Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
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Autore: Elisa_Malse    04/07/2021    0 recensioni
DAL CAPITOLO: ????
JUNGKOOK'S POV:
Come ho conosciuto Taehyung? È entrato nella mia pasticceria, ha comprato una torta di ciliegie, rubato un vaso di fiori - non avevo idea di cosa diamine dovesse farci - e lasciato il suo biglietto da visita in bella mostra.
Prima di ammettere cosa abbia fatto con il biglietto da visita vorrei chiarire una cosa: Taehyung non avrebbe potuto scegliere un momento peggiore per entrare nella mia vita. Il mio locale stava per fallire. Quello stupido del mio ex si rifiutava di lasciarmi in pace. E tutti mi tormentavano perché a venticinque anni non ero ancora mai andato a letto con un ragazzo dopo aver scoperto da anni il mio orientamento sessuale.
Taehyung non era certo il candidato ideale per la mia prima volta. Un donnaiolo convinto, sexy in modo insopportabile. Tutto il contrario di cui avevo bisogno. E allora perché l'ho cercato? Ho capito di essere nei guai quando con la sua voce profonda mi ha detto: «La tua torta era deliziosa. Cucini anche a domicilio?»
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Taehyung/ V, Park Jimin
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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JUNGKOOK'S POV:

Se per ripensamento si intende meditare in modo più ponderato sulla bontà di una nostra scelta, nel momento in cui il taxi si fermò davanti al palazzo in cui si sarebbe tenuta la festa di Taehyung, io ne avevo avuti già duecentomila. Dire però che quello era il “duecentomillesimo” ripensamento non suonava troppo bene, ma anche parlare di semplici “ripensamenti” non dava l’idea esatta dei seri dubbi che continuavano a frullarmi in testa riguardo a quella serata.

Volevo andare alla festa. Questo era certo. La parte orgogliosa e cocciuta di me, però, voleva anche dimostrare a Taehyung che non ero uno di quei ragazzi che corrono dietro ad altri bei ragazzi.

Ma, cavolo, un invito del genere capita una volta sola nella vita. Da sempre, sempre, avevo sognato di partecipare a una festa in maschera.

Credo che mi attirassero le maschere sul viso e i vestiti eleganti. Tutti avrebbero indossato maschere, smoking e abiti meravigliosi. Ci sarebbero stati lustrini e paillette e gioielli luccicanti. Una serata sfavillante e sfarzosa, come le feste in stile hollywoodiano. L’avrei conservata per sempre tra i miei ricordi più belli, come un fascio di luce a squarciare il buio di una notte illuminata appena dal bagliore delle stelle.

Era l’unica occasione in cui avrei potuto far finta che la mia vita fosse come l’avevo sempre sognata: traboccante di promesse, dove ogni più piccola scelta generava qualcosa di incredibile. Alla fine, questa fu la decisione che prevalse. Mi sarei goduto la mia notte magica, grazie tante, e Taehyung sarebbe venuto in seconda battuta. Quella era la mia favola e volevo viverla come l’avevo sognata.

Uscito dal lavoro, comprai l’abito e le scarpe in un negozio dell’usato, dove però non trovai la maschera. Mi feci coraggio ed entrai in uno di quei negozi specializzati in abiti e accessori per feste eleganti che, inspiegabilmente, sono aperti tutto l’anno, anche se sono sicuro che la gente vi compri qualcosa solo per Halloween.

Quando posai la maschera, la ragazza dietro al bancone mi guardò con una strana espressione: forse aveva visto Eyes Wide Shut e pensava che le maschere andassero acquistate solo per “certe” occasioni, come nel film. Che andasse a fanculo. Io ero stato invitato a una festa molto elegante, a cui, come se niente fosse, avrebbero partecipato stelle del cinema e miliardari. E per quel che ne sapevo io, non c’era alcun convito orgiastico con gente nuda nel seminterrato del palazzo. Ecco il “duecentounmillesimo” ripensamento. Comunque, se avessi avuto sentore di sette orgiastiche, avrei usato le mie scarpe di una marca chiaramente taroccata come arma di difesa, e sarei fuggito. Quello almeno era il piano provvisorio, considerato che non avevo armi migliori da impiegare.

Mi aspettavo un corpulento bodyguard all’entrata, e invece l’indirizzo che mi aveva dato corrispondeva a un palazzo nel centro di downtown. Scesi dal taxi e mi guardai attorno. Erano già le nove passate. A Seoul le strade pullulano sempre di gente, a qualsiasi ora. Anzi, di notte si animano ancora di più.

All’inizio pensai di essere nel posto sbagliato, ma poi vidi fermarsi una limousine dalla quale uscirono, uno dietro l’altro, alcuni uomini e donne in abiti eleganti e maschere sul viso. Gli uomini indossavano maschere semplici, sul genere di quella del Fantasma dell’Opera, che coprivano solo gli occhi e una parte del naso. Quelle delle donne, invece, erano alcune piumate e appariscenti, altre delicate, in pizzo, e nascondevano appena i loro volti.

Mi misi la maschera, costata appena due dollari, che si teneva su con un semplice elastico. Oh, be’. I ricchi pagano un sacco di soldi per sembrare poveri, no? Non era colpa mia se conoscevo un metodo efficace per essere povero: investire tutti i miei soldi in una bakery che mi garantiva a malapena di guadagnare il necessario per pagare le bollette. A volte riuscivo anche a spendere un po’ per cose sciocche, come il mangiare e il bere.

