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Autore: Koome_94    25/06/2021    1 recensioni
[The Falcon And The Winter Soldier
WinterBaron - Bucky x Zemo]
A sei mesi dagli eventi di The Falcon and the Winter Soldier, Zemo si trova ancora prigioniero in Wakanda, in attesa che alla Raft si liberi il posto che gli spetta di diritto. Shuri, tuttavia, non è interamente convinta che la reclusione possa essere davvero una pena valida per un uomo come Helmut Zemo.
Quando una serie di furti di vibranio scuote il Wakanda e anche nel resto del mondo misteriosi individui incominciano a prendere di mira navi cargo e persino le Stark Industries, Sam e Bucky tornano in azione, preoccupati che dietro ai misteriosi avvenimenti si celi di più e per Shuri è decisamente giunto il momento di ricomporre il vecchio trio.
Zemo non può fare altro che accettare, ma è davvero pronto a rivedere James dopo il loro addio a Sokovia? E Bucky è davvero pronto a tornare ad affrontare il dolore negli occhi dell'uomo che aveva giurato di odiare?
Una caccia al tesoro attraverso l'Europa li metterà di fronte a domande difficili e risposte sconvenienti.
Nel frattempo il passato di entrambi è in agguato.
Genere: Angst, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, James ’Bucky’ Barnes, Sam Wilson/Falcon, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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I wanna know
What you really think of me
I wanna feel
All the pain that sets you free
These waves of doubt
Are drowning me
Gone are the days
When this was easy

Don’t Fight It - 10 Years

 

 

 



 

 

Erano passati letteralmente anni dall’ultima volta che si era recato a Roma. Sebbene avesse visitato la città più volte da giovane non la conosceva bene come Firenze. Una volta abbandonato il Grande Raccordo Anulare aveva avuto bisogno del navigatore per trovare la strada giusta, ma James non aveva fatto storie e si era limitato a digitare sul telefono l’indirizzo che gli aveva fornito.

Si era reso conto solo quando avevano parcheggiato fuori dal grande e ricco palazzo che non sapeva nemmeno se Teresa vivesse ancora lì e che forse una telefonata sarebbe stata quantomeno educata prima di presentarsi alla sua porta nel cuore della notte. Tuttavia ormai il danno era fatto, ed era per quel motivo che si era diretto a passo deciso verso la cancellata e aveva suonato il piccolo citofono della portineria.

Gli avevano aperto e lo avevano indirizzato all’ascensore B, che avevano preso fino all’ultimo piano, James in religioso silenzio accanto a lui che continuava a sistemarsi nervosamente il colletto della giacca ormai tutta stropicciata.

Si era schiarito la voce, aveva cercato di aggiustare al sua acconciatura accomodandosi meglio il ciuffo castano e, dopo un profondo sospiro aveva suonato il campanello.

Avevano aspettato dieci secondi nei quali Zemo si era interrogato più volte se suonare ancora o girare sui tacchi e andare a dormire in macchina, quando un ciabattare leggero li aveva raggiunti dall’altro lato della porta.

Quando l’uscio si era aperto si erano ritrovati al cospetto di una signora sulla settantina, il volto ancora giovanile attraversato da qualche leggera ruga d’espressione, ricordo del fatto che in anni migliori doveva essere stata una bella donna.

- Helmut? Per carità divina, che ci fai qui a quest’ora? - aveva esclamato in Italiano sforzandosi di mantenere la voce bassa. Poi il suo sguardo era caduto su James e senza aggiungere altro li aveva fatti entrare.

- Immagino che il Signor Barnes non parli Italiano. Che cosa vi è successo? Sembra che vi abbia calpestati un branco di bufali. - aveva continuato in Inglese, e Zemo aveva visto le spalle di James distendersi.

- Ti chiedo scusa, Teresa, se ci siamo presentati in questo modo disdicevole, ma… - tuttavia non gli aveva lasciato il tempo di replicare, si era sistemata meglio il nodo della vestaglia di seta rosa antico che indossava e aveva fatto loro cenno di seguirla nel grande attico fino al salotto, dove li aveva fatti sedere su due divani morbidi in stile impero.

Accanto a loro, nella penombra della notte, un enorme televisore al plasma stava trasmettendo un episodio di Sex and the City, ma il volume era stato presto silenziato.

- Credevo fossi ancora a marcire a Berlino. - era stata l’unica cosa che la donna aveva detto prendendo posto su una poltrona bianca davanti a loro.

Zemo era appena arrossito, gli occhi puntati altrove.

- Ci sono stati sviluppi. - si era limitato a esalare, stravolto.

- Zemo è in libertà vigilata, io agisco in qualità di suo garante. Stiamo lavorando assieme per fare luce su una serie di crimini che hanno colpito l’Europa ultimamente. - aveva tagliato corto James, e gliene era stato grato. Non avrebbe avuto la forza, in quel momento, di raccontare tutta la storia per filo e per segno.

La donna aveva portato lo sguardo su di lui e si era presa qualche istante per incamerare meglio i suoi lineamenti.

