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Autore: Koome_94    05/06/2021    1 recensioni
[The Falcon And The Winter Soldier
WinterBaron - Bucky x Zemo]
A sei mesi dagli eventi di The Falcon and the Winter Soldier, Zemo si trova ancora prigioniero in Wakanda, in attesa che alla Raft si liberi il posto che gli spetta di diritto. Shuri, tuttavia, non è interamente convinta che la reclusione possa essere davvero una pena valida per un uomo come Helmut Zemo.
Quando una serie di furti di vibranio scuote il Wakanda e anche nel resto del mondo misteriosi individui incominciano a prendere di mira navi cargo e persino le Stark Industries, Sam e Bucky tornano in azione, preoccupati che dietro ai misteriosi avvenimenti si celi di più e per Shuri è decisamente giunto il momento di ricomporre il vecchio trio.
Zemo non può fare altro che accettare, ma è davvero pronto a rivedere James dopo il loro addio a Sokovia? E Bucky è davvero pronto a tornare ad affrontare il dolore negli occhi dell'uomo che aveva giurato di odiare?
Una caccia al tesoro attraverso l'Europa li metterà di fronte a domande difficili e risposte sconvenienti.
Nel frattempo il passato di entrambi è in agguato.
Genere: Angst, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, James ’Bucky’ Barnes, Sam Wilson/Falcon, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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I know it’s too late

As night turns to day

Now there’s no escaping the ghost

Midnight Thoughts - Set It Off

 



 

 

La sera prima si era dimenticato di chiudere le imposte.

Era stanco morto, il jet lag degli ultimi dieci giorni avanti e indietro per il globo e la tensione di tenere Zemo costantemente monitorato lo avevano sfinito e l’unica cosa che desiderava era toccare il materasso e poter finalmente archiviare la giornata.

Certo la città gli era piaciuta, animata da un ritmo completamente differente da quello di New York o di Bucarest e il clima mite e soleggiato gli aveva fatto bene all’umore, ma poter finalmente togliersi jeans e maglietta e sdraiarsi sotto le lenzuola fresche della stanza degli ospiti era stato un sollievo non indifferente.

L’unica cosa era che quella non era la stanza degli ospiti, o per lo meno non lo era sempre stata.

La parete opposta al letto era interamente coperta da una libreria in legno chiaro stracolma di libri e dvd e tappezzata di adesivi di vario genere, apparentemente figurine che Bucky aveva riconosciuto con una punta di sorpresa come figurine degli Avengers. Per lo più si trattava di immagini di Stark, ma ogni tanto saltavano fuori pure Natasha, Thor e Steve.

Aveva capito immediatamente che si trattava della vecchia cameretta di un bambino e improvvisamente occuparne il letto lo aveva fatto sentire sporco, fuori posto, sacrilego. Si era avvicinato alla libreria e aveva scorso i dorsi dei volumi con le dita, soffermandosi di tanto in tanto quando riconosceva dei titoli.

Lo Hobbit se ne stava incastrato accanto al più sottile Il Piccolo Principe, e per un istante Bucky si era ritrovato ottant’anni nel passato, poche manciate di kilometri a nord da quella città che li aveva accolti senza domande.

Aveva ventisei anni e il libricino gli era arrivato assieme a un pacco di lettere da New York, un regalo di sua sorella con una dedica scribacchiata frettolosamente a matita nella prima pagina, sotto al logo della casa editrice.

Lo aveva letto tutto d’un fiato una sera, e poi lo aveva riletto il giorno dopo, e ancora una volta, finché non lo avevano mandato al fronte e i Tedeschi lo avevano catturato. Allora la sua copia fresca di stampa era rimasta indietro, perduta per sempre, e Bucky non ne aveva saputo più niente.

Non lo aveva mai più riletto da allora e improvvisamente aveva sentito una malinconia di fuoco bruciargli le vene al ricordo degli occhi azzurri e irriverenti di sua sorella, dei suoi boccoli castani che cercava sempre con fatica di tenere in posa nella sua acconciatura ordinata.

Per te, cinquecento milioni di stelle.”

Aveva estratto il libro dallo scaffale e ci era rimasto stupidamente male nel non trovare la dedica nella pagina bianca. Chissà se Rebecca era stata capace di trovare conforto guardando le stelle nelle fredde notti di Brooklyn.

Si era voltato verso la porta chiusa, i passi leggeri di Zemo a indicargli che anche lui doveva aver deciso di andare a dormire.

E a lui? Anche per lui le stelle portavano le risate serene di un piccolo principe?

Aveva scosso la testa e rimesso il libro a posto, gettando un’ultima occhiata risentita alla figurina di Steve che lo fissava dalla parete del mobile.

- Non fare quella faccia. - aveva borbottato allo sticker, immaginando il cipiglio di affettuoso rimprovero che l’amico gli avrebbe dedicato se fosse stato lì con lui.

Ma Steve non c’era, e non c’era nemmeno Rebecca.

Non c’era più nessuno.

Aveva spento la luce, si era infilato sotto le coperte e aveva chiuso gli occhi.

Sapeva benissimo che quella notte non avrebbe dormito.