Raddrizzai le spalle, mi feci coraggio, e con passo leggiadro, quasi stessi ballando un valzer, mi avviai verso l’entrata, come se avessi trascorso tutta la vita a partecipare a serate simili. Avevo visto parecchi film in cui i protagonisti facevano “il colpaccio”, e ormai avevo capito che il trucchetto sta tutto nel far credere agli altri di sentirsi a proprio agio in quel che si fa. Arrivai all’entrata prima dell’allegra comitiva della limousine, tirai la porta ma non si aprì. Lanciai un rapido sguardo alle mie spalle e abbozzai un sorriso del tipo “mi capita tutte le volte, perché ci vengo sempre”. Tirai di nuovo. Ancora nulla.

Feci un passo indietro e sollevai una mano, il palmo verso l’alto, con una risatina nervosa. «Penso che siamo arrivati un po’ in anticipo», suggerii.

Si avvicinò uno dei signori e spinse la porta. Si aprì subito e io rimasi immobile, pietrificato, in attesa che la comitiva entrasse compiaciuta.

Li feci passare tutti, sospirai, e schiacciai mentalmente il tasto “restart”. «Niente di grave, Jungkook. Indossi una maschera, no? Quindi puoi anche permetterti di essere un po’ imbranato stasera!».

E in quel momento vidi un’altra coppia che mi passava accanto, e mi resi conto che forse aveva ascoltato tutto il discorsetto d’incoraggiamento che mi ero fatto a voce alta. Mi misi una mano sull’orecchio, dove era certo che non avessi il bluetooth, ma mi voltai ugualmente e sorrisi. «Il bluetooth», dissi convinta. «Quando parliamo senza avere nulla in mano sembra sempre che parliamo da soli».

La coppia proseguì senza commentare.

Non ero ancora neppure entrato e già il buon vecchio tasto “reset” aveva avuto il suo bel daffare. Spinsi la porta, la aprii ed entrai. «Bastarda», mormorai rivolto alla porta quando fui sicuro che stavolta nessuno mi stesse ascoltando. Nell’atrio c’era silenzio e su quei pavimenti di lusso le mie scarpe risuonarono come degli spari. Provai a camminare facendo meno rumore possibile, ma fallii miseramente mentre mi avvicinavo a una donna in piedi dietro una specie di leggio, come quello che usano le hostess in aeroporto, ma più piccolo. Un’enorme doppia porta si stagliava alle sue spalle.

«Ho l’invito», le dissi. Aveva già trovato nella lista i nominativi delle persone davanti a me, e le aveva fatte entrare.

«Okay», disse. Era senza maschera quindi non ebbi neppure il beneficio del dubbio nel chiedermi se davvero mi stava guardando come fossi un’idiota.

«Dovrei essere sulla lista come… Pasticcino». Pronunciai il nome in un sussurro, le guance in fiamme. Da qualche parte, Taehyung stava ridendo, ne ero sicuro.

Inarcò un sopracciglio. «Pasticcino?»

«Mi scusi, potrebbe solo…». Sporsi il collo per cercare di dare una sbirciatina alla lista, ma lei la tirò su in tutta fretta, premendosela sul petto come volesse proteggere chissà quali segreti, e mi fulminò con un’occhiataccia.

Poi con molta calma distolse lo sguardo da me e lo abbassò sulla lista. Dopo qualche istante le sfuggì un piccolo grugnito di delusione. «Entri pure, Pasticcino».

«Grazie», replicai con una certa veemenza. «Comunque io mi divertirò alla festa mentre lei resterà qui fuori dietro questo stupido leggio».

«Pura invidia», disse piccata.

Mi meravigliai molto che mi fossi abbassato a dire una cosa simile, ma quella donna era orribile quasi quanto la segretaria con cui avevo parlato al telefono quando avevo chiamato Taehyung. In effetti… ero quasi certo che fosse la stessa persona. Stare di guardia all’entrata durante una festa aziendale forse faceva parte dei doveri di una segretaria.

La superai e tirai appena la porta, giusto per essere sicuro di non doverla spingere. Grazie al cielo, si aprì.

L’ambiente all’interno era ancora più spettacolare di come me l’ero immaginato. La sala era in stile industrial chic, con i mattoncini e le travi a vista, i mobili ultra moderni, una scala a chiocciola in ferro battuto che conduceva a un open space al secondo piano dove dozzine di persone stavano ballando e conversando. La cosa più impressionante era la parete di fondo, tutta di vetro, con una vista mozzafiato sul centro di Seoul e sui palazzi e grattacieli circostanti, tutti illuminati.

E gli invitati. Anche con le maschere, si vedeva che erano il fior fiore della società. Sembrava la versione adulta di una festa di liceali dove venivano invitati solo gli studenti più popolari – proprio il genere di festa alla quale non ero mai stato invitato.

Esaminai con attenzione la folla di uomini e donne in abiti eleganti, tutti con una maschera sul viso. Mi chiesi se sarei stato capace di riconoscere Taehyung dopo averlo fissato inebetito solo per pochi attimi quella mattina. Per quanto difficile, cercai di non mettermi a confronto con gli uomini snelli, dai loro generosi capi di Gucci e dal corpo perfetto presenti alla festa. In fondo Taehyung aveva invitato me. Era ovvio che gli piacessi. O almeno era quello che continuavo a ripetermi.

La musica era invitante ma non troppo scatenata, così da non risultare inappropriata per quella ricca élite. Gli invitati bevevano vino e champagne da calici col gambo lungo e sottile. Alcuni ballavano, altri sedevano coi loro bicchieri in mano, altri gironzolavano, ridendo e conversando. Dovunque posassi lo sguardo vedevo lustrini, gioielli, paillette: luccicava tutto, proprio come avevo immaginato. Pensai che bere qualcosa mi avrebbe aiutato a vincere un po’ di agitazione, quindi decisi che dovevo assolutamente trovare il posto dove tutti facevano rifornimento.

Finalmente trovai una specie di open bar. C’erano alcuni calici di champagne già riempiti. Ne presi uno, aspettai, mi guardai attorno, e con cautela bevvi un sorso. Quando vidi che non arrivava nessuno a rimproverarmi o a chiedermi soldi, capii che erano gratis. Bingo.