- Sono Teresa Bianchi-Leone. Ammetto che non mi aspettavo di vedere Helmut a piede libero dopo quello che è successo a Vienna. Ma suppongo che la situazione sia cambiata dal 2016. - si era presentata con una grazia quasi regale.

Zemo aveva ulteriormente incassato la testa nelle spalle, a disagio, e aveva sperato che James non se ne accorgesse.

- Non si preoccupi, è tutto regolarmente sotto controllo. - aveva risposto quello, chiaramente diffidente.

A quel punto Teresa si era lasciata andare ad un sorriso e si era alzata in piedi, aveva preso posto accanto a Zemo sul divano e lo aveva stretto a sé in un abbraccio dolce e materno che lo aveva colto di sorpresa.

- In qualunque guaio vi siate cacciati, ne riparleremo domattina davanti a una ricca colazione e a una tazza di caffè. Adesso è troppo tardi perché i miei vecchi e stanchi neuroni capiscano qualcosa, perciò andate pure a dormire e riposate. -

Zemo aveva solamente annuito per poi borbottare un grazie a mezza voce e alzarsi in piedi per seguire la padrona di casa lungo un corridoio illuminato da alcune luci d’ambiente rossastre e smorzate dalla modalità notturna.

La donna aveva indicato loro l’ubicazione del bagno e aveva suggerito di lasciarle gli abiti affinché li facesse lavare.

- Dovrei avere dei ricambi puliti, i miei figli mi hanno lasciato gli armadi pieni. - aveva sorriso.

Zemo era stato l’ultimo ad andare in bagno. Si era fatto una doccia veloce ed era rimasto a guardare le linee rosse del sangue che confluivano assieme all’acqua nello scarico.

Aveva chiuso gli occhi e si era reso conto in quel momento del mal di testa che aveva preso a tormentarlo fin da quando erano arrivati al diner.

Si era asciugato distrattamente, aveva indossato il pigiama che Teresa gli aveva messo a disposizione e le aveva portato i suoi vestiti lerci di sangue ma debitamente ripiegati.

La donna gli aveva rivolto uno sguardo nel quale aveva scorto compassione, e improvvisamente si era sentito nudo e con le spalle al muro.

- Ora vado a dormire, ti ringrazio. - aveva detto solamente.

Si era accorto solo con il rumore della porta della stanza chiusa alle sue spalle di essere scappato.

Era andato a sedersi sul letto, al buio in una stanza non sua, ma non si era sdraiato subito. Era rimasto così per qualche minuto, immobile, le mani sulle ginocchia e il petto pesante, affaticato da qualcosa che non sapeva riconoscere.

Aveva ancora nelle orecchie il rumore del combattimento, dei cocci di ceramica frantumati sotto i piedi, della schiena di James sbattuta con violenza contro il vecchio tavolo di mogano.

Chiuse gli occhi, ma fu un errore.

Il volto insanguinato di Francesco tornò alla sua mente come un flash, improvviso, indesiderato, meschino.

Era morto.

Aveva tenuto le mani premute sulle sue ferite, aveva cercato di fare qualcosa, invertire la rotta di un destino evidente, opporsi, fare la differenza, ma assieme al sangue la vita dell’uomo era scivolata velocemente fra le sue dita.

Hanno preso il mio libro, lo hanno preso.” gli aveva detto fra i rantoli, negli occhi già distanti lo spettro della paura portata dall’incomprensione.

Stava morendo? Per uno stupido libro antico? Lo avevano ucciso per quello?

Zemo aveva sentito il panico serrargli la gola, annientargli le sinapsi. Cosa poteva fare? Non c’era tempo per chiamare aiuto, non c’era tempo per prestargli soccorso, non c’era tempo per niente.

Tardi, erano arrivati tardi, lui era arrivato tardi e la mano dell’uomo sul suo volto recava una dolcezza che non meritava, una cura sbagliata per un assassino.

Scappa Helmut, salvati!” era stato l’ultimo sussurro, prima di lasciarlo solo con l’orrore.

Scappa. Zemo non poteva scappare. Non sarebbe scappato.

E Franceso era morto, solo, spaventato, confuso. Era morto e lui era rimasto a guardare.

Riaprì gli occhi di scatto e gli sembrò che il buio gli entrasse nelle narici, che gli ostruisse i polmoni e gli bloccasse la gola, una mano invisibile che premeva e premeva e premeva finché un sibilo sfuggì alle sue labbra.

Spalancò la bocca e trasse un profondo respiro a pieni polmoni, lasciò che l’aria gli irrorasse le vene, che l’ossigeno conquistasse ogni anfratto di lui, ma si accorse con orrore che per quanto inspirasse a fondo l’aria non bastava mai, il buio era ancora dentro di lui, ingrandiva, si faceva spazio senza chiedere, occupava ogni cosa e schiacciava, schiacciava, schiacciava e non lo lasciava in pace.

Boccheggiante e appena piegato in avanti Zemo lasciò che una mano tremante recuperasse il telefono dalla tasca dei pantaloni e sbloccò la tastiera.

La luce dello schermo esplose nella stanza vuota e per un momento gli parve di tornare a respirare.

