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Autore: SkyDream    10/06/2021    4 recensioni
[Raccolta][Ship!KageHina]
- Fa seguito alla storia "La presunta verità", ma può essere letta anche da sola.
.
Tobio ha accettato Lilà, la bambina brasiliana adottata da Shoyo, e decide di accoglierli entrambi nella propria vita e nella propria abitazione a Roma.
Ben presto, sia Tobio che Shoyo, si accorgeranno di come essere genitori non sia affatto semplice, ma anche di come venga ad entrambi spontaneo - in modi diversi - dimostrare il loro amore per quella bimba tutta ricci.
Genere: Comico, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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~ A Million Dreams ~
Chapter 5
[KageHina][+ Lilà]


Piccole gocce d’acqua scendevano lente, ancora calde, lungo il petto scolpito di Tobio. Disegnavano, con una grande precisione, il perimetro di ogni singolo muscolo ora teso, ora rilassato, che seguiva i movimenti di quel corpo alla ricerca di un attimo di refrigerio.
Il rumore dell’asciugacapelli fece ridestare Shoyo – steso sul letto - dai suoi pensieri, scostò gli occhi quel tanto che bastava per poggiarli sulla schiena tonica e flessuosa del suo ragazzo.
Tobio gli lanciò un’occhiata dallo specchio e l’altro potè giurare di vedere ancora un guizzo di quell’amore adolescenziale che tanto li aveva uniti.
Ormai sostituito da un amore più maturo, forte, ma altrettanto carico di desiderio.
Quando Tobio uscì dal bagno con i capelli umidi e le gambe fasciate dai lunghi pantaloni della tuta, Shoyo non potè fare a meno di rivolgergli un sorriso appena malizioso. Si sarebbe aspettato un bacio o – cosa molto più probabile – una rimbrottata su come non fosse il momento adatto per mettersi a fare i piccioncini visto che Lilà sarebbe rimasta fuori casa ancora per poco.
Una cosa sola non si sarebbe mai e poi mai aspettato: Tobio scivolò sul letto al suo fianco e cercò nuovamente i suoi occhi, sembrava volergli chiedere qualcosa senza però averne le parole.
«Va tutto bene?» chiese infatti l’altro, con un sopracciglio appena corrucciato.
«No, decisamente non va bene. Si può sapere a cosa stai pensando? E’ da ieri che ti vedo tra le nuvole.» la mano destra di Tobio si infilò tra i capelli dell’altro ragazzo, ne carezzò le ciocche provocandogli un piccolo mugolio d’assenso.
Shoyo non riuscì a vuotare il sacco, non immediatamente almeno, e si accoccolò contro il petto dell’altro nella speranza che non si discostasse.
Che accogliesse anche quell’altra paura che ora cominciava a mordicchiargli il cuore e la mente.
Tobio, per tutta risposta, lo strinse leggermente a sé e fece scivolare le dita quasi sulla fronte, lì dove le ciocche ramate si allungavano fino a solleticargli le lentiggini.
«Ti vuoi decidere a parlare o ti devo cavare le parole di bocca?».
«Mi sarei aspettato un po’ di tatto in più, è una questione delicata!» Shoyo corrucciò le sopracciglia in un broncio comico e ben poco serio. Tobio sorrise appena, sciogliendosi in quel gesto con una naturalezza che credeva non gli sarebbe mai appartenuta. O, almeno, lo credeva prima di conoscere Shoyo.
«Proprio perché so che è una questione delicata ti sto minacciando di cavarti le parole di bocca». Tobio avvicinò il viso a quello dell’altro sfiorandogli appena le labbra.
Shoyo si avvicinò quel tanto che bastava per saggiarle con le proprie e cercare il coraggio per vuotare il sacco una volta per tutte.
«Si tratta di Lilà.» sussurrò ancora sulle sue labbra, come a volerlo sentire vicino. Ancora più vicino.
A sentire il nome della loro bambina, Tobio percepì un brivido scendere lungo la schiena e gelargli la pelle.
Con uno sguardo lo invitò a parlare ancora.
«Qualche giorno fa la maestra dell’asilo le ha chiesto di raccontare agli altri bambini qualcosa sul Brasile, sui loro usi e costumi e lei mi ha fatto notare che non c’è mai stata. Questa cosa mi ha un po’ ferito, io l’ho comunque strappata alla sua terra e vorrei che lei potesse vederla e viverla anche se di tanto in tanto.» Shoyo venne zittito da una voce bassa che lo chiamava lento, come a volerlo far riemergere nuovamente da quei pensieri fitti e pesanti.