Con il calice in mano, mi avviai verso le scale. Non avevo ancora deciso se cercare o meno di parlare con Taehyung: volevo prima vedere se riuscivo a riconoscerlo. Mi girai e avvertii la presenza di un uomo alto incombere su di me. Sentii le farfalle nello stomaco, convinto che si trattasse di Taehyung.

Ma quando mi soffermai a guardargli la forma del viso, le labbra, la corporatura e la postura, fui assalito da un senso di disagio e inquietudine che mi scombussolò tutta. Feci un mezzo passo indietro. Non era Taehyung.

«Jimin?», domandai esitante.

Abbozzò un sorrisetto. Quel ghigno odioso fu l’unica risposta di cui avevo bisogno. Park Jimin. L’ex infernale. La ragione per cui, di quando in quando, traevo così tanto piacere a prendere a calci un vecchio testo universitario. Il ragazzo che da leggermente noioso era diventato col tempo una delusione totale e si era trasformato nel classico stalker quando avevo deciso di non vederlo più.

«Dovresti essere a Pusan».

«Ho ricevuto un’offerta di lavoro. Ho capito che era dalle tue parti, quindi, come avrei potuto rinunciarvi?»

«Non sarebbe stato difficile: così avresti evitato di passare per uno stalker», dissi. Cercai di apparire calmo attraverso il mio tono di voce, anche se dentro di me volevo urlare.

«Mi sei mancato, Jungkook. Siamo stati bene insieme».

Scossi la testa. Troppo cose da affrontare tutte in una volta, non ce la facevo a mettermi di nuovo a discutere con lui. Cercai di aggirarlo per raggiungere le scale, ma mi afferrò per un braccio.

«Jungkook. Dài. Ho fatto un lungo viaggio per parlarti, il minimo che tu possa fare è starmi ad ascoltare».

«No. Non è questo il minimo che possa fare. Non voglio neppure chiederti come accidenti hai fatto a sapere dove mi trovavo, o come hai fatto a entrare. Perché chiedertelo significherebbe che in qualche modo mi importa di te. Quindi farò davvero il minimo che posso fare, e cioè me ne andrò senza parlarti un secondo di più».

«Non è stato difficile. So dove pranzi e passavo di là per caso quando ti ho visto chino su qualcosa. Sembravi molto concentrato e così ho guardato meglio. Avevi in mano il biglietto da visita niente meno che dell’amministratore delegato della Galleon Enterprises. Non potevi avere a che fare con una società di marketing multimilionaria, così ho fatto due più due».

«Cosa? Mi hai seguito tutto il giorno? Mi sei stato dietro mentre comperavo abito e maschera per venire alla festa, e poi sei corso a comprare il necessario anche per te? Ma come hai fatto a passare dall’ingresso?»

«Non sono passato. Ho usato l’entrata sul retro», disse sorridendo, quasi si aspettasse un applauso di fronte a tanto ingegno.

Sentii lo stomaco contrarsi. Il viscidume e il raccapriccio che mi trasmetteva penetrarono dentro di me come un veleno, e per un attimo pensai che avrei anche potuto vomitare.

«Ho cercato di dirtelo in modo gentile, Jimin. Ma non ha funzionato. Devi farla finita. Ti prego». Era davvero troppo per la mia serata magica e scintillante.

Cercai di liberare il braccio, ma lui mi strinse più forte e mi attirò a sé. Con tutta la forza che avevo mi tirai indietro, e per la prima volta fui preso dal panico.

In quel momento, da un gruppo di invitati mascherati alle nostre spalle, venne fuori un uomo che afferrò Jimin per il polso. Dovette stringerglielo forte perché lui subito allentò la presa su di me e abbassò la mano.

«Di solito», disse, e riconobbi immediatamente la voce, «quando una ragazza o un ragazzo tenta di allontanarsi e ti respinge significa che vuole essere lasciata o lasciato in pace». Il profilo perfetto del viso, le labbra carnose, i capelli arruffati, mi avrebbero fatto capire che era Taehyung anche se non avesse parlato. Non avevo alcun dubbio sull’identità del mio cavaliere mascherato.

«Di solito è una buona idea impicciarsi dei fatti propri», disse Jimin mettendoglisi davanti con aria di sfida. Ai miei occhi Jimin era sempre apparso molto alto, e invece Taehyung lo superava di almeno tre o quattro centimetri.

«Ma che razza di uomo va in giro con le mentine?». Taehyung fece un sorprendente gioco di prestigio con le mani, da vero professionista, e fece apparire tra le dita due mentine.

Rimasi confuso finché non vidi Jimin tastarsi le tasche. Guardò Taehyung con occhi torvi e cercò di strappargli le mentine di mano, ma Taehyung richiuse il pugno e se le infilò in tasca.

«Senti, brutto stronzo», disse Jimin. «Che ne dici di farmi parlare con il mio ragazzo e di levarti dai coglioni? Puoi pure tenerti le mentine».

«Il tuo ragazzo?», chiese Taehyung, volgendo leggermente la testa verso di me e guardandomi per la prima volta. Abbozzò un sorriso impercettibile, perché capissi di tenergli il gioco. «Lascia che ti dica una cosa. Stamattina l’ho deflorato. In realtà, ho anche pagato per prendermi la sua ciliegia. A proposito, deliziosa», disse con un leggero cenno del capo verso di me.

Nonostante la paura mi facesse battere forte il cuore, dovetti soffocare una risata.

Jimin scattò furibondo e afferrò con forza Taehyung per il bavero dello smoking. Taehyung neppure trasalì. Rimase immobile, guardandolo dall’alto, lo stesso sorriso tranquillo e divertito sulle labbra.

