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Autore: Marti Lestrange    30/05/2021    5 recensioni
[ Baciarti non è stato come baciare Abbey Thompson di Tassorosso, accucciati dietro le serre, e di quel bacio ricordo solo la sua bocca umida e incerta, e i miei goffi tentativi di impedirle di ficcarmi la lingua in gola solo perché in realtà mi faceva schifo, e il suo alito puzzava dei cavoletti di Bruxelles mangiati a pranzo. No, baciarti non è stato come baciare Abbey Thompson, è stato più come schiudere le labbra sulla notte e lasciare che mi inghiottisse, accettare la tua lingua dentro la mia bocca, a leccarne i bordi, sapiente e calda, e accogliere i tuoi denti piantati nella pelle, e assaporare il nauseabondo sentore di ferro del sangue al fondo della gola, per poi inghiottirlo insieme alla saliva. ]
— Sirius Black/Remus Lupin ;
Genere: Generale, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Remus Lupin, Sirius Black | Coppie: Remus/Sirius
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra, Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'in the name of the Black.'
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you drew stars around my scars. 

 

 

S I R I O: 

— dal latino Sirius; 

dal greco antico Σείριος (Seirios, "brillante" o “ardente”); nell’astronomia cinese, è conosciuto come “il lupo celestiale”; in Giappone, il suo nome è 青星 (Aoboshi, la "stella blu”); 

in arabo è nota come الشعرى (al-ši‘rā o al-shira, “Il Capo”). 

 

 

“raggiante come una stella correva per la pianura;
come si leva l’astro autunnale, chiari i suoi raggi
appaiono fra innumerevoli stelle nel cuor della notte:
esso è chiamato il Cane d’Orione,
ed è il più lucente, ma dà presagio sinistro
e molta febbre porta ai mortali infelici.”
Omero, ‘Iliade’

 

 

Quando eri un bambino, disegnavi stelle sui fogli di pergamena, un po’ per gioco, tanto per noia. Hai cominciato presto, forse è stata la prima cosa che hai imparato, stringendo forte la piuma, la lingua arricciata tra le labbra sottili, l’espressione concentrata e macchie d’inchiostro sulle dita, e sui fogli, e su quell’orrendo centrino di tua madre che ricopriva il tavolo in salotto, dove venivi spedito “a non fare rumore e non disturbare”. Da bambino eri stranamente tranquillo, ammantato di silenzio, perso negli universi assiderali di un mondo che era solo tuo, fuori da Grimmauld Place, lontano dal numero dodici, lontano persino da Londra. Via da quella famiglia che era solo (come) una condanna a morte. Hai imparato a disegnare le stelle perché le guardavi sempre dalla tua finestra, nelle sere limpide di mezza estate, e perché ti hanno sempre detto che il tuo nome era quello di una stella. Sirius

 

Poi, le stelle hai preso a disegnarle per noia, quasi solo per noia, sempre sulle pergamene, ai bordi dei fogli, oppure sui libri, ai margini degli spessi volumi sui quali studiavi insieme al tuo precettore, negli anni immediatamente precedenti Hogwarts. L’uomo — alto e magro, vestito di scuro — ogni giorno entrava come un corvo e, dopo aver baciato le mani di tua madre nello stretto ingresso, ti raggiungeva (veleggiava) in salotto, dove tu attendevi. Mentre lui parlava di formule e ingredienti e piante velenose utili per annientare i nemici, tu disegnavi le stelle e sognavi di mondi lontani, assaporavi già sulle labbra, come un forte liquore a te proibito, il giorno in cui ti saresti liberato dal giogo e avresti mandato al diavolo il tuo stesso sangue e tutto ciò che ti legava ai Black.

