Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
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Autore: Elisa_Malse    30/06/2021    0 recensioni
DAL CAPITOLO: ????
JUNGKOOK'S POV:
Come ho conosciuto Taehyung? È entrato nella mia pasticceria, ha comprato una torta di ciliegie, rubato un vaso di fiori - non avevo idea di cosa diamine dovesse farci - e lasciato il suo biglietto da visita in bella mostra.
Prima di ammettere cosa abbia fatto con il biglietto da visita vorrei chiarire una cosa: Taehyung non avrebbe potuto scegliere un momento peggiore per entrare nella mia vita. Il mio locale stava per fallire. Quello stupido del mio ex si rifiutava di lasciarmi in pace. E tutti mi tormentavano perché a venticinque anni non ero ancora mai andato a letto con un ragazzo dopo aver scoperto da anni il mio orientamento sessuale.
Taehyung non era certo il candidato ideale per la mia prima volta. Un donnaiolo convinto, sexy in modo insopportabile. Tutto il contrario di cui avevo bisogno. E allora perché l'ho cercato? Ho capito di essere nei guai quando con la sua voce profonda mi ha detto: «La tua torta era deliziosa. Cucini anche a domicilio?»
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Taehyung/ V, Park Jimin
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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TAEHYUNG'S POV:

C'era un posto nel mio ufficio che nessuno conosceva, nemmeno mio fratello gemello che condivideva con me il ruolo di amministratore delegato della società, e al quale piaceva pensare di sapere tutto. "Mi dispiace, Namjoon, ma questa cosa è solo mia". Mi avvicinai alla libreria posta accanto alla scrivania. Il mobile aveva un aspetto molto costoso, com'era giusto che fosse. Infatti avevo pagato una piccola fortuna a un'arredatrice francese per sistemarmi l'ufficio. Il ricordo era un po' nebuloso riguardo ai particolari, ma mi pare che le mie istruzioni fossero state qualcosa del tipo: "Quelli che entrano qui devono farsela addosso, perché il mio ufficio deve incutere rispetto. Altrimenti, lei non avrà fatto bene il suo lavoro". Fortunatamente, invece, aveva fatto un ottimo lavoro.

Se le pareti del mio ufficio potessero parlare, non direbbero nulla, perché saprebbero di non doversi abbassare a spifferare qualcosa. La perfezione arriva a tanto!

Non avevo letto un solo libro tra quelli conservati nell'immensa libreria, che aveva anche una scala scorrevole per arrivare ai ripiani più alti. Era stata una mia richiesta speciale, e a volte chiudevo le veneziane e mi escludevo dal resto del mondo, poi prendevo la rincorsa e ci saltavo sopra, curioso di vedere fin dove sarei arrivato scivolando sui binari.

Presi un fermacarte di vetro a forma di globo e lo posai sulla libreria. Alla base aveva una calamita che azionava un meccanismo dietro la porta. Attesi mentre si susseguivano vari scatti metallici decisi, una delizia per le mie orecchie, e alla fine si aprì una porta.

Ebbene sì. Nel mio ufficio avevo un antro segreto, la tana del mascalzone. Era meravigliosa, proprio come l'avevo desiderata.

Mi piaceva definire quel nascondiglio segreto "la stanza dei trofei". Non era enorme perché purtroppo mi ero dovuto contenere, visto che avevo fatto tutto all'insaputa di mio fratello. Un'opera troppo ambiziosa avrebbe sottratto spazio al mio ufficio, e Namjoon l'avrebbe notato. E invece non ne doveva sapere nulla, perché avevo un'intera sezione della mia stanza dei trofei dedicata proprio a cose che avevo fregato a quel bacchettone represso, ossessivo compulsivo, che diceva di essere mio fratello. Avevo sistemato lo spazio a disposizione come fosse una galleria d'arte, completa di piedistalli di marmo e teche di vetro. Il mio oggetto preferito era una banana, perfettamente gialla, al centro della stanza. Avevo pagato un chimico per rivestirla di una vernice trasparente in grado di conservarla intatta. Si poteva ancora vedere il nome che mio fratello aveva scritto sopra la buccia col pennarello indelebile, a lettere cubitali. "Namjoon".

Accarezzai con affetto la teca e sorrisi. Sì, potevo disporre di molto tempo e di tanti soldi a mio piacimento. No, non mi sentivo in colpa per questo. Sì, avevo un problemino: rubavo oggetti. No, non avevo intenzione di cambiare. La diagnosi ufficiale era cleptomania, ma detta così era da sfigati. Mi piaceva prendere cose altrui. Avevo iniziato perché io e Namjoon eravamo cresciuti in una famiglia povera, e a quel tempo la nostra condizione poteva rappresentare una giustificazione. Poi però, avevo capito che rubavo perché mi piaceva farlo, non perché avessimo bisogno di soldi. Nel corso degli anni mi ero dovuto preoccupare di trovare vari posti in cui nascondere il mio bizzarro bottino, quindi adesso la stanza dei trofei rappresentava l'apoteosi del mio lavoro di ricerca. Lì avevo concentrato i miei pezzi migliori. La punta di diamante era la banana di Namjoon, ma avevo anche l'asciugamano che usava in auto per detergersi il sudore dopo le partite di squash. Sorrisi ripensando a quanto si era incazzato quando non lo aveva più trovato. Avevo anche un paio di occhiali da sole di mio fratello, e una teca incorniciata con dentro vari calzini singoli che gli avevo rubato dal comò. Erano tutti spaiati. Mi sentivo leggermente in colpa per questo trofeo. Namjoon sarebbe stato capace di avere un orgasmo se nella sua giornata si fosse attenuto alla lettera a quanto scritto in agenda, ma allo stesso tempo sapevo che avere i calzini spaiati gli avrebbe fatto andare in corto circuito il cervello, poverino.