«A dir la verità…». Tirò fuori le mentine dalla tasca della giacca e le rimise in quella di Jimin. «Adesso capisco perché te le porti dietro».

«Cosa?», chiese Jimin.

«Il tuo alito».

Jimin serrò le labbra e continuò a guardare Taehyung, scuro in volto. Non riuscivo a capire se volesse davvero dargli un pugno in faccia, oppure se stesse solo scervellandosi per trovare un modo di uscire da quella situazione senza sembrare più stupido di quanto non fosse.

«Al diavolo», disse infine, e lasciò andare Taehyung. «Senti, Jungkook. So che forse essere comparso qui all’improvviso può avermi fatto passare per uno stalker».

«Non conosco l’intera vicenda», lo interruppe Taehyung. «Ma avendo detto “so che forse essere comparso qui all’improvviso può avermi fatto passare per uno stalker”, vuol dire che ci sono delle buone possibilità che tu lo sia davvero».

«Nessuno ti ha chiesto nulla, stronzo», gli inveì contro, poi si concentrò di nuovo su di me. «Il fatto è che mi manchi. Mi dispiace che le cose non siano andate bene tra noi, ma spero che tu possa darmi un’altra opportunità».

«In quanti altri modi devo dirtelo?», domandai, ormai esausto.

«Vattene, stalker». Taehyung cominciò a spingere Jimin su una spalla perché si allontanasse. «Gli hai fatto il tuo bel discorsetto. È evidente che al momento lui non voglia parlarne. Sono sicuro che ha il tuo numero, quindi, se dovesse cambiare idea, ti può sempre richiamare. Però adesso te ne devi andare».

Jimin oppose una debole resistenza mentre Taehyung lo allontanava da me e lo spingeva verso un ragazzo della sicurezza, al quale fece un cenno perché lo accompagnasse fuori.

Io, per tutto il tempo, ero rimasto fermo e mi ero limitato a osservare quel che accadeva. Non riuscivo a credere che Jimin fosse venuto fin lì solo per avere una seconda opportunità. E inoltre mi sembrava incredibile che Taehyung fosse apparso all’improvviso nei panni del cavaliere dall’armatura scintillante, pronto a salvarmi dal cattivo di turno.

Taehyung tornò qualche attimo dopo e mi fece un piccolo inchino. Sentivo una strana energia scalpitare dentro di me – come se un monello, birichino e giocoso, fosse stato rinchiuso in un recesso della mia mente, in attesa dell’occasione propizia per saltare fuori. Evidentemente la mia maschera non era servita a garantirmi l’anonimato. Sia Taehyung che Jimin non avevano avuto problemi a riconoscermi, eppure io mi sentivo diverso indossandola sul viso. Forse la leggera euforia che sentivo dipendeva dallo champagne, fatto sta che l’agitazione di poco prima era del tutto svanita. Volevo dimenticare lo spiacevole incidente di Jimin. Volevo ancora che quella fosse la mia serata magica, e lui non me l’avrebbe rovinata.

Mi sarei divertito.

«Non avere quell’aria così compiaciuta», dissi a Taehyung, sorpreso da quanto la mia voce suonasse sicura. «La prossima volta che vuoi fare la parte del cavaliere senza macchia, intanto dovresti evitare di comportarti da cazzone».

Abbozzò un sorrisetto malizioso. «Vuoi dire che il mio uccello ha attirato troppo l’attenzione?».

Senza volerlo, abbassai lo sguardo sotto la sua cintura, ma subito lo riportai in alto e mi concentrai sulla maschera bianca che gli copriva gli occhi. «Parlavo in senso figurato», dissi. «Sì. E adesso hai anche dimostrato che non riesci a sostenere una conversazione senza infilarci qualche battutina sconcia nel mezzo. Per la maturità che dimostri ti do tre».

Prese un bicchiere dal vassoio del cameriere che ci stava passando accanto, e me l’offrì. «La maturità è sopravvalutata».

«E l’attitudine a non rubare le cose altrui? Anche quella è sopravvalutata?»

«Terribilmente».

Non riuscii a trattenere una risatina. Era davvero incorreggibile, e quasi se ne vantava. Di solito, detesto gli uomini che mostrano anche solo il minimo accenno di stronzaggine. Un modo di fare troppo diretto e insolente ha il potere di farmi allontanare. Ma con lui era diverso, era un uomo assolutamente sicuro di sé, e quindi anche quei difetti del suo carattere mi risultavano stranamente affascinanti. Mi piaceva anche il modo in cui giocava con le parole, riuscendo a rendere la conversazione brillante. E stimolante. E seducente.

Dovevo aver appoggiato lo champagne da qualche parte perché, a un certo punto, mi offrì un altro bicchiere. Era vino rosso, che di solito non bevevo, perché mi faceva venire il mal di testa, ma pensai che avrei potuto fare un’eccezione. Dopotutto, se lo champagne era riuscito a darmi quella leggera euforia che mi aveva fatto diventare tanto audace, quali meraviglie avrebbe potuto compiere un altro po’ di alcol?

Ne bevvi un sorso e inarcai le sopracciglia, piacevolmente sorpreso.

«Buono?», chiese.

«Migliore della compagnia».

Si portò una mano al petto con fare melodrammatico. «Così mi uccidi».

«Non so perché, ma ne dubito».

Scrollò appena le spalle, sulle labbra ancora quel sorrisetto vago di divertimento, come a dire che la nostra conversazione era solo un gioco, così come quella festa – e la vita stessa, del resto. Bastava uno sguardo, con o senza maschera, e si capiva che era un uomo che non si lasciava toccare da nulla. Né dai problemi, né dalle preoccupazioni. Lo invidiavo per questo, e ne ero affascinato. Mi sarebbe piaciuto avere un approccio alla vita come il suo.

