo al mercato… Chi se ne importa se faremo tardi a scuola: è più importante sapere che fine ha fatto il vostro papà, no?”.
 
Goten e Trunks si erano guardati a lungo dopo aver sentito le parole di Joruno. Quel ragazzo era così sereno, pacato, sembrava essere in grado di dire sempre la cosa giusta al momento giusto.
 
“Allora che dire se ci dividessimo? Io e Trunks potremmo cercare nei campi, mentre Goten e Josuke potrebbero andare al mercato. In questo modo non perderemo tempo e potremo tranquillizzarci. Sono certo che sia tutto a posto, ma se vi fa sentire più tranquilli, è meglio andare a controllare”.
 
Dissentire sarebbe stato controproducente, oltre che da perfetti sciocchi, per questo avevano accettato immediatamente, uscendo da casa contemporaneamente per poi dividersi subito dopo aver superato il cancello.
 
*
 
Trunks e Joruno non avevano pronunciato neppure una parola lungo il tragitto che li aveva condotti nei campi dove lavorava da diversi mesi il principe dei saiyan. Era stato a dir poco inutile fare domande alle poche persone che si erano radunate lì per il lavoro: nessuna di loro aveva rapporti con Vegeta, dunque nessuna di loro poteva sapere dove potesse trovarsi, e questo non aveva fatto altro se non peggiorare l’ansia provata da Trunks. Che fine aveva fatto il suo papà?
Erano andati via poco dopo, delusi, troppo in fretta per poter ascoltare i racconti dei braccianti, per ascoltare le loro perplessità: perché mai, a quell’ora del mattino, non vi era ancora traccia di Leon il capomastro?
 
Non era andata meglio a Goten e Josuke, giunti in piazza mentre i mercanti allestivano le loro bancarelle. Era impossibile che avessero visto Vegeta, e i pochi a cui avevano chiesto non avevano fatto altro se non confermare quel sospetto. Dove avrebbero potuto cercare, allora?
Trunks sperava che Goten avesse buone notizie e viceversa, ma una volta giunti nel luogo in cui si erano dati appuntamento, era bastato guardarsi negli occhi per capire che non ci fosse nessuna novità.
 
“Francamente, inizio ad avere paura… Non vorrei che anche lui fosse sparito come gli altri”.
 
Goten lo aveva detto ad alta voce, incurante della presenza di Joruno e Josuke. Trunks non aveva avuto il coraggio di dare voce a quel pensiero così spaventoso, e aveva provato un moto di risentimento verso Goten, capace di pronunciare quelle parole come se non avessero avuto alcun peso. Una forte sensazione di oppressione all’altezza del petto lo aveva assalito, impedendogli di respirare. Non poteva aver perso anche suo padre, non poteva e basta!
 
“Trunks… Stai bene?”.
 
Aveva avuto bisogno di qualche istante prima di poter rispondere a Joruno, per permettere all’aria di tornare a circolare correttamente nei polmoni e alle sue cellule di ossigenarsi.
 
“Sì… Sto bene… È solo che… Che…”.
 
Le parole gli erano morte di nuovo in gola. Stava per esplodere. Non era più in grado di mostrarsi forte, di tentare di essere ottimista: voleva sapere che fine avesse fatto suo padre, voleva sapere dov’era ciò che restava della sua famiglia.
 
“Avete sentito di quello che stanotte si è fatto sbattere in cella per quella pollastra che devono ammazzare? Che idiota! Solo un contadino solo con due figli poteva fare una cazzata del genere! Ah! Poveri bambini! Non vorrei essere nei loro panni quando scopriranno che razza di violento hanno come padre”.
 
Ancora una volta, era stata una voce di paese ad accendere la scintilla che aveva tramutato coloro che si trovavano lì per caso in coloro che si trovavano al posto giusto al momento giusto.
 
“Trunks. Goten… Non penso assolutamente che il vostro papà sia violento, ma che dite se facciamo un tentativo? La prigione è qui dietro… Alla fine, non abbiamo niente da perdere, se non un giorno di scuola”.
 