«Shoyo, tu non hai strappato Lilà dalla sua terra, l’hai strappata da una vita di miseria e solitudine.» Tobio si assicurò che il messaggio fosse stato recepito e, solo quando ne fu convinto, lo lasciò continuare.
«Lo so, ma è anche vero che Lilà non ha mai visto il mare in cui sua madre le faceva immergere i piedi quando era solo una neonata. L’ha vissuta solo per pochi mesi, ma non posso fare a meno di pensarci e vorrei davvero portarla lì qualche giorno e farle scoprire da dove viene, dov’è nata ma-» Shoyo sgranò gli occhi quando si rese conto delle mani fredde e sudate che aveva ancora poggiate al petto dell’altro ragazzo.
Aveva paura. Shoyo sentiva davvero di avere paura come poche altre volte.
«Ma?».
«Tobio, ho paura che la trovino».
Shoyo si ritrovò con la schiena contro i cuscini freddi e due mani, a loro volta gelide, avvolte a coppa contro il suo volto.
«Non la troveranno, Shoyo».
Tobio sapeva. Sapeva cosa gli occhi del suo ragazzo avessero visto tra le mura in cartone e i tetti di eternit delle favelas.
Shoyo aveva fatto correre, giocare, ridere, i bambini più poveri. Si era affezionato ad Isabela.
Isabela che si era ritrovata troppo presto da sola, che era stata travolta nei giri di droga e criminalità di quelli che lei chiamava carioca.
Isabela che, nonostante cercasse di lavorare onestamente, non riusciva a scollarsi di dosso il peso delle buste di cocaina che era costretta a spacciare.
Isabela che era riuscita a mettere al mondo una bambina sana e buona d’animo – proprio come lei -, e che poi era morta nel tentativo di strapparla dalle grinfie degli uomini che tante volte avevano osato picchiarla.
Non voleva per Lilà il suo stesso destino, voleva immaginarla libera. Proprio come si sentiva lei su quei campi di beach volley in cui aveva conosciuto Shoyo e la sua vitalità.
E Shoyo stesso lo sapeva cosa si nascondesse nei meandri bui della periferia di Rio, conosceva il brulicare delle organizzazioni che cercavano di uccidersi l’un l’altra mandando in prima linea delle donne innocenti, degli uomini disperati, dei bambini troppo piccoli per capire.
Era stato questo che lo aveva spinto a cercare Lilà e a portarla via appena possibile, prima che si accorgessero che fosse ancora viva. Prima che la reclamassero.
Lasciare il Brasile era stato difficile, dire addio ai suoi pequenos, a Pedro, a Santana – che tanto lo avevano aiutato in quell’impresa -.
Era stato maledettamente difficile ricominciare, ma ci era riuscito per un motivo solo. Lo stesso che ora aveva poggiato la propria fronte contro la sua.
«Sono d’accordo con te, non è saggio portarla in Brasile adesso. Potrà farlo tra vent’anni se vorrà, le spiegheremo tutto quando avrà l’età per capirlo e sarà lei a scegliere cosa fare, se scoprire le sue origini viaggiando o tramite i tuoi racconti. Lasciarle vivere la sua normalità qui non le precluderà la felicità in alcun modo, capito?».
Più che un discorso fatto per convincere il proprio ragazzo, Tobio diede l’idea di una persona che stesse cercando di convincere se stesso. D’altronde entrambi avevano sentito lo stesso brivido di freddo alla sola idea che la loro bambina potesse essere anche solo sfiorata da uno degli uomini carioca.
«Non la troveranno nemmeno qui, non è vero?» Shoyo si lasciò sfuggire quella domanda, quella paura viscerale, senza nemmeno accorgersene. Strinse le proprie mani su quelle dell’altro, ancora poggiate sul suo viso.
«Non la troveranno. Io e te non compariamo in televisione da molti anni, viviamo la nostra vita in una casa modesta, non diamo nell’occhio e Lilà è circondata solo da persone fidate. Non le succederà nulla e – ti giuro Shoyo Hinata – che semmai qualcuno volesse ferirla, dovrà prima vedersela con noi».
Shoyo avrebbe voluto piangere, se per aver finalmente udito quelle rassicurazioni o per quel raro momento di confidenza quasi spirituale, non avrebbe saputo dirlo. Si limitò quindi a chiudere gli occhi e sentì le braccia di Tobio avvolgerlo totalmente.
In quei sei anni avevano avuto alti e bassi, come sempre, ma mai avevano osato dormire distanti. Mai una volta non si erano sostenuti a vicenda e avevano sempre, sempre, tenuto insieme le mani di Lilà.