 

 

 

 




 

 

 

L’alba lo accolse con tutti i suoi colori.

Ne vide il blu cobalto ancora aggrappato al manto della notte, lo percepì mutarsi nel bianco perlaceo del respiro che anticipa il salto e poi esplodere di rosa e di rosso proprio dietro all’antico palazzo che dava il nome alla piazza.

Ovviamente non aveva chiuso occhio un istante, se non si contavano quelle due o tre volte in cui la sua coscienza si era affievolita solo per riportarlo alla realtà con uno scrollone, accompagnato da voci e volti che gli rendevano il respiro affannoso e la bocca secca.

Si era arreso definitivamente attorno alle quattro, quando aveva acceso l’abat-jour sul comodino e, irrequieto, era andato a recuperare Il Piccolo Principe dalla libreria. Lo aveva letto tutto d’un fiato come la prima volta e non si era nemmeno accorto delle lacrime che avevano preso a rotolargli giù dalle guance quando era arrivato al momento dell’addio fra i due protagonisti. Aveva voltato pagina e l’illustrazione del paesaggio desertico, vuoto, abbandonato e solitario gli aveva stretto lo stomaco in una morsa dolorosa, mentre le lacrime silenziose si trasformavano in singhiozzi e persino la mano in vibranio prendeva a tremargli.

Rebecca non avrebbe mai potuto immaginare quanto i cinquecento milioni di stelle del Piccolo Principe sarebbero diventati per Bucky una condanna, quanto quello stupido aviatore innamoratosi di qualcosa che non gli apparteneva sarebbe diventato affine a lui, copia carbone non desiderata dell’assurdità dell’abbandono, di capelli biondi come il grano che avrebbe aspettato invano, per sempre.

Si era passato un braccio sul volto nel tentativo di calmarsi e ci era riuscito solo quando dal corridoio aveva udito il suono lieve di una porta aperta e richiusa.

Doveva essere Sam.

Tirò su col naso e cercò di ricomporsi, controllando velocemente la sua immagine riflessa nel vetro della finestra, poi indossò i jeans velocemente e uscì piano dalla stanza, mentre fuori ciuffi di nuvole si incendiavano di luce ancora tenuta al guinzaglio dall’orizzonte.

- Bucky, ma che ci fai in piedi? Ti avevo detto che non era il caso di alzarti! - lo salutò Sam sussurrando per non svegliare il padrone di casa. Probabilmente più una premura rivolta a se stesso che a Zemo.

Lui si strinse nelle spalle e mosse qualche passo verso di lui, appoggiandosi con la spalla al muro intonacato di bianco.

- Figurati se ti lasciavo andare senza salutarti. - ribatté con un mezzo sorriso senza tuttavia guardarlo in faccia.

Non lo vide, ma riuscì a percepire con la coda dell’occhio che Sam aveva aggrottato le sopracciglia.

- Di nuovo gli incubi? - inquisì, abbassando ulteriormente la voce e avvicinandosi a lui.

Bucky sospirò e incrociò le braccia al petto.

- Più o meno. - rispose, sfuggente.

L’amico scosse la testa e gli portò una mano sulla spalla in un gesto protettivo.

- Senti, uomo, avevi detto che erano passati. E’ successo qualcosa? E’ tanto che sono tornati? -

Bucky si sentì un infame: gli incubi non se n’erano mai andati davvero, le uniche notti in cui l’orrore non gli faceva visita nel sonno erano quelle in cui nemmeno il sonno si presentava a lui, e le ore trascorrevano interminabili, spese tutte a contare i secondi e a ignorare i ricordi. Aveva detto a Sam che aveva iniziato a stare meglio solamente per tranquillizzarlo, ma non era vero.

Anzi, se possibile negli ultimi sei mesi la situazione era addirittura peggiorata.

Aveva cercato di riprendere la terapia, la nuova psicologa era sicuramente più di aiuto che quella precedente, ma lo stile di vita vagabondo che conduceva, fra un’indagine e l’altra, rendeva impossibile portare avanti un percorso duraturo, e i benefici delle sedute erano presto svaniti.

- No Sam, tranquillo. Succede ogni tanto, ma niente di grave. - e pregò che nella penombra delle prime luci dell’alba e con la complicità del sonno che gli leggeva in viso l’amico non si accorgesse della sua plateale bugia. Bucky non era mai stato un buon bugiardo, dopotutto.

- Dev’essere la stanchezza accumulata. E poi ieri sera ho mangiato decisamente troppo. - aggiunse sperando di sembrare convincente.

Sam sorrise e tolse la mano dalla sua spalla.

- Zemo sarà anche una serpe, ma la sua pastasciutta credo che me la ricorderò per sempre. -e risero piano tutti e due, perché quella era una tragica verità che non avrebbero mai potuto negare dopo il modo in cui la sera prima si erano avventati sul cibo.

Sam si rabbuiò di nuovo e Bucky faticò a trattenere un sospiro: sapeva benissimo quali sarebbero state le sue prossime parole.

- Per piacere amico, fai attenzione con Zemo. -

- Sam, ormai quelle parole non hanno più effetto su di me. - lo tranquillizzò per l’ennesima volta, ma capì immediatamente di non aver sortito alcun effetto.

