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Autore: WillofD_04    16/05/2021    1 recensioni
Piccolo avvertimento: è fortemente consigliato aver letto almeno "Lost girl" prima di leggere questa storia.
Terzo e (si spera) ultimo capitolo dell'avventura di Cami!
Adesso che la ragazza ha deciso di rimanere nell'universo di One Piece ancora per un po', sarà chiamata a far fronte a molte insidie. Ma a motivarla ci saranno i suoi compagni, con cui condividerà gioie e dolori, e il suo sogno di diventare un grande chirurgo.
La aspetta un altro viaggio lungo e faticoso, ricco di emozioni e colpi di scena, alla scoperta di nuovi sentimenti e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Tra vecchi amici, nuovi nemici, folli avventure e crudeli battaglie, nessuno è realmente al sicuro. Camilla riuscirà a sopravvivere in un universo popolato da mostri di potenza? Riuscirà a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Riuscirà a superare le difficoltà e a coronare i suoi sogni prima che tutto finisca?
Solo lei ce lo potrà dire.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi appoggiai le mani sulla schiena e la piegai all’indietro per sgranchirmi un po’, poi mi guardai intorno. Eravamo sbarcati su una di quelle isole che avrei definito tristi. Mi pareva che si chiamasse Jonquil, o qualcosa del genere. Non era importante che ricordassi il nome, per quello che dovevamo fare. “Staremo il tempo di prendere ciò che ci serve, poi ce ne andremo,” aveva detto Law, e per una volta supponevo che fossimo tutti ben felici di eseguire i suoi ordini. Quell’isola aveva un che di spettrale. La gente e il chiacchiericcio non mancavano, ma gli abitanti sembravano automi che eseguivano movimenti meccanici, come se fossero stati programmati da qualcuno per svolgere le loro attività. Nessuno dava la parvenza di avere voglia di stare lì. A dire la verità, nemmeno noi volevamo stare lì, ma avevamo bisogno di rifornirci di provviste, carburante e medicinali, per cui non avevamo altra scelta.
«Che isola infelice.» Shachi si espresse per me. Anzi, per tutti noi.
Non era una bella visione, quella che avevamo davanti. Pareva di assistere al declino di una civiltà. Non volevo essere tragica, ma la mia impressione era che la voglia di vivere avesse abbandonato quel posto tempo prima.
L’isola aveva la forma di una giunchiglia. Non era grande, riuscivo a vederne le coste ad occhio nudo, ma c’era un’unica, minuscola cittadina al centro di essa, che si estendeva – per modo di dire – per qualche chilometro in pianura, come se fosse la corolla di quel fiore ormai appassito.
In mezzo all’accozzaglia di edifici fatiscenti e pieni di crepe, solo tre o quattro spiccavano per la loro tinta giallo pastello, un po’ più accesa rispetto a quella degli altri edifici, color grigio topo o bianchi, di un bianco sporco e torbido.
Ad una prima occhiata generale, avevo notato che non c’erano chiese. In compenso, però, era pieno di bar. C’era una taverna all’angolo di ogni singola stradina che attraversava la città. Città che, a occhio e croce, ospitava circa cinquecento abitanti. Cinquecento persone che vivevano in un luogo dimenticato da Dio. In più, a quanto avevo sentito, era pieno di brutti ceffi là intorno. Criminali di bassa lega che si divertivano a derubare la gente del posto e a spendere i loro novelli bottini in alcol scadente e gioco d’azzardo. Forse era per questo che gli abitanti apparivano così sconsolati. Tutto quello mi ricordava un po’ Mock Town, a Jaya. C’era solo da augurarsi di non incontrare Teach in uno dei tanti bar dell’isola. L’idea di vederlo ingozzarsi di crostate alla ciliegia non mi faceva impazzire, e mi faceva impazzire ancora meno l’idea di morire per mano sua.
«Dobbiamo nascondere le scialuppe. Altrimenti questi delinquenti ce le rubano,» dichiarò Penguin.
Mi stupii della sua previdenza, per una volta aveva detto una cosa giusta. Non che noi non fossimo delinquenti, ma se ci avessero rubato le scialuppe saremmo diventati dei delinquenti senzatetto, e nessuno di noi voleva essere un delinquente senzatetto in quel posto.
 
Una volta messe al sicuro le scialuppe, ci dividemmo in tre gruppi e ci separammo. Ryu sarebbe andato al mercato con alcuni dei nostri compagni e si sarebbe procurato le scorte di cibo, Jean Bart, Bepo ed altri sarebbero andati a fare rifornimento di carburante, mentre io, Law ed il resto dei medici avremmo preso i medicinali. Poi ci saremmo ritrovati tutti dove ci eravamo lasciati, indicativamente due ore dopo.
«C’è uno studio medico più avanti,» affermò il chirurgo, muovendo appena la testa nella direzione in cui dovevamo andare. Come facesse a sapere che c’era uno studio medico più avanti rimaneva un mistero.
«Suppongo che tu non li abbia avvisati del nostro arrivo,» mi lasciai scappare, sogghignando velatamente. Il Capitano mi ignorò.
«L’inventario,» pretese subito dopo.
«L’ho fatto io, Capitano. Ecco ciò che ci serve,» si fece avanti Kenji, porgendo vari fogli al chirurgo.
Giusto. L’inventario. Sorrisi beata. Per una volta non era toccato farlo a me. Non mi era mancato per niente, così come non mi era mancato il check up trimestrale. A quello, però, non ero scampata.
«Andiamo,» ci sollecitò, iniziando a camminare. Cominciavo a sospettare che non piacesse nemmeno a lui stare su quell’isola.
Mi diedi una mossa e lo raggiunsi, cercando di tenere il suo passo. Era raro che tutta la ciurma si ritrovasse sulla stessa isola solo per fare rifornimento, però dovevo ammettere che mi piaceva, nonostante il tetro contesto in cui eravamo capitati. Mi faceva sentire più vicina ai Pirati Heart, sembravamo quasi una famiglia normale.