«Mi chiedo se la tua lingua ha un sapore deciso tanto quanto è tagliente quando parli», disse. «O se invece è dolce tanto quanto la tua torta di ciliegie…».

«Ti è piaciuta?», domandai. Il suo palese tentativo di seduzione sfumò appena menzionò la torta. Prima di ogni altra cosa ero un pasticcere, e credo che mi importasse di più la sua opinione sulla mia torta che il terreno insidioso sul quale mi avrebbe condotto continuando quella conversazione.

«Era buona, ma mancava qualcosa».

Provai un tuffo al cuore. Erano anni che cercavo di perfezionarne la ricetta. Avevo provato varie combinazioni di ingredienti, di preparazioni, di tecniche di cottura. Il pensiero che non gli fosse piaciuta mi ferì più di qualunque altro insulto. «Cos’aveva che non andava?», chiesi, perdendo in un batter d’occhio la finta compostezza e disinvoltura che avevo sfoggiato così bene fino a quel momento, proprio come la maschera che avevo sul viso.

«Be’», disse. «Aveva bisogno di più… bicarbonato?». Mantenne un’espressione seria più o meno per un secondo, poi sulle labbra comparve il sorrisetto familiare.

Misi una mano sul fianco, sorridendo. «Il bicarbonato?»

«Proprio così. Per la lievitazione. Il bicarbonato aiuta a far crescere l’impasto».

Inarcai un sopracciglio. «Avviserò l’associazione nazionale dei pasticceri. Per tutto questo tempo abbiamo sempre sbagliato. Pensavamo che servisse il lievito».

«Il lievito?»

«Per rendere più grosse le bolle d’aria nell’impasto. Sono segno di una buona lievitazione».

«Tu e le tue bolle. Bolle nei dolci. Bolle nelle bibite. Chiappe che fanno ribollire il sangue», mormorò.

«Cosa?»

«Ti ho “bollato” come fissato», sospirò prima che riuscissi a capire se stesse scherzando o meno. Quindi si picchiettò il mento con un dito e continuò a osservarmi, facendo finta di prendere nota mentalmente di qualcosa.

«Allora?», chiesi. «Che significa quello sguardo?»

«Che ti sto studiando per cercare di inquadrarti. Un pezzetto alla volta, Pasticcino».

«Mi chiamo Jungkook. E buona fortuna, se vuoi davvero inquadrarmi. Mi fai sapere quando avrai finito? Potrebbe fare comodo anche a me conoscermi più a fondo».

«Al momento, Pasticcino, ecco quel che ho capito». Mi tolse il bicchiere dalle mani, con un gesto rapido ed elegante, bevve un sorso di vino e mi porse di nuovo il bicchiere. «Scusa», disse notando la mia espressione indignata. «Quello che non ti appartiene ha sempre un sapore migliore, no?». Tacque, e mi accarezzò con lo sguardo, per sottolineare il significato dell’allusione contenuta in quelle parole.

«Proprio così», dissi. Cominciavo a sentirmi di nuovo nervoso. Parlare con Taehyung significava essere impegnato in una costante schermaglia verbale, e più parlavamo, più mi rendevo conto che era lui a condurre il gioco. Cercai in tutta fretta di riempire quel silenzio assordante perché avvertivo che un uomo come Taehyung era in grado di fare cose pericolose anche in silenzio, ricorrendo solo ai suoi occhi penetranti e all’impercettibile fremito delle sue labbra sensuali. «Alle elementari e alle medie avevamo l’abitudine di scambiarci le cose che portavamo per pranzo», dissi, più che altro per riempire il silenzio e non perché pensassi davvero che si aspettava una risposta. «Le caramelle gommose Airheads erano come oro. Potevi scambiarne una quasi con tutto. Perfino con un contenitore pieno di crocchette di pollo e patatine fritte. Soprattutto se erano di quel gusto misterioso. Quelle bianche. Se te le eri scambiate, avevano un sapore molto più buono che se te le avesse date la mamma».

«Quelle bianche erano allo zucchero filato. Mistero risolto».

Cercai di ricordarmene il gusto, e mi trovai d’accordo con lui. «Stavi dicendo che mi avevi inquadrato?», chiesi a bruciapelo. Devo ammettere che morivo dalla voglia di sapere cosa pensava di me, anche se mi terrorizzava l’idea che mi dicesse cose spiacevoli.

«Giusto, ma poi mi hai costretto ad aggiungere alla lista di cose che ho capito su di te “gli piace interrompere quanti cercano di introdurre una pausa a effetto nella conversazione”».

Arrossii. «Non mi ero reso conto che fosse una pausa a effetto».

«“A volte manca del più elementare spirito d’osservazione”», disse in tono didattico, come se stesse dettando un appunto a qualcuno per farlo trascrivere.

«Ehi!», esclamai ridendo, e gli diedi un colpo sul braccio. Appena mi resi conto di quel che avevo fatto, ritirai la mano, un po’ troppo in fretta, a dir la verità, e la mia risata si spense. Sembrò non aver notato la mia reazione, perché si limitò a osservarmi con attenzione da dietro la maschera, gli occhi scuri socchiusi e penetranti.

«“Manesco”…».

«Ti conviene passare a elencare qualche lato positivo o dovrò metterti alla prova per vedere se riesci a bere il resto del vino anche al volo».

«Giusto. I lati positivi. Be’, purtroppo quella parte della lista è segreta. Almeno finché non l’avrò completata. Ovvero finché non avrò avuto la possibilità di valutare anche le tue parti intimamente segrete».

Lo fulminai con lo sguardo.

«Dovresti vedere la tua faccia. Adesso capisco perché ti chiamano Pasticcino. Così rosso come il colore del tuo viso quando sei incazzato ti fa sembrare assolutamente adorabile».