- Non è di quello che parlo. Non mi piace come quel tipo riesce a entrare nel cervello della gente. So che sei forte, ma… stai in guardia, ecco. -

Bucky annuì, consapevole che nonostante tutto Sam aveva ragione, poi fu il suo turno di mettergli una mano su una spalla e il gesto si trasformò subito in un abbraccio sentito, seppur frettoloso.

- Fai buon viaggio. -

Sam gli rivolse un sorriso finalmente sincero che gli scaldò il fondo del cuore, mentre recuperava la giacca dall’attaccapanni nell’ingresso e se la buttava sulle spalle.

- Ci sentiamo. - lo salutò, poi aprì la porta e imboccò le scale, sparendo alla sua vista.

Bucky si spostò verso la finestra e diede un’occhiata alla piazza deserta, dove l’Uber di Sam lo fece salire a bordo prima di svanire nel dedalo di strade della città. Salutò con la mano, anche se non era sicuro che dalla strada riuscisse a vederlo, e quando l’auto fu definitivamente scomparsa rimase in piedi di fronte al vetro a guardare il silenzio del mattino.

Il cielo si stava facendo via via più chiaro, l’azzurro che a mano a mano conquistava spazio sopra l’orizzonte mentre poco distante una campana suonava le sei e mezza del mattino.

Bucky trasse un sospiro profondo, poi tornò in corridoio, fermandosi un istante fuori dalla camera di Zemo. Dall’interno non proveniva alcun rumore e ipotizzò che l’uomo stesse ancora dormendo. Meglio così, non avrebbe dovuto fornirgli spiegazioni.

Tornò in camera sua, indossò maglietta e felpa e, ben deciso a dare a quella giornata un inizio sensato, uscì a correre.

Era un’abitudine che aveva recuperato da poco, un suggerimento della psicologa che gli aveva proposto di affiancare l’attività fisica alla terapia. Non era stata una cattiva idea, la fatica fisica riusciva a tenere lontani i pensieri negativi e generalmente aveva almeno l’impressione di aver portato a termine qualcosa di buono nell’arco delle sue giornate tutte uguali.

Non conosceva la città, non sapeva bene dove avrebbe potuto andare, ma poco lontano da casa scorreva placido il fiume e decise che avrebbe approfittato del suo argine per darsi un itinerario. Attraversò la piazza riservando un cenno di saluto al netturbino che era apparso da dietro un angolo dell’antico palazzo e proseguendo verso destra raggiunse finalmente il marciapiede che costeggiava l’Arno.

A mano a mano che correva e i suoi muscoli si risvegliavano, anche la città sorgeva dal sonno, con i primi motorini messi in moto e il profumo caldo del pane appena sfornato. Nel suo tragitto incontrò signore anziane piene di sacchetti e ragazzini stravolti dal sonno che si incamminavano verso scuola con zaini più grandi di loro malamente caricati sulle spalle e inconsapevolmente si ritrovò a sorridere a ciascuno di loro, sogghignando fra sé e sé quando due giovani, probabilmente liceali, lo salutarono e avvamparono in preda a risolini e poco velate gomitate non appena ebbe ricambiato il saluto. Centosette anni e non sentirli, pensò divertito.

Quando il concerto di campane e gli accrocchi di vecchietti fuori dai tabacchini lo informarono che erano già le otto, tuttavia, decise che poteva tornare a casa e non si stupì nemmeno nel trovare Zemo ai fornelli, ancora in pigiama nonostante con la sua stupida vestaglia di seta volesse dare una parvenza di decoro.

- Ah, buongiorno James. Ho supposto fossi uscito per prendere dimestichezza con la città, così mi sono preso la libertà di preparare la colazione per quando fossi tornato. - lo salutò come se niente fosse.

Per un assurdo istante Bucky fu attraversato da un moto di soddisfazione nel constatare che in quell’ora e mezza di assenza da casa Zemo non si era dato alla macchia fuggendo dalla rete fognaria, ma quando se ne rese conto gli sembrò un pensiero decisamente stupido.

- Grazie, credo. - gli rispose in modo ancora più imbecille, avvicinandosi alla penisola e sentendo i morsi della fame alla vista dei biscotti al cioccolato e delle fette di pane bianco pronte per essere tostate. Zemo era sempre così pieno di zelo quando si trattava di cucinare che ogni tanto aveva la sensazione che prima o poi lo avrebbe direttamente avvelenato, come la strega cattiva di Biancaneve o qualcosa del genere.

- Caffè? Tè? Meglio un caffelatte? - continuò l’uomo, assolutamente sereno e ignaro dell’immagine mentale agghiacciante che stava avendo di lui.

- Un caffè va benissimo. Vado… vado a fare una doccia e arrivo. -

Quando tornò in sala, rinfrescato dalla doccia e dai vestiti puliti, Zemo era seduto sul divano, gli occhi castani puntati sulla tv.

- Che dicono? - si informò, riconoscendo l’impaginazione grafica di un notiziario.

L’uomo non rispose immediatamente, si prese qualche istante per attendere che la giornalista finisse di parlare e fosse annunciato un nuovo servizio, poi con una leggera pressione dei palmi sulle ginocchia si alzò in piedi e lo raggiunse alla penisola.

