Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
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Autore: Elisa_Malse    29/06/2021    1 recensioni
DAL CAPITOLO: ????
JUNGKOOK'S POV:
Come ho conosciuto Taehyung? È entrato nella mia pasticceria, ha comprato una torta di ciliegie, rubato un vaso di fiori - non avevo idea di cosa diamine dovesse farci - e lasciato il suo biglietto da visita in bella mostra.
Prima di ammettere cosa abbia fatto con il biglietto da visita vorrei chiarire una cosa: Taehyung non avrebbe potuto scegliere un momento peggiore per entrare nella mia vita. Il mio locale stava per fallire. Quello stupido del mio ex si rifiutava di lasciarmi in pace. E tutti mi tormentavano perché a venticinque anni non ero ancora mai andato a letto con un ragazzo dopo aver scoperto da anni il mio orientamento sessuale.
Taehyung non era certo il candidato ideale per la mia prima volta. Un donnaiolo convinto, sexy in modo insopportabile. Tutto il contrario di cui avevo bisogno. E allora perché l'ho cercato? Ho capito di essere nei guai quando con la sua voce profonda mi ha detto: «La tua torta era deliziosa. Cucini anche a domicilio?»
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Taehyung/ V, Park Jimin
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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JUNGKOOK'S POV:

Mia nonna ha sempre affermato che fare dolci è il miglior rimedio contro la tristezza. È una nonna adorabile, e faceva biscotti talmente buoni da leccarsi i baffi, ma si sbagliava di grosso. Da più di due anni ormai sfornavo nella mia bakery torte di ciliegie, paste, croissant, bagel, e qualunque altro dolciume si possa immaginare. E avevo capito che i dolci sono un rimedio solo contro il girovita e ogni proposito di seguire una dieta.

E comunque non ero una persona triste. Avevo compiuto da poco venticinque anni e mi ero reso conto di non poter aspettare che la vita venisse a bussare alla mia porta. Chiamatemi pure ingenuo e tardo di comprendonio, ma ero convinto che se fossi rimasto sempre umile, avessi lavorato sodo e mi fossi comportato da bravo ragazzo, tutto il resto sarebbe venuto da sé. Così la mia vita trascorreva serena, tranquilla, normale, un giorno dietro l'altro, mentre il tempo passava sempre più veloce. Se mi fossi distratto un attimo, mi sarei ritrovato ancora vergine a ottant'anni, a sfornare cupcake così buoni da provocare orgasmi spontanei. Pasticcera dalle doti strabilianti, ma dalla vita grama. Ecco, quello non era esattamente il mio sogno. Nel mio cuore sapevo che se avessi continuato a evitare le opportunità che mi si presentavano davanti con la stessa caparbietà con cui evitavo il filo interdentale – eccetto il giorno prima di andare dal dentista – sarei diventato un pasticcere vecchio, brontolone e illibato.

Sfornare dolci era facile. Aveva una sua logica. Aggiungete questo, togliete quello, infornate a questa temperatura, lasciate riposare per un certo tempo. È una scienza, quindi, se si segue la ricetta e si presta attenzione a ciò che si fa, si sa quel che si ottiene. Per questo amavo l'arte della pasticceria. Fare dolci era il mio rifugio, mi faceva sentire al sicuro. Se mia sorella e Hoseok, il mio unico dipendente, non mi avessero continuamente punzecchiato perché, a loro dire, mancavo del tutto di vita sociale, avrei vissuto solo per il mio lavoro. Nei fine settimana mi piaceva andare in avanscoperta nei mercatini di zona per scovare prodotti locali freschi, mi appassionava testare nuove ricette e provare a perfezionare quelle classiche. La pasticceria era la mia vita. Non mi sarei sorpreso di avere una farcitura di ciliegie al posto del sangue. Di sicuro sul viso avevo più spesso farina che altro. C'era la pasticceria e c'era la mia vita. Forse un giorno le due cose avrebbero trovato piena realizzazione: si sarebbe avverato il mio sogno di allargare il locale e perfezionare le mie ricette, così da raggiungere finalmente quella felicità piena che ancora mancava alla mia vita. Altri giorni, invece, mi sembrava di vivere in una gabbia rivestita di torte e dolci: deliziosa, ma pur sempre una gabbia.

Sì, amavo quel che facevo, ma no, nonna, la pasticceria non era un toccasana.

Dovevo solo dare un'occhiata al vecchio e consunto testo universitario che avevo messo sotto il piedino del forno, comperato di seconda mano. Uno dei piedini era più corto degli altri, giusto quel tanto che bastava per infilarci sotto un libro, e ridare equilibrio al tutto. Biologia marina e dinamica di un ecosistema raro. Gli autori avevano preso una manciata di paroloni scientifici, li avevano mescolati tra loro come dentro un frullatore, e avevano pensato che gli studenti della facoltà si sarebbero sentiti dei geni portando a spasso quel tomo. Poi, avevano pensato bene di metterlo in vendita a trecento dollari. Così quando alla biblioteca della facoltà mi avevano offerto dieci dollari per acquistarlo, avevo mandato a farsi fottere loro e i dieci dollari.

Be', tecnicamente avevo pensato che potevano andare a farsi fottere. In realtà, avevo sorriso educatamente, li avevo "ringraziati" e poi, per calmarmi, avevo sentito Matt Costa tornando a casa. Da una vita lavoravo a contatto col pubblico e sapevo che non era corretto prendersela con la persona dietro al bancone per una cosa indipendente dalla sua volontà.

