E’
tarda ora e di Nairobi nessuna traccia.
Ad attendere il suo rientro a casa c’è Tokyo, in
preda all’ansia, che cammina
avanti e indietro, parlando a se stessa pur di calmarsi.
Alba,
addormentatasi a fatica, è sdraiata
sul divano. La dolce zia le ha adagiato sul corpo una coperta e nel
mentre ha
preparato una camomilla.
Peccato
che quella bevanda non riesca a
placare l’agitazione, ormai alle stelle.
Il
pianto improvviso di un bambino allerta
la donna, che sa benissimo a chi appartiene quel vagito.
“Santiago,
mi amor! Eccomi, sono qui” – il
piccoletto di circa tre anni è l’unico figlio
avuto dalla Oliveira e il suo
compagno. Dopo aver congedato la babysitter, Tokyo l’ha
portato nella villa
degli amici, tenendolo con sé nell’attesa del
rientro degli altri.
Anche
lei, ormai mamma, avverte quanto il
legame con il proprio sangue sia un vincolo infrangibile e quanto possa
far
male saperlo lontano da se.
In
quei minuti, durante i quali
la donna culla Santiago, il
chiavistello della porta la pone in
allerta.
Speranzosa,
avanza rapida verso l’ingresso,
con il bebè in braccio.
Di
fronte a se ci sono Rio e Bogotá.
Quest’ultimo è visibilmente abbattuto; il suo
volto porta i segni di una
disperazione e di un dolore difficili da spiegare.
“Allora?
Avete trovato Nairobi?” – chiede
Tokyo.
Cortés
scuote il capo, amareggiato.
“E
vi siete arresi così? Siete impazziti?
Non vorrete mica che sparisca anche lei?” – li
rimprovera la donna, fortemente
in pena per la migliore amica.
La
sua reazione infastidisce Bogotá, che,
però, si contiene per l’ennesima volta. Ignora la
predica di Selene e raggiunge
Alba in salotto.
Osserva
l’undicenne dormire e, di fronte
agli amici che l’hanno seguito, prende tra le sue braccia la
figlia maggiore e
la stringe al suo petto. In quel preciso istante, avrebbe voluto
sfogare la
sofferenza in un pianto liberatorio. Eppure le lacrime faticano a
scivolargli sul
viso, sono paralizzate anch’esse come lo stesso cuore di quel
povero padre di
famiglia.
Pentita
per il poco tatto utilizzato poco
prima, Tokyo cerca di confortarlo in merito alla faccenda di Ginevra.
“La
troveremo, ho già contattato chi di
dovere” – prende parola la Oliveira.
Quell’affermazione
spiazza i due uomini
che, confusi, la guardano. Poi è Rio a domandare,
ipotizzando qualcosa – “Non
dirmi che hai intenzione di riunire la Banda…per la terza
volta?”
Tokyo,
decisa che quella è la soluzione
migliore, annuisce e spiega le sue ragioni –
“Sapete come sono fatta e nessuno
meglio del Professore può aiutarci. Qui siamo bloccati,
sotto copertura, con
false identità…non possiamo neppure contattare la
Polizia senza destare
sospetti, abbiamo bisogno di lui e del suo genio! ”
“Si
, amore, però avresti prima potuto
consultarci, non ti pare? Non puoi sempre fare di testa tua e
…” – il tono di
rimprovero da parte di Rio, spiazza Tokyo stessa convinta, invece, di
aver
agito coscienziosamente, probabilmente per la prima volta nella vita.
Determinata
sulle proprie idee, comincia a
discutere con il compagno.
E
dopo averli ascoltati litigare fin
troppo, Bogotà prende parola - “Hai ragione, qui
da soli siamo impotenti. Spero
di non causare problemi ai Dalì, invitandoli tutti in casa
mia. Può essere un
grandissimo rischio per tutti, e per questo motivo ho intenzione di
convocare
una squadra speciale ”
“Cioè?”
– chiede, confuso Rio.
“Nessuno
sa chi sono, hanno la fedina
pulita… sono gli aiuti di cui abbiamo bisogno”
– sostiene senza precisare nulla
a riguardo.
Così
dicendo, congeda gli amici
ringraziandoli. Seppure a fatica, data la resistenza della Oliveira
risoluta a
rimanere lì fino al rientro di Nairobi, la coppia lascia la
villa.
Quella
sarà una notte lunga e complicata,
nessuno dormirà sogni tranquilli, ne sono certi.
Bogotà,
cosciente di mettere a rischio
altre vite, oltre quelle dei Dalì, sente di non aver altre
possibilità: la sua
Ginevra deve tornare, sana e salva… ed è
necessario arruolare gente!