 

Tutti ti dicevano (ripetevano) quanto avresti amato Serpeverde, lo zio Cygnus ti aveva addirittura regalato la sua spilla da Caposcuola, che aveva sempre conservato come un memento dei “bei e gloriosi tempi andati”, e che non aveva proprio potuto tramandare “a nessun altro che a te”, il primo nipote maschio, e lui aveva avuto (“ahimè”, sospirava) solo femmine. “Ti porterà fortuna”, ti aveva detto facendoti l’occhiolino e strizzandoti una spalla, come faceva sempre. “Vedrai”. Intanto, mentre ti trattenevi dal dirgli che il tuo zio preferito era Alphard, speravi tanto che quella maledetta spilla ti portasse sfortuna, e un altro seme di insubordinazione e ribellione nasceva nel tuo petto e si espandeva come un’edera. Tuo padre aveva esclamato, “lascia stare il ragazzo, Cygnus, sono sicuro che onorerà il suo nome”, ma tua madre non aveva detto niente, no, tua madre se n’era stata zitta, piccola ma altissima, in piedi dietro la poltrona del marito, a fingere una devozione che non provava, e guardandoti fin dentro l’anima, scavando dentro i tuoi occhi che erano uguali ai suoi. Ti sei sempre chiesto quanto lei già sapesse. Non sei mai riuscito a darti una risposta. 

 

⭐︎

 

Ai tempi della scuola hai preso a disegnare le stelle sulle pareti della tua stanza. Eravamo dei ragazzini in corpi da adolescenti ma con le menti altrove, intrappolate in tele di ragno fitte come nidi stretti, le membra immobilizzate ai lati del corpo, impiastricciate di paure e fantasmi, le mani che scavavano nel torbido di un pozzo pieno di melma, disperate ma avventate, consce dello sporco che si sarebbe accumulato sotto le nostre unghie, ma inconsciamente coraggiosi, chini in avanti — anelavamo la libertà, credevamo nel bene pur vedendo il marcio, speravamo in qualcosa che forse non sarebbe giunto mai. E mentre io lottavo contro istinti primordiali e una maledizione antica più del mondo, la voglia di sangue annidata sotto la lingua e tra i denti, la rabbia che covava al fondo del mio stomaco come un veleno ad assorbimento lento, tu disegnavi stelle nella tua stanza a Grimmauld Place, hai imbrattato una parete intera e, quando tua madre lo ha scoperto (perché, a detta tua, “Kreacher glielo ha spifferato”), ti ha messo in punizione per una settimana. “Una settimana di aiuto al nostro prezioso Kreacher ti farà solo bene, sciagura”.

 

⭐︎

 

La prima volta che ho visto le (tue) stelle, è stato quando mi hai baciato. Sedevamo sul tuo letto e fuori era notte, una di quelle notti estive che ti si appiccano addosso e ti si infilano sotto la pelle, annidandosi in pieghe nascoste, dietro le ginocchia ossute e nell’incavo dei gomiti, nella parte posteriore delle orecchie, sulla nuca, all’attaccatura dei capelli che si arricciano leggermente, umidi di sudore e febbrile eccitazione. Abbiamo trascorso il pomeriggio qui e là, persi da qualche parte tra Camden Lock e Primrose Hill, e ti ho guardato fumare una delle tue sigarette puzzolenti sdraiati su una collina dalla quale si vedeva tutta Londra, e sotto di noi sembrava così piccola, e tu accanto a me sembravi così grande, steso sui gomiti, la t-shirt bianca che ti aderiva addosso perché faceva davvero caldo, troppo caldo per l’Inghilterra. 