«Nessuno mi chiama Pasticcino. A parte te, pur avendoti detto che il mio nome è Jungkook».

«Forse dovresti cercare di non essere così adorabile quando sei incazzato. Così le persone non ci prenderebbero gusto a stuzzicarti».

Mi sentii avvampare ancora di più. Stavo per replicare quando un altro uomo e una donna si avvicinarono a Taehyung. Le maschere celavano i loro volti, ma mi ritrovai a guardare incredulo Taehyung e quell’altro uomo. Avevano la stessa altezza, la stessa corporatura. Identici occhi, bocca, ovale del viso, perfino le stesse orecchie. L’unica differenza era che il nuovo arrivato aveva i capelli perfettamente pettinati, mentre quelli di Taehyung erano arruffati come glieli avevo visti in mattinata. L’altro portava anche un fazzoletto di seta nel taschino della giacca – non ricordo mai come si chiama.

«Stai torturando un altro povero ragazzo?». Il nuovo arrivato aveva perfino la voce quasi uguale a quella di Taehyung. Il tono, però, era più freddo. Più serio.

«Pasticcino, lui è mio fratello, Namjoon», lo presentò. «Siamo gemelli, ma io sono nato alcuni secondi prima, quindi sarò sempre il più forte e il migliore dei due».

«In base alle statistiche, tu sarai solo quello che morirà prima», disse Namjoon con garbo.

«Io sono Lisa». La donna mi sorrise affabile e mi porse la mano. Indossava uno splendido vestito bianco tra l’elegante e lo sportivo, e aveva una grazia innata, la stessa che un giorno avrei voluto raggiungere anch’io. Nonostante l’abito mozzafiato, un viso adorabile, bellissimo, e il fatto che il gemello di Taehyung le tenesse un braccio sulle spalle, si capiva che era una ragazza semplice e dolce. Mi piacque all’istante.

«E io sono Jungkook», dissi, stringendole la mano.

Mi accorsi che era rimasta spiazzata udendo il mio nome.

«Taehyung trova divertente chiamarmi Pasticcino», le spiegai.

«Oh, fidati, so quel che ti fa penare», disse Lisa. «Ho dovuto sopportare un mucchio di volte i suoi fallimentari tentativi di essere spiritoso. Mi dispiace che adesso usi te come discarica personale della sua comicità spazzatura».

«Ehi!». Taehyung sorrideva nonostante il tono ferito della voce. «Discarica personale della mia comicità spazzatura? Gesù, Lisa. Sei stata contagiata dalla freddezza di Namjoon. La cosa un po’ mi ferisce».

«Oh», fece Lisa, e il suo sorriso divenne esitante. «In realtà non era mia intenzione…».

«Lisa, non rammaricarti», la interruppe Namjoon. «L’ego di Taehyung incassa bene i colpi con cui lo bastoniamo. Purtroppo, sono quasi certo che riuscirà a sopravvivere anche stavolta».

«Comincio a pensare che questo scontro non sia alla pari, e fatemi dire una cosa… se devo lottare uno contro tre, preferirei che nel mucchio ci fosse un cazzo in meno. Soprattutto se il suddetto cazzo appartiene a mio fratello».

«Va bene un cazzo in più, se quel cazzone non sei tu. Ho capito», disse Namjoon, tingendo di una nota comica il suo tono serio.

Soffocai una risata.

In quel momento Taehyung fece cadere qualcosa che teneva in mano, ma non riuscii a vedere bene di cosa si trattasse. Vidi solo che all’improvviso si piegò davanti a Namjoon e poi si rialzò, infilandosi un oggetto in tasca. Sul momento non capii, ma quando guardai di nuovo Namjoon, notai che il fazzoletto bianco di seta che portava al taschino della giacca era scomparso.

«Bene», Taehyung si stiracchiò facendo finta di sbadigliare, «a proposito di cazzoni. Non devi incontrarti con quel signor Nababbo?».

Namjoon sospirò. «Ti rendi conto che se mai venisse a sapere come lo chiami, rinuncerebbe all’istante a essere nostro cliente?»

«Lo so, ma non posso farne a meno».

«Ovvio. Vieni, Lisa. Io invece devo trovare il signor Yie per farmi vedere anche solo per un attimo. È stato un piacere conoscerti, Jungkook», disse educatamente, poi si allontanò con Lisa.

«Ora capisco. Tu sei il gemello cattivo e lui…».

«Quello ossessivo compulsivo. Penso che se uno ci si mette d’impegno riesce anche a fargli cagare cubetti di ghiaccio. Sbriciolati, naturalmente».

All’improvviso, scoppiai a ridere. «Un’immagine un po’ inquietante».

«Benvenuto nel mio mondo». Tirò fuori dalla tasca della giacca un fazzoletto bianco di seta e si soffiò il naso, anche se avrei scommesso che non aveva il naso chiuso. Guardò il fazzoletto abbozzando appena un sorriso, e lo lasciò cadere a terra.

«A che scopo prenderlo se poi te ne sbarazzi?», domandai.

Sembrò leggermente sorpreso. Forse non si aspettava che mi accorgessi del furto. «Be’, nella collezione non può rientrare tutto».

«Posso chiederti a quale collezione ti riferisci?».

Ci rifletté un attimo. «Si potrebbe definire la mia “stanza dei trofei”. Gioca bene le tue carte e forse un giorno te la mostrerò».

«Un giorno», dissi lentamente. «Sembra che tu abbia grandi progetti per noi due. Comincio a bloccare l’agenda?»

«Solo le notti».

Mi mordicchiai un labbro, di lato. «Fai sempre così?»

«Se faccio avance sessuali “non-troppo-velate” ai bei ragazzi? No, di solito no».