Osservai di sottecchi Law, l’espressione impassibile ed imperturbabile. Ogni volta che lo guardavo non potevo fare a meno di pensare che fosse bello. C’era qualcosa nell’oscurità che celava dietro agli occhi di ghiaccio che lo rendeva magnetico. Il mio sguardo si posava su di lui, sulla sua espressione dura, sulla sua mascella perfettamente squadrata, e inspiegabilmente mi calmavo. Poi iniziava a parlare e mi faceva innervosire come non mai. Ancora non riuscivo a darmi una spiegazione logica per il repentino cambio di emozioni che mi provocava. Era l’unica persona al mondo che riusciva a farmi un tale effetto.
Mi guardò scettico e io mi schiarii la voce, affrettandomi a distogliere lo sguardo. Le cose andavano meglio tra noi. Aveva capito che sarebbe stato preferibile non mettere il dito nella piaga e da allora mi aveva lasciato stare. Niente più battutine, niente più allusioni. Mi trattava come trattava tutti gli altri. Non avevo ancora compreso se questo mi piacesse o meno, ma supponevo di dover prendere le cose per come venivano.
Ero sempre nervosa, tuttavia molto meno rispetto a prima, e non bevevo quasi più vino. Mi concedevo giusto un bicchiere alla fine della giornata, per rilassarmi e andare a letto con i nervi distesi. Kenji era felicissimo di questa novità; io lo ero un po’ meno, ma come mi avevano ripetuto tutti, lo stavo facendo per il bene della mia salute. Forse questo era l’unico modo in cui sarei riuscita a dimenticarmi di Sabo e della sua “libertà”. Ad ogni modo, le cose erano quasi tornate alla normalità, e dovevo ammettere che quel tipo di – quasi – normalità non era male.
Un rumore sordo e violento mi distrasse dalle mie riflessioni. Ci arrestammo all’istante e ci guardammo intorno, in allerta.
«Uno sparo,» sibilò uno dei medici.
Qualcuno urlò. Più volte. Sembravano grida di disperazione, di paura. Venivano dal vicolo buio alla nostra destra. A quel punto tirai fuori l’ascia, pronta a combattere. Era da un po’ che non la prendevo in mano come arma. Non era pesante come mi aspettavo, però. Anzi, per la prima volta sentivo di poterla padroneggiare come avrebbe dovuto essere padroneggiata, mi sentivo più connessa che mai alla mia Mr. Smee, quasi come se fosse un’estensione dei miei lembi corporei. Dovevo ringraziare Hack per questo.
«Aiutatemi, vi prego!» implorò una voce proveniente dal vicoletto. Era una voce acuta e femminile.
«Restate qui,» ci ordinò Law. Iniziò a camminare in direzione della voce.
Spalancai gli occhi. Come poteva essere tanto incosciente? Provai a protestare, a dirgli che era una cattiva idea, ma la mano di Kenji si posò sulla mia spalla e mi fermò. Lo guardai male.
«Il capitano sa quello che fa.» Si accompagnò con un sorriso rassicurante. Annuii e mi rilassai quel tanto che bastava per non farmi venire i crampi da tensione ai muscoli. Aveva ragione, dovevo stare tranquilla. Eppure non ci riuscivo. Mi aspettavo che dal buio di quella stradina emergesse Doflamingo con il corpo esanime di Law tra le mani. La sua risata gelida risuonò nella mia mente. No. Il Demone Celeste non c’era più. Non era più un pericolo. Presi un respiro profondo per poi buttare fuori tutta l’aria che avevo in corpo. La mano picchiettava contro l’esterno della coscia, lo sguardo era fisso davanti a me, cercava di superare la coltre oscura e di individuare qualche movimento, così come le orecchie tentavano di captare qualche rumore. Una ruga di preoccupazione spiccava sulla mia fronte.
Pochi secondi dopo cominciai a scorgere qualcosa. Una figura stava uscendo dal vicoletto, tra le braccia ne stringeva un’altra, apparentemente priva di sensi. Una terza sagoma, minuta e piegata su se stessa, si trascinava dietro di loro. Trattenni il fiato e tenni a bada i mille pensieri che mi passarono per la testa.
Tirai un sospiro di sollievo nel momento in cui realizzai che Law era sano e salvo. Reggeva tra le braccia un uomo svenuto, mezzo moribondo, la cui testa ciondolava sotto al gomito del chirurgo. Una copiosa quantità di sangue colava dal suo torace fino a formare una chiazza per terra. Anche i vestiti del capitano ne erano impregnati.
«Gli hanno sparato.» I suoi occhi, nel momento in cui lo disse, quasi avevano guizzato dal divertimento. Rimisi a posto l’ascia.
«Chi è stato?» volle sapere uno dei miei compagni.
«Che importa chi è stato! Aiutiamolo!» lo incitò un altro. Tutta l’equipe medica corse incontro al Capitano e prelevò con cautela l’uomo dalle sue braccia.
Aspettarono che lui desse disposizioni.
«Portiamolo allo studio medico. È a duecento metri da qui,» fece, calmo e composto. Poi si incamminò, seguito dal resto dei medici.
Io non li seguii; non subito, almeno. Prima dovevo prendere un po’ d’aria. Appoggiai le mani sulle ginocchia e mi piegai in avanti. Chiusi gli occhi ed inspirai a fondo, nella speranza che tutta quella tensione uscisse dal mio corpo.
Solo quando sollevai le palpebre mi ricordai che c’era una terza figura: una ragazza. Anche lei era rimasta immobile. Aveva i capelli neri e gli occhi castani, una lunga frangetta impara le copriva la fronte madida di sudore. Era piuttosto giovane, le avrei dato circa venticinque anni, ma l’espressione angosciata che aveva sul viso la invecchiava di almeno una decina d’anni. Ci fissammo negli occhi per qualche secondo. Tremava come una foglia, lo sguardo ancora terrorizzato da ciò a cui aveva assistito poco prima. Mi ricordava me, aveva la stessa espressione che avevo io il giorno in cui io e Law ci eravamo imbattuti in Doflamingo.