Rimase immobile a guardare l’immagine di sfondo, una fotografia predefinita di una qualche spiaggia tropicale, poi senza nemmeno accorgersene aprì la casella di messaggeria e prese a digitare.

“Come sapevi della villa?”

Inviò e la risposta arrivò in meno di dieci secondi. Shuri doveva viverci seduta sopra al suo telefono.

“Sei sotto osservazione Zemo, teniamo d’occhio ogni tuo passo.”

“Dimenticavo che avete occhi ovunque.”

Le spunte a lato del messaggio gli indicarono che Shuri aveva letto, ma la ragazza non rispose subito. Passarono alcuni secondi prima che un nuovo messaggio gli facesse vibrare il telefono fra le mani.

“Sono le tre e mezza a Roma.”

Zemo sentì i tremori allentarsi a quella frase apparentemente senza capo né coda.

“E sono le quattro e mezza in Wakanda.”

Immaginò le sue labbra tendersi da un lato in quel suo solito mezzo ghigno e l’ossigeno tornò a farsi strada nel buio.

“Sì, è piuttosto noioso aspettare che faccia chiaro senza poterti dare noia faccia a faccia, mi avevi abituata bene.” fu la replica che ottenne dopo un’altra manciata di secondi.

Scosse la testa, il buio sconfitto e il cuore disteso.

“Dovresti proprio dormire. Mens sana in corpore sano, Shuri.”

Non sapeva se la ragazza conoscesse o meno il Latino, ma dovette essere andata a controllare la traduzione su internet, perché il suo messaggio successivo fu una gif di un dito medio.

“Sempre così regale, mia Signora.”

Quindi, anche se lui ormai era partito da una settimana intera, continuava ad avere il suo stesso problema, le notti insonni continuavano a tenerla sveglia con i suoi demoni. Sospirò e si sdraiò a letto, sistemandosi le coperte fino a mezzo busto.

“E comunque alla tua età non ti fa bene fare le ore piccole. Vecchio.” gli scrisse, e quell’insulto gli arrivò con l’eco della risata della giovane.

Si scambiarono ancora qualche messaggio, poi Zemo sentì finalmente le palpebre farsi pesanti e si congedò con un ultimo messaggio.

“Grazie.” scrisse solo.

“A te.” e seppe, senza bisogno d’altro, che per quanto distorto e sbagliato fosse anche Shuri aveva avuto bisogno di quel dialogo senza senso.

Mise il telefono sotto carica e sospirò a fondo, il peso di poco prima sollevato abbastanza da poter provare a riposare qualche ora.

Sognò Shuri, sognò Francesco e James nel parcheggio del diner. Helena gli chiedeva chi fossero, ma quando apriva la bocca per risponderle non ne usciva alcun suono.

Non sognò altro se non buio e silenzio. Alla mattina non ne serbava più alcun ricordo.

La prima cosa che notò da sveglio fu che il mal di testa era passato. Si portò una mano sul volto e si stropicciò gli occhi per scacciare gli ultimi rimasugli di sonno, poi si alzò in piedi, sistemandosi alla buona i capelli con le dita e spuntando in corridoio.

Andò a sciacquarsi velocemente la faccia, ma una musica allegra lo attirò lungo il corridoio, attraverso il salotto fino alla grande cucina.

- Buongiorno Helmut! - Teresa lo salutò con un sorriso genuino e James, seduto al tavolo della cucina e già vestito di tutto punto, gli fece un cenno con la mano.

- Buongiorno. - replicò andandosi a sedere di fronte a James mentre la padrona di casa si muoveva verso i fornelli e recuperava una caffettiera da quattro.

Zemo ne approfittò per darsi un’occhiata attorno. Era stato solo un paio di volte a casa di Teresa, ma gli sembrava ancora tale e quale a come la ricordava: il salotto chiaro era arredato con gusto, i mobili antichi accompagnati da quadri di valore e soprammobili pregiati, la cucina era illuminata dalla luce dell’esterno e ricolma di giare di vetro e vasetti riempiti a tappo di biscotti, spezie e quant’altro.

Anche Teresa non sembrava invecchiata di un giorno, agile ed elegante persino nei suoi abiti da casa.

- Io e Helmut ci siamo conosciuti in occasione di un seminario all’Università di Berlino, anche se in realtà conoscevo suo padre da molto tempo. Uno studente brillante, Helmut. Il migliore del suo corso. - spiegò a James versandogli il caffè e indicandogli la zuccheriera.

Quello sorrise sbieco e gli indirizzò un’occhiata bizzarra.

- Non ne dubito! - fu il suo commento, e Zemo roteò gli occhi, rovesciando due cucchiai pieni di zucchero nel caffè.

- Mi fa piacere vederti. Mi dispiace che il nostro ultimo incontro sia stato in circostanze così spiacevoli… - fece la donna, l’espressione allegra ora velata da un ricordo che Zemo conosceva bene.

- Sokovia, i funerali di Stato. - spiegò asciutto, consapevole della perplessità negli occhi di James.

