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Autore: Dslock01    01/06/2021    0 recensioni
Maya ha appena dodici anni quando, dopo aver perso il padre in un incidente d’auto, viene inviata dalla madre in un misterioso luogo che i suoi abitanti chiamano Santuario.
È lì che Maya scopre che sua madre, prima della sua nascita, è stata una grande Maestra delle Arti Mistiche, persone dalle capacità straordinarie che proteggono l’universo dalle minacce provenienti dalle altre dimensioni.
Comincia così un lungo addestramento che, dieci anni dopo, la porterà a divenire una potente Maestra.
Tuttavia, dopo la misteriosa scomparsa degli Avengers e, di conseguenza, del suo maestro, Maya si ritroverà da sola a gestire una nuova minaccia proveniente dall’universo: Vither.
Vither, braccio destro di Thanos, è sopravvissuta alla distruzione della forma fisica delle Gemme dell’Infinito e ora si sta dirigendo verso la Terra per recuperare le reincarnazioni viventi delle Gemme, dei bambini di appena sei anni.
Riuscirà Maya, insieme ai compagni che è riuscita a reclutare, a fermare Vither?
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Agente Maria Hill, Altri, Doctor Stephen Strange, Nuovo personaggio
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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23 marzo 2035,
New York City.


«Donna. Quarant'anni. Incidente d'auto con conseguente compressione del torace e frattura multipla delle costole. Sospettata perforazione di organi interni dovuta al tessuto osseo danneggiato. Condizioni critiche: si richiede urgentemente una sala operatoria per estrarre le schegge ossee nel tentativo di salvarle la vita», concluse il medico con professionale freddezza

In testa alla barella che trasportava il corpo martoriato di quella povera donna, il dottore non poté fare a meno di domandarsi se fosse possibile salvarle la vita.

Probabilmente le ossa spezzate avevano già perforato il cuore e i polmoni, ma come la prima lezione di medicina universitaria gli aveva insegnato, avrebbe fatto del suo meglio per salvarla.

La lettiga imboccò l’ennesimo corridoio piastrellato di bianco.

Il medico dovette scuotere la testa per schiarirsi la mente e concentrarsi sulla sua paziente.

Diede un’occhiata al suo elegante orologio da polso e tirò un sospiro di sollievo.

Sei e trenta.

Per fortuna, l’ospedale non era affollato a un’ora tanto mattutina.

«Dottor Owen, cosa dobbiamo fare con la bambina?», gli domandò l’infermiera più vicina.

Indicò con una mano avvolta in un guanto di lattice una ragazzina che seguiva silenziosamente la loro barella.

«Quella è la figlia?», domandò, confuso.

Difatti, la piccola non somigliava affatto alla donna in bilico tra la vita e la morte, distesa su quella barella.

La madre possedeva un fisico asciutto, lunghi capelli di un naturale biondo e una carnagione pallida.

Il medico immaginò che gli occhi, ora serrati per la sofferenza, fossero di una tonalità chiara come l’azzurro o il verde.

Quella ragazzina, invece, era caratterizzata da corti capelli castani scuri legati ai lati della nuca in due piccole code, bassa statura e occhi di una tonalità molto scura.

Evidentemente, la bambina aveva ereditato i tratti fisici del padre…

A quel pensiero, un nuovo dubbio si insinuò nella sua mente.

«Che fine ha fatto il padre?», s’informò.

Il paramedico, posto sulla parte posteriore della lettiga, sollevò gli occhi nella sua direzione e negò con il capo.

«Morto sul colpo», aggiunse. «Dobbiamo considerare un miracolo che la bambina non si sia fatta nulla. Siamo stati costretti a portarla con noi sull’ambulanza perché non voleva separarsi dalla madre.»

«Un miracolo vivente», tagliò corto, facendo cenno a una giovane stagista di avvicinarsi.

«Sì, Dottor Owen?», gli domandò la giovane, una volta raggiunta la barella.

«Fammi il piacere di occuparti di questa ragazzina mentre noi cerchiamo di salvare la vita alla madre, grazie.»

La donna, una graziosa biondina dai fianchi rotondi, annuì, si piegò gentilmente all’altezza della piccola quando questa le passò dinnanzi e l’afferrò per gli avambracci.

«Piccola, devi venire con me», le sorrise. «Lasciamo che i medici si occupino di tua madre mentre ci prendiamo qualcosa di caldo, va bene?»

La bambina tentò di divincolarsi dalla presa della stagista per riprendere l’inseguimento della barella che si stava rapidamente allontanando, quando la donna intensificò la stretta.