«Sono stati...» provò a parlare, senza risultato. La vidi raccogliere tutte le forze che le erano rimaste in corpo per riprovarci e la guardai con un velo di compassione. Doveva essere parecchio sotto shock. «Sono stati due masnadieri. Gli hanno sparato perché... perché non aveva soldi con sé. Poi sono scappati.»
Boccheggiai, non sapendo bene che dire. Mi limitai ad annuire con una faccia dispiaciuta.
«È mio marito,» parlò ancora, con un filo di voce. A quel punto, le lacrime iniziarono a rigarle le guance, e la donna si rannicchiò ulteriormente su se stessa, scossa dai singhiozzi. Sembrava aver perso ogni speranza. Conoscevo bene quella sensazione, la sensazione che in un attimo possa scivolarti tutto dalle mani. Un attimo prima stai vivendo la vita dei tuoi sogni, e l’attimo dopo...
Mi avvicinai e le cinsi timidamente le spalle con il braccio. Pian piano iniziammo a camminare verso l’ambulatorio.
«Posso assicurarti che tuo marito è in buone mani,» tentai di rassicurarla. Per un po’ non rispose, sembrava piombata in uno stato di totale assenza mentale, forse per proteggere se stessa dalla pioggia scrosciante di sensazioni orribili che le stava cadendo addosso.
«Voi siete pirati, giusto?» Mi guardò con uno sguardo che non riuscii a decifrare. Non capivo se fosse impaurita, arrabbiata, o più semplicemente confusa.
«Sì, ma siamo anche medici. E in quanto tali, è nostro dovere aiutare le persone,» le spiegai con il tono più dolce che riuscii a fare. Era entrata in una fase in cui aveva bisogno di quante più rassicurazioni possibile.
Smise di camminare e si voltò a guardarmi.
«Allora... vi prego, salvatelo,» mi supplicò, le mani congiunte e le iridi colme di sofferenza.
«Faremo tutto il possibile, te lo prometto.» Nonostante la mia faccia apparisse decisa, non ero del tutto certa di ciò che le avevo appena promesso. Non dubitavo di Law e dei miei compagni, dubitavo di me stessa.
 
«Tu aspetta qui, io vado ad accertarmi delle condizioni di tuo marito,» le dissi una volta che fummo entrate nell’ambulatorio. Era un miracolo che fossimo – anzi, che fossi, dato che la ragazza non mi era molto d’aiuto in quelle condizioni – riuscite a trovarlo. Per fortuna avevo notato l’insegna ed eravamo entrate senza intoppi. Si faceva per dire, visto che avevo dovuto trascinarla per un centinaio di metri a peso morto. Però era piuttosto reattiva, mi aveva persino detto come si chiamava: Lyra, un nome che avevo trovato molto poetico.
Lei annuì e io la lasciai. Non ero del tutto sicura che riuscisse a reggersi in piedi, ma doveva farlo, se voleva informazioni su suo marito.
«Si chiama Olly. Mio marito. Si chiama Olly,» mi fece sapere mentre mi allontanavo. Mi voltai verso di lei ed annuii frettolosamente. Con la coda dell’occhio vidi che si era accasciata su una delle sedie della sala d’aspetto.
Mi feci largo a gomitate tra i dottori dell’ambulatorio – arrabbiati per essere stati sfrattati all’improvviso dalle loro stanze – intimando loro di dare una coperta a Lyra. Poi entrai nello studio medico che per l’occasione era stato adibito a sala operatoria.
«Camilla. Ti stavamo aspettando,» mi informò Law. Sul suo viso c’era un ghigno, ma nella sua voce avevo percepito una punta di fastidio. Non era colpa mia se ci avevo messo tanto. Avrebbero pure potuto cominciare senza di me, non mi sarei di certo offesa. Mi irrigidii nell’esatto istante in cui realizzai perché non avevano iniziato.
Kenji mi fece segno di infilarmi il camice, i guanti e la mascherina. Il paziente era già stato anestetizzato, lo avevano collegato ai monitor e la ferita era stata disinfettata. Gli strumenti, sterilizzati con cura, giacevano in fila su un carrello accanto al lettino. Gli avevano perfino fatto una radiografia al torace. Era tutto pronto. Tutto, tranne me.
«Non c’è foro d’uscita,» mi comunicò il Capitano, tranquillo. Sembrava persino appagato. Mi morsi un labbro fino a farmi male. Quel suo sorrisetto non prometteva nulla di buono. «Sarai tu ad estrarre il proiettile.»
«No,» mi rifiutai. Era quello che temevo più di ogni altra cosa al mondo. Strinsi i pugni fino a far sbiancare le nocche.
«Oh, andiamo, non c’è tempo per battibeccare,» mi rimproverò uno dei miei compagni, infastidito.
«È da tanto che non fai pratica con un essere umano. Ti farà bene.» Il ghigno del Chirurgo della Morte si allargava sempre di più. Lo guardai inorridita. Per lui tagliuzzare carne umana non era altro che puro divertimento.
“Vi prego. Non posso farlo,” provai a obiettare, ma mi resi conto che dalla mia bocca non era uscito niente.
Prima che potessi accorgermene, mi ritrovai con i guanti e la mascherina, solo che non ero stata io a metterli. Me li aveva infilati Kenji.
Qualcuno mi spinse fino al lettino su cui era posizionato Olly e mi mise l’apposita pinza in mano. Secondo tutti i presenti, io avrei dovuto estrarre il proiettile – infilando delle pinze nel corpo di un uomo – in un ambulatorio medico sporco e poco attrezzato, dopo più di sei mesi che non riprendevo in mano uno strumento chirurgico e con un polso che tremava ogni volta che tentavo di compiere anche la più semplice delle procedure. L’ultima cosa non potevano saperla, e non era necessario che venissero a conoscenza di quell’inconveniente. Ecco perché non potevo farlo, non potevo permettere che lo scoprissero.
