Fanfic su attori > Tom Hiddleston
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Autore: _Recneps    19/06/2021    0 recensioni
[...] i suoi occhi celesti vagano fino a quando due sguardi che non hanno nulla di accidentale s’incrociano, incastrandosi in una muta intesa che ha ancora il sapore di amara testardaggine, sfrontata rabbia e velenoso orgoglio. Ma ci vogliono soltanto pochi secondi prima che entrambi capiscano di aver nuovamente messo in gioco le reciproche difese, la stoltezza che nega a ciascuno di vedere la realtà dell’altro e le confortevoli forme d’astio con cui sventare ogni possibilità di intima comunicazione. Bastano pochi secondi in più, un eccesso di tentennamento da parte di entrambi e la concreta incapacità a tornare sulle proprie strade: uno schiocco spaventosamente chiaro. Tom vede Ris e Ris vede Tom. Non possono far altro che sciogliersi con una scarica di parole che non prenderanno mai forma, con un reciproco e silente perdono. Pensieri trattenuti, ma non abbastanza: iniziano a fluttuare in un che di sospeso di cui entrambi sentiranno, in un modo o nell’altro, la carezza di fumo.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo Uno
 

Kade è al tappetto e Ris lo guarda vittoriosa dall’alto, incurante del bruciore che pervade ogni fascio muscolare. Il suo mentore sorride e lei scoppia a ridere nonostante non le sia rimasto un briciolo di fiato. Lo libera e poi inizia a saltellare sul tatami, mentre il vecchio Ryu lascia cadere il moccio a terra per applaudire.
«Ottimo lavoro», si complimenta Kade rialzandosi e cercando di mascherare l’orgoglio che ne piega le labbra.
Ris stampa un bacio sulla fronte dell’anziano custode, incapace di frenare quel moto di gioia e la frenesia della vittoria.
«Kade, un consiglio: lascia il Dojo alla nostra Lama e unisciti a me nell’arte del moccio prima che ti si spezzi la schiena.»
Ryu punta un dito al maestro d’arti marziali in un avvertimento che non fa altro che aumentare l’ilarità di Ris, ora sdraiata a terra con le braccia e le gambe spalancate, esausta, sudata e incredibilmente dolorante.
Kade raccoglie i capelli in un codino basso e dà una pacca sulla spalla di Ryu: «Ah, ah. Tutto per lasciare il duro lavoro al sottoscritto mentre te ne scappi a fare il decimo sonnellino della giornata.»
Gli occhi a mandorla del vecchio custode si assottigliano in un’espressione indignata: «Charice, la prossima volta assicurarti che nessuno riesca a raccoglierlo da terra», ribatte indispettito con il suo accento orientale.
Ris – Charice solo per Ryu, che proprio non ne vuole sapere dei diminutivi – alza un pollice in segno affermativo.
«E ora, ingrato di uno, andrò a farmi un sonnellino.»
Kade scuote la testa sogghignando e il loro vecchio amico se ne va con un’elegante uscita di scena, lasciando il moccio abbandonato a terra.
Ris si solleva puntellandosi sui gomiti.
Kade, incorniciato da una nerissima barba leggermente trasandata, la studia pensieroso e Ris riconosce immediatamente lo sguardo che quell’ultima settimana l’aveva assediata di domande: mi vuoi dire qualcosa, lo so, pensa incoraggiandolo con un’occhiata di sfida.
«Cercherò di convincerti in tutti i modi», premette con cautela, conoscendo la testardaggine della sua allieva e avendo ormai fatto l’abitudine a quel guscio di metallo che cerca di far schiudere da ormai due anni.
Lei alza un sopracciglio, perplessa. Kade può comunque intravedere il primo accenno di preoccupazione: così letale, eppure ancora così spaventata.
«Ho bisogno di un aiutante sul set di un’importante produzione cinematografica e penso che insieme potremmo fare un buon lavoro. Ho già ingaggiato un paio di stuntman per le controfigure di qualche attore, ma mi serve una mano per tutta la fase preparatoria: la creazione delle coreografie per le scene di lotta, l’implemento degli oggetti di scena e l’istruzione di stunt e artisti. Insomma, una mole immensa di lavoro per la quale mi saresti misericordiosamente preziosa.»
Ris non vuole riconoscerlo, ma avverte una familiare sensazione di vertigine affondarle gli artigli nello stomaco. No, lei non è fatta per quelle cose, non è fatta per il mondo oltre il Dojo e la palestra di Bruce, non è fatta per le scoperte, per i salti nel vuoto, per i sentieri sconosciuti.