- Anche Helena era una mia ex-studentessa. Anche se ammetto che all’epoca non avrei mai detto che avreste finito per sposarvi. -

Zemo si soffermò un secondo di troppo a guardare in faccia James, e quello distolse lo sguardo, turbato. Forse parlare di persone che non conosceva lo metteva a disagio, o forse semplicemente non aveva interesse nella storia di come lui e Helena si erano conosciuti. Più che comprensibile.

- Di certo non l’avrebbe detto nemmeno lei! - commentò Zemo con un sorriso finto che pose fine alla questione. Diede un sorso al suo caffè e si sporse appena in avanti, lo sguardo basso sulla superficie del tavolo.

- Mi dispiace per come ci siamo presentati a casa tua senza annuncio, ma si trattava di una situazione piuttosto complicata. -

Quando la donna non rispose, intenta a sbocconcellare una fetta biscottata ricoperta di marmellata, fu James a prendere la parola.

- In realtà stiamo svolgendo una specie di indagine. Suppongo abbia sentito parlare degli Wraiths. -

Teresa annuì e bevve quello che aveva tutta l’aria di essere un succo di frutta.

- Quindi sono reali. - disse solamente.

James si strinse nelle spalle, non particolarmente convinto.

- E’ quello che stiamo cercando di capire. Abbiamo trovato questa sul luogo di uno dei furti, ci chiedevamo se ci potesse aiutare a decifrarne la simbologia. - spiegò porgendole la spilla.

Zemo gli fu grato di non essere sceso nei dettagli, non era necessario che Teresa sapesse davvero quale fosse la natura della loro collaborazione e che tipi di vicende li avessero condotti fino a lei.

Non era del tutto sicuro che sarebbe stata così disposta ad aiutarli se avesse saputo che già una persona era morta nel contesto delle loro indagini.

Non era del tutto sicuro che sarebbe stata così disposta ad aiutarli se avesse saputo che il solo ospitarli in casa sua la rendeva un soggetto a rischio.

Sospirò lieve mentre la donna inforcava gli occhiali che aveva appesi al collo tramite una cordicella e osservava con attenzione la spilla.

E se fosse successo qualcosa anche a lei? Se si fossero lasciati altro sangue sulla scia delle loro ricerche? Poteva prometterle che non le sarebbe successo nulla?

No, certo che no. Non poteva promettere niente.

Lo sguardo gli cadde sul coltello sporco di marmellata, la lama lucida al di sotto della patina zuccherina.

C’era stato un periodo della sua giovinezza in cui Zemo aveva l’abitudine di vantarsi di non sbagliare mai. Ogni esame universitario era una lode, ogni partecipazione a un progetto una menzione speciale, ogni relazione intessuta un’amicizia che si sarebbe consolidata nel tempo. Helena era stata il fiore all’occhiello di una vita perfetta e senza sbavature, la donna più bella, intelligente e divertente che avesse mai potuto anche solo sognare.

Zemo non sbagliava mai, non aveva sbagliato mai fino a che non aveva sbagliato tutto. Un errore di calcolo, una sbavatura nella valutazione, e di colpo il suo mondo si era spento e tutta la perfezione accumulata era diventata inutile, muta come la firma sul testamento di suo padre, vuota come il letto che avrebbe occupato da quel momento in avanti, tradita come il diritto ad essere protetto di Carl.

A cosa era servito essere perfetto, allora? A cosa era servito essere se stesso?

L’unica cosa che contasse era rimasta bloccata sotto cemento e tubi innocenti a chiamare il suo nome finché la calce non aveva portato via ciò che rimaneva e per due giorni aveva imposto il silenzio sul luogo che aveva imparato a chiamare casa.

Era finito tutto così, stupidamente. Per caso. Come se la sua storia fosse stata una storia qualsiasi, come se la sua famiglia fosse stata un insieme senza forma di personaggi di contorno ad una storia più grande, comparse nell’avventura di eroi distanti.

E lui, lui solo era rimasto a testimone del suo errore, della sua leggerezza, della sua fallibilità.

Non aveva saputo proteggerli, e ad ogni passo falso che aveva commesso era stato come se Novi Grad fosse crollata di nuovo, ancora e ancora, travolgendo i muri della sua casa e mettendogli in mano la sua croce per l’ennesima volta.

E adesso, senza tregua, gli errori di calcolo continuavano ad accumularsi, perché Zemo era tutto fuorché perfetto, tutto fuorché infallibile, e la sua presunzione aveva lasciato Francesco e i suoi collaboratori freddi nel buio della villa, perché aveva pensato di essere il solo a saper giocare a un gioco di cui in realtà nemmeno conosceva le regole e ancora una volta ne aveva pagato le conseguenze qualcuno che non meritava punizioni.

Nella luce quieta del mattino la lama del coltello rilanciava bagliori gentili e Zemo continuò a guardarla, a percorrerne la lunghezza senza alcuna espressione sul volto.

Il freddo dell’acciaio sarebbe stato un balsamo per il sangue caldo che gli pompava oscenamente nelle vene, sarebbe stato un’espiazione per la superbia che aveva guidato i suoi passi fino all’ergastolo.