Giunto
nella stanza di Alba, adagia la
bambina sul letto, rimboccandole le coperte.
Le
prende il pc, utilizzato dalla undicenne
per svolgere dei compiti per la scuola, e dirigendosi nella camera
matrimoniale,
accende il computer e scrive una serie di e-mail.
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Sono
le due di notte quando Nairobi rincasa.
Il silenzio che si avverte tra quelle mura è per lei un
rumore assordante… il
buio che riempie l’ingresso, contrasta con la fioca luce
della sua stanza.
A
passo lento, la donna percorre pochi metri,
barcollando proprio com’è solita camminare una
persona ubriaca, priva di
lucidità. Ed è così che Agata si
sente…svuotata di ogni emozione, privata della
sua vitalità, dominata dal rimorso e dai sensi di colpa.
Non
le è servito a nulla correre lungo l’intero
viale, percorrere chilometri a piedi, attraversare zone della
città mai viste,
al solo scopo di metabolizzare l’accaduto. In cuor suo non
ammette che Ginevra,
la sua dolce e piccola Gin, sia sparita nel nulla.
E
così, mentre in quelle dannate ore convinceva
se stessa di vivere un brutto sogno, che a breve si
risveglierà circondata
dalle braccia di suo marito e dalle coccole dei suoi figli, la
realtà dei fatti
si mostra violenta ai suoi occhi.
La
cameretta dei gemelli ne è la prova:
c’è
Sebastìan che dorme, però il lettino con la
trapunta di Frozen, quella tanto
voluta da Ginevra per Natale, è perfettamente in ordine. Le
foto della piccola
diventano, in un battibaleno, delle coltellate al cuore e il suono
della sua
dolce voce riecheggia nelle pareti.
“Mammina,
mi leggi la favola della buona notte” –
Agata sobbalza e, senza esitare, si
guarda attorno , come a voler cercare la bambina.
Corre
in tutta casa, continuando a
chiamarla, ormai preda di una vera e propria follia.
Si
immobilizza, nel corridoio, di fronte
alla fotografia del suo matrimonio.
Tutta
la sua serenità cominciò quel giorno.
E
ogni cosa sembra essere finita oggi!
La
voce di Bogotà, alle sue spalle, la
distoglie dai suoi pensieri.
“Sei
tornata, grazie a Dio!”
Nairobi
non sembra intenzionata a voltarsi
ed incrociare lo sguardo di lui, e ciò spinge
l’armeno ad avanzare nella sua
direzione..
“Parliamo,
per favore?” – la prega lui,
sfiorandole un braccio.
Quel
gesto manifesta premura e attenzione. Bogotá
sente l’esigenza di averla con sé, di sentirla
vicino, in un momento tanto
difficile. E
vederla ritrarsi, è l’ennesima
batosta.
“Quanto
vuoi farmi pesare questo fatto? Pensi
che io non mi senta in colpa? Per me è uno strazio, ti prego
non allontanarti.
Non fa bene al nostro rapporto tutta questa tensione! Andiamo a letto,
per
favore!”
I
secondi che passano sembrano un’eternità,
durante i quali la Jimenez non mostra un segnale di compassione verso
il
marito. Addirittura lo fredda, comunicandogli - “Io dormo
nella stanza degli
ospiti stanotte!”- riprende il passo ,diretta verso la stanza
in questione;
chiude la porta con forza e si isola, schiava di un dolore sempre
più
asfissiante ed invasivo, che le ha schiavizzato la mente.
All’ex
saldatore, rimasto impassibile
davanti alla freddezza della gitana, non rimane che costatare quanto il
suo
matrimonio possa rischiare lo sfracello dopo la vicenda di Ginevra.
Così,
dopo dodici anni di condivisione di
un letto nel quale ha vissuto tante notti di puro amore, si corica,
amareggiato. Ed è allora che il PC, rimasto acceso, segnala
l’arrivo di un’e-mail.
“Caro
papà, ho contattato alcuni dei miei fratelli, conta pure su
di noi” – legge
ad alta voce l’uomo, appurando che Julian, il suo primogenito
ha confermato la
sua presenza.
Non
riuscendo più a chiudere occhio, Bogotá
trascorre le ore seguenti di fronte allo schermo del computer,
intrattenendosi
con i suoi figli. E sono proprio loro, i sette eredi del saldatore, la
soluzione giusta: la
famiglia è l’unica
medicina per quel dolore. E riabbracciarli, a distanza di tanto tempo,
non può
che alleviare le ferite che hanno marchiato il suo debole cuore.