«So che è difficile», le sussurrò, «ma non puoi fare nulla per aiutare tua madre. Resta qui e aspetta che il personale medico faccia il suo dovere.»

Stretta fra le braccia della donna, la ragazzina seguì impotente la lettiga con lo sguardo finché non scomparve alla sua vista, poi scoppiò in lacrime.

Presa alla sprovvista, la stagista la strinse forte a sé, nel tentativo di consolarla.

D’istinto, la ragazzina seppellì il volto nel camice della donna e continuò a singhiozzare per diversi istanti, sporcando di muco e lacrime il tessuto azzurro.

«Su, piccola, calmati. Piangendo non aiuterai la tua mamma», la richiamò la stagista, carezzandole i corti capelli castani, memore dei gesti che sua madre era solita ripetere durante i suoi momenti tristi.

Le sue parole ottennero presto l’effetto desiderato: la bambina sollevò gli occhi gonfi di pianto in direzione del suo viso e tirò su con il naso.

«Credi che la mamma possa davvero riprendersi?», domandò con voce nasale.

La stagista le rivolse un sorriso radioso.

«Ne sono sicura, piccola. Il Dottor Owen è uno dei migliori chirurghi. Grazie a lui, tua madre sarà di nuovo in piedi in men che non si dica», rispose.

Poi, notando che la ragazzina teneva gli occhi puntati sulla macchia bagnata generata dalle sue lacrime, si sbrigò ad aggiungere: «Non preoccuparti per questa sciocchezza! Ho centinaia di camici. Ora, poiché credo che il tuo nome non sia “piccola”, desidero sapere come ti chiami.»

La ragazzina annuì subito, asciugando gli ultimi residui di lacrime con la manica della maglia nera che indossava al di sotto di una larga salopette di jeans.

«Mi chiamo Maya McInnos. Tu?», si presentò, porgendole una mano.

La donna le strinse con forza la mano.

«Il mio nome completo è Laura Mary Green, ma puoi chiamarmi Lou.»

Maya assentì con un cenno del capo e si sforzò di sorriderle, quando il suo stomaco emise un famelico brontolio.

La donna trattenne a stento una risata mentre guance della giovane si tingevano di rosso per l’imbarazzo.

«Immagino che tu non metta del cibo sotto i denti da un bel po’. Che ne dici di un buon sandwich? Di là, in sala ristoro, ho tutto ciò che occorre», propose.

Si allontanò lungo il corridoio, nella direzione opposta a quella imboccata dalla barella.

Maya le trotterellò dietro, affamata.

“La mamma non se la prenderà se mangio qualcosa”, si disse, “solo per qualche istante e, quando uscirà, sarò lì ad aspettarla”.

Mentre procedevano lungo quella corsia, Maya ebbe la possibilità di guardarsi intorno: il pavimento e le pareti erano caratterizzati dalla stessa tinta grigiastra mentre sul soffitto, di una tonalità più chiara, erano sistemate delle lampade al neon, distanti l’un l’altra alcuni metri.

Sedie di plastica rossa e tavoli bianchi dov’erano sistemate alcune riviste completavano l’opera.

Maya sospirò, costringendosi a distogliere lo sguardo dall’arredamento.

Quel grigiore contribuiva solamente a farla sprofondare ulteriormente nella tristezza.

Lou accelerò improvvisamente il passo e Maya fu costretta a correre per starle dietro.

Imboccarono rapide un secondo corridoio identico al precedente e, successivamente, si fermarono dinnanzi a una camera che riportava sulla porta la targa: “Area di ristoro-Ammesso solo personale ospedaliero”.

La donna spalancò la porta con una mano e fece cenno con il capo a Maya di entrare.

La ragazzina non esitò a varcare la soglia, seguita a breve distanza da Laura.

La sala di ristoro era una camera pratica, dalle pareti tempestate di poster appartenenti al personale.

Era caratterizzata da un ampio frigorifero dov’era contenuto il cibo da consumare durante le pause e alcuni tavoli dall’aria comoda dove accomodarsi.

In quel momento, nella stanza erano presenti soltanto un paio di infermiere dall’aria simpatica che discutevano animatamente con quello che Maya riconobbe come un paramedico.

I tre sembravano così presi dalla loro conversazione da non accorgersi neppure del loro arrivo.

Curiosa, Maya tese l’orecchio per origliare qualche stralcio della loro conversazione.

«...Giuro di non aver mai assistito a qualcosa del genere. L’auto era praticamente distrutta, ma quella bambina è rimasta illesa, come se uno scudo o una cosa simile l’avesse protetta.»