Così negli ultimi sei o sette anni avevo usato quel libro in una maniera diversa. Se non avevano intenzione di ridarmi trecento dollari, lo avrei impiegato in trecento modi diversi. All'inizio, lo usai come fermaporta nel dormitorio del college durante il periodo in cui frequentai la facoltà di sociologia, che mi dotò di una laurea utile a raccogliere polvere in uno schedario dimenticato chissà dove. Ci andai a sbattere contro, ci inciampai e, senza pensarci troppo, lo umiliai – la volta in cui ci picchiai contro l'alluce lo chiamai "ciccione", il che, devo ammetterlo, fu un po' esagerato, ma non avevo certo intenzione di scusarmi con un libro. Poi, quando non fungeva da fermaporta, mi era servito per schiacciare i ragni. Lo avevo usato anche per dormirci sopra, tutte le volte in cui il gatto prendeva possesso del mio cuscino. Ci avevo anche scarabocchiato dentro. E adesso? Fungeva da supporto al mio forno. In poche parole, era la colonna portante della mia attività.

Certo, forse l'immagine è un po' esagerata. Ma la verità è più simile all'impasto di quanto si creda. Date loro una tiratina da una parte, un'aggiustatina dall'altra, lavorateli un po' con le mani, e voilà. Con le dovute accortezze si manda giù anche la verità più amara. O il muffin più dolce.

Tutto sommato, dopo tanti anni, potevo dire di aver recuperato almeno venti dollari. Me ne restavano ancora duecentottanta. Ovviamente, c'era un'altra ragione per cui avevo tenuto quello stupido libro mentre avevo venduto tutti gli altri costosi testi per pochi spiccioli. Era stato in quel tomo che, per la prima volta, avevo scarabocchiato il suo nome, dentro un cuoricino. E lo avevo tenuto stretto al petto, proprio sul cuore impazzito dalla gioia, la prima volta che avevamo parlato alla fine di una lezione. Jimin. Il ragazzo dei miei sogni, che poi si era trasformato in un viscido stalker. Dovevo ringraziare lui della mia verginità, almeno in parte. Non so se esista un disturbo post-traumatico da depravato, ma se c'è, Jimin mi aveva causato proprio quella sindrome. Avevo acquisito un'abilità straordinaria: tenere a debita distanza chiunque avesse un pene a meno che non si trattasse dei miei amici etero. Quindi, conservare quel libro era per me come avere sempre davanti agli occhi un avvertimento: "Attento al pene, porta guai e insidie".

Posai l'ultima torta di ciliegie sul tavolo d'acciaio infarinato, vicino al forno. Le torte sembravano perfette. E lo erano. Ero bravo a fare i dolci. Avevo un quaderno pieno di ricette con le relative modifiche apportate nel corso degli anni per trovare il perfetto equilibrio di sapori e consistenze. Pagine e pagine in cui avevo annotato la differenza tra aggiungere una tazza di zucchero, oppure una tazza di zucchero piena fino all'orlo, oppure parzialmente piena, o aggiungerne solo metà alla volta, e così via. Se la pasticceria era un'arte, io ero uno scienziato folle. Il mago dei cupcake. La gente entrava nel mio locale per concedersi un peccato di gola, e poteva scommetterci le chiappe che avrebbe gustato delle vere prelibatezze.

I dolci non avevano curato il senso di vuoto che si annidava nel segreto del mio cuore, ma mi avevano dato uno scopo da perseguire. Sapevo di essere bravo, e prima o poi avrei ampliato il locale. Il primo passo, comunque, era riuscire a pagare le bollette, impresa titanica, ahimè. Ma se fosse stato così facile conquistare il mondo, lo avrebbero fatto tutti.

La mia sorellina Dawon passò a salutarmi. Lavorava come redattrice alla «Big Hit» e si fermava sempre a prendere un bagel mentre andava al lavoro. Con passo molleggiato, lasciando ondeggiare i suoi capelli biondi corti, si avvicinò al bancone. Spostò gli occhiali da sole sulla testa e ammiccò.

Mi pulii le mani sporche di farina e, tanto per non sbagliare, diedi un piccolo calcio al libro. Avrei preferito dare un calcio a lui, ma mi dovetti accontentare del libro. Peccato che non funzionasse come una bambola vudù.

«Come sta il mio vergine preferito stamattina?», mi chiese allegra.

«Lo sai che posso sputarti nel bagel, vero?». Mi preparai a qualche nuova battutina. Dawon tirava fuori il discorso sulla mia verginità più o meno una volta al mese, forse nei giorni in cui avevo il viso più sciupato.

«Oooh, la saliva di un vergine. Ho sentito che ha poteri magici. Ti prego, ne voglio un po' insieme al formaggio spalmabile».

«Sei disgustosa. L'unico potere della mia saliva è di sicuro antiafrodisiaco, a giudicare dai miei trascorsi».

«Mmm. Allora ne faccio volentieri a meno».

«Sai, se la smettessi di sbandierare così spesso e a voce alta la mia verginità, forse tutti quelli che frequento non ne sarebbero al corrente».

«Tutti quelli che frequenti. Okay. Cioè Hoseok e la nonna?»