- Niente che già non sappiamo. Furto agli Uffizi, blabla, nessuna traccia dei colpevoli, blabla, niente di anomalo captato dalle telecamere di sorveglianza, forse opera degli Wraiths. -

Bucky percepì nel suo apparente stato di noia un certo grado di preoccupazione che lo mise sull’attenti.

- Sarebbe la prima volta che non colpiscono qualcosa di commerciale. - osservò, bevendo un sorso del caffè che nel frattempo gli era stato versato.

Zemo sbocconcellò un biscotto ricoperto di stelline di zucchero, gli occhi ancora fissi sulla televisione.

- Nessuno ha ancora nominato la natura della refurtiva. O si tratta di qualcosa di assolutamente inutile, oppure di qualcosa di assolutamente occulto. -

Bucky sorrise sarcastico e finì di spalmare la Nutella sul suo toast prima di addentarlo con foga.

- Onestamente non so in quale versione sperare. - commentò a bocca piena.

Zemo ricambiò il sorrisetto e bevve silenziosamente il suo tè.

- Sam è riuscito a partire senza intoppi? - chiese poi e Bucky si sentì messo al muro dall’apparente sincerità di quella domanda, come se davvero a Zemo fosse interessato delle ipotetiche grane del terzo elemento del trio.

- Sì, dovrebbe decollare fra poco, mi ha scritto prima di passare i controlli sicurezza. -

L’altro annuì, ma capì da come non lo stava guardando in faccia che il suo pensiero era concentrato su altro.

- Speriamo che almeno lui trovi qualcosa di concreto negli States. Non ho un buon presentimento. -

Bucky aggrottò le sopracciglia, confuso da quella sortita, ma non appena Zemo si accorse che aveva finito il caffè si alzò in piedi e prese a sparecchiare, in netto contrasto con i suoi soliti modi pacati e imperturbabili.

- Diamoci una mossa, vorrei entrare prima dei turisti. - spiegò.

- Agli Uffizi? - replicò Bucky, perplesso.

- E come pensi di fare? -

Ma dall’espressione saccente sul volto dell’uomo si rese conto che erano ancora tante le cose di Zemo che tendeva a sottovalutare.

Un quarto d’ora dopo, infatti, si ritrovò a seguire i suoi passi decisi lungo il porticato adorno di statue che aveva percorso quella mattina correndo. Non vi era più traccia in Zemo del banale turista che aveva interpretato il giorno prima: adesso indossava un gilet e una camicia chiara, sopra ai quali aveva messo un trench leggero che nonostante il taglio semplice lo rendeva elegantissimo. Bucky si guardò riflesso in un plexiglass e si vergognò dei suoi jeans scoloriti e dell’economica giacca di pelle col cappuccio che si era portato da casa. Sembrava veramente un pezzente.

Cercò di non fare caso al vociare che si era alzato dalla serpentina di turisti in coda quando Zemo li aveva allegramente superati tutti entrando come se non ci fossero stati alle spalle tre tornanti ricolmi di gente in attesa e si affrettò a tenere il passo con lui: aveva la sensazione che se fosse rimasto indietro i vacanzieri lo avrebbero preso d’assalto e smembrato per ottenere un vantaggio sulla posizione nella coda.

- Zemo, che diamine stai…? - ma la domanda gli si spense fra le labbra quando da dietro un vetro del reparto accoglienza una persona saltò in piedi e si affrettò a correre loro incontro.

- Barone Zemo! Che piacerle poterla finalmente rincontrare! Non ci aspettavamo una sua visita, dica, è venuto per la sua collezione? - domandò in un inglese perfetto.

- La tua collezione? - gli sibilò Bucky, mentre l’altro si beava del suo stupore senza premurarsi di nasconderlo.

- C’è Eike? Avrei bisogno di un confronto veloce su alcune questioni che mi stanno particolarmente a cuore. - lo ignorò rivolgendosi all’impiegato, che rispose ossequiosamente che data la situazione questo tale Eike era presente e li avrebbe ricevuti immediatamente.

- Seguitemi. - fece poi al loro indirizzo guidandoli verso un ascensore contrassegnato da un cartello che Bucky intuì fosse la traduzione italiana di privato.

- Chi è Eike? - sussurrò sporgendosi appena verso Zemo mentre aspettavano che le porte dell’ascensore si aprissero.

- Schmidt, il direttore degli Uffizi. Nel 2015 ho devoluto una piccola somma per un progetto di restauro e mi hanno dedicato una collezione. - fece indicandogli con un cenno della testa un piccolo cartello puntato verso il piano superiore che citava “Zemo Collection”.

- Ahimè per lo più pale d’altare del Duecento, non esattamente il mio genere. -

Bucky sgranò gli occhi. A rigor di logica non avrebbe dovuto essere sorpreso, ma continuava a risultargli assurdo che un tizio che aveva incontrato la prima volta vestito da nerd in una prigione in Germania fosse in realtà uno degli uomini più ricchi d’Europa.

- Cosa sei, lo Stark delle Arti? - lo prese in giro.

Zemo scoprì i denti in un sorriso sinceramente orgoglioso.