«Allora?» mi sollecitò un dottore. «Questo tizio non ha tutto il giorno.»
Aveva ragione, quell’uomo non aveva tutto il giorno. Dovevo darmi una mossa, se volevo salvarlo. La domanda era... potevo salvarlo? Ero in grado di farlo?
Presi un respiro profondo, le mie spalle si alzarono e si abbassarono in sincrono con la mia respirazione. Diedi un’occhiata alla radiografia alla mia destra per capire dove fosse situato il proiettile, poi chiusi gli occhi e mi presi un momento per me. Era tutto a posto. Ce la potevo fare. Il proiettile non era in profondità, Olly era stato fortunato: era appena un paio di centimetri sotto l’epidermide. Nessun organo vitale era stato leso e non c’erano frammenti ossei sparsi per il torace. Non c’era niente di più facile che estrarlo. Avevo operato in condizioni ben peggiori, quella in confronto era una stupidaggine.
Tenni le pinze strette nella mano destra, mentre la sinistra la appoggiai sul suo petto per divaricare la ferita. In mancanza di altro, quello era l’unico modo. Separai i lembi con indice e pollice e mi apprestai ad iniziare la procedura. Nel momento in cui le pinze affondarono nella sua carne, il polso iniziò a formicolare. Un rumore sordo risuonò nelle mie orecchie: il crack che aveva fatto quando mesi prima si era spezzato, seguito dalla gelida risata di Doflamingo. Fissai la mano, terrorizzata. Eccolo. Il tanto temuto tremore.
“Stai calma. Non è successo niente. È tutto a posto,” mi dissi, inutilmente.
Una fitta dolorosa mi impedì di continuare. Mi sembrava che il sangue non circolasse più. Aprii e chiusi il palmo più volte, cercando di stabilizzare la circolazione, che in realtà non aveva bisogno di essere stabilizzata. Era tutto nella mia testa.
Mi guardai intorno. I miei compagni mi stavano fissando con perplessità, chiedendosi perché non continuassi, perché avessi quella faccia spaventata, se ci fosse qualche problema. Law, invece, era impassibile, come se avesse sempre saputo quello che stava succedendo nella mia mente.
Deglutii sonoramente e mi imposi di estrarre quel dannato proiettile. La mano tremava ancora, a ogni respiro che facevo mi sembrava che tremasse sempre più violentemente. Sotto la membrana del guanto di lattice potevo vedere il polso diventare di colore giallastro, poi verdolino ed infine violaceo. Percepivo il peso del gesso che per due mesi mi aveva fasciato il polso. Sentivo l’osso scricchiolare, scomporsi e frantumarsi. Stavo ripercorrendo al contrario tutte le fasi della mia frattura. Sollevai la mano. Non era prudente continuare a tenerla così vicina alla lacerazione di Olly. Tremava visibilmente. Tremava così tanto che tutto l’avambraccio oscillava.
«Cami?» mi richiamò Kenji alle mie spalle, apprensivo. Lo sentii fare un passo verso di me. Lo ignorai.
«No...» sussurrai scuotendo la testa, lo sguardo impaurito e sconsolato. «No, no, non lo posso fare,» piagnucolai con voce rotta.
Guardai il Capitano, in cerca di un po’ di conforto o di una rassicurazione, una di quelle che solo lui poteva darmi. Lui, però, non disse né fece niente. Aveva l’espressione seria, dura, come se fosse arrabbiato. E aveva tutto il diritto di esserlo. Ero stata una stupida a pensare di poterlo fare. Avevo messo a rischio la vita di una persona a causa della mia sconsideratezza.
«Cami...» mormorò Kenji, sempre più preoccupato.
Continuai a scuotere la testa, priva di qualsiasi speranza. Le mie iridi erano vuote, come sarebbe stata la mia vita dopo quel momento, dopo che tutti avevano realizzato che non potevo più essere il chirurgo che ero destinata ad essere. Per settimane, dopo il mio ritorno, i Pirati Heart mi avevano osservato in attesa che facessi un passo falso. Ed eccolo lì, il mio passo falso. Alla fine lo avevo compiuto.
«Io...» provai a dire, senza riuscire a trovare la forza per parlare. Recuperai le pinze dal corpo del paziente e le poggiai sul carrello. «Mi dispiace.»
Fissai mortificata uno ad uno tutti i miei compagni, poi schizzai via dalla stanza, strappandomi di dosso camice, guanti e mascherina e cestinandoli. Dovevo uscire da lì. Dovevo andare via da quello studio medico. Avevo bisogno di aria. Tuttavia, non avevo calcolato che una volta uscita dallo studio la fidanzata di Olly mi sarebbe corsa incontro. Sbuffai, infastidita dall’intera situazione.
Lei mi si avvicinò con lo sguardo speranzoso e affranto allo stesso tempo, io volevo solo fuggire via da quel posto maledetto.
«Come sta?» quasi mi supplicò di darle una buona notizia. Intorno a me si raccolsero anche i tre medici che erano stati scacciati dalla loro stanza.
«Io non...» Scossi la testa più volte e mi strinsi nelle spalle, incapace di trovare le parole giuste. «Non...»
«Non?» mi sollecitò avvicinando il suo viso al mio, l’espressione colma di preoccupazione. «Cosa? Cos’è successo!? Dimmelo! Ti prego, dimmelo!» gridò poi, vedendo che non mi decidevo a parlare.
Una ruga di afflizione mi si formò in mezzo alla fronte. Lyra si aggrappò alle mie spalle con tutta la forza che aveva in corpo, poi cadde in ginocchio, disperata, e per poco non trascinò per terra anche me.