Vuole solo rimanere aggrappata alle sue certezze, a quei due pilastri che reggono la sua anonima ed ordinata esistenza: semplice, lineare e perfettamente prevedibile. Si destreggia a malapena tra quel poco che ha, lasciandosi continuamente scivolare tra le dita anche gli impieghi più banali, come se da tempo si fosse dimenticata come funziona il mondo reale e come si affrontano gli ostacoli quotidiani, quelli che farebbero ridere la maggior parte della gente.
Non vuole svolte, non vuole il rischio di un terremoto, che qualcuno scorga i passi ancora malfermi. Non le interessa il resto della vita, i rapporti che nega per diffidenza, il cammino che si rifiuta di intraprendere per stanchezza e paura, una paura che sopprime portando il suo corpo all’estremo, qualche volta cadendo nella tentazione di lasciare che altri lo sfigurino, proprio nel momento in cui qualcosa di primordiale torna a graffiarla.
Non credeva nemmeno di resistere a quei suoi ultimi cinque anni, quelli in cui Bruce ha tentato in tutti i modi di spingerla verso la vita, cercando di farle riscoprire il piacere di farne parte. La verità è che non ci è riuscita, che l’unica cosa che ha imparato è come salvaguardare sé stessa, rimanendo confinata in una teca nemmeno sfiorata dagli eventi che si susseguono e che provano a coinvolgerla e a stravolgerla, fallendo miseramente. Una teca in grado di proteggerla, ma non sufficiente a renderla stabile sulle assi sospese di quella sua seconda esistenza. Ed è qui che arriva Kade, scelto per essere forgiata come la spada che non permetterà ad altri di sottrarle i frammenti che le rimangono, per impedire che mani estranee conoscano il potere di annientarla e per dimenticare la fragilità che in una notte lontana e sempre troppo vicina ha permesso che qualcuno le strappasse parte di sé, una linfa di cui non sente più il sapore.
Nelle profondità della sua carne è così fottutamente terrorizzata, così impotente. Ma il suo involucro è acciaio puro.
Lama.
«Ris, lo sai, faccio questo lavoro da anni e ti conosco abbastanza bene da sapere che saresti impeccabile. E poi, ti divertiresti un mondo. Pensaci: insieme a coreografare combattimenti scenici, preparare stunt e attori, lavorare a stretto contatto con tutto ciò che permette la magia che vediamo in uno schermo. Ris, avanti, concediti di assaporare qualcosa di nuovo.»
Non si è nemmeno accorta che nel frattempo Kade si è inginocchiato davanti a lei.
Sa che non lo farà, che non accetterà, che risponderà un secco no e che tornerà a rifugiarsi nella sua teca.
«Non dovrai nemmeno spostarti, le riprese sono qui ad Atlanta», continua lui come se semplici motivazioni logistiche la sfiorino minimamente.
Ogni sera torneresti comunque da Bruce.
Chiude gli occhi con forza a quel pensiero. No, no e poi no.
«Avresti un’altra cinquantina di allievi a cui chiedere e tutti sicuramente più qualificati di me.»
«Sai che non è vero.»
«So che sarei un disastro: combatto per me stessa e per nessun’altro, evito come la peste qualsiasi tipo d’interazione e non ho la pazienza per istruire qualcuno che non è del mestiere», ribatte lei sulla difensiva, tramutando il suo viso in una maschera granitica.
«Hai il genio per costruire insieme a me qualcosa di cui andresti fiera, e ti piacerebbe, ti piacerebbe da matti.»
I suoi occhi, neri come la pece, non la lasciano nemmeno per un secondo.
Si sente braccata.
Sospira e per la prima volta le monta una rabbia così estranea, di una sfumatura che non l’aveva ancora incendiata. 
Codarda.
Una bambina impaurita e sciocca, nascosta nell’illusione di un’armatura.
Debole.
Si crede così forte, ma il solo pensiero di fare un passo oltre la porta di quella palestra e di quel Dojo la paralizza. Continua a vivere, impedendosi di farlo. Si fa pena e la rabbia cresce.
Abbassa leggermente la testa, sfuggendo agli occhi di chi crede ancora in lei, e si alza lentamente.
«Ci vediamo domani, Kade.»
Si dirige verso gli spogliatoi, incassando il colpo dell’ennesima delusione con cui continua a ferire gli unici che non lo meriterebbero.