 

Non te ne importava, ti tiravi indietro i capelli scuri un po’ lunghi sul collo, la persecuzione di tua madre — una delle tante, tue, persecuzioni —, e mi buttavi addosso il tuo fumo acre e spesso, e io lo respiravo tutto perché volevo solo respirare te, e manco lo sapevo, o forse lo sapevo ma ciò che sentivo tra le gambe era una tempesta confusa di desiderio e un’inaspettata voglia di allungare le mani e toccarti dappertutto, passare le dita sul tuo petto e scendere alla cintura nera con le borchie, e infilarle poi dentro quei jeans attillati che ti facevano un culo pazzesco, e che non ero riuscito a non guardare mentre ballavi al suono di una musica forte e densa di scatti metallici e grida roche nel bel mezzo di una strada di Camden, fuori da un pub con un’insegna al neon e alcuni ragazzi — Babbani, ma non ci importava — che stringevano dei bicchieri di birra scura, e fumavano con inerzia, mollemente buttati su alcune panche piene di scritte. Mi hai trascinato con te in quella danza e io ti ho seguito, come faccio sempre. 

 

Quando hai finito di fumare siamo tornati a casa tua e abbiamo preso la metropolitana, siamo saltati sul treno al volo, “l’ultimo per questa sera, su questa linea”, così mi hai spiegato e, come al solito quando mi racconti cose del mondo non magico (perché mia madre, semplicemente, non ne parlava), io mi perdo ad ascoltarti, la bocca leggermente aperta, gli occhi che seguono le tue labbra. Quando rientriamo a Grimmauld Place, la tranquillità della casa attorno a noi è quasi spettrale. I tuoi genitori sono in campagna dai tuoi zii e Regulus è andato con loro. Tu sei rimasto a Londra sotto la supervisione di zio Alphard, e quella credo che sia diventata una delle estati più belle di sempre, forse la più bella. L’indomani, sarebbero arrivati anche James e Peter, ma non sapevo se questa consapevolezza mi rendesse felice o tutto il contrario. Dopo quasi una settimana passata da soli, forse non volevo nessun altro a spezzare ciò che avevamo creato. Forse, ti volevo solo per me. E sapevo che, quando James avrebbe varcato quella soglia, saresti stato suo all’ottanta per cento, è sempre stato così. Non me n’ero mai preoccupato, prima di quel momento — prima di quell’estate. 

 

Mi hai baciato mentre sedevamo sul letto, quindi, quando hai insistito per farmi fumare e io non ho saputo dirti di no. Ho tossito come un ragazzino e mi sono sentito patetico, ma tu mi hai solo sorriso mentre mi battevi sulla schiena, ripetendo il mio nome con affetto. “Remus, Remus…”, dicevi. “Sei incredibile, possibile che ti debba insegnare proprio tutto?” Mi hai asciugato un filo di lacrime sulle guance, e i tuoi pollici erano bollenti contro la mia pelle. Forse mi hai baciato quando ho cominciato a tremare sotto il tuo tocco e ti ho guardato negli occhi in un modo sconosciuto, e allora non hai saputo aspettare — “ho aspettato fin troppo, Remus”, mi avresti detto dopo. E io avrei realizzato che sì, anche io avevo aspettato fin troppo.

 

Baciarti non è stato come baciare Abbey Thompson di Tassorosso, accucciati dietro le serre, e di quel bacio ricordo solo la sua bocca umida e incerta, e i miei goffi tentativi di impedirle di ficcarmi la lingua in gola solo perché in realtà mi faceva schifo, e il suo alito puzzava dei cavoletti di Bruxelles mangiati a pranzo. No, baciarti non è stato come baciare Abbey Thompson, è stato più come schiudere le labbra sulla notte e lasciare che mi inghiottisse, accettare la tua lingua dentro la mia bocca, a leccarne i bordi, sapiente e calda, e accogliere i tuoi denti piantati nella pelle, e assaporare il nauseabondo sentore di ferro del sangue al fondo della gola, per poi inghiottirlo insieme alla saliva. 