Guardò il coltello e lo immaginò sfiorargli la pelle, gelido, scientifico, chirurgico.

Un bicchiere d’acqua dopo un incendio, il cuscino soffice dopo una giornata di fatiche.

Sarebbe bastato così poco, sarebbe bastato un niente.

E poi il silenzio, e poi casa.

E forse il perdono.

- Zemo. -

Si riscosse di colpo, richiamato all’ordine dalla voce arrochita di James.

L’uomo lo stava guardando negli occhi, uno sguardo cupo, intenso, le iridi azzurre intorbidite come la superficie dell’oceano prima dello schiocco del fulmine.

Zemo resse il suo sguardo senza sapere bene quale forma avesse assunto la linea delle sue labbra, rimase fermo immobile, aggrappato agli occhi di James, inchiodato come un animale terrorizzato di fronte al predatore e si concesse solamente un respiro spezzato.

“Non scapperà.”

Le parole dell’americano gli attraversarono la spina dorsale come una scarica elettrica e gli fecero venire la pelle d’oca.

- Teresa, riconosci qualcosa? - domandò voltandosi di scatto verso la donna, lontano da James, lontano dai suoi occhi, lontano dai ricordi e da tutto quello che si portavano appresso.

Vide con la coda dell’occhio che James aveva preso il coltello, ma non lo stava usando. Semplicemente lo teneva fra le dita, lo sguardo ancora fisso su di lui.

- Sì… - disse la donna con voce pensosa, mentre gli altri due sgranavano gli occhi di colpo.

- Abbiate pazienza, so di averlo visto ma non ricordo di preciso cosa rappresenti. Di certo posso dirvi che è uno stemma di una loggia, un qualche gruppo massonico. Le figure geometriche al centro sono un antico simbolo della trasmutazione alchemica, ma senza riferimento non sono sicura di poter collocare queste altre due figure. - spiegò, indicando il volatile e la struttura alla base della spilla.

- Aspettate, fatemi controllare, forse ho un libro che… - borbottò, abbandonando il tavolo della colazione e muovendosi verso il salotto.

- Intanto mangiate pure tranquilli, mi ci vorrà un po’! - li informò sparendo oltre la porta.

Il silenzio piombò immediatamente in cucina.

Zemo continuava a fissare insistentemente fuori dalla finestra, lo sguardo di James che gli bruciava la nuca.

- Forse verremo a capo almeno di questo mistero. - disse quello dopo qualche minuto di silenzio.

- Sono fiducioso, Teresa è un’esperta in materia. Se questo simbolo ha qualche precedente lei lo troverà di sicuro. - spiegò, realmente tranquillo.

Terminò il suo caffè con un sorso e si alzò in piedi, facendo un giro per la cucina e alzando le sopracciglia in vaga sorpresa quando notò che su una seggiola erano sistemati i suoi vestiti già lavati, stirati e debitamente ripiegati.

Si avvicinò e prese fra le mani la camicia: un lieve alone rosato era rimasto sul colletto in concomitanza della macchia di sangue, ma un occhio ignaro non si sarebbe accorto di niente.

- Posso farti una domanda? - la voce di James lo raggiunse nuovamente come da molto lontano e annuì senza voltarsi in sua direzione.

- Quali rapporti ti legavano a Francesco? -

Per un istante la presa attorno al cotone chiaro si fece più forte, ma durò solamente un attimo.

Zemo trasse un profondo sospiro e finalmente si decise a tornare a guardare in faccia il suo interlocutore.

- Lui e mio padre erano amici di vecchia data. Da bambino ogni estate trascorrevo almeno un mese a Firenze, è lui che mi ha insegnato l’Italiano e mi ha trasmesso l’amore per l’Arte. Era una specie di… Zio all’estero. - si concesse un sorriso affettuoso al ricordo dei pomeriggi passati assieme a Francesco a rovistare nei bauli pieni di strani oggetti dell’antichità dei quali il vecchio gli spiegava ogni funzione ed impiego.

- Anche dopo che mi sono sposato abbiamo continuato ad andare a trovarlo durante le vacanze estive, anche se con Carl piccolo, la scuola e tutto quanto non riuscivamo ad andare tutti gli anni. L’ultima volta è stata nel 2013, poi fra il lavoro e il resto… Era un po’ che non ci sentivamo. Non gli ho nemmeno mai detto di quello che è successo a Novi Grad. Non mi sembrava mai il momento appropriato. - ammise.

Si accorse di avere la vista offuscata solo quando sbatté le palpebre e fu in quel momento che accadde.

James non disse nulla, ma si alzò in piedi di scatto, la mano destra a incominciare un movimento verso di lui che Zemo non permise.

Con un sussulto appena percettibile fece un passo indietro e riguadagnò la distanza. Scoccò un’occhiata di ghiaccio all’uomo in piedi di fronte a lui, come se gli avesse dato un ceffone sul viso, come se gli avesse rifilato una scarica da tremila Volt.

Aveva visto cosa c’era nei suoi occhi, aveva riconosciuto quel sentimento e non lo voleva. Non doveva osare, non doveva nemmeno immaginare di potersi permettere.