Come al solito usa quella Lama pugnalando sé stessa, chi le dimostra quotidianamente di amarla, le opportunità che non si dà, quelle a cui nega il potere di farle vedere oltre la coltre di nero petrolio che le avvelena anima e corpo.
 
 
 
«Stai diventando vecchio per i film d’azione», lo punzecchia Emma spiandolo dallo stipite della porta, «mi preoccuperò di assumere una badante per il tuo ritorno in carrozzella.»
Tom sorride mentre chiude la valigia, poi le mima un “vaffanculo” amorevole e le strizza l’occhio.
Emma entra scalza nella sua stanza e si lascia cadere a peso morto sul letto matrimoniale, così paradossalmente estraneo rispetto ai materassi in piuma d’oca che l’hanno ospitato in varie parti del mondo, tra le pareti di anonime camere d’hotel prive degli odori di casa, di Londra e di una vita lontana.
Si alza guardandosi intorno: non dovrebbe mancare nulla.
In realtà, manca sempre qualcosa e non ha mai a che fare con gli spazi vuoti del suo borsone e del suo trolley.
Afferra il cuscino che sua sorella continua a lanciare per aria come la dodicenne pestifera che ancora le si cuce perfettamente addosso e poi la colpisce, solleticando la pazienza del can che dorme. Lei inizia a scalciare indispettita e Tom scoppia a ridere, bloccandole una caviglia e sventando ogni tentativo di vendicarsi. Trentaquattro e ventinove anni, eppure così bambini quando il mondo concede loro di fermare per un attimo il tempo e tornare Tom ed Em, ignari delle strade che li separeranno, di quanto rimpiangeranno persino il dispotismo di Sarah, la maggiore, e di quanto sarà tremendamente complicato trovare biscotti alla cannella che si avvicinino anche solo di una nota a quelli delle abbuffate domenicali a casa di nonna.
«Mi ricordi per quale motivo sei qui ad importunarmi quando ho un aereo tra meno di tre ore?»
A dir la verità non gli interessa nemmeno la risposta, gli basta solo che sia così.
«Perché casa tua è decisamente più lussuosa della mia», risponde mettendosi seduta e togliendo disgustata una matassa di capelli biondi dalla bocca, «e poi perché il mio lavoro da sorella minore è mandarti in tilt quando hai già nervi a fior di pelle.»
Gli schiocca un’occhiata provocatoria mentre Tom alza gli occhi al cielo. Recupera il borsone lasciato sulla cassapanca e lo appoggia accanto alla valigia abbandonata su quello stupido tappetto che odia, il regalo di un’ex che l’aveva fatto sudare freddo il giorno del suo trentaduesimo compleanno: simulare gioia e autentica sorpresa si era rivelata un’impresa titanica. Perché non l’aveva mai ammesso? E soprattutto, perché non se n’è ancora sbarazzato? Semplice: Tom vive nel terrore che anche il più piccolo gesto possa malauguratamente trasmettere scortesia, maleducazione o ingratitudine. Buttare quel terribile tappetto nonostante un tradimento? No, non sembrava proprio carino o elegante. Meglio tenerlo e farsi accecare ad ogni suo ritorno: dai colori sgargianti e dall’umiliazione del tradimento.
Se qualcuno se lo domandasse, Tom Hiddleston non si limita a mandare giù anche i rospi più disgustosi, oh no, lui se li prepara con maestria, li condisce e imbandisce una cena a lume di candela: lui e la sua cavalleria. Sì, insomma, quella che sa tanto di stupidità e masochismo.
«Non sono nervoso», ribatte con le sue brillanti abilità recitative.
E invece sì, lo è. Nonostante la fama internazionale, Tom non è proprio capace di abituarsi alle lodi e alla pioggia di nuovi ruoli che lo spaventano più di quanto vorrebbe ammettere: la sua ansia da prestazione se la tiene stretta e la custodisce con cura.
Emma si alza dal letto, poggia una mano sulla spalla del suo detestato ed amato spilungone – sarebbe imbarazzante ammettere che non si è sollevata sulle punte dei piedi solo per dignità – e finge un’espressione addolorata: «Ti prego, dimmi che non dovrò vederti con acconciature strane, corna, mantelli di pelle o altro che mi impedirebbe di guardare il film prima di un adeguato percorso terapeutico.»
Lui la guarda dall’alto e poi fanno capolino due fossette: «Cara Em, il tuo fratellone farà strage di cuori: total black, una moto niente male, un pizzico di stronzaggine e nessuna parrucca o tinta aberrante.»