*
 
Avevano colto al volto il suggerimento di Josuke, dirigendosi a grandi passi verso quel luogo spaventoso dall’aspetto lugubre e grave. Quell’orribile costruzione li aveva fatti sentire molto più piccoli di quanto fossero in realtà, ma non avevano perso il coraggio, né la voglia di scoprire la verità. Se Vegeta fosse stato veramente lì, avrebbero fatto tutto quello che era in loto potere per tirarlo fuori. Pensiero un po’ sciocco data la tenera età di chi lo aveva formulato, ma perfettamente in linea con lo spirito saiyan che animava Trunks e Goten.
 
Josuke e Joruno avevano insistito per accompagnarli oltre la soglia di quel posto fatto di dolore e sofferenza. Nonostante fossero poco più grandi di loro, si sentivano responsabili, e non volevano per nessuna ragione al mondo lasciarli da soli.
Quando la guardia di turno aveva visto quattro ragazzini andargli incontro, aveva creduto di avere le traveggole, ma quando aveva sentito il più piccolo, un mocciosetto con dei buffi capelli palmati, chiedergli se avessero arrestato un uomo di nome Vegeta, aveva dovuto dissentire: quella mattina ne avrebbe viste delle belle.
 
*
 
Aveva trascorso il resto della notte in catene, nei sotterranei, a tre piani di distanza dalla cella in cui avevano imprigionato Marilyn. L’occhio desto era gonfio a causa del pestaggio subito, e le nocche sbucciate di entrambe le mani continuavano a pulsare e dolere, ma avrebbe sopportato anche di peggio data la soddisfazione provata nell’aver trattato quel bastardo come un sacco da boxe. La soddisfazione era stata doppia quando si era accorto che il bastardo in questione fosse Leon: si era sfogato su di lui per tutto quello che gli aveva fatto subire durante il lavoro nei campi. Lo aveva preso di mira sin dal primo momento, il verme schifoso, e lo aveva fatto senza motivo. Vegeta aveva giurato a se stesso che prima o poi gliel’avrebbe fatta pagare per tutti i soprusi che aveva subito a causa sua. Il destino aveva voluto che lo stesso maiale che si era accanito su di lui si fosse trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato (o nel posto giusto al momento giusto) e avesse avuto quello che si meritava. Finalmente gli aveva levato quel sorriso maligno sempre presente su quella faccia da schiaffi che si ritrovava. Poco gli importava di aver trascorso la notte al fresco: i ragazzi erano a casa di amici, non si sarebbero neppure accorti della sua assenza.
Vegeta sperava solo che lo liberassero prima del loro ritorno a casa: a nessuno importava di una condannata, del resto, ed era certo che l’unica conseguenza di quel suo impeto da eroe sarebbe stata l’aver perso il lavoro. Quello era un problema non indifferente, ma ormai ciò che era fatto era fatto, era inutile piangere sul latte versato.
Se pensava a quella scena orribile, il sangue ricominciava a bollirgli come il magma terrestre.
 
“Tsk! Hai avuto quello che ti meritavi, lurido stronzo!”.
 
Il problema era che la sua resistenza non era più quella di un tempo, e dopo più di sei ore in piedi, in catene, con le braccia alzate, il dolore ai polsi e alle spalle era diventato così acuto da fargli venire la nausea.
 
“TSK! EHI! GUARDIA! GUARDIA, PARLO CON TE! QUANDO FINISCE QUESTA FARSA? DEVO ANDARE A CASA! GUARDIA! PARLO CON TE!”.
 
Sapeva perfettamente che quell’atteggiamento non avrebbe condotto a nulla, ma stava perdendo la pazienza: non avrebbe resistito un minuto di più in quel postaccio.
 
“TSK! LASCIATEMI ANDARE!”.
 
Proprio mentre tentava di strattonare le pesanti catene che lo imprigionavano, un rumore di passi aveva attirato la sua attenzione: era certo che qualcuno si stesse dirigendo verso la sua direzione, che finalmente qualcuno si fosse deciso a liberarlo?
 
“TSK! ERA ORA! BRUTTI PEZZI DI…”.
 