«Cretina», borbottai. Mi voltai e cominciai a lavorare l'impasto con una certa energia, a pugni stretti. Non era quella la tecnica giusta per ottenere la consistenza perfetta, ma era un ottimo antistress.

«Be', penso ci sia anche...».

«Di lui non parliamo, ricordi?», chiesi.

«Jungkook, non fa bene tenersi tutto dentro. Non hai mai visto Io, me e Irene? In quel film Jim Carrey pensa che sia una buona idea reprimere le emozioni, e cosa gli succede?».

Scrollai le spalle. «Va a finir male?»

«Assolutamente. Ha uno sdoppiamento della personalità, diventa schizofrenico. Se non stai attento, finirai per ospitare nella tua testolina un altro ragazzo folle di nome Kookie, che comincerà a litigare coi bambini di sei anni nelle tavole calde. È questo che vuoi?»

«Domanda retorica?».

Si appoggiò al bancone e mi guardò come fossi un animale ferito, triste. «Voglio solo che tu sia felice».

«Be', e io voglio che mia sorella si preoccupi di meno della mia inesistente vita sessuale e di più di ciò che conta davvero».

«Oh, certo. Il sesso non conta. Vallo a dire agli uomini e alle donne di ogni epoca: ragazzi, ci siamo sbagliati. Fermi tutti. Uomini, tenete a bada i vostri uccelli. Distruggete gli stampi dei vibratori. Donne, chiudete le gambe, la festa è finita! Da sempre il sesso è sopravvalutato!».

«Stampi per vibratori? Sul serio?».

Scrollò le spalle. «Come pensi che li realizzino?».

La guardai di traverso. «Preferisco non pensarci. Sto solo cercando di dirti che non ho la smania di farmi la prima cosa che si muove».

«Forse invece dovresti. Pensaci. Hai venticinque anni, cazzo. Venticinque anni di attesa durante i quali ti sei costruito l'idea che fare sesso deve essere un avvenimento memorabile, sconvolgente. Hai delle aspettative troppo alte, ragazzo mio. Togliti quel bastone che hai su per il culo, smettila di essere così rigido e bacchettone, e lasciati andare».

«Togliermi il bastone che ho su per il culo e lasciarmi andare... Perle di saggezza di Dawon. Potrei fartele incidere sulla lapide?»

«Chi te lo dice che morirò io per prima? Io ti farò incidere: "Qui giace il più vecchio e triste vergine al mondo. Se avesse permesso a un ragazzo di spingersi quindici centimetri dentro di lui, forse non sarebbe finito due metri sotto terra"».

Tirai fuori un bagel dalla vetrina e senza troppa grazia lo farcii con un'abbondante dose di formaggio spalmabile. Più di quanto piacesse a lei, ma non mi importava. Lo avvolsi nella carta oleata e glielo porsi. «Ecco il tuo bagel. Hoseok dovrebbe arrivare tra qualche minuto e, grazie a te, mi stressa ancora di più e si inventa qualunque cosa pur di farmi uscire con qualcuno. Quindi perché non ti concedi un attimo di pausa e non lasci che continui lui a tormentarmi al tuo posto?».

Prese il bagel. «Gliel'ho detto solo perché desideravo che fosse lui a toglierti le ragnatele dalla ciliegina. Come facevo a sapere che si sarebbe buttato a capofitto nel ruolo di amico, trasformandosi nel signor Cupido?».

Feci una smorfia. «A volte il tuo talento nell'usare immagini strampalate è davvero eccessivo e anche un po' inquietante».

«Quanto sei dolce! Ehi, cos'è questa?», chiese prendendo la busta che avevo aperto e lasciato sul bancone.

Gliela strappai di mano. «Niente. Pubblicità spazzatura».

«Ah, certo, la cara vecchia pubblicità spazzatura con su scritto "avviso di sfratto" per attirare l'attenzione. Proprio il genere che ricevo sempre anch'io. Okay, ragazzo, rimani illibato». Mi lanciò un bacio e uscì col bagel in mano.

Quando se ne fu andata, guardai la lettera. Era l'avviso che mi comunicava che avevo una settimana di tempo per pagare l'affitto del mio appartamento se non volevo essere sfrattato. Non sapevo proprio come avrei potuto fare: tra due settimane sarebbe scaduto anche l'affitto del locale, e quella era già la terza rata che saltavo nell'arco dell'anno. Sospirai. Avevo sempre trovato un modo per restare a galla, e l'avrei dovuto fare anche questa volta. Ancora qualche settimana, qualche altro cliente, e poi grazie al mio lavoro ce l'avrei fatta a sistemare tutto.

Diedi una bella scossa all'impastatrice che subito cominciò a borbottare e a lavorare come doveva. La maggior parte dei macchinari della mia bakery avevano conosciuto tempi migliori, ma almeno erano miei. Mi sentivo molto orgoglioso di essermi potuto permettere col mio lavoro di comprare ogni utensile della pasticceria. Il locale era il mio bambino e le torte di ciliegie... le figlie del mio bambino? Meglio non rifletterci troppo, il concetto risultava alquanto strampalato. Amavo la mia bakery: anche quando sembrava che tutto attorno stesse per crollare, sapevo di poter contare sul mio locale. Il mio piccolo santuario, che a volte, però, mi appariva come una gabbia.