Emma aggrotta le sopracciglia e inclina il capo pensierosa, poi strabuzza gli occhi: «No, Tom, no. Il sex-symbol dal passato tormentato che fa a botte nel weekend per esorcizzare la sua incapacità di legarsi romanticamente non lo posso reggere.»
Lui la guarda con la bocca leggermente socchiusa e poi scoppia a ridere al cospetto del terrore sincero che dipinge la smorfia di Emma.
«Non prendermi in giro!» esclama lei colpendolo alla spalla, «azzardarti ad uscire con una roba del genere al cinema e il cavolo che pago pure il biglietto.»
Lui si piega a raccogliere borsone e trolley, continuando a ridacchiare incredulo. No, non riuscirebbe proprio a immaginarsi nella parte, ma la tentazione di far passare a sua sorella qualche ora d’incubo è dolorosamente irresistibile. Fa per dirigersi verso la porta e accanto allo stipite si volta quel tanto che basta per il colpo di grazia: «Troppo tardi Em. Il biglietto te lo pago io, tranquilla.»
Si lascia alle spalle un’espressione sbigottita e lascia che i corridoi siano gli unici testimoni della sua risata.
«E ora muoviti o ti lascio qui a marcire per mesi!», urla poi avvicinandosi all’ingresso.
Estrae il telefono dalla tasca anteriore dei jeans giusto in tempo per intercettare il messaggio di Jen: Chiamami quando atterri.
Una manciata di semplici parole e un cuore. Tom si mordicchia il labbro inferiore, prima di ricevere la seconda notifica: Ps: stamattina hai lasciato la giacca di pelle in cucina. Ora sai quale sarà la tua prima fermata al ritorno da Atlanta, Sherlock.
Dopo tre mesi di frequentazione fatica ancora a comprendere l’origine di quel nomignolo. Probabilmente è un vizio delle neo-coppie – quindi siamo una coppia? –, un modo per correre ai ripari nel timore che la sfilza di cene, spettacoli teatrali e pomeriggi in campagna si dissolvano senza lasciar traccia del loro passaggio. Forse per creare qualcosa di speciale e di unico, quasi per dare la parvenza che no, ormai quel rituale di chiamate notturne e messaggi terribilmente espliciti deve superare lo scoglio del quarto mese e trovare il piedistallo da cui osservare compiaciuto la fine che avrebbe potuto fare: una delle tante storielle sepolte ancor prima di nascere. Insomma, per il resto del mondo è Tom, per Jen – e solo per Jen – è Sherlock.
E chapeau: in tutto ciò vi dev’essere sicuramente del genio o Tom non si sentirebbe ancora più in dovere di lasciarle un bacio sulla spalla ogni volta che lei lo punzecchia con quel soprannome mentre lo guarda con un sorriso di scherno, nascosta fino alla vita dalle lenzuola e accarezzata dalle luci dell’alba.  
Quando poi realizza di poter ancora sfruttare mezz’ora di sonno, di solito Tom volta appena il capo sul cuscino e si ritrova a sperare che sia solo una fase, che prima o poi Sherlock torni a Scotland Yard salutandolo con un cenno della pipa.
Tentenna al cospetto delle due notifiche lampeggianti e non sa perché, ma si dice che risponderà dopo, che ora non ha proprio tempo, che comunque la chiamerà appena atterrato. Forse si arrabbierà e allora le dirà che avrebbe voluto portarla con sé, che già le manca terribilmente, che le porterà una sorpresa al suo ritorno.
Dovrebbe chiedersi perché sta pianificando le sue conversazioni come se avesse bisogno di prendere carta e matita e appuntarsi qualche nota, ma si dice che probabilmente è una sindrome da attore: quella da copione. Sospira e si sistema il borsone sulle spalle, spegne le ultime luci e lancia un nuovo avvertimento spazientito a sua sorella.
Emma lo raggiunge saltellando su un piede mentre cerca di infilarsi le scarpe. Le apre la porta mentre lo supera con un’occhiata che farebbe accapponare la pelle a qualsiasi uomo: «Ti consiglio di rimanerci ad Atlanta.»
 
 
 
La mezzanotte si avvicina e le luci della palestra sono ancora accese. Ris se ne accorge non appena si lascia alle spalle l’ennesima svolta, nascosta dal cappuccio della felpa e da un borsone decisamente troppo pesante. All’uscita dal Dojo si era lasciata cullare dalla brezza di inizio ottobre, finendo per macinare molti più chilometri di quelli necessari: sperava che camminando senza meta la sua frustrazione si sarebbe prima o poi arresa alla stanchezza, ma tra i risultati ottenuti si conteggiano solo una vescica sanguinante e una serie infinita di imprecazioni trattenute tra i denti.