Le parole gli erano morte in gola nel momento in cui si era ritrovato davanti Trunks e Goten accompagnati da due ragazzini mai visti prima di allora e da una delle guardie a cui aveva fatto saltare tre denti.
Aveva provato un misto tra vergogna e panico nel vedere l’espressione di sgomento dipinta sui volti dei suoi figli. Tentare di decodificare quegli occhi smarriti era stato impossibile, così come tentare di mantenere un certo decoro.
 
“Hai visite” – aveva tagliato corto la guardia – “Non so ancora quando potrai uscire”.
 
Il suo tono frettoloso e il terrore nei suoi occhi erano la conseguenza di quello che aveva patito la notte precedente. Mai, nella sua carriera da militare, si era imbattuto in una bestia selvaggia come quella. Sperava di non avere mai più a che fare con un tipo del genere, una bestia indomabile che li aveva atterrati uno a uno come una palla avrebbe fatto con dei birilli. Perché, poi, una palla avrebbe dovuto buttare giù dei birilli? Di preciso, la guardia non lo sapeva, ma davanti ai suoi occhi si era palesata un’immagine precisa: quella di una lunga pista di legno lucido con in fondo dei birilli bianchi messi in piedi in una posizione ben precisa, e una palla, pesante e colorata, che correva veloce verso di loro con l’idea di atterrarli tutti.
 
“La botta in testa deve avermi giocato un brutto scherzo”.
 
Sì, forse gli aveva giocato un brutto scherzo. O forse no.
 
“Avete dieci minuti” – aveva sentenziato, indietreggiando. Che se la sbrigassero i marmocchi che aveva generato con chissà quante donne diverse, considerando il fatto che solo uno – quello coi capelli lilla – sembrava somigliare a lui.
 
Una volta rimasti soli, capire chi avrebbe dovuto rompere il ghiaccio e dire addio allo stallo sembrava più facile a dirsi che a farsi.
Vegeta non aveva smesso di osservarli con quei suoi pozzi neri neppure per un istante. Sembrava che avesse persino dimenticato di sbattere le ciglia, tanto era concentrato. Quel suo atteggiamento autoritario aveva fatto indietreggiare Josuke e Joruno, ma non Trunks e Goten, che erano abituati a quel suo modo di fare.
 
“Tsk! Avete intenzione di dire qualcosa o volete starvene lì impalati per sempre?”.
 
Imperioso, altezzoso, il solito Vegeta. Trunks aveva scosso impercettibilmente il capo prima di aprire bocca e dire qualcosa.
 
“Eravamo in pensiero… Che cosa ti è successo?”.
“Avevo caldo e ho deciso di trascorrere una notte al fresco”.
 
La battuta che aveva fatto non aveva sortito l’effetto sperato: non era riuscito a sdrammatizzare e sorvolare su quella situazione inverosimilmente scomoda.
 
“Loro due chi sono?”.
 
Magari, in quel modo poteva provare a distogliere l’attenzione dai suoi polsi e dal suo occhio nero.
 
“Io mi chiamo Josuke, signor Vegeta, e lui è mio cugino Joruno. Ci siamo permessi di accompagnare Trunks e Goten… Hanno trascorso la notte a casa mia e non volevo che tornassero a casa da soli”.
“Qualcuno che ragiona c’è, allora. Buono a sapersi”.
“Papà, per favore… Non fare così. Cosa ti è successo? Tra poco ti lasciano andare, vero?”.
“Sì, ora chiamo la guardia e gli dico di lasciarti andare, così torniamo a casa e mettiamo qualcosa su quell’occhio e sui polsi. Devono farti tanto male e…”.
“Frenate, ragazzi. Sono io che penso a voi, non il contrario. Diciamo che i miei pugni hanno avuto un incontro ravvicinato con uno che ha fatto la cosa sbagliata al momento sbagliato, e queste sono le conseguenze. Non so quando mi faranno uscire e non penso che sia il caso di farne un dramma. Non possono trattenermi in eterno. Voi andate e non preoccupatevi. A proposito, non dovreste essere già a scuola? Anche voi due: filate a scuola! Tsk! Che pessimo esempio state dando a chi è più giovane di voi!”.
 