Mia nonna dice sempre che quando ti fanno un complimento, mai mettersi a sindacare, se non vuoi che sia l’ultimo. Quindi, sebbene non fossi del tutto convinto che mi trovasse bello, soprattutto visti gli uomini splendidi presenti alla festa, sorrisi e incassai. «Capisco… e questi bei ragazzi ai quali di solito non fai avance sessuali, come si comportano se invece lasci sottintendere qualche allusione “non-troppo-velata”?»

«Vedi», disse, e si avvicinò di un passo. In quel momento persi qualunque sicurezza, e cominciai a sentirmi a disagio. La sua vicinanza era travolgente. Logorante. «In questo momento faccio fatica a pensare ad altri ragazzi, o a quel che è successo in passato. Ho in mente solo una cosa, che prevale su tutti gli altri».

«E sarebbe?», dissi con un filo di voce.

«Un ragazzo», rispose. Tacque e mi accarezzò con lo sguardo, poi schiuse appena le labbra e quel minimo gesto, così sensuale, mi lasciò tramortito e mi accese tutti i sensi. «Un ragazzo che ho incontrato oggi. È un po’ rigido. Un tantino sarcastico. E ribatte sempre».

«Sembra proprio tremendo». Riuscii ad articolare solo poche parole sussurrate, perché avevo la gola stretta in una morsa e la bocca secca.

«E questo è il bello. Non sono mai stato attratto da ragazzi del genere, ma questo… penso che mi piaccia».

«Sono sicuro che ne sia lusingato».

«Lo sei?»

«Sono cosa?».

Sorrise. «Vuoi che te lo dica senza tanti giri di parole? Va bene, hai vinto tu». Sollevò l’indice e lo posò proprio sotto la mia clavicola dove la leggera scollatura della mia camicia lasciava la pelle scoperta. Premette leggermente, e subito un brivido mi percorse tutto, facendomi venire la pelle d’oca.

Cominciò a muovere il dito. Forse disegnò o scrisse qualcosa, non ne ho idea. Il mio mondo divenne lui, le sue lunghe ciglia, i suoi penetranti occhi scuri, le labbra morbide, assolutamente peccaminose, e il dito che si muoveva lasciando una scia di fuoco sul mio corpo. In quel momento non sentivo più né la musica né le persone attorno a noi.

Dopo un po’ tolse il dito e mi guardò impaziente. «Ecco. Te l’ho detto senza giri di parole. Hai capito?»

«Cosa?», chiesi. Non avevo prestato la minima attenzione a quel che aveva disegnato.

Scrollò le spalle. «Alcuni uomini, anche se glielo scrivi sulla pelle, non lo afferrano. Oh, be’, peggio per te».

«Ehi!», dissi, abbozzando un sorriso. «Dài, scrivilo di nuovo».

«Nah. Hai avuto la tua buona occasione, e l’hai sprecata».

Non era nel mio stile, ma misi le mani sui fianchi, perché Taehyung aveva il dono di provocarmi fino a farmi perdere il lume della ragione. «Sei assurdo».

«Ho una sete assurda. Vado a rubare qualcosa di forte».

«Le bevande sono gratis. Non le puoi rubare».

«Beata innocenza. Ancora per quanto?», disse con voce nostalgica. «Rubare è solo una questione di punti di vista. E poi l’occasione fa l’uomo ladro, Pasticcino. Ma non ti preoccupare, te lo insegnerò presto».

Detto questo, se ne andò e io mi chiesi cosa accidenti avesse voluto dire.

Dopo qualche secondo, una donna mi picchiettò delicatamente sulle spalle per farmi girare verso di lei.

Con o senza maschera, era davvero bellissima. Aveva zigomi pronunciati, labbra carnose, grandi occhi verdi con ciglia lunghe e un corpo da far girare la testa. Con un sapiente movimento del capo, spostò indietro i capelli corvini, facendoli ricadere sulle spalle, come a dire “sono meglio di te in tutto, e sta’ pur certo che lo so bene”.

«Sì?», chiesi.

«Scusami se ti disturbo», disse con voce suadente, come una gatta che fa le fusa. Mi regalò un sorriso che mi sembrò affabile e allo stesso tempo involontariamente sexy. Una parte di me fu subito incantata, ma in un angolino della mente qualcosa mi disse di stare attenta a questa donna. «Mi chiamo Kim Jennie. Potrei essere definita la presidentessa del club delle ex ragazze di Kim Taehyung».

«Oh», dissi. Non sapevo come altro rispondere alla sua presentazione.

«Non preoccuparti. Questa non è una scenata di gelosia né un tentativo di minaccia. Sono qui in veste d’amica. Mi sono già trovata nella tua stessa posizione. Taehyung è molto bravo a fare promesse. Ti convincerà che è un brav’uomo, anche se un po’ ruvido nei modi di fare e con qualche lato del carattere da smussare. Ti prometterà qualunque cosa pur di arrivare al suo obiettivo. Ti sedurrà. Si prenderà quello che vuole, e poi passerà a un’altra, o addirittura a un altro. Lo ha fatto con tutti noi, e ora lo farà anche con te».

«Be’», dissi un po’ piccato. «Apprezzo l’avvertimento, ma sono adulto. Penso di poter decidere da solo con chi avere una relazione sentimentale».

Mi rivolse un sorriso forzato. «Ovvio». Mi strinse la spalla un po’ più forte del necessario. «Ascolta. Non prenderlo come un fatto personale, ma Taehyung torna sempre da me strisciando quando le sue avventure finiscono male. A volte non so neppure io come faccio a sopportarlo, ma che vuoi, sarò speciale».

Sorrisi, ma senza calore. Non era mia abitudine essere antipatico, ma questa donna sprigionava un’asfissiante puzza di stronzaggine che aveva il potere di tirar fuori il lato combattivo e indisponente del mio carattere. «Scusa, penso di aver capito male. Hai detto che sei la presidentessa del club delle sue ex ragazze, o del club delle sue fan?».