- Meglio il marmo del vibranio, se permetti. -

L’ascensore li portò ai piani superiori, dove l’impiegato li condusse attraverso una serie di corridoi e porte segrete per poi farli fermare fuori da un antico portone in legno scolpito.

Bussò, entrò e dopo qualche secondo ne uscì nuovamente accompagnato da un uomo paffuto e dalla fronte spaziosa.

- Helmut, mein Freund! - esclamò in tedesco allargando le braccia e stringendolo a sé.

Zemo lasciò fare sotto lo sguardo basito di Bucky, ma ebbe per lo meno la decenza di rispondere in inglese.

- Eike, mio caro, è passato davvero molto tempo! Come stanno le mie pale del Duecento? - fece, palesemente retorico.

- Ah, questo è James Barnes, un mio… - si interruppe, una frazione di secondo che però non passò inosservata al diretto interessato.

- Collaboratore. - concluse Zemo con un sorriso affabile, portando una mano dietro la schiena del direttore e sospingendolo appena verso Bucky.

L’uomo lo fissò un momento a palpebre strette, come a cercare di riconoscerlo da un ricordo sfumato, ma durò solo un istante e non dovette riuscire nel suo intento.

- Buongiorno signor Barnes, è un piacere averla agli Uffizi. -

Bucky annuì e gli strinse la mano.

- Il piacere è mio signor Schmidt. - replicò, ringraziando la sua buona stella di aver chiesto informazioni prima.

Intrattennero ancora qualche minuto di conversazione di circostanza, ma non appena l’impiegato si fu congedato l’atteggiamento di Zemo cambiò così drasticamente che Bucky quasi sussultò.

- Allora Eike, parliamoci chiaro. L’altro giorno mi sono permesso di versare un bonifico alla Fondazione. Una sciocchezza, capirai, un gesto di affetto per i cari amici degli Uffizi. Chiaramente, con il weekend di mezzo, la banca non ha ancora terminato la transazione, per cui… ecco, è spiacevole doverne discutere, ma… Non so se mi sento così tranquillo a destinare il mio patrimonio a un istituto che non riesce a proteggere i suoi interessi. Non so se mi spiego. -

Schmidt sbiancò, le guance paffute a tremare appena mentre l’aria entrava nella bocca per poter replicare in qualche modo.

Bucky stette ad osservare, ammirato. Non era necessaria quella velata minaccia, ma di certo aveva ottenuto la più totale collaborazione da parte dell’uomo.

- Se ti riferisci agli Wraiths, è ancora tutto da verificare. Il furto è una sciocchezza, è la stampa che ha montato tutto questo caso mediatico. - si affrettò a comunicare.

La presa di Zemo sulla spalla dell’uomo si fece un poco più opprimente, tanto che Bucky percepì il cambio di ritmo nella sua respirazione.

- Spero che questa sciocchezza non appartenga alla mia collezione. - fece, la voce come velluto ruvido.

- No, Helmut, assolutamente. Saresti stato informato subito. Ti dico che si tratta di una sciocchezza, davvero. Un prestito temporaneo, non era nemmeno in esposizione. Non ho idea del perché l’abbiano rubato, non è ancora nemmeno stata verificata la paternità, le analisi dovevano iniziare mercoledì… -

- Di che articolo si tratta? - si intromise Bucky, stufo di tutti quei sottintesi da sapientoni.

Zemo spostò lo sguardo dal direttore a lui senza muovere nessun altro muscolo e per un assurdo momento temette di aver fatto un colossale passo falso, ma quando il suo collaboratore lasciò la presa capì che forse la sua imbeccata non era stata priva di valore.

Eike si sistemò nervosamente la cravatta ed espirò dal naso.

- Un manoscritto del Quattrocento. Un trattato di Alchimia, parrebbe uno dei testi perduti di Pico della Mirandola. Credo poco in questa storia onestamente, gli studi cabalistici erano più un divertissement che altro, è più probabile che si tratti di un falso per tirare su qualche spicciolo. Ma a quanto pare i nostri ladri ci sono cascati in pieno. E dire che si sono anche presi la briga di andare fin giù nel seminterrato! -

- Ma non è stato decretato un falso. - lo interruppe bruscamente Zemo, mentre a Bucky un fastidioso brivido risaliva la schiena fino alla nuca. Temeva di aver capito dove volesse andare a parare.

- Beh, no, ma sarebbe bastato aspettare qualche giorno. - ribatté l’uomo, velatamente irritato.

Zemo fu svelto a sciogliersi in un sorriso accomodante.

- Ma certo, un’altra Testa di Modigliani! Gli Italiani sono un grande popolo, ma si perdono davvero in un bicchiere d’acqua… - scherzò accondiscendente e il brivido di Bucky si trasformò in una vera ondata di terrore quando si accorse che, qualunque cosa volesse dire, quell’ultima battuta era stata fatta espressamente per distogliere l’attenzione dal discorso precedente.

- Dovete fare attenzione, amico mio. Il furto di un falso non è niente, ma nella fuga qualcosa avrebbe potuto rompersi… Che ne so, una statua, una cornice, un rapporto di fiducia… - poi rise di nuovo, battendogli una pacca sulla spalla a denotare che scherzava.