«Sì, ho visto anch’io com’era ridotto il conducente. La testa si è praticamente spaccata in due! Spero soltanto che non abbia sofferto quando è morto. Mi chiedo soltanto se l’altra vittima riuscirà a salvarsi...»

La giovane percepì il cuore sprofondarle nel petto.

Morto…

Il suo papà era morto!

Il suo papà era morto e nessuno aveva avuto il coraggio di dirglielo!

Percepì le lacrime salirle di nuovo agli occhi, ma questa volta non fece nulla per reprimerle.

Com’era potuto accadere?

Il paramedico a cui aveva chiesto chiarimenti sulle condizioni del suo papà le aveva assicurato che il genitore non era in pericolo di vita.

Sentì la rabbia montarle dentro, affiancandosi al suo dolore.

Perché quell’uomo aveva deciso di mentirle?

Credeva forse che avrebbe dato di matto?

Credeva forse che nasconderle una verità del genere l’avrebbe aiutata?

Richiamati dai singhiozzi, i tre avventori si voltarono nella sua direzione.

L’uomo le riservò un’occhiata carica di confusione prima di strabuzzare gli occhi.

«Quella è la ragazzina di cui vi stavo parlando. Visto? Non racconto balle, io!», esclamò, additandola.

«Ti sembra questo il momento di gridare ai quattro venti che hai ragione? Non vedi che la ragazzina sta soffrendo!», lo fulminò l’infermiera più corpulenta, assestandogli una pacca sulla nuca.

Nel frattempo, Lou si era avvicinata nuovamente alla giovane e l’aveva guidata verso la sedia più vicina.

«Su, piccola, non piangere! Questo non aiuterà i tuoi genitori», ripeté, nel tentativo di consolarla.

Maya non le rispose, limitandosi a seppellire il viso fra le mani e continuare a piangere, incurante delle persone che la circondavano.

Cos’avrebbe fatto ora?

Il suo papà non c’era più e la sua mamma lottava disperatamente per restare in vita.

A quel pensiero, l’ennesima domanda si materializzò nella sua mente.

Cosa sarebbe accaduto se anche sua madre fosse morta?

Si sarebbe ritrovata sola, orfana...

Subito, il volto sorridente del padre si materializzò nella sua mente.

I suoi ridenti occhi castani, i capelli profumati di gel sistemati sempre all’indietro, il sorriso sghembo che le riservava in ogni occasione…

Come avrebbe potuto vivere senza il suo papà?

Lou tentò di scuoterla nuovamente, quando la più corpulenta della infermiera scosse la testa con forza.

«Lasciala in pace per un po’. È un bene che si stia sfogando in questo modo. Il dolore impiegherà meno tempo ad attenuarsi.»

In quell’istante, il cellulare del paramedico emise un lungo fischio, annunciandogli la fine della sua pausa.

L’uomo salutò quindi le tre colleghe con un cenno del capo e uscì, il telefonino stretto nella mano destra.

Poco dopo, anche le altre due donne lasciarono la sala di ristoro per intraprendere un nuovo turno.

Lou prese posto accanto a Maya, torcendosi nervosamente le mani.

Nonostante fosse la primogenita di una numerosa famiglia, non aveva mai dovuto consolare uno dei suoi fratelli in un’occasione simile.

Cos’avrebbe dovuto fare?

Insistere o abbandonarla semplicemente al suo dolore?

Maya cambiò posizione sulla sedia: con le gambe portate al petto, la ragazzina aveva appoggiato la fronte sulle ginocchia e si era nascosta gli occhi con le mani.

Malgrado non potesse vedere i suoi occhi, Lou comprese dai suoi singhiozzi che la giovane stava continuando a piangere.

Sospirò e, seguendo il consiglio della collega, decise di lasciarla un po’ sola a sfogarsi.

Quello, rifletté, era l’unico modo in cui poteva aiutarla in quel momento.

Si alzò e mosse qualche passo verso l’uscita, lo sguardo fisso sulla ragazzina in lacrime.

«Se mi cerchi sono in infermeria a compilare un po’ di scartoffie. Non esitare a chiamarmi in caso di necessità», l’avvisò, chiudendosi la porta alle spalle.

Maya, distrutta, continuò a piangere per ore prima che la stanchezza avesse la meglio, costringendola a cadere in un sonno privo di sogni.



* * *



23 marzo 2035, 5:00 P.M.,
New York City.


«Svegliati, Maya, svegliati», la chiamò una voce familiare.