Si avvicina all’ingresso e molla il borsone a terra, piegandosi alla ricerca delle chiavi. Moka – il randagio ormai conosciuto dal quartiere come la mascotte della Morales’ – si avvicina, frugando con il muso nelle tasche della tuta di Ris, impaziente di ricevere il suo vizio quotidiano.
Dopo aver lasciato una manciata di biscottini ai piedi della brandina rossa – ricambiata da una dose decisamente esagerata di saliva – Ris scorge Bruce dalla vetrata.
È di spalle, la maglietta grigia è visibilmente impregnata di sudore e con colpi precisi ed inclementi colpisce ritmicamente un sacco da boxe.
Sono ormai settimane che lo sente allenarsi a notte fonda mentre lei non riesce a far altro che rigirarsi tra le lenzuola, lanciando occhiate preoccupate ad una sveglia che consuma ferocemente secondi, minuti ed ore.
Ultimamente le cose non vanno bene per la palestra e nonostante Bruce non gliene parli, lei lo avverte come la punta di un pugnale che le si rigira tra le scapole.
Entra e si sfila le scarpe ancor prima di abbandonare borsone e giacca di jeans. Nonostante la lontananza, è comunque in grado di percepire la musica provenire dalle cuffie di Bruce: ci sarà pure un motivo se a quarant’anni si ritrova pericolosamente vicino alla stessa capacità uditiva di Ryu, più simile ad un fossile che ad un essere umano vivo e vegeto.
Tentenna per qualche secondo, pensando che probabilmente se ne dovrebbe solo andare a letto, lasciarlo ai suoi sfoghi e sperare che il mattino dopo non le stampi un bacio sulla fronte in procinto di addormentarsi tra i suoi capelli, sfinito.
Poi le si illuminano gli occhi: è passato decisamente troppo tempo dall’ultima volta in cui uno dei due è riuscito ad atterrare l’altro nel protrarsi di una stupida sfida nata cinque anni prima.
Incapace di arrendersi alla tentazione di riprendersi la rivincita delle passate umiliazioni, si avvicina silenziosa alla preda. Deve ammettere di aver subito molte più sconfitte di quante ne vorrebbe ricordare, colta di sorpresa anche nei momenti meno opportuni.
La schiena dolorosamente premuta sul pavimento e la solita lezioncina di Bruce due immagini indelebili: “I sensi, Ris. Che te ne fai di tutta questa spaventosa tecnica se non sai usare l’unico vantaggio che hai sull’avversario?”
Un passo dopo l’altro si approssima al bersaglio, pregustando il trionfo che potrà finalmente ritorcere contro il suo mentore. Le ampie spalle si muovono ritmicamente, assestando un colpo dietro l’altro, e Ris trattiene il sorriso della vittoria mentre si prepara a servirsi indebitamente dei trucchi di Kade.
La sua mano saetta in avanti quando Bruce scarica l’ennesimo colpo, lasciandole lo spazio per infilarsi e bloccare l’articolazione della spalla.
Tuttavia, qualcosa va storto: il braccio di una preda non abbastanza ingenua si chiude improvvisamente sul suo polso, bloccandone ogni movimento. In men che non si dica si ritrova a terra con il sorriso strafottente di Bruce alla portata di un gancio perfetto, ma la frustrazione le impedisce anche solo di grugnire un vaffanculo tra le smorfie di dolore.
Lui si toglie le cuffie rialzandosi trionfante e lei rimane sdraiata sul pavimento, certa che la sua schiena un giorno le presenterà un conto salatissimo.
«Non potevi né sentirmi né vedermi», constata semplicemente puntellandosi sui gomiti, «mi spieghi come cazzo hai fatto?»
Lui la guarda dall’altro mentre si leva la maglietta bagnata di sudore, poi ride e si siede a terra respirando con affanno: «Il tuo profumo.»
Ris allarga le braccia in un’espressione di totale incredulità: «Ok, hai vinto, mi arrendo.»
Lui le lancia addosso la sua maglia, provocando una reazione a dir poco disgustata: «Lo sai che non mollo, quindi se non vuoi continuare ad essere umiliata ti conviene affilare le lame.»