«Io lo devo sapere...» mugolò, scossa dai singhiozzi.
In quel momento fu come se tutta la mia angoscia fosse uscita dal mio corpo e si fosse materializzata davanti a me. Quella ragazza rappresentava la mia angoscia, in tutta la sua potenza e in tutta la sua fragilità. Stava cercando di impossessarsi di me e di trascinarmi a fondo con lei. La mano ricominciò a tremare. Non potevo permettere che accadesse di nuovo.
La spinsi via malamente e la poverina ricadde al suolo di sedere con un tonfo.
«Pirati!» sputò uno dei dottori, mentre gli altri due erano andati a soccorrerla.
Corsi via, più in pena che mai, senza curarmi di niente e nessuno e senza dare spiegazioni. Avevo bisogno di prendere una boccata d’aria fresca.
Quando finalmente percepii i raggi solari sulla pelle, inspirai un’enorme quantità d’ossigeno. Non avevo corso per molto, ma ero senza fiato. Allargai le braccia e reclinai la testa all’indietro, come se la brezza che mi accarezzava il corpo fosse una manna dal cielo. Rimasi in quella posizione finché il respiro non si fu regolarizzato. Poi appoggiai la schiena al primo muro che trovai e crollai in terra. Affondai la faccia nelle mani e restai immobile in quella posizione per un tempo indefinito, che mi sembrò interminabile. Non piansi, però. Sapevo che se avessi iniziato a farlo, se mi fossi lasciata andare all’angoscia e al rimorso, non avrei più smesso.
Mi rialzai con un sospiro. Non potevo rimanere tutto il giorno seduta lì, ad auto-commiserarmi. Per fortuna in tutto quel tempo nessuno era venuto a cercarmi. Cominciai a camminare. I miei piedi sapevano da soli dove condurmi. Milioni di dubbi si erano radunati nella mia mente, avevo bisogno di lavarli via, di affogarli in qualcosa. Li avrei affidati al vino. Ancora una volta, stavo scappando dai miei problemi e dalla realtà. Pensavo di aver superato quella fase, di non essere più la ragazzina impaurita che se la dava a gambe di fronte alla prima difficoltà. Invece, eccomi qui, fuggita di nuovo dalle responsabilità.
 
Mi infilai nella prima bettola che trovai. Aveva l’aria squallida e sporca. Tutto, su quell’isola, aveva l’aria squallida e sporca. Era piena di brutti ceffi e gente già ubriaca a metà mattino. Non che li biasimassi, avevo intenzione di fare la loro stessa fine. Guardai in giro per cercare un posto libero, c’era parecchia confusione. Ne individuai uno al bancone e mi affrettai ad occuparlo. Il barista mi guardò male. Sapevo perfettamente cosa stava pensando: si stava chiedendo cosa ci facesse una ragazza tanto graziosa in un posto del genere.
«Ho bisogno di vino. Rosso, preferibilmente,» risposi alla sua domanda implicita, per togliergli lo sfizio. Lui non disse niente, si limitò ad alzare un sopracciglio e a chinarsi per prendere il calice che poco dopo mi posizionò davanti.
Come se tutto quello che era successo non fosse bastato, stavo anche infrangendo la promessa che avevo fatto a Kenji e a tutti gli altri. Sbuffai una risata. Supponevo che non avesse molta importanza, arrivati a quel punto. Al diavolo i buoni propositi. Al diavolo la salute. Al diavolo tutto. Niente contava se non potevo più essere un chirurgo.
«Dammi tutta la bottiglia.»
L’uomo mi squadrò per qualche secondo e si mise a ridere. La rabbia e la frustrazione iniziarono a crescere sempre di più dentro di me e si ingigantirono nel momento in cui fece sapere a tutti i presenti, tra gli sghignazzi generali, che volevo bermi tutta la bottiglia di vino.
Sbattei una mano sul bancone e lo fissai minacciosa.
«Sei sordo, per caso? Ti ho detto di darmi tutta la bottiglia.»
«Ragazzina, tornatene a casa,» mi derise lui, dandomi le spalle e iniziando a pulire un boccale con lo straccio che teneva sulla spalla.
Strinsi i pugni e digrignai i denti, furiosa. Ero stufa di non essere presa sul serio solo perché ero una ragazza giovane e minuta. Era ora di cambiare il modo in cui questi stronzi mi vedevano. Avevo bisogno di vino, e lo avrei avuto, a qualsiasi costo. Avevo chiuso con le buone maniere. Forse non sarei più potuta essere un chirurgo, ma ero sempre un pirata.
Mi tirai su, mi sporsi oltre il bancone e agguantai l’uomo per il grembiule.
«Voglio la mia bottiglia di vino,» affermai con convinzione, lo sguardo deciso e ostile. Il barista rise di nuovo, fomentando la mia ira.
«Avrai il tuo vino quando mi pagherai.» Si accompagnò con un cenno della testa. Era chiaro che mi aveva preso per un’idiota. Sorrisi amabilmente e feci per lasciare la presa, poi però strinsi i lembi del grembiule ancora di più e lo avvicinai a me. Fu un attimo. Con la mano libera sfilai uno dei pugnali dallo stivale e glielo puntai alla gola. L’uomo trasalì e l’intero bar piombò nel silenzio.
«Non farmi perdere tempo. Oggi non sono in vena di mettermi a fare polemiche,» gli feci sapere, con un tono che non ammetteva repliche. «Farai meglio a darmi ciò che ho chiesto. Entro dieci secondi ti assicuro che il mio bicchiere si sarà riempito di un liquido rosso. Ciò che mi chiedo è se tale liquido sarà il vino che desidero... oppure il sangue che sgorgherà dalla tua gola.»
Alzò le braccia in segno di resa, ma non si mosse.