Quella bambina era riuscita a unirli ancora di più – e non credevano nemmeno loro fosse possibile essere uniti ancora di più – ma ci era riuscita davvero e aveva colorato le loro giornate di glitter arcobaleno e principesse. Aveva realizzato, senza saperlo, il loro sogno di avere una famiglia e il sogno di sua madre di saperla libera da quella schiavitù che portava il nome di favelas. Aveva preso e fatto sue tutte le qualità di Isabela, e Shoyo, che aveva avuto la fortuna di conoscerla, se ne rendeva conto giorno dopo giorno.
Lilà era sorridente, solare, altruista e testarda - tanto testarda - . Ma, sopra ogni altra cosa, Lilà aveva un cuore immenso e pur di aiutare un compagnetto avrebbe venduto tutti i suoi giocattoli.
Mentre erano ancora immersi nei loro pensieri, Tobio e Shoyo udirono due squilli – segno di qualcuno che li reclamava al citofono – e furono costretti a separarsi.
Tobio si sollevò, non prima di avergli regalato una carezza sul viso appena accennata, e afferrò la maglietta sulla sedia cercando di non pensare alle mani ancora tremanti.
La infilò appena in tempo e aprì la porta trovandosi davanti una signora dai capelli corti con una busta in mano, un bambino parecchie spanne più basso di lui e un cespuglio di capelli ricci urlante.
«Toosan! Lui è Giorgio e lei è sua mamma!» Lilà si stava sbracciando per indicarli entrambi con un gesto simile ad un grande abbraccio.
«Oh, salve, sono Tobio il -» si bloccò, la voce spezzata in gola. Gli tornarono in mente le parole di Shoyo, gli sembrò di rivivere in un solo secondo ogni attimo dell’esperienza vissuta dal suo ragazzo in quella terra così distante.
Non poteva ancora appropriarsi di quel nome, per quanto Lilà avesse fuso il suo nome con l’appellativo in giapponese ma –
«Lui è il mio papà!» la bambina lo aveva indicato con il braccio ben steso, come se fosse possibile confondersi in qualche maniera. Tobio abbassò gli occhi e si rese conto di dover dire qualcosa.
E lo avrebbe fatto – giurò – se quella bambina gli avesse lasciato almeno un neurone e una cellula miocardica integra.
«Il tuo papà sembra davvero fichissimo! Signor Tobio, posso venire a giocare a pallavolo qualche volta?» gli occhietti di Giorgio, luminosi come quelli del cespuglio che ancora lo indicava qualche spanna in giù, riuscirono a farlo resuscitare temporaneamente.
Tobio annuì e finalmente si sciolse in un sorriso.
«Oggi abbiamo preparato i biscotti fatti in casa, ecco, questi sono per voi. Ora dobbiamo proprio andare, è stato un piacere averla conosciuta!» La signora gli porse la busta per poi prendere per mano il figlioletto e salutare.
Lilà si allontanò un momento dal suo Toosan per potersi avvicinare a Giorgio e schioccargli un rapido bacio sulla guancia per salutarlo.
Tobio dichiarò deceduti l’ultimo neurone e l’ultima cellula miocardica e si chiese se nell’aldilà si giocasse a pallavolo con le nuvole. Capì di essere rientrato in casa solo quando notò una mano vagamente familiare ondeggiare davanti i suoi occhi.
«Sei vivo? Ehilà, c’è nessuno?!» la voce di Shoyo era tra il divertito e il preoccupato, il volto poco prima contratto in un’espressione di puro dolore era ora appena più disteso – per quanto fosse marcato dai segni inequivocabili delle notti insonni -.
Tobio sbattè un paio di volte le palpebre, ma senza riuscire ancora a parlare.
«Lilà, cos’hai fatto a Toosan?!» la voce di Shoyo era ora quella di sempre, squillante e assordante come solo lui sapeva essere.
La bambina, intenta a trafugare un biscotto da dentro la busta, lo guardò con l’aria di chi non ne sapeva nulla.
«Shoyo, noi due dobbiamo parlare e dobbiamo fare un discorsetto a bushu-chan».
 
Nella camera da letto, intanto, un telefono con dei corvetti stampati continuava a squillare.
Lo schermo si illuminò mostrando una foto di una ragazza dai capelli ramati e dal sorriso raggiante che mostrava fiera due dita in segno di vittoria e tre biglietti aerei.
«Oniichan, prepara le valigie! La settimana prossima comincerete le vacanze forzate!».
   
 
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