Hoseok arrivò puntuale, come sempre. Era appena uscito dall'università, un ragazzo molto affascinante, forse addirittura anche troppo bello, ma per chissà quale ragione, fin da quando ci eravamo conosciuti, lo avevo considerato come un fratello minore. E lui doveva aver pensato la stessa cosa, perché appena aveva iniziato a lavorare per me il nostro rapporto era diventato simile a quello tra due fratelli che si ritrovano dopo tanto tempo. Lui voleva sistemarmi, mentre io mi preoccupavo di tenerlo lontano dai guai, che lui attirava come una calamita.

Aveva i capelli scompigliati, qualche tatuaggio, ma nulla di esagerato, e una corporatura muscolosa coi bicipiti ben sviluppati tipici di chi è abituato a stendere l'impasto con le mani. Aveva gli occhi di un marrone intenso. «Appuntamento galante stasera?», domandò.

«Sai, Dawon mi ha appena fatto un discorsetto per spronarmi un po'. Magari potremmo evitare di parlare della mia verginità oggi?», e cominciai a togliere delicatamente le torte dagli stampi.

Mi si avvicinò, si piegò sul bancone, mi diede un colpetto sul braccio, e mi rivolse il suo solito sguardo comprensivo, carico di sincero affetto. Da una parte ero un po' stanco dei ripetuti tentativi di Hoseok di procacciarmi appuntamenti, ma dall'altra sapevo che si preoccupava solo perché mi voleva bene, quindi non potevo rimproverarlo né avercela con lui. «Senti cosa devi fare. Oggi scegli un ragazzo. Uno qualunque». Fece un sorriso raggiante, come se gli fosse appena venuta un'idea. «Il primo ragazzo che compra una torta di ciliegie. Scegli lui. Ma devi osare un po'. Sii te stesso. Fa' un po' l'intraprendente, di' qualcosa per provocarlo. Non devi chiedergli di uscire. Devi solo, ecco, fargli un complimento, e poi stiamo a vedere come va a finire».

Sospirai. «Mettiamo il caso che faccia come hai detto tu: che succede se il primo ragazzo che entra a comprare una torta di ciliegie ha i baffi folti come i classici pedofili, o delle caccole appiccicate su una manica?»

«Okay. Diciamo allora il primo ragazzo che compra una torta di ciliegie ma che non fa scattare l'allarme "viscido pervertito". Che ne pensi? Ma poi, chi cavolo ha le caccole sulle maniche? Con quale genere di ragazzi sei abituato a uscire?»

«Divertente», dissi, cercando di smorzare il suo entusiasmo perché non pensasse che ero davvero d'accordo con quell'idea. Sia lui che Dawon forse credevano che il sesso avrebbe potuto risolvere tutti i miei problemi. Io non ne ero tanto sicuro, pur cogliendo l'ironia della mia sorte: il ragazzo che sforna ogni giorno torte di ciliegie per tutti ma che non ha mai fatto assaggiare la sua ciliegina a nessuno... Beh, forse è meglio dire il suo cannolo.

«Non c'è niente da ridere», disse Hoseok. «Voglio fare una scommessa. Sono serio, Jungkook».

«Una scommessa?»

«Proprio così. Hai presente i giorni di ferie che ho accumulato?»

«Sì...», dissi esitante, spaventato perché non capivo dove voleva andare a parare.

«Accetta la scommessa, oppure li prenderò tutti durante la settimana della fiera».

Mi prese il panico. La mia bakery si trovava a Seoul, vicino a Insa-dong, ma una delle opportunità migliori per farsi conoscere era partecipare alla gara di dolci che si svolgeva durante la fiera di Sheffield. Arrivavano anche quelli di Food Network e intervistavano alcuni dei vincitori. Voleva dire assicurarsi una montagna di lavoro, e Hoseok sapeva che non avevo nessun altro a parte lui che potesse aiutarmi a preparare i dolci e tutto il resto.

«Non lo faresti mai», dissi.

Scrollò le spalle. «Penso che ti debba porre solo una domanda. Ti senti fortunato, verginello? Eh, che mi dici?»

«Bastardo», gemetti.

Aveva un'aria schifosamente compiaciuta, mi aveva messo con le spalle al muro, e lo sapeva. «Allora ci stai?»

«Lo sai che non posso dirti di no. Ma le regole sono quelle che hai detto. Dico una cosa da intraprendente. Una sola. E finisce lì».

«Ti chiedo solo questo. Per ora».

Fine della storia. In fondo era un po' quel che avveniva quasi tutte le mattine tra me e Hoseok, a parte quella ridicola scommessa, ovvio. Una nuova tecnica di persuasione un tantino aggressiva ma vincente, che il mio amico, di solito così mite e dolce, sapeva mi avrebbe subito convinto ad accettare la sua proposta. Dopo qualche minuto, però, me ne ero già dimenticato.

Preparammo la vetrina coi dolci, infornammo il pane, che perdeva fragranza prima dei dolci, e per ultimo facemmo un mucchio di bagel. I bagel si vendevano molto bene di mattina, e tanti clienti entravano per comprarli e poi prendevano anche un filone di pane da mangiare più tardi, o una torta per il dopo cena.