 

Le tue mani — lunghe, magre, da pianista — mi si sono insinuate sotto la maglietta, una vecchia polo Lacoste verde che era stata di mio padre, troppo grande per me, leggermente scolorita. Ti ho lasciato fare, perché in fondo non avevo aspettato che quello, forse solo da quella sera, o più probabilmente da sempre, cazzo, non riuscivo a respirare, figuriamoci a pensare. Riuscivo a pensare solo al tuo corpo spalmato sul mio sul tuo letto a baldacchino dalle coperte rigide, in mezzo ai poster di Quidditch e gli stendardi di Grifondoro e le stelle dipinte sul soffitto, e quella mezza parete accanto alla finestra, a confondersi con le stelle là fuori, anche se le tue erano più belle. Non so bene quando ci siamo spogliati. Ad un certo punto eravamo entrambi a petto nudo, e tu ti strusciavi sulla mia gamba e io intanto mi sentivo sempre più perso, in te e per te, nel tuo odore di fumo e sudore. Ero confuso ma felice, di una felicità che sapeva di eccitazione e pericolo, conscio che ciò che stavamo facendo ci avrebbe portati entrambi sull’orlo di un baratro difficile da attraversare, pieno zeppo di tutto ciò che più ci faceva paura. Ma eravamo Grifondoro, ed eravamo giovani, e il coraggio ci scorreva nel sangue, e ci inebriava. 

 

Quando hai infilato una mano dentro i miei pantaloni, be’, è stato in quel momento che ho pensato che la mia vita sarebbe benissimo potuta finire lì, su quel letto, sotto di te, in una casa che non era la mia, in mezzo ad una città troppo grande, in un’estate torrida degli anni ’70. Il gemito che è uscito dalle mie labbra era troppo alto per quelle pareti antiche e forse ti ho guardato, gli occhi spalancati pregni di panico al pensiero che tuo zio mi avesse sentito, perché ti sei messo a ridere e hai allentato leggermente la presa su di me. “L’altro giorno ho chiesto allo zio Alphie di lanciare un Muffiliato sulla mia porta”, hai detto baciandomi il collo. “Come hai fatto a costringerlo?”, ti ho chiesto. “Dicendogli che sono solito ascoltare musica Babbana e che mi sarebbe dispiaciuto dargli fastidio in qualche modo, no? E lo sai com’è Alphie, non fa domande”. Ho solo annuito con la testa, perché se avessi provato a parlare probabilmente sarebbe uscito solo un grugnito. “Quindi puoi fare tutto il rumore che vuoi, giusto per essere chiari”, hai aggiunto. 

 

“Sirius”, ho mormorato mentre mi leccavi il petto e sentivo la tua erezione premermi addosso. “Cosa stiamo facendo?”

“Secondo te?”

“Ma io—”, ho tentennato, aggrappandomi alla tua schiena perché non volevo affondare. “Io non ho mai—”.

“Lo so, non preoccuparti.” Hai alzato gli occhi su di me e mi hai guardato in un modo che non avrei mai scordato, come se fossi bellissimo, e tuo — in un modo che mi ha fatto sentire bellissimo, e tuo. “Non voglio correre, con te, faremo solo ciò che ti senti, okay?”

“Ma tu…”

Hai annuito, baciandomi con foga. “Sì, Remus, ho già fatto sesso con un uomo. Ma non ci pensare. Tu non sei un uomo qualunque.”

“Quindi quello era un uomo qualunque? Le persone sono solo persone qualunque, per te?” Ho sempre saputo delle tue innumerevoli conquiste, ma se le donne andavano e venivano e non mi toccavano, ora, sapere che c’era stato un altro (o forse più di un altro) uomo nella tua vita mi faceva sentire incerto e paranoico e cattivo. 

Hai alzato gli occhi al cielo. “Tutto il mondo è fatto di persone qualunque, se paragonate a te, stupido. Come te lo devo far capire?”

Ti ho guardato per un momento, forse cercavo una crepa nella tua espressione certa e sicura, ma non ce n’era traccia alcuna, la tua sincerità la indossavi con orgoglio, e i tuoi occhi grigi erano fermi e brillavano nella notte. Ho annuito. 