«Allora? Hai intenzione di accontentarmi e darmi quella dannata bottiglia o devo prendermela da sola, insieme alla tua insulsa vita?» Premetti di più il mio pugnale sulla gola del barista per fargli arrivare il messaggio. Una goccia di sangue scivolò sulla lama argentea. L’uomo deglutì sonoramente e si apprestò – finalmente – a consegnarmi la bottiglia di vino.
Annuii compiaciuta, poi presi in prestito il suo straccio e ripulii la lama del pugnale, che subito dopo riposi nella tasca dello stivale. Lo ringraziai e gli sorrisi cordialmente, dopodiché mi rimisi seduta e iniziai a bere senza risparmiarmi, sotto lo sguardo attonito di tutti i presenti, che si chiedevano l’un l’altro chi fossi. Avrei risposto, se lo avessi saputo.
 
Avevo bevuto appena un quarto della bottiglia. Il chiacchiericcio della gente si era placato al mio terzo o quarto sorso, dopo che avevo guardato male chiunque avessi udito fare il anche il più piccolo riferimento a me. Dovevo ammettere che non era male essere temuti. Dava un senso di ebbrezza e in qualche modo mi faceva sentire potente. Ne avevo bisogno, quasi quanto avevo bisogno del vino.
La porta d’ingresso della taverna scricchiolò e una folata di vento invase il locale. Tutti si girarono verso la figura che era appena entrata, sgranando gli occhi ed assumendo un’espressione terrorizzata. Sospirai. Non c’era bisogno che mi girassi per sapere chi fosse la fantomatica sagoma che stava in piedi sull’uscio dell’osteria.
«Q-quello è...» balbettò qualcuno, incapace di finire la frase.
«Il Chirurgo della Morte,» continuò un altro, inorridito.
«Che ci fa qui?» chiese un terzo, ancor più intimorito dalla sua presenza.
Il barista di fronte a me sollevò di nuovo le braccia, mentre io alzai gli occhi al cielo.
«Non voglio problemi,» affermò, fissando un punto imprecisato alle mie spalle.
Non mi girai. Invece, iniziai a tamburellare le dita sulla superficie lignea del bancone, infastidita. Volevo solo stare in pace per un po’ di tempo, mi serviva qualche ora per me stessa, per cercare di ricostruire qualcosa dalle macerie di quello che era rimasto, oppure per demolirlo del tutto. E lui mi aveva negato anche questa possibilità. Ora che mi aveva trovata, di sicuro mi avrebbe riportata sul sottomarino, non prima di avermi fatto una ramanzina con i fiocchi, ovviamente. Figurarsi se me l’avrebbe fatta passare liscia per aver messo in pericolo un paziente ed essere scappata nel bel mezzo della procedura.
C’era così tanto silenzio che riuscivo a sentire i suoi passi. Stava venendo verso di me. Si fermò alle mie spalle, a circa un metro di distanza. Non mi mossi.
«Sei venuto a sgridarmi per la mia mancanza di senno?» gli chiesi, piegando la testa da un lato. «Oppure sei venuto a rinfacciarmi l’errore che ho commesso?»
Contrariamente alle mie aspettative, non rispose. Non emise nemmeno un fiato. In compenso, però, il vociare delle persone ricominciò. Si chiedevano che cosa avessi da spartire con lui. Evidentemente non avevano letto gli articoli che circolavano su di noi. Meglio così, non volevo essere additata come la fidanzata psicopatica di Law, né volevo che lui mi facesse la predica in pubblico.
«Si riprenderà?» gli domandai, sempre senza voltarmi. Preferivo cambiare argomento. Dovevo sapere come era andata a finire, anche se una risposta negativa mi avrebbe dato il colpo di grazia.
Ancora una volta, evitò di replicare. Ripresi in mano la bottiglia e ingollai una modesta quantità di vino. Era morto. Olly era morto. Lo sapevo. Poteva salvarsi, e invece era morto, per colpa mia. Perché non avevo saputo aiutarlo, perché il mio stupido polso aveva iniziato di nuovo a tremare. Dannazione! Feci per sbattere violentemente il pugno sul bancone, quando finalmente il Capitano decise di parlare.
«Sì,» mi rispose, dopo infiniti secondi di angoscia.
Distesi le dita e tirai un sospiro di sollievo. Poi bevvi altro vino, per lavare via la tensione che si era creata.
«Come pensavi di pagarla?» volle sapere, riferendosi alla grossa bottiglia che stringevo tra le dita. Non potevo vederlo, ma dal tono che aveva sembrava piuttosto divertito.
Alzai le spalle, completamente noncurante.
«L’ho già pagata risparmiandogli la vita.» Indicai il barista con un cenno della testa. Quello spalancò gli occhi e deglutì.
«V-vi ho già detto che non voglio problemi,» farfugliò, guardando prima me e poi il mio Capitano. Lo ignorammo entrambi.
«Vieni con me,» mi ordinò. Stavolta nella sua intonazione c’era ben poco di divertito.
«No.» Scossi la testa. Non ero proprio in vena di stare a sentire una delle sue ramanzine. «Non ne ho voglia.»
«Vieni con me,» ripeté con più convinzione. Sbuffai, senza preoccuparmi di nascondere il mio fastidio.
«Ti consiglio di obbedire al mio ordine.»
Lasciò una manciata di Berry sul tavolo e se ne andò. Quando si era capovolta la situazione? Quando era diventato lui quello onesto? La questione doveva essere più grave del previsto.
L’oste era teso come una corda di violino, al punto che non prese nemmeno le monete davanti a sé. Alla fine capitolai e decisi di seguire il chirurgo, abbandonando – con grande fastidio e ancor più disappunto – la bottiglia di vino sul bancone. Non avevo comunque altra scelta.
 
Law mi prese la mano sinistra tra le sue e ne accarezzò il palmo con il pollice. Prima lo fissai sorpresa, poi assunsi l’aria da cane bastonato.