Strinse le labbra, dove era rimasto stampato quel suo sorriso finto. «Buona fortuna, caro. Taehyung si mangia in un boccone i ragazzi come te, e poi li risputa prima ancora di colazione». Mi salutò agitando le dita, e le unghie laccate e ben curate luccicarono. Si allontanò camminando come se sfilasse in passerella, poi scomparve tra la folla.

Stavo ancora cercando di trovare un senso all’incontro con la regina di ghiaccio quando Taehyung tornò con due calici di champagne. Me ne offrì uno, ma lo rifiutai appena vidi tracce di rossetto sul bordo.

«Non pensi di esserti spinto un po’ troppo oltre con questa storia del furto?», domandai. Ancora non avevo deciso se parlargli o meno di Jennie. Da una parte morivo dalla voglia di sentire la sua versione dei fatti, dall’altra sapevo che non mi doveva alcuna spiegazione. Forse meritava che gli dessi la possibilità di farsi conoscere senza doversi prima difendere dalle affermazioni di una ex fuori di testa.

«Furto è un parolone. Ho una leggera tendenza alla cleptomania. È una malattia. Prenderesti mai in giro una persona malata? Inoltre puoi riprenderti i fiori in qualunque momento. Basta che tu venga nel mio ufficio. Si può dire che li ho presi in prestito, non rubati. Per quanto riguarda la tua ciliegia invece… Non contavo di ridartela».

«Funziona così?», chiesi, ignorando il commento sulla ciliegia. «I fiori sono serviti per il vecchio trucchetto “ho dimenticato qualcosa a casa tua”, ma con l’aggiunta di una leggera tendenza alla cleptomania?»

«Esatto».

«Mmm. Be’, puoi tenerteli».

Si picchiettò il mento con un dito. «Capisco. È evidente che ho rubato l’oggetto sbagliato. Deduco che devo passare di nuovo a farti una visitina in negozio».

«Non posso certo impedirtelo».

«Ma se potessi, lo faresti?». Nella sua voce era scomparso il tono giocoso, colsi solo un’acuta nota di sincerità. Lo aveva fatto di nuovo. Appena mi convincevo che non prendeva nulla sul serio, ecco che lasciava trapelare un inaspettato coinvolgimento emotivo.

«Forse», dissi. Ed era vero. Forse glielo avrei impedito, per non temere il futuro, l’ignoto, per sfuggire alla possibilità che quello che c’era tra noi mi facesse piombare addosso una catastrofe annunciata. Oppure lo avrei lasciato venire, perché non capita tutti i giorni che uomini come Taehyung entrino nella tua vita. Se mi fossi dovuto basare sulle mie esperienze passate, erano trascorsi vent’anni prima che un uomo come Taehyung si presentasse alla mia porta, e di sicuro non volevo aspettare i sessant’anni per avere un’altra occasione.

«Allora meglio che tu non abbia altra scelta». In quel momento sollevò lo sguardo verso il ballatoio alle mie spalle. Poi lo spostò su di me, mi sorrise distratto, e infine lo sviò di nuovo. Mi voltai per vedere cosa stesse guardando, e lei era lì. Jennie, la regina di ghiaccio, la regina delle stronze del club delle ex ragazze di Kim Taehyung. Abito nero, capelli corvini, nastro nero di pizzo attorno al collo, maschera con sottili orecchie da gatta. Sentii una fitta di gelosia, amara come un veleno, e il cuore mi si arrestò. Forse aveva detto la verità, dopotutto.

«Be’», disse. «Avevo pensato di ballare un po’ con te. Poi ti volevo fare una serenata. E infine ti avrei portato in un luogo appartato e avrei completato la deflorazione iniziata stamattina, senza tanti eufemismi, ma… sfortunatamente devo occuparmi di un’altra cosa. Sarà quindi per la prossima volta».

Non aspettò che replicassi. Mi lasciò lì, immobile, con un’espressione inebetita in faccia. Puntò dritto verso il ballatoio, e all’improvviso mi resi conto che non volevo sapere la verità. Volevo solo fuggire, conservare intatta la magia di quanto ci eravamo detti nascosti dietro una maschera. Se fossi scappato subito, avrei sempre potuto ripensare a quel momento dicendomi che forse mi ero sbagliato. Se invece avessi avuto la certezza che Jennie aveva detto la verità, mi sarei chiuso ancora di più in me stesso. Sarebbe stata l’ennesima esperienza negativa che mi avrebbe tenuto per sempre a distanza da qualunque rappresentante del sesso maschile, e dal suo pene esuberante.

Ero stato molto stupido ad andare alla festa. Taehyung era affascinante e bellissimo, e probabilmente ero stato un’idiota anche solo a pensare di poter essere qualcosa in più di un piacevole diversivo nella sua vita. E io avevo forse aspettato così tanto tempo per essere solo il semplice diversivo di un uomo?

In fondo, ero solo un ragazzo che Taehyung aveva incontrato quella mattina in pasticceria. Le attenzioni che mi aveva rivolto erano state speciali per me, ma forse per lui quella era stata una giornata come tante. Non avevo nemmeno il diritto di essere arrabbiato, quindi decisi di sentirmi stupido e ingenuo. Sì. Stupido e ingenuo. Se la mia vita fosse stata scritta in uno dei miei ricettari, vi avrei trovato tutte le possibili varianti di appena due emozioni che mi avevano accompagnata nel corso degli ultimi venticinque anni. Allarme spoiler: indipendentemente da come le avessi amalgamate, avrei ottenuto sempre un’abbondante dose di delusione con l’aggiunta di un pizzico di imbarazzo.

La ricetta della mia vita. Mmm, squisita!
   
 
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