 

Mentre mi spogliavi anche dei pantaloni, ogni traccia del Sirius frettoloso e impaziente che sei sempre stato è sparita. Eravamo entrambi eccitati oltre ogni limite razionale e il mio pene era così duro che sentivo sarei morto molto presto, ma il tuo tocco era come velluto, aggraziato anche se leggermente incerto, come se avessi paura di vedermi sgretolare sotto di esso. “Ti posso toccare?”, ti ho chiesto quasi implorandoti, nella mia voce c’era un tono cantilenante e capriccioso di un bambino che chiede e pretende un gelato nel mezzo di una via affollata, in una richiesta spasmodica, con un’inflessione che non riconoscevo, e che non mi apparteneva. Mi hai trasformato in un qualcosa di nuovo, qualcuno nel quale non mi riconoscevo, supplicante e bisognoso. “Per favore, Sirius.”

 

“Sì, ti prego”, hai risposto solo affondando il viso nel mio collo e leccando. 

“Togliti i pantaloni, allora”, ti ho sussurrato senza imbarazzo, per la prima volta non ne sentivo addosso neanche un grammo. 

 

Pregni di anticipazione, eravamo eccitati ed ebbri, ubriachi di quel contatto che ci rendeva pazzi e folli, mentre il tuo pene strisciava sul mio, e io rispondevo al contatto, ed eravamo pazzi, pazzi come cavalli, matti e senza controllo, bagnati di quel sudore salato e forte che puzza d’estate e che ti si incolla alla pelle anche se non vuoi. La testa reclinata all’indietro sul tuo cuscino stropicciato, guardavo le stelle che hai disegnato sul soffitto e, quando l’orgasmo mi ha travolto, troppo veloce perché volevo durasse di più, volevo che non finisse mai, volevo morire tra le tue braccia, lì, così, e sarebbe stata giusta ed equa, come morte, quando l’orgasmo mi ha travolto, quindi, ho stretto gli occhi e l’ho lasciato andare, fuori da me, e tutt’intorno, mentre le stelle sul soffitto lasciavano il posto alle stelle dietro le mie palpebre, mentre anche il tuo orgasmo si riversava fuori, ed entrambi rimanevano tra noi, incastrati in mezzo alle nostre pelli, tra le costole del mio petto magro e quel neo scuro — scurissimo — sotto il tuo capezzolo destro. 

 

Eravamo sporchi, il nostro sperma appiccicato in ogni anfratto e in ogni piega, ma siamo rimasti lì per un momento, sdraiati l’uno di fianco all’altro sul tuo letto sfatto, ansimanti e sudati e assetati, ubriachi di ciò che avevamo fatto, i cuori palpitanti per qualcosa che, già lo sapevamo, era solo appena iniziato. Hai cercato la mia mano e l’hai trovata a metà tra i nostri corpi nudi e mi hai afferrato le dita, te le sei portate alla bocca e le hai baciate una ad una, e poi il dorso, e il palmo, e il polso. “È da mesi che desidero farlo”, hai iniziato. “Ho aspettato fin troppo, Remus.”

“Perché non l’hai fatto prima, allora?”

Mi hai guardato alzando le sopracciglia. “Scherzi? Pensavo che mi avresti dato un pugno in faccia… Pensavo fossi etero. Hai sempre e solo parlato di ragazze.”

“Intanto, nessuno parla di ragazzi, per lo meno non ad alta voce”, ho protestato. 

“Con noi, Remus”, hai aggiunto, a metà tra lo spazientito e il divertito, come tuo solito. “Noi parliamo di tutto, no?”

“A quanto pare no”.

“In effetti…”

“E comunque non so se mi interessano i ragazzi”, ho sussurrato. “Non me lo sono mai chiesto, ecco. So solo che mi interessi tu… Mi piaci tu, Sirius.”