Ci eravamo seduti su uno dei pontili del molo, in un posto isolato sul lato opposto dell’isola rispetto al punto in cui dovevamo ritrovarci con gli altri ed eravamo rimasti in religioso silenzio per vari minuti, con le gambe penzolanti. C’era da dire che non me lo aspettavo. Non mi aspettavo che il moro facesse una cosa del genere. Ero sicura che una volta usciti dal bar avrebbe iniziato ad inveirmi contro e a rimarcare quanto fossi stata stupida e irresponsabile. Invece non lo aveva fatto. Si era limitato a sedersi sul freddo legno della banchina portuale e a contemplare l’orizzonte in silenzio. Nel momento in cui strinse il mio polso tra le dita mi divincolai dalla sua presa e lo guardai stizzita.
«Tu lo sapevi. Te ne eri accorto. Ti accorgi sempre di tutto,» affermai, sbuffando una risata subito dopo e distogliendo lo sguardo.
«Per quanto credevi di poterlo tenere nascosto?» Mi parve seccato, come se gli desse fastidio il fatto che avessi pensato di poterlo ingannare.
«Onestamente? Non lo so. Speravo di riuscire a occultarlo ancora per un po’. Ma suppongo che fosse inevitabile, prima o poi sarebbe dovuto succedere.» Sorrisi amaramente. «È solo che non volevo che qualcuno lo scoprisse. Non volevo che il mio problema diventasse reale. Non volevo che i miei sogni andassero a puttane così.»
Per un altro po’ nessuno parlò. L’unico rumore che si sentiva era lo sciabordio delle onde che si infrangevano contro il molo e le barche ormeggiate lì.
«Doflamingo aveva ragione,» affermai sconsolata. «Ora capisco che cosa voleva dire.»
Il chirurgo mi guardò male, come se la mia frase fosse stata un fulmine a ciel sereno.
«Pensavo che lo sapessi. Ero convinta che Sabo te lo avesse detto, visto che in questi mesi vi siete tenuti in contatto.» Lo osservai stupita. Non aveva l’aria di una persona che fosse a conoscenza degli eventi. A quanto pareva, qualcosa sfuggiva anche a lui. «Sono andata a fargli visita mentre era nelle prigioni sotterranee,» confessai infine, pressata dai suoi sguardi inquisitori.
«E perché avresti fatto una cosa del genere?» La sua espressione era impassibile, ma avevo imparato a conoscerlo, e sapevo che stava iniziando ad arrabbiarsi. Credeva che avessi fatto una stupidaggine scegliendo di vedere il mostro che mi aveva rovinato la vita. Anzi, che ci aveva rovinato la vita. Credeva che avessi sbagliato, che avessi compiuto un gesto avventato. Ma non era così, era lui a sbagliarsi.
«Perché avevo bisogno di farlo. Avevo bisogno di vedere con i miei occhi che stesse soffrendo e di assicurarmi che non potesse più farci del male,» gli spiegai, rimanendo sorprendentemente calma. Avevo fatto la cosa giusta, ne ero ancora convinta. Se non lo avessi fatto me ne sarei pentita, perché avevo bisogno di accertarmi che, per una volta, in quel dannato mondo fosse stata fatta giustizia.
Un gabbiano emise uno stridio, come a confermare che le mie motivazioni fossero valide.
«Non sono come te, Law. Tu ti sei lasciato tutto alle spalle, sei tornato sul sottomarino e hai fatto finta che non fosse successo nulla. Io avevo bisogno di conferme per riuscire a dormire sonni tranquilli la notte, per andare avanti,» ripresi a parlare, con un sapore amaro in bocca. «Però, in una cosa siamo simili.»
Presi un respiro profondo e raccolsi tutto il coraggio necessario per dire quello che stavo per dire. Percepii le sue iridi grigie su di me, forse incuriosite, forse seccate.
«Nessuno di noi due sta bene,» affermai, torturando nervosamente le dita della mano destra. Non mi sembrava saggio aggravare la situazione dell’altra mano, già appesa a un filo. Il Capitano si abbandonò ad una risata pacata.
«No. Non farlo. Non ridere. E non prenderti gioco di me, o di te stesso,» lo rimproverai seria, lanciandogli uno sguardo affilato.
«Cosa te lo fa credere?» mi chiese, ghignando spavaldo. Poteva fingere tutta la sfrontatezza che voleva, io ci non cascavo più. Così come io non potevo ingannare lui, lui non poteva ingannare me con i suoi giochetti.
«Sai, non sei l’unico che nota le cose. Io l’ho visto. L’ho visto mentre Doflamingo ti colpiva e tu reagivi a malapena. L’ho visto nei tuoi occhi. Vuoti. Erano... completamente vuoti. E lo sono ancora, sono ancora un po’ vuoti. Ma suppongo che questo sia il tipo di vacuità che non svanisce mai del tutto, per cui non ti biasimo.» La voce era appena incrinata. Il Demone Celeste mi aveva causato tanta sofferenza, ma le immagini che avevo di Law che si lasciava sopraffare dalla mancanza di speranza e si preparava a morire erano peggio.
Da quando aveva letto la notizia che il fenicottero era riuscito ad evadere di prigione, il Capitano si era rassegnato alla propria morte. Era convinto che quella sarebbe stata la sua fine. E adesso, che invece era libero dai suoi demoni, non sapeva cosa fare. Quasi non riusciva ad accettarlo. Forse si sentiva perso, forse si sentiva in colpa – ingiustamente, perché era stata una mia decisione – per aver trascinato anche me in quella storia, in quell’abisso senza fine. Quello che era certo era che non stava bene. C’era qualcosa di diverso in lui, che prima, quando stavamo alla Base, non avevo notato, ma che ora invece mi sembrava talmente palese che il suo malessere aveva preso la forma di un’immaginaria insegna luminosa sulla sua testa. Il fatto che non avesse detto una parola mi confermò che avevo ragione; anche se non era da escludere che più semplicemente non avesse voglia di addentrarsi in un discorso tanto oscuro.