Yuri fu la prima cliente, come avveniva quasi tutti i giorni. Avrei giurato che avesse un tailleur pantalone per ciascun giorno dell'anno perché non le avevo mai visto indossare due volte lo stesso abito firmato. Era sulla quarantina e incarnava la donna che mi sarebbe piaciuto diventare prima o poi, ovviamente al maschile. Forte. Autorevole. Sicuro di sé. Elegante. Non so perché, ma dubitavo che tenesse un vecchio libro universitario da usare come sacco da boxe per scaricare la frustrazione accumulata a causa di un ex ragazzo, che si era rivelato uno stalker.

Abbassai lo sguardo e mi soffermai a guardare il mio grembiule sporco di farina e gli insignificanti jeans che portavo sotto. Indossavo anche una semplice maglietta rosa con il colletto, che recava sul petto il nome e il logo del locale: «The Bubbly Baker». Il logo era composto da un signore cicciottello con un cappello da panettiere che stava facendo un grosso pallone con una gomma da masticare. Forse sarebbe stato più realistico chiamare il locale: «Il pasticcere che ha qualche difficoltà a guardarti negli occhi», oppure «Il buco della ciambella intatto di Jungkook», ma avevo il sospetto che non fossero nomi altrettanto indicati per una bakery.

Mi ringraziò e ripeté la battuta che faceva tutte le mattine. «Devo correre se voglio evitare di scontrarmi col traffico», e rise. «Non letteralmente, ovvio».

Non ho mai capito se la battuta era che lei doveva mettersi "letteralmente" a correre, o che lei doveva scontrarsi "letteralmente" con un mare di gente per strada. A ogni modo, le sorrisi e la salutai con un cenno della mano mentre usciva, proprio come facevo ogni mattina.

Nelle ore seguenti passò parecchia gente, alcuni clienti abituali, qualche faccia nuova, e altri che erano già venuti ma non potevano dirsi clienti affezionati. Io mi preoccupavo di rifornire le vetrine quando finivano i dolci e il pane, mentre Hoseok serviva. Mi piaceva il contatto con il pubblico, ma avevo la tendenza a far scappare i clienti, pur senza volerlo. Prima di Jimin, quando si trattava di fare nuove amicizie, ero il re del "troppe e troppo presto", così piano piano ero passato al "neppure una e mai", atteggiamento che mi aveva portato dritto alla mia esistenza quasi solitaria.

Sentii tintinnare la campanella sopra la porta d'ingresso e mi voltai per dare il benvenuto al cliente che stava entrando, accogliendolo almeno con un sorriso e un cenno del capo, ma quando lo vidi rimasi impietrito. Era alto e aveva un fisico atletico, i capelli scuri e un po' in disordine che gli davano quel senso di trascuratezza che solo gli uomini che appartengono alla crema della società possono permettersi di sfoggiare. Gli ricadevano un po' sul viso perché mancavano di uno stile ben definito, ma gli conferivano comunque un'aria sexy e sembravano dire: "A che serve uno stupido pettine o un gel per domarci, con un viso e un fisico del genere?". E dal mio punto di vista, potevo solo che essere d'accordo. Certo, non mi sarei mai sognato di parlarne coi capelli dello sconosciuto... non a voce alta, almeno.

Indossava il suo completo elegante con la stessa spavalderia del cattivo di un film. Aveva lasciato aperti troppi bottoni della camicia perché il suo abbigliamento potesse dirsi "professionale", e sembrava fiero che si intravedessero i tatuaggi sul petto e sugli avambracci. Era lampante che fosse un uomo sicuro di sé, con una personalità provocatoria e ribelle, bisognava esser ciechi per non accorgersene.

E io ci vedevo bene. Ero rimasto immobile, con le labbra socchiuse, gli occhi spalancati e le mani abbandonate lungo i fianchi, finché all'improvviso mi accorsi che Hoseok lo stava volutamente ignorando.

Lo sconosciuto mi fissava con due occhi scuri da togliere il fiato, i più belli che avessi mai visto. Inarcò lentamente le sopracciglia. Ebbi la sensazione che il tempo si fermasse. Non so dire quanto durò quell'imbarazzante silenzio. Tre secondi? Quattro?

«"Il pasticcere frizzante"», disse con una splendida voce tenebrosa, un perfetto timbro virile. «Di sicuro non si riferisce al suo carattere, altrimenti dovrebbe chiamarsi "Il pasticcere catatonico"».

Adesso sapevo come devono sentirsi i pesci quando vengono pescati nel mare. Un attimo prima pensano agli affari loro, e l'attimo dopo l'universo si capovolge. In un solo istante, nulla sarà mai più uguale a prima. Anche se riuscissero a saltar giù dalla barca, ormai saprebbero che esiste un universo sconosciuto, meraviglioso, che li attende in superficie. O nel mio caso, che esiste un uomo super sexy al cui confronto chiunque altro sembra una scialba imitazione, una copia taroccata del vero maschio.

Si schiarì la voce. «Oppure mi sta guardando in quel modo perché non siete ancora aperti e avete dimenticato di chiudere la porta a chiave?».

Il suono della sua voce mi fece ripiombare nella realtà. Strinsi le labbra, deglutii – anche se mi sentivo la gola secca – e riuscii a mettere insieme qualche parola, a riprova che anch'io ero un essere umano come tutti gli altri.

«Sono assolutamente aperto. Siamo aperti», aggiunsi in tutta fretta, appena vidi il lampo divertito nel suo sguardo. «Il negozio è aperto. Ecco».