Scherzava davvero? Bucky lesse senza difficoltà quell’interrogativo negli occhi azzurri del direttore, ma presto ogni tensione svanì nel nulla proprio come dal nulla era arrivata.

- Allora, che ne dici, posso far fare un giro delle collezioni al signor Barnes, qui? E’ la sua prima volta a Firenze. -

Schmidt sorrise, il primo sorriso reale da quando avevano intavolato quella bizzarra conversazione.

- Ma certo, se volete vedere qualche collezione non in esposizione ovviamente dite che vi autorizzo. Ora scusatemi, vi accompagnerei ma fra pochi minuti ho un intervista per la Rai. Maledetti giornali… - borbottò.

Zemo scosse la testa, la scena madre che gli sarebbe valsa un Oscar.

- Terrificanti. Quanta pazienza ci vuole, mio caro Eike… Quanta pazienza… - e quando l’uomo li ebbe salutati e fu nuovamente sparito dietro il portone del suo ufficio, il ghigno sul volto di Zemo era come uno squarcio.

Si concessero davvero il successivo paio d’ore per fare una visita gratuita del museo, Zemo non aveva alcuna intenzione di perdere l’occasione e Bucky dovette convenire che era un’ottima guida, perfettamente edotto sulla maggior parte delle opere e decisamente appassionato nel raccontargli la loro storia e la loro importanza. Ancora una volta nulla che avrebbe dovuto stupirlo, eppure Bucky continuava a sorprendersi della poliedricità di quell’individuo.

- Comunque non era il caso di minacciarlo. - fece rompendo il silenzio quando furono usciti dal museo, l’aria fresca della primavera di nuovo ad accarezzare i loro volti.

Zemo si voltò in sua direzione con aria divertita.

- Ammettilo, ti è piaciuto! - esclamò, allargando appena le braccia.

- E poi conosco Eike, in questi casi ha bisogno di essere… come dire, incentivato. -

Bucky roteò gli occhi, ben lontano dal volergli concedere la ragione su alcuna delle due parti del discorso, e si concentrò su altro.

- Tu sai che cos’è quel manufatto, vero? - domandò con più serietà.

Zemo, accaldato dal sole di mezzogiorno, si sfilò il trench e lo appoggiò distrattamente all’avambraccio. Il suo sguardo allegro di poco prima si era nuovamente rabbuiato.

- Quando ho iniziato a interessarmi ai fascicoli dell’Hydra sono saltate fuori molte cose interessanti. Come sai sia Hitler che la sua divisione scientifica per eccellenza erano particolarmente ossessionati dall’occulto. Una delle varie leggende a cui avevano iniziato a lavorare gravitava attorno a Giovanni Pico della Mirandola, un filosofo italiano attivo verso la fine del Quattrocento. Le voci di corridoio sostenevano che alcuni dei suoi ultimi manoscritti, trafugati in occasione del suo omicidio, trattassero appunto di Alchimia e di qualche tentativo di sfidare le leggi della Fisica per non so quale scopo. Era un qualcosa di completamente scollegato da ciò di cui avevo bisogno per il mio obbiettivo, quindi non mi interessai più di tanto. - ammise, un poco in imbarazzo per quanto un uomo come Zemo potesse imbarazzarsi.

Bucky scosse la testa e si passò una mano fra i capelli corti in un gesto nervoso.

- Se l’Hydra se ne stava occupando significa che c’era sicuramente un fondo di verità, ma… l’Hydra è stata distrutta, non può trattarsi di loro, vero? - non si accorse di quanto l’ultima domanda fosse suonata disperata, e non si accorse nemmeno del fremito sulle labbra di Zemo.

- Non possiamo essere certi di nulla, James. - si limitò a rispondergli.

Tacque per un paio di istanti, poi gli si fece più vicino.

- Conosco una persona che potrebbe aiutarci, è un appassionato del Rinascimento italiano, un gran collezionista. E… - si congelò, gli occhi sgranati e la bocca una linea retta che pian piano si curvava verso l’alto in un sorriso lontanamente folle.

- Zemo? -

- Ce l’ha lui. - disse solamente.

- Di che cosa stai parlando? -

- La sua collezione! Ormai si tratta di secoli fa, ma ricordo che una volta ci aveva tenuti ore e ore a parlare di questo manoscritto che giurava fosse autentico, una parte due di un volume più ampio che però non era stato capace di trovare intero. Un trattato sull’Alchimia, James! Ecco dove colpiranno gli Wraiths la prossima volta! -

Bucky fece istintivamente un passo indietro, spaesato da quella reazione così entusiasta.

- Come puoi esserne certo? Non sappiamo nemmeno con certezza se il furto agli Uffizi è stato opera loro! -

Ma la luce nuova negli occhi di Zemo lo ridusse al silenzio.

- Ti fidi di me? - domandò, e per un momento Bucky si sentì davvero in dovere di rispondergli.

- Fammi fare qualche telefonata e vedrai. - gli assicurò, voltandosi di scatto verso la Loggia.

- Mi scusi! - esclamò in inglese a una coppia di giovani turiste che aveva letteralmente travolto nel movimento.