La ragazzina spalancò gli occhi e stiracchiò i muscoli doloranti, dovuti alla scomoda posizione in cui si era assopita.

«Mamma», mormorò ancora assonata. «Sei tu?»

Poi, quando i ricordi delle precedenti ore le tornarono alla mente, la ragazzina si ritrovò a darsi della stupida.

Sua madre era in sala operatoria.

Come avrebbe potuto svegliarla?

«Certo che sono io!», esclamò nuovamente la voce. «Non riconosci neppure la voce della tua mamma?»

Maya sobbalzò, spiazzata.

Che il dolore per la morte del padre l’avesse fatta impazzire?

«Tu non puoi essere mia madre! Il dottor Owen la sta operando in questo momento!»

«Sì», rispose la voce, improvvisamente stanca. «So benissimo cosa sta accadendo al mio corpo fisico, piccola.»

La ragazzina non poteva credere alle sue orecchie.

Corpo fisico?

Di cosa diamine stava parlando quella voce?

«Io sono…confusa», ammise infine. «Come puoi essere qui se ti stanno operando? È perché riesco a udire solamente la tua voce?»

Silenzio per qualche istante, poi uno scintillio si materializzò dinnanzi agli occhi di Maya.

Con le sopracciglia aggrottate, la ragazzina tentò di avvicinarsi, quando il luccichio scomparve, sostituito da una figura umana dai tratti abbozzati.

Sconvolta, Maya indietreggiò di diversi passi, fermandosi solo quando la sua schiena batté contro la parete.

Occhieggiò la porta in cerca di una via di fuga, ma la figura si era sistemata proprio di fronte all’uscio, in modo da impedirle di scappare.

Atterrita, la ragazzina osservò la figura evanescente levitare nella sua direzione.

«Maya», la rimproverò la figura. «Davvero non riesci a riconoscere tua madre?»

«Tu non sei la mia mamma!», le gridò contro la giovane. «Lei non è un fantasma o qualsiasi cosa tu sia!»

La figura evanescente ridacchiò e si avvicinò di qualche altro metro.

Spaventata, Maya tentò di scivolare lungo la parete, in modo da raggiungere la porta, ora libera, e chiedere aiuto.

«So che è un po’ complicato da capire, ma quella che vedi è la mia Proiezione Astrale. In pratica, quel che ora sta parlando con te è il mio spirito. Ora, se mi concentro ancora un po’, dovrei assumere una forma più precisa», le spiegò la figura con pazienza.

Lentamente, i suoi tratti fisici andarono affinandosi, abbandonando la loro confusa forma: i capelli iniziarono ad allungarsi e tingersi di biondo, gli occhi assunsero una leggera colorazione azzurra, il fisico si fece più magro, mettendo in risalto il seno e i fianchi ben definiti.

Ben presto, agli occhi di Maya comparve la figura evanescente di sua madre, fasciata in quello che riconobbe come un camice da paziente.

«Ora va meglio?», le domandò la proiezione astrale, le mani premute sulle anche.

La figlia annuì tremante e si protese d’istinto per abbracciarla, concludendo con lo stringere fra le braccia null’altro che aria.

«Mi dispiace, piccola, ma questa è solo una proiezione. Volevo dirti che la mia operazione sta andando alla grande e che mi riprenderò molto presto», le annunciò con un sorriso.

Maya sorrise, raggiante.

«Ma è grandioso!», esultò. «Quando ti dimetteranno voglio...»

«Tuttavia, desidero che tu vada a vivere con alcuni miei conoscenti mentre sarò in riabilitazione», continuò la madre, interrompendola. «Si tratta di una piccola famiglia. Sono davvero simpatici e ti divertirai molto con loro.»

In risposta, la ragazzina gonfiò le guance, seccata.

«Non ho voglia di andare a vivere con zia Flora e i suoi odiosi gemelli! Non fanno altro che discutere fra loro delle cose più stupide e mi prendono sempre in giro», protestò.

La donna negò con il capo, trattenendo una piccola risata.

«Non intendevo mandarti da zia Flora, non preoccuparti. Voglio inviarti in un luogo dove ti insegneranno a padroneggiare quello che ora stai vedendo. Dimmi, non ti piacerebbe possedere una forma astrale come questa?», domandò, indicando il suo corpo semitrasparente.

Maya annuì, improvvisamente interessata.

Poteva davvero imparare qualcosa del genere?

La donna assentì a sua volta.

Poi, sotto lo sguardo confuso della figlia, protese il braccio in direzione della parete vicina e, unendo l’indice e il medio, prese a disegnare cerchi con la mano.