Quello era sicuramente il discorso più lungo che i bambini avevano sentito pronunciare da Vegeta, ma quel suo tentativo di distrarli stordendoli di parole era stato vano. Come poteva pretendere che andassero a scuola come se niente fosse? Come se lui non si trovasse in carcere, incatenato, senza sapere quando sarebbe uscito?
 
“Io non ti lascio qui!” – aveva urlato Goten, afferrando le sbarre con le entrambe le mani – “Stai male, sei ferito, non ti lascio!”.
 
In situazioni come quelle, gli occhi del piccolo Son si sarebbero riempiti di calde lacrime salate, ma quella volta, dalle pupille nere come le notte, saettavano fiamme indomabili.
 
“Tu vieni via con noi! Non possono tenerti qui! Non possono e basta! GUARDIA! GUARDIA!!”.
 
Trunks era interdetto: cosa aveva in mente Goten? Era impazzito, forse? Che cosa voleva dimostrare urlando in quel modo? Di avere un qualche potere decisionale? Doveva aver preso una bella botta in testa senza che se ne fosse accorto.
 
“Goten, potremo cacciarci in qualche guaio… Josuke, Joruno, diteglielo anche voi…”.
“Sì, in effetti…”.
“No, ragazzi, no! Joruno, non mettertici anche tu! Vege-papà non resta qui, va bene? Papà viene a casa con noi! SUBITO!”.
 
Se ci fosse stato un fotografo, mai momento sarebbe stato migliore di quello per immortalare l’espressione dell’ex-cinico principe dei saiyan: stupore, orgoglio, ma anche affetto e paura. Mai, prima di allora, il ragazzo si era appellato a lui con quel titolo. Mai. Era davvero così che lo vedeva? Era davvero quello per lui?
 
“Goten… Dovete andare a casa. Adesso. Non tollererò altre sfuriate. Ci vedremo appena possibile. Starò bene. Sono di un’altra razza, io… O forse lo avete dimenticato?”.
 
No, non lo avevano dimenticato. Ma lasciarlo lì faceva veramente un male cane.
 
*
 
“Quel bastardo… Quel farabutto… Quel verme! Guarda cosa ha fatto al mio bellissimo viso! Guarda come mi ha ridotto!”.
 
Leon non aveva fatto altro che lamentarsi per tutto il tempo con la donna che aveva accettato di vivere con lui. La poveretta, una giovane di poco più di vent’anni, aveva trascorso l’intera nottata a vegliare il malcapitato, cercando di alleviarne le sofferenze.
Era arrivata alla conclusione che chi lo aveva ridotto in quello stato fosse alto almeno due metri e pesasse almeno centocinquanta chili, perché nessuno dalle dimensioni comuni avrebbe potuto ridurre una persona in quello stato.
Dal canto suo, Leon non aveva fatto altro se non trattarla male e lamentarsi delle ferite e della brutalità messe in atto dal bastardo che presto l’avrebbe pagata.
La donna continuava a pensare che solo una squadra di uomini addestrati avrebbe potuto dare una lezione al presunto energumeno, e sperava davvero che Leon non scendesse in campo in prima persona.
Arrivati alle prime luci dell’alba, era stravolta, stanca di accudirlo, spaventata nel non sapere cosa avrebbe riservato il futuro. Da quando ne aveva memoria, si era sempre presa cura di qualcuno, ma mai prima di allora aveva avvertito una tale spossatezza, mai prima di allora, aveva avuto così tanta paura per se stessa e per chi la proteggeva dai soprusi degli animali che popolavano quel posto. Era abituata a starsene zitta e buona, lei, aveva imparato a non emergere per non avere problemi. Non voleva finire come una di quelle donne che venivano accusate di essere seguaci del demonio. Non voleva di certo finire sul rogo. Per questo motivo, quando si era recata in cucina per prendere dell’acqua e aveva visto quell’ombra sinistra prendere forma sulla parete e fissarla con i suoi occhi gialli, aveva fatto finta di niente, chiudendo gli occhi sino ad aspettare che sparisse.
 