- Ma figurati, tanto sono incorporea! - replicò una delle due, sarcastica, mentre Bucky si dissociava alzando le spalle e mimando uno “scusatelo” con le labbra mentre l’indice destro andava a roteare accanto alla tempia.

Le due ridacchiarono, già dimentiche dell’impatto, e con un sorrisetto ammiccante Bucky proseguì sulla scia di Zemo.

- Ti ricordo che siamo in missione e io sono in libertà vigilata. Stiamo lavorando, non siamo venuti per flirtare. - lo rimbeccò Zemo, tagliente.

- Ora siediti qui e aspetta mentre telefono. Ci vorrà un po’. -

Zemo fu di parola. Impiegò all’incirca una quarantina di minuti ad ottenere quello che cercava, chiamando persone che Bucky non aveva mai sentito nominare, mentre lui continuava a scambiarsi occhiate divertite con le due ragazze di prima che erano riapparse una decina di minuti dopo con due kebab e si erano sedute esattamente di fronte a loro dall’altra parte della Loggia.

Fu dopo un altro paio di tentativi che finalmente riuscì ad ottenere quello che cercava, facendo partire la chiamata con aria solenne.

Quando però dall’altra parte rispose in italiano una voce piuttosto anziana, il volto di Zemo si illuminò.

- Francesco! Come stai? Sono io, Helmut! - esclamò a sua volta in italiano.

Bucky sperò che avesse il buon cuore di passare all’inglese, ma il concetto di buon cuore era chiaramente qualcosa di alieno a quell’uomo.

- Helmut, ragazzo mio! Che piacere sentirti! Quanto tempo è passato? Mi sembra una vita! Come sta Helena? E Carl? Deve essere diventato proprio grande! Lo hai iscritto all’Università? -

Il volume della chiamata era abbastanza alto perché Bucky, seduto accanto a lui, potesse sentire tutto, ma ovviamente non capì nulla se non una manciata di nomi di persone, probabilmente loro vecchie conoscenze.

Istintivamente incuriosito si voltò verso Zemo, ma quando posò lo sguardo sul suo volto accadde qualcosa di strano.

Gli occhi castani dell’uomo erano sgranati e fissi davanti a lui, le pupille improvvisamente minuscole, e il volto si era fatto pallido di colpo.

Zemo aveva la bocca socchiusa, ma non ne stava uscendo alcun suono e di certo non notò l’espressione vagamente preoccupata di Bucky accanto a lui.

- Io, ehm… Senti, sono in città per affari con una persona, mi piacerebbe fare un salto a salutarti e magari raccontarti un po’ di cose, dici… dici che si può fare? -

Bucky continuava a non capire nulla della conversazione, ma si era accorto che Zemo aveva preso a balbettare.

Che cosa gli aveva detto lo sconosciuto da ridurlo in quello stato?

Non intervenne finché l’uomo non ebbe riagganciato, ma quando Zemo tornò a voltarsi verso di lui sembrava che ogni traccia di disagio fosse già sparita dal suo volto, sostituita da un sorriso trionfante.

- Ci ho rimediato una cena nella sua villa, stasera alle nove. -

Bucky annuì. Una parte di sé avrebbe voluto chiedergli se andasse tutto bene, ma era un istinto stupido: che senso avrebbe avuto? Zemo non era Sam. Non erano amici. Era solo, ancora una volta, un mezzo per il suo fine, una persona pericolosa che fino a quel momento aveva solamente saputo ferirlo.

Si scrollò di dosso quel malsano istinto alla compassione e tornò a guardare Zemo negli occhi, pronto ad ascoltare cos’altro avesse da dirgli.

- Non possiamo certo andarci così però. Voglio dire, sembri uno scappato di casa, Francesco non ti farebbe nemmeno entrare. Ti ci vuole qualcosa di più elegante. - decretò squadrandolo da capo a piedi, come se già quella mattina al cospetto di Schmidt non si fosse sentito sufficientemente inadeguato.

- Zemo, non ho assolutamente niente di elegante con me. - decretò, tetro.

L’uomo non si fece perdere d’animo e con un cenno del capo gli indicò la strada dall’altro lato della piazza che si srotolava verso il centro città.

- E’ proprio per questo, James, che siamo costretti ad andare a fare acquisti. -

Se gli avesse detto che era pronto a venderlo all’Hydra, probabilmente, avrebbe reagito con maggiore entusiasmo.

Fu complicato fare acquisti nei negozi di abbigliamento senza dare eccessivamente nell’occhio con un braccio di vibranio, ma alla fine, quando la carta di credito di Zemo -una delle tante- strisciò sull’ultimo apparecchio e ufficializzò la compravendita, l’uomo sembrava estremamente soddisfatto, a differenza del Bucky sfinito alle sue spalle.

Capiva che la situazione richiedeva un compromesso, ma non gli andava giù l’idea di farsi comprare abiti costosi da Zemo, non voleva avere alcun tipo di debito con lui, e gli zeri inanellati uno dopo l’altro sullo scontrino lo facevano sudare freddo. Avrebbe dovuto aprirsi un mutuo.