Un sottile filo di energia arancione fuoriuscì dalle dita della Proiezione Astrale, disegnando un piccolo e crepitante vortice dalla forma circolare.

Al suo interno, Maya occhieggiò sbalordita il profilo di un edificio piuttosto vissuto dalla vernice color ambrata tendente all’arancione, caratterizzato dalla presenza di molte finestre e un tetto spiovente azzurro scuro.

Sulla parete frontale, un piano sopra l’ingresso, spiccava una grande finestra dalla forma circolare, protetta dall’esterno da una spessa grata dalla strana fantasia.

«Non farti ingannare dalle apparenze», sorrise la madre con dolcezza. «Questo luogo è davvero accogliente e i suoi abitanti sono molto simpatici. Appena supererai il portale, devi chiedere di Strange. Mi raccomando, spiegagli la situazione con chiarezza e non avere paura. Può sembrare un uomo un po’ burbero, ma è davvero buono. Capito?»

Maya annuì, ripetendo mentalmente il nome dell’uomo che avrebbe dovuto cercare.

Non aveva mai sentito parlare di lui, ma dal momento che la sua mamma l’aveva nominato, quell’uomo doveva possedere davvero un buon cuore.

Il vortice magico crepitò e si schiarì leggermente.

“Dannazione!” imprecò mentalmente la proiezione. “Sapevo di essere arrugginita nell’uso della magia, ma credevo di essere in grado di mantenere un portale per più di qualche minuto”.

«Credo sia il momento di separarci, Maya. Ricorda ciò che ti ho detto, comportati bene e studia con costanza. Io verrò a riprenderti quando sarò totalmente guarita», mormorò poi, rivolgendosi alla figlia.

Malgrado si impegnasse a donare alla sua voce un tono allegro, Maya percepì tutta la tristezza che la madre tentava di nasconderle.

«Sei sicura che vada tutto bene, mamma?», domandò.

La donna le mostrò un sorriso smagliante, mettendo a nudo i denti candidi.

«Va tutto a meraviglia, tesoro. Dimmi, ti ho mai mentito?»

La piccola scosse la testa con forza.

«Allora fidati di me ed entra nel portale. Sono sicura che ti divertirai un mondo al Santuario. Ah, ricordati di aggiungere che sei la figlia di Paige McInnos. So che non ci crederai, ma sono piuttosto famosa da quelle parti!», scherzò, prima di indicarle il portale con una mano.

La ragazzina accennò una piccola risata e tentò nuovamente di abbracciare il genitore, ritrovandosi a stringere l’aria fra le braccia per la seconda volta.

Paige piegò leggermente la testa verso destra e allungò una mano in direzione della figlia, sfiorandole un codino castano con le dita.

Maya avvertì un brivido di freddo attraversarle la schiena, ma sopportò in silenzio mentre le dita evanescenti della madre correvano lungo il suo volto per poi fermarsi sul suo mento in un’invisibile carezza.

«Mi mancherai tanto, piccola mia», mormorò, regalandole un leggero bacio sulla fronte.

«Mi mancherai tantissimo anche tu, mamma», rispose Maya, mesta.

Nonostante fosse contenta che sua madre stesse bene, si sentiva davvero triste all’idea di trascorrere del tempo lontana da lei e dal fratello Marcus, rimasto a casa con la baby-sitter.

Il portale d’energia arancione crepitò una seconda volta e Paige fu costretta a interrompere quel contatto, spingendola leggermente verso il vortice.

«Questo è davvero il momento di andare», l’avvisò.

Con gli occhi lucidi di lacrime, Maya annuì ed eliminò i pochi metri che la dividevano dal portale con alcuni passi malfermi.

«Promettimi che tornerai a prendermi. Promettimi che non te ne andrai, come ha fatto papà», mormorò.

Con il cuore in pezzi, Paige si portò una mano al petto e annuì.

«Parola di mamma, tornerò a prenderti. Costi quel che costi», le giurò.

Rassicurata, Maya annuì e si accinse a imboccare il vortice con un solo passo.

La ragazzina scomparve presto alla vista della donna e il portale si richiuse dietro di lei con un crepitio.

Rimasta sola nella stanza, la proiezione astrale di Paige scoppiò in un pianto liberatorio.

Le doleva dannatamente aver mentito alla sua bambina, ma saperla in mani sicura la rassicurava.

Il maestro Strange le avrebbe insegnato la migliore magia e, in caso non fosse sopravvissuta all’incidente, era certa che l’avrebbe aiutata a superare anche la sua perdita.

   
 
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