Oh, be'. Peggio per lui. Ero nato un minuto e sette secondi prima, il che mi conferiva la responsabilità di essere il fratello maggiore, e quindi ero obbligato a prenderlo un po' in giro e a fargli qualche scherzo. Alcuni fratelli lo avrebbero definito un lavoro, ma se uno si divertisse a fare il proprio lavoro, chi mai potrebbe dire di aver lavorato un solo giorno nella vita? Tra i vari trofei, avevo spillatrici prese in giro per l'ufficio e appartenenti per lo più a persone che non sopportavo. Penne fregate a cameriere sgarbate, e perfino una spilletta con scritto "I Recycle", che un qualche coglione si era attaccato sullo zaino - sul serio, con tutte le cose di cui ci si potrebbe vantare, lui aveva scelto proprio quella. La raccolta differenziata? Per quanto l'avevo trovata assurda, ero stato quasi tentato di buttarla nella spazzatura, ma alla fine aveva prevalso il mio bisogno di tenere quel che rubavo. Certo, non collezionavo tutto. A volte fregavo degli oggetti solo per capriccio, e poi me ne sbarazzavo. Quando mi sentivo particolarmente audace, cercavo di rubare al contrario, ovvero mettevo quel che avevo sgraffignato tra le cose di un altro, senza che questi se ne accorgesse. Guardai l'ultimo trofeo della mia collezione. Il vaso di fiori che avevo preso quella mattina in pasticceria. Lo avevo sistemato su uno dei piedistalli in marmo vicino alla parete di fondo.

Mentre lo osservavo, non potei fare a meno di socchiudere gli occhi e mettermi a riflettere. Qualunque altro oggetto presente nella stanza apparteneva a persone che, anche solo in minima parte, mi avevano fatto incazzare. Forse si trattava di una specie di sciocco tentativo da parte mia di fare un po' di giustizia, o forse mi divertiva far incazzare quelli che se lo meritavano di più. Quel vaso, invece, era diverso.

Pasticcino non mi aveva fatto incazzare. Anzi, mi piaceva. Sembrava un bibliotecario un po' frigido, inibito, maldestro, alla quale però sarei volentieri andato dietro - in senso letterale e figurato. Era anche sexy, il che non guastava, ma non era noioso. Io attraevo ragazze e ragazzi sexy ma noiosi, un po' come Starbucks attira ragazze attraenti che indossano leggings. Un esercito di Barbie col culo sodo dopo ore e ore di ginnastica, e il viso che non ha mai visto un raggio di sole senza uno strato di crema con fattore di protezione duecento. La maggior parte di loro ha un unico passatempo: se stesse. Si prendono cura di sé e si preoccupano del proprio corpo quasi fosse un lavoro a tempo pieno, il che va pure bene in teoria, ma io ero uscito con parecchie ragazze del genere. Erano tutte uguali. Per non parlare dei ragazzi.

Noiosi. Scontati. Superficiali.

Il pasticcere, invece, era il genere di ragazzo che mi intrigava. Mi era stato facile capire, dall'espressione del suo viso, la battaglia interiore che stava combattendo. Gli piacevo, ma era abbastanza intelligente da essersi reso conto che ero uno stronzo. In poche parole, lui per me rappresentava una sfida. Proprio quello che mi ci voleva.

Avergli lasciato il biglietto da visita poteva sembrare una mossa un po' disperata. Di solito mi piaceva che fossero gli uomini a venirmi dietro, ma c'era qualcosa in lui che mi aveva spinto a fare un passo in più, perché non ero così sicuro che sarebbe venuto a cercarmi, se non gli avessi dato un aiutino. E la cosa mi aveva intrigato. Così, quando mi aveva telefonato, avevo perfino infranto la consuetudine di liquidarlo usando l'arma della fredda indifferenza della mia segretaria, a cui ricorrevo invece con tutte le ragazze o i ragazzi che mi chiamavano.

Non ero nemmeno così sicuro che si sarebbe presentato alla festa quella sera. Dipendeva da lui. Dopotutto, sapevo dove trovarlo e, se il mio istinto non si era sbagliato su di lui, i fiori non erano l'ultima cosa che volevo rubargli. C'era dell'altro, il biscottino sul gelato - o tra le sue gambe, a voler essere precisi.
   
 
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