«Bene», disse lentamente. «Allora posso avere un bagel?»

«In realtà», disse Hoseok comparendo dietro al bancone con un'espressione in viso che non prometteva nulla di buono per me, ma solo guai in vista, «li abbiamo appena finiti. Ma di sicuro gradirà la nostra torta di ciliegie».

Lo sguardo dello sconosciuto si posò sulle dozzine di bagel alle nostre spalle che avevamo già sistemato in attesa di tagliarli, farcirli e venderli. «E quelli sono...».

«Da esposizione. Non commestibili», disse Hoseok. «Se provasse a mangiarne uno, si rovinerebbe i suoi bei denti».

«E cosa ci faccio con una torta di ciliegie alle nove di mattina?», domandò.

«Uhm, be'», balbettò Hoseok, «potrebbe portarla al lavoro? Mangiarla insieme ai suoi colleghi. Lavora da qualche parte, no?».

Adesso sembrava infastidito. «Sì. Certo».

«Lo scusi», mi intromisi di colpo. «Stava scherzando. Questi bagel sono assolutamente commestibili. Vede?».

Ne afferrai uno dall'espositore e gli diedi un morso molto più grande del necessario. Fui costretto a masticare quell'enorme pezzo di pane mentre Hoseok e quell'uomo mi guardavano con un misto di confusione e imbarazzo.

Mi schiarii la gola. «Perfettamente commestibili», ripetei, con meno veemenza.

«Allora prenderei un bagel perfettamente commestibile, per cortesia. Uno che lei non abbia già morso, se possibile».

Cercai di controllare il flusso del sangue perché non si concentrasse tutto nelle guance che ormai dovevano essersi infuocate. Non gli chiesi nemmeno quale tipo di bagel volesse, ne presi uno e glielo misi in un sacchetto che posai sul bancone.

«E prendo anche la sua ciliegia*».

Iniziai a tossire e, visto che stavo deglutendo, quasi mi strozzai. Mi mancò il fiato e cominciai a fare degli strani singhiozzi, tanto che Hoseok dovette darmi qualche pacca sulla schiena, un po' troppo decisa, a dir la verità.

«La mia ciliegia?», chiesi. "Ma come accidenti fa a sapere che sono vergine, e che razza di uomo è uno che... che... così, di punto in bianco, dice una cosa del genere? E anche se...".

«La sua torta di ciliegie», disse, ma la calma con cui osservava il mio imbarazzo mi fece capire che l'ambiguità della prima frase non era stata affatto involontaria.

Confezionai la torta e gliela posai sul bancone. Hoseok mi diede una leggera gomitata, come se non fossi già tristemente consapevole del perché avesse convinto lo sconosciuto a chiedere una torta di ciliegie. Adesso avrei dovuto fargli un complimento, flirtare un po'. Lo sapevo.

Lo sconosciuto pagò e si avviò verso la porta. Sentivo una specie di mano invisibile stretta attorno alla gola. Forse era un aiuto divino, perché sono sicuro che se avessi aperto bocca sarei morto dalla vergogna.

«Aspetti!». Hoseok mi diede un'altra gomitata. «Il mio amico voleva chiederle una cosa».

Il tizio girò appena la testa e mi guardò con la coda dell'occhio. Era impossibile, eppure avrei giurato, dall'espressione del suo viso, che lui sapeva esattamente quali pensieri mi attraversavano la mente in quel momento. E quale brivido mi attraversava il corpo.

«Non ho capito il suo nome», dissi.

Vidi Hoseok che mi guardava con un'espressione come a dirmi "e questo lo chiami flirtare?", ma cercai di ignorarlo. Ero scombussolato, okay?

«Taehyung», disse con un sorrisetto malizioso. «E io posso chiamarti Pasticcino?».

Fu un miracolo se non svenni, perché tutto il sangue mi affluì in viso e avvampai. Sapeva che ero vergine. Non so come aveva fatto, ma lo sapeva. Forse esisteva una società segreta in cui gli uomini fighi si passavano i nomi dei ragazzi gay vergini in città. O forse bastava guardarmi, e lo si capiva subito.

Sapevo che Hoseok non mi avrebbe dato pace se mi fossi limitato a chiedergli il nome, quindi mi feci coraggio e mi buttai, tentando di fare l'intraprendente un po'. Ma sarebbe stato un po' come cercare di mettere in moto una vecchia carretta arrugginita e ferma da venticinque anni.

«Puoi chiamarmi come preferisci», dissi. Ci mancò poco – davvero poco – che mi mettessi anche una mano sul fianco, ridicola parodia della donna seduttrice sensuale, ma perfino io mi resi conto che sarebbe stato davvero troppo. Riuscii quasi a sentire Hoseok farsi piccolo piccolo accanto a me: si sforzava di non ridere e intanto avrebbe voluto sprofondare sotto terra. A parte il fatto che detestavo l'idea che qualcuno mi chiamasse Pasticcino, quasi fosse il nome d'arte di una "bella di notte", per il resto della vita sarei stato perseguitato dal ricordo della mia voce bassa e suadente con cui avevo risposto alla sua domanda.

A questo punto Taehyung si voltò del tutto, mi fissò, strinse gli occhi e mi regalò un mezzo sorrisetto. Se notò il mio imbarazzo, non lo diede a vedere. «Attento. Potrei prenderti in parola».