“Ehi! Donnetta! Portami dell’acqua! SUBITO! Sto male, io!”.
 
Sarebbe stato meglio portargli immediatamente quello che voleva, piuttosto che farsi chiamare un’altra volta.
Del resto, era quello che si era ripromessa di fare: starsene zitta e buona.
 
*
 
Erano trascorsi quattro giorni da quando Vegeta era stato arrestato e imprigionato, e i bambini non avevano fatto altro se non fare la spola tra il carcere e la loro casa, insolitamente vuota e silenziosa.
Non si erano scambiati una parola da quando erano rientrati. Josuke e Joruno avevano tentato di convincerli a trasferirsi per un po’ di tempo a casa loro, ma non ne avevano voluto sapere: se Vegeta fosse uscito, avrebbe dovuto trovarli a casa, avrebbe dovuto sapere che erano rimasti lì ad aspettarlo, e che avevano fatto i bravi, svolgendo le faccende e andando a scuola, per renderlo orgoglioso e fiero, per prendere esempio dal suo carattere forte e indomabile.
Goten aveva deciso di dormire sul letto di Vegeta e Trunks non si era opposto. Aveva sentito più volte il bambino lamentarsi e rigirarsi nel sonno, finché non lo aveva visto scendere dal loro letto e prendere pace solo dopo essere sparito sotto le coperte del letto di suo padre, impregnate ancora del suo odore.
Non si era ingelosito, ma aveva deciso di non seguirlo, lasciandogli lo spazio che gli occorreva per ritrovare un briciolo di fiducia e di forza per andare avanti.
Da quando aveva vissuto la disavventura nel capanno e aveva assistito all’episodio con Joruno, Trunks non aveva avuto pace: il desiderio di riprendere in mano l’oggetto maledetto era aumentato, e sapere che suo padre fosse in catene era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso e, alla fine, aveva ceduto.
Quella notte, non si era neppure premunito di nascondersi per sfogliare le pagine che tanta apprensione gli avevano causato nell’ultimo periodo. Quella volta, però, era stato diverso: quella volta, non aveva avuto bisogno di scrivere qualcosa per ottenere una risposta, perché l’inchiostro era comparso da solo, vivido e chiaro più che mai.
 
SEI TORNATO.
RICORDA.
ALLA FINE,
TORNERAI
SEMPRE.
 
Aveva osservato ciò che aveva preso vita sul foglio con il fiato sospeso. Lui sapeva, ormai ne era certo. Sapeva, e non aveva fatto altro che prendersi gioco di lui. Trunks, ormai, non aveva più dubbi: doveva disfarsi di quel quaderno maledetto, doveva riportarlo nel luogo da dove lo aveva tirato fuori. Ma come poteva farlo?
Per la prima volta dopo tanto tempo, il bambino con i capelli color lillà si era inginocchiato e aveva cominciato a pregare gli dei: sperava che loro potessero infondergli il coraggio che forse non aveva mai avuto. Poi, era uscito, dicendo a Goten di avere qualcosa di importante da fare.
 
*
 
Lo avevano spostato di cella, l’ultima notte, svegliandolo con una secchiata d’acqua gelida. Non beveva né mangiava da giorni, e puzzava di sudore e della sua stessa urina, essendo stato costretto a svuotare la vescica nei pantaloni. Grazie agli dei, non aveva avuto altri bisogni corporali, ma ormai si era convinto che non avrebbe più recuperato l’uso delle braccia, ancora sollevate dalle pesanti catene che lo inchiodavano alla parete.
Quando lo avevano tirato giù, era caduto a peso morto, neanche fosse stato un sacco di patate. Non aveva neanche provato a proteggersi il viso con le mani, e aveva preso una bella botta sul naso. Sperava davvero di non aver riportato l’ennesima ferita, perché ne aveva veramente abbastanza di quegli stronzi e di quel posto di merda. Non si era pentito di quello che aveva fatto, ma non aveva neanche intenzione di prolungare quella farsa per le lunghe: non avevano motivo per trattenerlo così a lungo senza un processo, ed era certo che quell’imbecille del capomastro non avesse avuto gli attributi per metterselo contro. Certo, si attendeva qualche ripercussione – prima o poi gliel’avrebbe fatta pagare, ne era certo – ma, più che altro, lo preoccupavano le conseguenze dell’aggressione alle guardie. Non sapeva quante ne avesse colpite, preso dalla furia del momento, ma temeva per il suo destino.
 