Mi hai sorriso e ti sei sporto per baciarmi, un gomito appuntato sul materasso. “Anche tu mi piaci, Remus. Tanto. Troppo.”

“Quel tanto vuol dire che sei disposto a rischiare, ma quel troppo significa che non possiamo, vero? Ora arriva la parte dove ti scusi e mi dici che è stata tutta colpa tua e che non avresti dovuto, e in cui cerchi di farmi sentire meglio e meno in colpa ma in realtà mi fai solo sentire una merda?”

Sei scoppiato a ridere, tirandoti su a sedere e stiracchiandoti le membra, come un gatto. “Ma quanto parli, quando vuoi… Comunque no, niente del genere. Piuttosto, ora arriva la parte in cui facciamo questa cazzata insieme e vaffanculo i rischi. Che ne dici?”

Ti ho guardato, ancora sdraiato sul letto. Ero stanchissimo, come se tutto il peso della giornata mi fosse scivolato addosso all’improvviso. Sentivo le palpebre farsi pesanti, ma ho ricacciato indietro il torpore. “Credo di esserci dentro fino al collo, quindi… Okay.”

“Okay?”

Ho annuito. “Okay.”

 

⭐︎

 

Quel Natale, hai preso un posto tutto tuo, una piccola topaia ad Hammersmith con l’unica finestra incastrata tra una vecchia scala anti-incendio arrugginita e l’angolo del palazzo, una sola stanza con un letto singolo, un tavolo con tre sedie e una cucina bisunta, e un bagnetto un metro per un metro con una vasca ammaccata, e senza finestre. Era soffocante ma era tuo, ed è un po’ diventato anche mio, nei mesi successivi ai nostri M.A.G.O. Era difficile sdraiarsi fianco a fianco su quel lettino, ma ci piaceva dormire abbracciati, le gambe intrecciate e il mio viso raccolto nell’incavo del tuo collo, oppure il tuo corpo dietro il mio, le tue braccia a tenermi stretto per la vita e il tuo naso nascosto tra i miei capelli, anche i miei troppo lunghi. Ero sempre con te quando gli incubi ti svegliavano nel cuore della notte e urlavi il nome di tuo fratello e poi, da sveglio, lo negavi, negavi che ti legasse a Regulus qualcosa di più del sangue, che per te ormai aveva perso importanza, se mai ne aveva avuta, negavi di volergli bene e di temere per la sua vita, quando l’ultima cosa che ricordavi di Grimmauld Place erano gli occhi di tuo fratello, troppo magro, alto, vestito di scuro, in piedi al fondo delle scale, le braccia lungo i fianchi, mentre ti guardava andare via, una borsa in spalla e nulla da rimpiangere dietro la schiena. I suoi occhi, verdi e grandi e pallidi, ma pieni zeppi di paure senza nome e fantasmi intrappolati in caverne che erano come un presagio, ti assillavano nel cuore della notte, quasi ogni notte, e non riuscivi a riaddormentarti se prima non ci incastravamo l’uno dentro l’altro, sudati di disperazione, affranti per un passato che nessuno dei due era in grado di cambiare e per un futuro che entrambi speravamo di salvare. 

 

Ti lasciavo solo una volta al mese, con la luna piena. Allora tornavo a casa mia e mi chiudevo in cantina, dietro una spessa porta chiusa da pesanti catene, e buttavo fuori tutto me stesso, unghie, denti e sangue. Quando tornavo da te, mi prendevi per mano e mi conducevi in bagno, riempivi la vasca da bagno dove stavo stretto, dovevo accovacciarmi, e le ginocchia, strette al petto, affioravano dall’acqua, e mi lavavi via ogni tormento, toglievi lo sporco, accarezzavi i lividi, disinfettavi le ferite e mi lasciavi piangere in silenzio, sempre in silenzio. Avevi imparato a stare in silenzio anche tu. Forse avevi persi tutte le parole. Dopo mi portavi a letto e mi baciavi ogni livido, uno per uno, quelli vecchi che stavano svanendo, così come quelli nuovi, e mi facevi addormentare carezzandomi i capelli come si fa con i bambini, e le tue braccia diventavano come una culla, e la notte faceva un po’ meno paura. 