Hoseok al mio fianco, preso dall'entusiasmo, agitò il pugno, e mi distrasse. «Davvero?», chiesi.

In quello scambio di battute dovevo contare anch'io qualcosa, ma con quella risposta titubante rinunciai al mio ruolo di interlocutrice intelligente, sebbene sembrò non accorgersene né preoccuparsene. Rimase fermo e continuò a osservarmi, quasi non avesse più fretta di andar via, perfettamente padrone della situazione. Si mise il bagel in bocca e lo tenne tra i denti. Si infilò pericolosamente la torta di ciliegie sotto il braccio e afferrò un vaso decorativo pieno di fiori che abbelliva il bancone. Mi salutò con un cordiale cenno del capo e si voltò per andarsene.

«Ma cosa fai?», chiesi. Il mio cervello sembrava ancora latitante, ma ero abbastanza sicuro che mi stesse rubando i fiori.

«Scusami», farfugliò tenendo il bagel in bocca. «Rubo oggetti. È una malattia», o almeno fu quello che mi parve avesse detto.

Senza neppure un ammiccamento o un sorriso, lasciò il negozio.

«Wow», disse Hoseok cominciando a battere lentamente le mani, con un entusiasmo che non mi sentivo di condividere. «Un uomo davvero bello, molto bello. Ti ha preso la ciliegia e deflorato in un colpo solo. Complimenti».

Mi appoggiai sui gomiti e sospirai, benché, fino a quel momento, non mi fossi reso conto che stavo trattenendo il respiro. «In teoria», dissi stizzito. «La torta di ciliegie l'ha pagata. Ha rubato solo i fiori».

Hoseok grugnì. «Ragazzaccio, sei proprio un monello».

Gli diedi un colpo sul braccio, ma sorrisi. «Sei terribile. È stata tutta colpa tua. Lo sai, no?».

Andò dove Taehyung aveva preso il vaso con i fiori e trovò un biglietto da visita. «Colpa mia di cosa? Perché ho fatto in modo che Thor ci provasse con te, o perché ti ha lasciato il suo numero di telefono?»

«Fammi vedere», dissi strappandoglielo di mano. «Kim Taehyung», lessi lentamente. «Amministratore delegato della Galleon Enterprises? L'hai mai sentita?»

«Galleon?». Hoseok si riprese il biglietto. Lo fissò e scrollò le spalle. «Mai sentita. Ma so cos'è un amministratore delegato».

«Dev'essere una società piccola se l'amministratore delegato va in giro a rubare fiori nelle pasticcerie».

«E chi se ne frega. Quel tizio potrebbe anche essere l'amministratore delegato di un chiosco di hotdog. Non avresti potuto ricevere un'offerta più esplicita della sua. Ci sta».

Lo schernii. «Se non ti conoscessi, direi che vorresti uscirci tu».

Scoppiò a ridere. «Sono certo che alcuni uomini ne sarebbero contenti. Io l'ho detto solo per dire. Per me sei come un fratello, e ho notato l'espressione che hai a volte».

«Quale espressione?», domandai, anche se avevo in qualche modo intuito a cosa si riferisse.

«Quello di un ragazzino al ballo delle medie alla quale nessuna ragazza ha rivolto la parola per tutta la sera?»

«Sono davvero così patetico?».

Mi sorrise con tenerezza. «Patetico? No. Ma non sopporto di vederti così. Quel tizio si merita una possibilità: dagliela. La cosa peggiore che potrebbe accadere?»

«Che mi faccia a pezzetti e mi chiuda in un congelatore? O forse che mi mostri la sua collezione di animali imbalsamati?».

Hoseok sollevò lo sguardo e dondolò la testa avanti e indietro come se stesse valutando le opzioni. «Okay. Riformulo la domanda: la cosa migliore che potrebbe accadere?».

Sorrisi. «Ammette di essere un amante della pasticceria, e così ci mettiamo a fare dolci insieme, mangiamo la glassa imboccandoci, e poi ci spalmiamo lo sciroppo al cioccolato su tutto...».

«Accidenti. Attento a non confessargli questa fantasia. Né a lui, né a nessun altro, in realtà. Altrimenti dovremo cambiare il nome al locale e chiamarlo "Il pasticcere depravato"».

«Comunque, non importa. Non ho intenzione di supplicarlo per uscire con me. Hai una vaga idea di quanto sarebbe umiliante? Dovrà ritenersi fortunato se deciderò di telefonargli».

◦•●◉✿✿◉●•◦

Un paio d'ore più tardi, durante la pausa pranzo, tirai fuori il biglietto da visita e digitai con cura il suo numero sul cellulare, una cifra alla volta. Mi trovavo nella mia caffetteria preferita. Seoul pullulava di caffetterie ma io preferivo quella perché tutti i giorni aveva un messaggio diverso, irriverente e sarcastico, scritto col gesso su una lavagnetta. Quella volta la frase era: "Consiglio... Una mela al giorno toglie tutti di torno, se la lanci abbastanza forte".