Lui non era sperduto, non era un cucciolo nella pioggia che avesse bisogno di pietà. Non se ne sarebbe fatto nulla della sua schifosa compassione.

Non la voleva.

- Vado a vedere se Teresa ha bisogno. - sibilò, ustionato da quel gesto abortito a metà, strinato dall’improvvisa realizzazione di essersi mostrato vulnerabile all’ultimo uomo sulla faccia della terra a cui avrebbe mai concesso di vedere nel suo cuore.

Girò sui tacchi e lasciò Barnes solo in cucina, a domandarsi cosa avesse voluto farne di quella mano appena protesa in avanti.

Non lo vide, ma James si mise la mano in tasca, l’espressione accigliata, e tornò a sedersi.

In sottofondo, la radio continuava a cantare una musica allegra.

- Teresa, hai bisogno di una mano? - fece, entrando in salotto e trovando la donna seduta sul divano con tre o quattro libri aperti davanti a lei.

Quella alzò lo sguardo dalla sua lettura e tolse gli occhiali, lasciandoli a penzolare contro il petto.

- Temo di non avere niente in casa a riguardo. So di aver visto questo simbolo, ne sono sicura, ma non ricordo assolutamente quale fosse il contesto. - spiegò, scuotendo la testa e allargando le braccia, sconfitta.

Zemo andò a sedersi accanto a lei e prese in mano uno a caso dei volumi, sfogliandolo distrattamente.

- Potrebbe essere legato a qualche luogo particolare, qualche, non so… città alchemica? - azzardò, memore delle parole delle ragazze al diner.

Le sopracciglia di Teresa si arcuarono verso il basso, il ragionamento in atto ben visibile sul suo volto.

- Il ponte. -  

- Come? -

La donna gli portò una mano sulla spalla e strinse appena, raggiante.

- Bravissimo, Helmut! Il ponte! Le città! -

Zemo non capì nulla della sua euforia se non che la sua sortita le aveva fatto ricordare qualcosa.

Prima che potesse aggiungere altro, tuttavia, la padrona di casa si alzò in piedi, facendo cadere un libro sul tappeto ma ignorandolo completamente.

- Signor Barnes! Mi è venuta un’idea! - esclamò sporgendosi a mezzobusto dalla porta della cucina.

- Vai a vestirti, Helmut, andiamo agli Archivi! - esclamò.

- Agli Archivi? - chiese James, raggiungendoli in salotto ma guardandosi dall’avvicinarsi a Zemo. Rimase sulla soglia, la spalla destra appoggiata allo stipite della porta e le braccia conserte.

- Gli Archivi Vaticani. Mi sono ricordata dove ho visto quel simbolo, ma avremo bisogno di qualche permesso per poter approfondire la ricerca. - spiegò elettrizzata.

Zemo si lasciò sfuggire un sorrisetto, non si aspettava che Teresa avrebbe trovato la situazione così divertente.

Decise che sarebbe stato meglio assecondarla prima che l’entusiasmo si smorzasse e filò a cambiarsi.

Teresa li guidò attraverso le vie della capitale con passo sicuro, dispensando informazioni storiche e racconti della sua giovinezza ad ogni incrocio, ad ogni piazza attraversata. James stava ad ascoltare apparentemente incuriosito e Zemo li seguiva in un quieto silenzio, godendosi l’arte e cercando di non pensare a quello che era successo poco prima in cucina.

Lasciò che la donna li guidasse attraverso Piazza San Pietro e non riuscì a impedirsi di sorridere quando vide James spalancare la bocca nella più totale ammirazione.

- E’ la prima volta a Roma, vero? - gli chiese Teresa.

L’uomo annuì, gli occhi spalancati di meraviglia di fronte alla magnificenza della piazza.

- Ne avevo sentito parlare solamente nei libri. E’ davvero straordinaria. - fece con un cenno al colonnato che li aveva accolti come un abbraccio.

Teresa sorrise orgogliosa e lo prese sottobraccio con una confidenza che Zemo non si sarebbe aspettato.

- Lo so! - disse con un occhiolino, facendogli segno di proseguire guidandolo verso destra, lungo la strada che li avrebbe condotti agli Archivi.

- Adesso dovrete far parlare me. Agli Archivi sono particolarmente puntigliosi, teoricamente ci vorrebbe un permesso già firmato per poter visitare la sezione che ci serve, ma bisognerebbe aspettare che aprano gli uffici e non ne ho voglia. - spiegò con aria fintamente scocciata, gonfiando appena le guance e sbuffando lievemente ad indicare la sua scarsa pazienza nei confronti della burocrazia.

La donna rovistò nella sua borsa  e ne fece emergere un badge attaccato a un cordino colorato che sventolò di fronte all’uscere elencando nome, cognome e professione come se fosse un’abitudine quotidiana e fosse l’impiegato a non essere sul pezzo.

L’uomo le disse qualcosa gesticolando e Teresa si strinse nelle spalle, indicando poi il polso destro con un paio di colpi dell’indice, probabilmente una lamentela sul tempo che stavano sprecando in chiacchiere.