Ris alza gli occhi al cielo, esibendosi nella sua famosa “faccia da prendere a schiaffi” tanto rimproverata da suo padre fin dai tempi delle proibite scorribande adolescenziali. Sì, il brillante avvocato Sanders, lo stesso di cui Ris attende impaziente la discesa agli inferi e l’espiazione di una buona dose di peccati.
Bruce si lascia cadere sulla schiena, rilassando i muscoli e beandosi del contatto con le fredde assi del parquet. Guarda verso il soffitto per poi passarsi una mano sul volto, esausto.
I lineamenti affilati e l’ombra che torna a rivestirli le conferma quanto sia preoccupato e tormentato.
Non è mai stata cieca nemmeno di fronte alle piccole cose: una buonanotte appena accennata che si perde tra le scartoffie del suo ufficio, una risposta irritata quando il telefono squilla una volta di troppo, l’iscrizione dell’ennesimo allievo che viene stracciata.
Per questo motivo non è ancora riuscita a dirgli di aver perso il lavoro alla gelateria da più di una settimana, di aver provato a cercare altro ricevendo in cambio solo sguardi di sufficienza.
«Bruce», lo chiama piano, mettendosi a gambe incrociate.
Lui volta il capo appena, guardandola dal basso, in attesa. I capelli leggermente cresciuti sono appiccicati alla fronte, le lunghe ciglia nascondono il color mogano dei suoi occhi e il petto imperlato di sudore si alza ed abbassa ritmicamente.
Lei tentenna, sentendosi già colpevole per non averlo ammesso prima.
Se potesse vedere la sua stessa espressione, probabilmente si confonderebbe per un cerbiatto terrorizzato.
Bruce si scioglie lentamente in un sorriso cauto, stendendo l’espressione corrucciata di poco prima.
«Lo so già.»
Ris boccheggia, più in cerca di una risposta per sé stessa che per controbattere.
«Oh, avanti. È a due isolati da qui e ci passo davanti sì e no tre volte a settimana. Pensavi che non mi sarei accorto che l’hanno praticamente smantellata?»
Non è arrabbiato e questo semplicemente perché Bruce non è fisicamente in grado di tenerle il broncio.
«Mi dispiace, avrei dovuto dirt-»
«Tranquilla», la interrompe allungando una mano verso il suo ginocchio per rassicurarla, «troverai qualcos’altro.»
Ed è in quel preciso istante che l’immagine di Kade irrompe prepotentemente tra i sensi di colpa di Ris.
Ha letteralmente a portata di mano l’occasione di dare sollievo ai conti della palestra e invece, proprio come una bambina capricciosa, si ostina a passare da un negozio all’altro, da un bar a un ristorante, in cerca di una paga misera e un minimo impiego, ricevendo solo porte in faccia e ben poca considerazione.
Per una volta in cui ha la possibilità di ripagare tutti i sacrifici di chi le ha fatto spazio nella propria vita, concedendole una nuova esistenza e accarezzandola con un amore che nemmeno pensava di meritare, si tira indietro come una codarda, un’ingrata.
Si fa così pena mentre il peso di quella scelta si tinge di un amaro biasimo, mentre la sua ala continua a proteggerla dalle preoccupazioni che lo tormentano e dai motivi della sua insonnia.
Quell’uomo testardo che ora le schiocca un bacio sulla fronte e le augura la buonanotte con la dolcezza di un padre, che si allontana verso un appartamento in cui le ha fatto trovare una casa quando non era altro che uno scheletro rannicchiato su un marciapiede sudicio, sfregiato dalla pioggia.
Come può fagli questo?
Rimane appollaiata sul parquet della palestra per un tempo indefinito, tenendo i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani infilate nei lunghi capelli castani.
Sbuffa, combattendo il senso di spaventosa vertigine che teme non riuscirà mai a mettere a tacere, per poi puntare lo sguardo verso la foto di lei e Bruce appesa alla parete con un banalissimo pezzo di nastro adesivo. Sorride quando si rende conto di quanto sia terribilmente fuori luogo circondata da tutte le medaglie, i trofei e gli attestati patinati.
Che qualcuno – qualsiasi divinità o entità ne abbia il coraggio – mi assista da lassù.
Si alza con uno scatto, convinta di poter ingannare i suoi pensieri muovendosi più velocemente. In realtà, la paura continua a scavarle nello stomaco anche quando recupera il telefono dal borsone e cerca il contatto di Kade.
Due semplici messaggi e una montagna di maledizioni mai pronunciate nella storia dei secoli:
Ti odio, ma sì.”
“Un’unica condizione: non sono tenuta a socializzare amorevolmente con nessuno.”
   
 
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