«Mi dispiace di non esserci stata per te in questi mesi,» mi rammaricai, stavolta sostenendo il suo sguardo.
«Smettila di dispiacerti. Non tutto il mondo ha bisogno di te,» mi riprese, tagliente.
«Lo so,» mi affrettai a replicare. «Ma tu non sei tutto il mondo. Io ho sentito e condiviso parte del tuo dolore. Forse avremmo potuto aiutarci a vicenda.»
Gli sorrisi flebilmente e lui fece una smorfia indefinita.
«Mi pare che tu ti sia aiutata fin troppo in questi mesi.» Mi rivolse un ghigno eloquente. Sbuffai ed alzai gli occhi al cielo. Poi, però, decisi di stare al gioco.
«Continui a ritornare sempre sullo stesso argomento. È chiaro che sei geloso. Del resto, ho sempre saputo che tu avessi un debole per i biondi.» Trattenni a stento una risata e lo osservai. Tornai seria nel momento in cui vidi che gli occhi di Law erano assenti. Sembrava pensieroso.
«Camilla,» mi richiamò. «C’è una via d’uscita, a questa situazione.»
Mi lasciò attonita. Non ero sicura di aver sentito bene. Quelle parole provenivano davvero dalla sua bocca? Le aveva dette lui? A me, poi?
Boccheggiai, incapace di mettere insieme qualsiasi frase che avesse un senso compiuto. Era come se quelle parole avessero acceso un faro di speranza, soprattutto perché era stato Trafalgar D. Water Law – sedicente realista, ma nella realtà pessimista – a dichiararle. E le aveva spese per me. Le parole forse più significative che gli avessi mai sentito pronunciare, le aveva spese per me, per cercare di confortarmi e di donarmi una nuova prospettiva di vita. Quasi mi sentivo in colpa a non credergli. Perché lui era l’esempio lampante che non era così, che una via d’uscita, per quanto la si potesse cercare, non sempre esisteva. Quando lo guardavo, un milione di cose me lo suggerivano. Le sue iridi svuotate e gli incubi notturni che talvolta infestavano il suo sonno, ad esempio. Evitai di farglielo presente, però. Non volevo rovinare quel momento solenne.
Riprese il mio polso tra le sue mani e cominciò a massaggiarlo con vigore, ma senza farmi male. Le sue dita gelide scorrevano sulla mia pelle, solleticandola e provocandomi dei piccoli brividi.
«Sarebbe un peccato sprecare un talento come il tuo,» soffiò, tornando a ghignare fieramente.
Lo osservai sorpresa, poi sorrisi, grata e compiaciuta. Quindi Law credeva che avessi talento, e lo riconosceva. Era già un passo avanti. Non che ciò mi consolasse molto, se il mio polso non fosse tornato a funzionare correttamente avrei dovuto appendere il bisturi al chiodo. Fu con questo pensiero che ritornai malinconica.
«Farai fisioterapia con Kenji,» mi annunciò poi, tornando impassibile. Corrugai la fronte, dubbiosa.
«Non penso che mi serva questo tipo di terapia,» provai a obiettare, consapevole che era tutto inutile. Ormai aveva già preso la sua decisione e decretato il verdetto. «E poi, perché devo farla proprio con Kenji?»
L’idea non mi andava molto a genio. Avrei preferito la fermezza e la durezza di Hack alla dolcezza e premura di Kenji. Mi serviva qualcuno di deciso, qualcuno che mi spronasse come aveva fatto l’uomo-pesce. Tra l’altro, ormai era palese che il ragazzo avesse una cotta per me, quindi non era consigliabile passare troppo tempo insieme. Non volevo illuderlo, né tantomeno ferirlo, non se lo meritava.
Law fece per parlare, ma io lo precedetti.
«Sai che c’è? Non mi importa. Voglio solo riprendere il controllo di me stessa. Perciò farò tutto il necessario perché ciò avvenga.»
Dopotutto, lo dovevo a me stessa. Avessi dovuto attraversare l’Inferno per realizzare il mio sogno, lo avrei fatto. Avrei fatto qualsiasi cosa, e sarei riuscita nella mia impresa. A qualunque costo.
Il chirurgo ghignò, nel suo gesto percepii una lieve fierezza, dopodiché appoggiò le mani dietro di sé e reclinò appena la schiena, lasciandosi scompigliare i capelli dalla brezza leggera che aleggiava sul molo. Rimanemmo in silenzio per qualche altro minuto, lui intento ad osservare il panorama, io persa nei miei pensieri.
Presi un respiro profondo e mi accinsi a parlare. Dovevo saperlo. Dovevo sapere se credeva veramente a quello che mi aveva detto poco prima. Non parlava mai a sproposito, ponderava ogni termine e sceglieva con cura i vocaboli, ma stavolta ero convinta che le sue parole fossero soltanto una mera illusione, creata apposta per me, perché ritrovassi un po’ di fede. Perché... forse per il mio tremore al polso c’era una soluzione, ma per il resto? Per lui?
«Pensi davvero che ci sia una via d’uscita?» gli domandai, contemplando l’oceano davanti a noi, che come me era un po’ irrequieto.
«A volte, c’è.» Aveva atteso alcuni secondi per rispondere, come se fosse riluttante all’idea di pronunciare quelle parole, ma con la consapevolezza di doverlo fare.
«Credi che esista una via d’uscita per te?»
Aspettai un paio di minuti, ma Law non fiatò. Mi dedicò una fugace ed inespressiva occhiata, e null’altro.
«È ora di tornare dagli altri. Ci stanno aspettando,» si limitò a dire, facendo leva su una mano e tirandosi su.
Prima di fare lo stesso, mi abbandonai ad una piccola risata nervosa, poi annuii al vento. Sapevo benissimo che cosa significava quel silenzio. Avrei dovuto immaginarmelo. Il Chirurgo della Morte non era il tipo di persona a cui piaceva raccontare stronzate.
   
 
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