L’uscere chiamò un altro impiegato, che arrivò di corsa e scambiò qualche parola con lui e fece una veloce telefonata al cellulare.

- E’ così complicato? - chiese James sottovoce, la punta del piede che batteva i secondi nervosamente contro il pavimento.

- In Vaticano si prendono eccessivamente sul serio. - ribatté Zemo alzando gli occhi al cielo e portando le mani sui fianchi, indispettito.

Davanti a loro Teresa si finse estremamente spazientita e pretese di farsi passare il cellulare.

- Senti, non posso far slittare la pubblicazione, i miei agenti sono qui con me e stanno aspettando letteralmente questa conferma. Quanti anni sono che lavoriamo assieme? Quindici? E’ ridicolo che io debba ancora avere bisogno di un permesso per accedere ai… Ah! Ah ecco, ora si che ragioniamo. Fantastico. Bravo, grazie. - la sentì rimproverare la persona dall’altra parte della linea.

- Volevo ben vedere. - aggiunse restituendo il cellulare al proprietario con un gesto brusco.

L’impiegato le scoccò uno sguardo scocciato e le rivolse un cenno della testa.

- Venite. -

Teresa si voltò verso di loro e fece un occhiolino.

- Andiamo? - sorrise.

James sogghignò, un’occhiata rapida a Zemo.

- Che donna. - commentò semplicemente, prima di attraversare l’ingresso a grandi passi e raggiungerla.

Li seguì, l’andatura decisa e trattenendo un sorrisetto divertito: aveva decisamente ragione.

Attraversarono gli Archivi in silenzio, attorno a loro anni e anni di Storia impressa sulla cellulosa. James aveva negli occhi lo stupore di un bambino e Zemo si sorprese più di una volta ad osservare la sua meraviglia con una punta lontana di… affetto? Non tanto per James, quanto per la genuinità dell’amore per ciò che stavano vedendo. Zemo aveva sempre amato la cultura, sapere che il suo era un parere condiviso riusciva sempre e comunque a scaldargli il cuore, da chiunque questo parere arrivasse.

Teresa si fermò dopo qualche minuto e attese pazientemente che un altro impiegato le portasse i libri da lei richiesti mentre stava al telefono. Si trattava di un paio di volumi decisamente antichi, a occhio e croce del Seicento, e di un testo più recente, tardo Ottocento o inizi Novecento a giudicare dalla copertina.

La donna aprì uno dei volumi e iniziò a sfogliarlo con estrema cura, i gesti simili a un rituale sacro.

- Eccolo qui! - esclamò dopo un paio di minuti.

Gli altri due si avvicinarono, sbirciando il libro da dietro le sue spalle.

- Ricordavo bene. Il simbolo al centro rappresenta la trasmutazione alchemica, ma non si tratta di un qualsiasi simbolo legato all’Alchimia. L’aquila è uno stemma reale abbastanza comune in Europa, ma è storicamente legato in particolare alla casata d’Asburgo. - raccontò, andando ad aprire il libro più recente.

James pendeva dalle sue labbra, assolutamente rapito dalle parole della donna, ma Zemo aveva iniziato a capire dove volesse andare a parare, e le sue sopracciglia si erano curvate verso il basso mentre cercava di recuperare dalla sua memoria l’informazione giusta.

Aveva già sentito parlare di qualcosa di simile, ma non ricordava assolutamente in che contesto.

- Ora, la cosa che mi perplimeva di più era come mettere in relazione il ponte. E’ un simbolo strano, raramente utilizzato in stemmi di questo tipo. Nell’araldica medievale è più comune incontrare un fiume, la scelta del ponte abbinata all’aquila era qualcosa che non riuscivo a capire su due piedi. - spiegò ancora, Zemo che annuiva, memore dei suoi studi.

- Tuttavia esiste una città in Europa particolarmente famosa per un ponte, una città a lungo tempo sotto il dominio della casa d’Asburgo e nota per i suoi trascorsi alchemici. - aggiunse.

- Praga! - la bloccò Zemo, gli occhi che luccicavano di entusiasmo. Forse erano sulla strada giusta.

- Quindi gli Wraiths sono originari di Praga? - domandò James, scettico.

Teresa scosse la testa e gli indicò il libro più recente.

- Non è detto, ma il simbolo sulla spilla è certamente legato alla città. Esisteva una sorta di setta, qualcosa di simile a una loggia massonica, che aveva scelto Praga come città di origine, come centro nevralgico del loro lavoro. Erano esaltati che ricercavano attraverso le antiche conoscenze alchemiche di raggiungere vari obiettivi. Le leggende parlano di viaggi nel tempo, pietra filosofale, le solite solfe, ma nel concreto alcuni di loro si trovavano a Sarajevo nel 1914. -

- L’attentato all’Arciduca?! - esclamò James, stupito.

- Sei informato! - non riuscì a trattenersi Zemo.

- Mio padre ha fatto la Grande Guerra, ne parlava spesso. - fu la scarna spiegazione un poco risentita da quella palese mancanza di fiducia nei confronti delle sue conoscenza storiche.