“Alzati” – gli era stato comunicato a debita distanza – “E tieni in vista le mani. Se fai qualche scherzo, ti ammazzo”.
“Tsk. Paura, eh?”.
 
Cercava di fare lo spavaldo, non perché avesse timore di loro, ma perché sospettava di averli in pugno e aveva tutte le buone intenzioni di mantenere la sua supremazia. Certo: lo avevano arrestato, avrebbero potuto condannarlo a scontare una pena molto più lunga, considerando in quel posto non facevano sconti a nessuno, ma avrebbero anche potuto pensare che sarebbe stato meglio lasciarlo andare e avere una rogna in meno, no?
Stava di fatto che Vegeta aveva ubbidito e lo aveva seguito senza fare storie. Lo aveva condotto lungo il corridoio buio e tetro, ma aveva fatto in modo di non farlo passare davanti alla cella di Marilyn. Che il suo atteggiamento avesse potuto metterla in pericolo era una cosa a cui aveva pensato costantemente, in quei giorni, ma quel pensiero non lo aveva fatto pentire per niente, anzi! Lo avrebbe sicuramente rifatto senza alcuna esitazione!
 
“Aspetta qui” – gli aveva detto, chiudendosi una porta alle spalle – “Presto torneremo”.
 
Quella minaccia non troppo velata pronunciata una volta che la porta era stata serrata non era piaciuta affatto al principe dei saiyan che, poco dopo, si era ritrovato completamente al buio. Tutti e cinque i sensi erano in allarme, ma il fatto di essere stato ammanettato, di essere stremato e ferito non giocava a suo favore. L’adrenalina non gli scorreva più in corpo come prima, e questo era l’ennesimo svantaggio. Ma cosa potevano fare? Provare a ucciderlo e occultare il suo cadavere? Sul serio sarebbero potuti arrivare a tanto?
Forse, in quel momento, per la prima volta, aveva preso forma nella sua mente il pensiero di non poter uscire mai più da lì e di aver abbandonato i ragazzi al loro destino a causa del colpo di testa che aveva avuto.
 
Nonostante l’attenzione del principe fosse alle stelle, non era stato in grado di rendersi conto da che punto fosse arrivato il colpo finché non aveva sentito un dolore terribile all’altezza del fianco destro. Dovevano averlo preso a sprangate o qualcosa del genere, perché era certo di aver sentito le costole frantumarsi. Era caduto in ginocchio, spuntando sangue, cercando di non gridare, ma questo non era stato abbastanza per chi, da vigliacco, lo stava attaccando in gruppo da diverse angolazioni. Pugni, calci, frustate, un calore esasperante che gli scioglieva la pelle, un dolore nuovo che subentrava a quello causato pochissimi istanti prima, era ciò a cui era stato condannato Vegeta per aver difeso quella donna maltrattata.
Si rendeva conto solo in brevissimi attimi di lucidità di aver sentito gli uomini deriderlo, sputargli addosso, offenderlo, perché troppa era la sofferenza che gli stavano causando.
Se avesse avuto i suoi poteri, li avrebbe inceneriti con la sola intensificazione dell’aura. Se fosse stato ancora un saiyan, li avrebbe scuoiati vivi uno a uno e poi li avrebbe strangolati con la loro stessa pelle, decapitandoli e spargendo le loro budella al vento. Ma lui non era un saiyan. Non più. Era un uomo, ferito, solo, che nonostante fosse per la prima volta in vita sua nel giusto, si era ritrovato a scontare quella pena atroce.
I ricordi avevano continuato a sovrapporsi e a confondersi fino a quando non si era svegliato da solo, al buio, incapace di capire dove si trovasse. Credeva di essere sul punto di morire, anzi, sapeva di esserlo.
Ma i carnefici non erano contenti del loro operato, evidentemente: noncuranti di mostrare il volto – come avrebbe mai potuto scorgerli con gli occhi tumefatti? – lo avevano preso di peso e condotto all’aperto.
Vegeta si era imposto di non emettere un suono, nonostante il dolore lo stesse facendo impazzire: non voleva dargli quella soddisfazione.
Il calore del sole sembrava averlo per un attimo rasserenato, ma era stata un’illusione vana, la sua, perché i suoni, i rumori, gli odori, erano un ammasso confuso e indistricabile che preannunciava morte. Solo che non stava annunciando la sua.
Lo avevano lasciato cadere sul lastricato di pietra, causandogli ulteriore sofferenza. Solo a quel punto, stravolto, aveva provato a capire dove si trovasse, scorgendo, con quel poco di vista che gli restava, i sanpietrini che formavano la pavimentazione della piazza.
 