Mi portai il cellulare all'orecchio e, per ingannare l'attesa, cominciai a mordermi il labbro mentre osservavo la mia gamba "ballare" su e giù, fuori controllo, per l'agitazione. Stavo facendo una cosa davvero stupida, mi stavo umiliando, lo so. Cercai di non pensarci troppo. Mi vennero in mente tutte le volte in cui avevo sognato a occhi aperti una scena simile, con mille varianti – tranne la parte in cui lui mi rubava i fiori. Dovevo fare almeno un piccolo sforzo. Lo dovevo a me stesso.

«Galleon Enterprises», rispose una donna con una voce che alle mie orecchie suonò scocciata. Mi sembrò addirittura di sentire la sua aria di superiorità, la vidi che mi guardava dall'alto in basso. Davvero impressionante.

«Posso parlare con Taehyung?», chiesi. Cercai di apparire sicuro di me, ma non ci riuscii.

«Taehyung... dovrebbe essere più preciso. Il cognome?»

«L'amministratore delegato», dissi. «Kim Taehyung».

Pausa.

«Vuole che le passi Kim Taehyung?»

«Sì», risposi, un po' più convinto stavolta. «Mi ha lasciato il suo biglietto da visita».

«Mmm», disse. «Le ha lasciato il biglietto da visita. Davvero? Deve essere molto speciale».

Incredibile la sfacciataggine di quella donna. Era chiaro che la Galleon non poteva essere un chiosco di hotdog, come avevamo ipotizzato per scherzo, perché altrimenti non ci sarebbe stata una segretaria, ma comunque quella donna doveva abbassare le penne. «Come fa a essere certa che io non sia un'importante uomo d'affari? E se stessi chiamando per definire un contratto da un milione di dollari?». Mi batteva forte il cuore e avevo le guance in fiamme per l'indignazione. L'insolenza di quella segretaria mi aveva fatto venir voglia di colpire qualcosa. Dov'era quello stupido testo universitario quando ne avevo bisogno?

Un'altra pausa.

«Lo è?»

«No, ma non è questo il punto...».

«No. Lei non è un uomo d'affari. Perché questo è il numero che Taehyung dà alle donne o agli uomini sulle quali vuol fare colpo. Quindi la metterò in attesa, gli dirò che lo ha chiamato, e a quel punto lui mi dirà di abbassarle il telefono in faccia. A lui piace che le donne o gli uomini, poverini, si impegnino e gli vadano dietro», sospirò. «Attenda».

Sentii un clic, e attaccò un'irritante musichetta. Mentre aspettavo, cominciai a battere il piede a terra e a fissare con sguardo stizzito tutto e niente in particolare. Ero tentato di dire a Hoseok di sostituirmi mentre andavo alla Galleon Enterprises, qualunque società fosse, a cercare quella donna. Forse usava un vecchio telefono dei tempi della scuola, di quelli col filo, che avrei potuto girarle attorno al collo per soffocarla. Poi avrei accoppato Taehyung e i suoi biechi giochetti, colpendolo con un fermacarte. Sospirai. In realtà non avrei mai soffocato la segretaria né accoppato Taehyung. Ma una cosa era certa: se non mi avesse risposto, non gli sarei andato dietro. Questa telefonata rappresentava già il limite oltre il quale non avrei spinto la mia dignità, grazie tante.

La musichetta si interruppe e sentii un nuovo clic sulla linea.

«Pasticcino?». Una voce profonda. La sua.

«Sì?», dissi in un sussurro. Non ero fiero di quanto mi galoppasse il cuore, e all'improvviso un moto d'orgoglio mi esplose in petto. La sua intenzione era di abbassarmi il telefono in faccia, giusto? Feci una smorfia e scossi la testa. «Cioè, no. Sì, sono il ragazzo che ti ha venduto la torta di ciliegie. Ma il mio nome è Jungkook».

«Bene, Jungkook. Oggi sono terribilmente occupato. Riunioni che mi conciliano il sonno. Telefonate da ignorare. Sai, il genere di cose che fa un amministratore delegato. Quindi se hai tanta voglia di parlare, puoi venire alla festa in maschera che diamo stasera per il lancio pubblicitario di un film in uscita. Di' ai ragazzi della sicurezza che ti chiami Pasticcino, e ti faranno entrare. Oh, tengo i tuoi fiori in ostaggio. Quindi se li vuoi indietro, farai meglio a venire».

Balbettai qualche sillaba senza senso, ma riattaccò prima che potessi formulare una qualche parola. Fissai il cellulare come se gli fossero spuntate le corna. Quell'uomo era insopportabile, e lo sapeva. Sapeva anche di essere talmente bello da potersi permettere tutto, tanto l'avrebbe comunque fatta franca. Per un pelo. Solo per un pelo. Col passare delle ore, l'idea di andare alla festa si insinuò nel mio cervello, e piano piano vi attecchì. Tenni le labbra cucite con Hoseok perché ero certo che mi avrebbe convinto ad andarci, che mi avrebbe supplicato di partecipare. Da tempo ormai mi lamentavo perché sentivo che la vita mi sfuggiva di mano e passava veloce, no? In fondo, non era obbligatorio cercare Taehyung alla festa. Magari avrei passato una bella serata, semplicemente indossando una maschera e un abito elegante. Per una volta, avrei voluto agire d'istinto e fare una cosa forse solo un tantino pericolosa. Ero sempre più tentato di andare.

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In inglese cherry vuol dire sia "ciliegia" sia "verginità", da qui il doppio senso su cui si gioca.
   
 
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