Teresa scoccò ad entrambi un’occhiata di rimprovero e proseguì.

- I responsabili furono catturati e giustiziati e le indagini successive portarono allo smantellamento delle sette coinvolte, fra cui la nostra. Ufficialmente la si considera disgregata dal 1915, non ci sono mai state altre notizie su una loro eventuale attività. -

James incrociò le braccia al petto.

- Potrebbero essere solamente degli emulatori. Qualcuno che ha scoperto questa storia anni dopo e l’ha usata come spunto. - propose.

- Che tu sappia avevano un disegno politico al di là della lotta all’Austria? - domandò Zemo, chinandosi appena in avanti per leggere meglio dal libro.

Teresa scosse la testa.

- Novus ordo seclorum. - disse solo.

- Virgilio? - fece Zemo, confuso.

- La banconota da un dollaro. - rettificò James, beccandosi un’occhiata confusa.

- Ovviamente si tratta di una teoria del complotto, nulla di serio, ma pare che dai tempi più remoti della fondazione, e stiamo parlando degli inizi del Seicento, questa setta lavorasse per ottenere come fine ultimo un nuovo ordine delle cose. Non si è mai capito cosa intendessero anche perché gli schieramenti politici dei membri sono cambiati piuttosto drasticamente nel corso dei secoli, ma la teoria più accreditata è che puntassero ad una riorganizzazione della politica europea tramite l’uso dell’alchimia. - spiegò ancora Teresa.

- Dei pazzi. - commentò Zemo, caustico.

- Abbastanza pazzi da uccidere per questo. - gli fece eco James.

Zemo tacque per qualche secondo, poi gli rivolse uno sguardo serio.

- Le ragazze del diner. Se hanno registrato una traccia a Praga forse questa teoria non è del tutto campata per aria. - suggerì.

Teresa si mostrò piccata, le mani conserte e il cipiglio offeso.

- Helmut Zemo, le mie teorie non sono mai campate per aria! - lo rimproverò.

Accanto a lei, James stava già digitando un messaggio al cellulare.

- Ok, ho scritto. Speriamo possano esserci d’aiuto. -

Teresa continuò a leggere dal libro più recente, mentre Zemo cercava di tradurre il Latino degli altri due testi e farsi un’idea dell’organizzazione a cui probabilmente si ispiravano gli Wraiths. Che l’Alchimia fosse un elemento centrale ormai era evidente, ma non riusciva a capire quale fosse il loro punto di arrivo. A cosa poteva servire il vibranio che avevano trafugato? Che avesse a che fare con la pietra filosofale? O forse i materiali rubati erano necessari per qualche incantesimo che permettesse di viaggiare nel tempo?

- Bingo! - esclamò improvvisamente James, facendoli sobbalzare entrambi.

- Hanno risposto? - domandò sporgendosi verso di lui, i palmi delle mani poggiati sul tavolo per sorreggere il suo peso.

L’altro si limitò a voltare il telefono in sua direzione: sullo schermo campeggiava un messaggio più che esplicativo.

“Almeno tre volte negli ultimi due mesi, ma nessuno ha denunciato furti o attacchi e abbiamo pensato fosse un caso. Avete scoperto qualcosa?”

- Quindi Praga ha davvero a che fare con questa storia! - esclamò Zemo.

- Pensate che il prossimo colpo degli Wraiths sarà là? - inquisì Teresa.

James scosse la testa pensieroso.

- Credo sia più probabile che a Praga ci sia il loro quartier generale, proprio come per la setta originaria. In ogni caso avrebbe senso incominciare ad indagare partendo da lì. - spiegò.

Zemo annuì deciso e un sorriso entusiasta gli solcò il volto.

- Che siano emulatori o meno la setta è nata a Praga e di certo a Praga troveremo le informazioni che ci servono. Se non incontreremo gli Wraiths potremo per lo meno capire quali intenzioni li muovono. - aggiunse.

Teresa si unì al sorriso di Zemo, le rughe attorno agli occhi ad accentuare ancora di più la sua espressione soddisfatta. Portò una mano sulla spalla del suo ex studente e annuì appena, ad accordargli la ragione.

- Fantastico! - esclamò, divertita come se si fosse trattato di una caccia al tesoro in una domenica d’estate.

- Non preoccupatevi di nulla, vi presto il mio jet, così potrete partire quando preferite! - si offrì, genuinamente contenta di essere stata d’aiuto.

Anche senza vederli, Zemo sentì gli occhi di James posarsi su di lui e quando ne incontrò l’azzurro percepì forte e chiaro che l’uomo si stava chiedendo quanto di tutto quello fosse stato premeditato.

Zemo portò una mano a stringere dolcemente quella di Teresa in un gesto di riconoscenza, ma mantenne lo sguardo su James.

- Perfetto allora, abbiamo una pista! - esclamò, sulle labbra arcuate all’insù tutta la saccente soddisfazione di essere un passo avanti in quell’indagine.

Se si fossero sbrigati sarebbero arrivati a Praga in tempo per l’ora di cena.


 

   
 
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