“Te li ripagherò.” aveva detto solennemente una volta usciti dal negozio, ma Zemo si era limitato a guardarlo con la stessa accondiscendenza che si dedica all’ingenuità dei bambini.

Erano tornati a casa attorno alle cinque del pomeriggio e ciascuno si era poi dedicato alle sue attività. Zemo aveva pisolato un’oretta sul divano prima di sparire in camera sua, e Bucky aveva fatto l’esatto opposto, affascinato da un documentario sulla natura selvaggia del Kenya di cui non era eccessivamente importante capire il doppiaggio. A un certo punto aveva ricevuto un messaggio da Sam, che era arrivato sano e salvo dall’altra parte dell’oceano e gli aveva riassunto brevemente quanto accaduto quella mattina, omettendo le varie minacce e lo strano comportamento che Zemo aveva avuto nella Loggia. Non gli andava che Sam si preoccupasse per niente, di qualunque cosa si fosse trattata, Bucky poteva gestirla da solo.

Non era più fragile come una volta.

Zemo riapparve un po’ più tardi offrendogli un tè, ma quando Bucky rifiutò nemmeno il padrone di casa seguì la sua stessa proposta. Silenzioso, si versò un bicchiere di whiskey che andò a sorseggiare davanti alla finestra, accompagnato dalla voce della televisione.

Bucky lo osservò attraversare il salotto, scostare le tende e bere con calma, lo sguardo assente ad abbracciare la piazza. Continuava ad esserci qualcosa di fuori luogo nel suo atteggiamento, una nota stonata rispetto alla sua solita presenza impossibile da ignorare.

Turbato da quel velo di opacità, spense la televisione e tornò in camera, considerando che data l’ora poteva incominciare a prepararsi.

Aveva appena finito di infilare la giacca blu scuro che Zemo aveva tanto insistito per comprargli quando un paio di colpi leggeri alla porta lo informò che aveva visite.

- Sì? - fece voltandosi, ma Zemo era già entrato.

- Ah, sei già pronto, volevo avvisarti che è quasi ora di andare. - poi gli rivolse un sorriso soddisfatto.

- Decisamente un altro effetto. - commentò con un cenno del capo alla sua persona, mentre Bucky si sistemava di nuovo di fronte allo specchio e si osservava critico.

Non stava male, la giacca gli metteva in risalto gli occhi e gli sfinava la vita, ma era letteralmente un secolo che non indossava qualcosa di elegante e non si sentiva completamente a suo agio vestito in quel modo.

- Spero solo che il tuo amico ci possa aiutare. - ribatté, ben deciso a non accettare il complimento, sempre che di un complimento si trattasse.

Zemo non rispose, e Bucky vide riflesso nello specchio che l’uomo aveva portato la sua attenzione su qualcos’altro.

Si sentì assurdamente in colpa quando si accorse che quel qualcosa era il libricino che quella mattina aveva lasciato sul comodino.

- Ah, io, uhm… - balbettò, in cerca di qualche scusa. Ma scusa per cosa? Non aveva fatto niente di male.

Zemo raccolse il Piccolo Principe e se lo girò un paio di volte fra le mani, quasi l’avesse visto in quel momento per la prima volta, poi un sorriso che trasudava tristezza gli solcò il volto.

- Era uno dei preferiti di Carl. Mio figlio. - si affrettò a spiegare.

- Preferiva i videogiochi, ma ci tenevo che leggesse tanto. Leggere apre la mente. Il Piccolo Principe gli era piaciuto. Glielo lessi io ad alta voce, la prima volta. Alla fine pianse per due ore e mi chiese perché gli avessi comprato un libro così triste. -

Bucky tacque, spiazzato non tanto dalla confessione in sé, ma dalla dolcezza nella voce dell’uomo che fino a poche ore prima aveva visto agire come un sapiente criminale.

Zemo si lasciò andare ad una risata che parve più un singhiozzo.

- Era arrabbiato perché il Piccolo Principe alla fine abbandona l’aviatore. Ma è bene imparare fin da piccoli che a volte è meglio saper lasciare andare. Ha finito per volerne una copia in ogni lingua che stava studiando. -

Accarezzò appena la copertina con il pollice, per poi attraversare la stanza e andare a risistemare il libro al suo posto sullo scaffale.

- A me lo spedì mia sorella quando ero al fronte. E’ l’ultimo ricordo che ho di lei. - si sentì in dovere di raccontargli Bucky.

Non lo aveva mai detto a nessuno, nemmeno a Steve, un dettaglio insignificante che non aveva mai trovato modo di uscire dal suo cuore. E adesso lo aveva consegnato a Helmut Zemo come se niente fosse, perché il dolore nella sua voce gli era sembrato per un attimo acutamente familiare, terribilmente comprensibile.

Si scambiarono uno sguardo lungo, silenzioso, forse anche sincero, poi Zemo gli fece cenno con la testa di seguirlo.

- Dai, andiamo. Francesco ci starà già aspettando. -

Chiusero la porta di casa, scesero le scale e uscirono nell’aria ancora frizzante della sera.

L’antica villa medicea di Francesco, una perla di ricchezza al centro del suo enorme giardino, li aspettava a porte aperte a sud della città.

 

   
 
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