“Guarda, se ce la fai, bastardo. Guardala”.
 
Le orecchie sanguinavano, ma l’udito gli aveva ancora permesso di sentire perfettamente la voce e riconoscerla. Il bastardo figlio di puttana che lo teneva per i capelli era lo stesso che aveva mandato al tappeto qualche notte addietro. Si era già ristabilito? Ma com’era possibile? Non gliele aveva suonate abbastanza forte, allora?
 
“Allora? Guardi?”.
 
A fatica, Vegeta aveva aperto l’occhio sinistro, quello conciato meno male, e aveva messo a fuoco ciò che gli si parava davanti, inorridendo.
 
“Ba-bastardi!”.
 
Avevano allestito il peggiore degli scenari, decidendo di mettere in atto il più atroce dei crimini: giustiziare una innocente.
La pira era lì, pronta, e Marilyn era stata trascinata dal boia sulla sommità della catasta di legna, pronta per essere legata al palo e arsa viva.
Le persone erano lì attorno, mute, in attesa di prendere parte da spettatori inermi a quel macabro spettacolo di morte. Ora, Vegeta ne aveva avuto la conferma: la sua bravata non aveva fatto altro se non accelerare la sua morte, se non condannarla definitivamente.
 
“Siete dei pezzi di merda!”.
 
Aveva trovato la forza di urlarlo, il principe, ma era servito a poco. La vedeva in maniera confusa, offuscata, mentre veniva condotta tra le braccia della morte. Sentiva sul collo il fiato di quell’essere, la sua mano che lo costringeva a tenere alta la testa mentre lo schiacciava sui sanpietrini con il ginocchio.
 
“E ringrazia che non ho deciso di vendicarmi sui tuoi figli”.
 
Vegeta aveva assistito all’esecuzione in trance: il suo cervello si era spento nell’attimo in cui avevano dato fuoco alla pira. Più in là, aveva pensato di averla vista andare incontro alla morte sorridendo. Ma quello poteva essere stato solo un sogno.
 
“Guardala! Guardala come brucia! E pensaci! Sarebbe stato meglio se fossi stato zitto e buono”.
 
Continua…

 
Carissime/i,
Eccomi di nuovo qui, ancora una volta in ritardo ma con un capitolo ricco di avvenimenti.
Non voglio dilungarmi eccessivamente nelle note, ma vorrei ringraziare chi ha la pazienza di seguirmi nonostante sia trascorso tutto questo tempo. <3
Siete unici!
Dunque: Vegeta si trova in un brutto, bruttissimo pasticcio! E questo per aver provato a fare una buona azione. Ora, sia chiaro: io sono contro ogni tipo di violenza. Per questo, ci tengo a sottolineare che il comportamento del principe non è il alcun modo giustificabile.
Trunks ha deciso di disfarsi del quaderno. Ma come? E perché la “donnetta” a casa di Leon ha visto l’ombra e Leon si è ripreso magicamente?
Prima o poi lo scoprirete!
 
A presto!
Un bacino,
Cleo

*Il titolo è un chiaro riferimento alla canzone dei Maneskin

 
   
 
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