 

Ho fatto lo stesso con te, o almeno ho cercato, una notte in cui siamo tornati da una missione per conto dell’Ordine, e il puzzo di morte e di magia oscura ci impregnava la pelle, e gli abiti, e i cuori. Eri conciato male, anche se non avevi nulla di grave, tua cugina Bellatrix aveva cercato di farti fuori e tu avevi reagito come tuo solito, sprezzante della morte, il coraggio impavido della giovinezza dietro gli occhi, la bacchetta spianata. Regulus era già morto, e i suoi occhi verdi avevano smesso di assillare le tue notti. Tu li avresti rivoluti indietro, ma loro erano svaniti, proprio come tuo fratello. Quando siamo tornati a casa, ti ho spogliato davanti alla vasca, ma a te non interessava fare il bagno. Mi hai baciato con foga, mordendo e leccando, denti contro denti, finché non mi hai spinto sul letto e mi hai divorato, ingoiandomi dalla punta e fin sù, e poi ti sei seduto sopra di me, le tue gambe strette ai lati dei miei fianchi, forti e muscolose, e io ero dentro di te, ma eri tu a dettare il ritmo, eri tu a spingerti in avanti, sempre più in avanti, dritto nel precipizio, aggrappato alla spalliera di quel letto troppo fragile, mentre una luce canina ti brillava nello sguardo, e non eri più solo Sirius, ma eri Padfoot, quella fiera scura e assetata che correva nella notte a caccia di spettri. 

 

⭐︎

 

Spettri che, ancora oggi, mi vengono a cercare, si annidano negli angoli e attendono di saltarmi addosso, mentre tu non ci sei, perché te ne sei andato, Sirius, perché è arrivata quella parte in cui “non è colpa tua, ma è mia”, e mi hai lasciato, solo in questa casa troppo tua — troppo nostra — che un giorno ho deciso di chiudere, ho chiuso la porta e vi ho chiuso dentro anche il dolore, quella stilla di dolorosa amarezza e rimpianto, quella coltellata fatta di tante piccole morti, qui e là, a imbrattarmi l’anima, a perseguitare le mie notti, vi ho chiuso dentro l’amore che provavo, e i ricordi che abbiamo costruito, e la base di quel mondo che, forse, non era poi così lontano, ma per il quale hai pagato un prezzo altissimo, per il quale tutti abbiamo pagato. 

 

Da quella sera estiva a Grimmauld Place di tanti anni prima, eri solito disegnare un altro tipo di stelle. Avevi cominciato a disegnare stelle sulle mie cicatrici, attorno ai graffi rossi e suppuranti, accanto agli screzi che non sarebbero guariti più, accanto ai segni bianchi indelebili e impressi, memento di ciò che ero, e che sarò sempre. In questi anni, ho smesso di esistere, senza di te, ho smesso di essere Remus Lupin, senza Sirius Black. Le stelle, però, quelle non se ne sono andate, quelle sono rimaste. Continuerò a cercarle dietro le mie palpebre, strizzando forte gli occhi e attendendo, come quando ero un bambino e mi rannicchiavo dietro il capanno di mio padre, le ginocchia sporche di erba e terra; continuerò a cercarle nei cieli là fuori, che ci sia tempesta o quiete, estate e inverno, nelle eterne coltri e nelle scie delle comete, e dritto in alto, verso Sirio, la stella più splendente di tutte. Continuerò a cercare le stelle, ma le troverò sempre e solo sulla mia pelle, laddove non sono mai svanite. 

 

 

“you drew stars around my scars
but now I’m bleedin’.”
Taylor Swift, ‘cardigan’

   
 
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