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Autore: epices    30/06/2021    23 recensioni
La storia inizia con il ritorno di Fersen su suolo francese dopo la guerra americana, ma gli eventi non saranno quelli noti, anche perchè il bel Conte non tornerà da solo.
“E l’amore guardò il tempo e rise, perché sapeva di non averne bisogno. Finse di morire per un giorno, e di rifiorire alla sera, senza leggi da rispettare. Si addormentò in un angolo di cuore per un tempo che non esisteva. Fuggì senza allontanarsi, ritornò senza essere partito, il tempo moriva e lui restava”. (L. Pirandello)
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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I personaggi non mi appartengono; il merito, come noto a tutti, va esclusivamente a R. Ikeda
 
Strofinò la mano impolverata lungo la coscia, sulla stoffa marrone dei pantaloni, avvertendone, sotto le dita, la consistenza ruvida e un po' lisa, per nulla confacente ad un membro della più antica e blasonata nobiltà francese. Era però la più resistente e adatta ad ogni tipo di allenamento, in grado di sopportare eventuali affondi del suo avversario, nel caso non fosse riuscita a pararne i colpi. Ma, a sua memoria, non era mai successo; non i colpi di spada, almeno.
Era il tipo di pantaloni che usava abitualmente durante gli allenamenti da che il suo corpo, dopo aver abbandonato le forme acerbe della ragazzina smilza che era stata, aveva assunto quelle aggraziate e, da sempre celate, della donna che era diventata.
Anche Andrè ne aveva di uguali; anzi, quelli che stava indossando in quel momento erano proprio i suoi, adattati alla perfezione dalle mani abili della nonna da che lui non li aveva più utilizzati. E sfoggiavano diversi rammendi perchè lei, qualche volta, anche se non del tutto volontariamente, era andata a segno.
Povera Marie! All'inizio si era rifiutata categoricamente di fare una cosa del genere e di far indossare alla sua nobile padrona gli indumenti dismessi del nipote, ma sotto l'insistenza di Oscar aveva dovuto cedere. Lei non aveva voluto venissero buttati, non aveva voluto sprecare niente.
E anche la nonna, alla fine, aveva dovuto arrendersi.
Le fasciavano alla perfezione le gambe snelle e affusolate, mantenute in una postura talmente usuale da risultare naturale.
La postura perfetta. Elegante ed efficace.
La gamba destra un passo indietro rispetto all’altra e le ginocchia appena abbassate per mantenere l'equilibrio. I piedi leggermente divaricati, alla stessa larghezza delle spalle.
Gli occhi ridotti ad una fessura per poter mettere meglio a fuoco il bersaglio nell'abbagliante riverbero di quel tramonto di fine estate. Le giornate si erano fatte più corte e più fresche ma sembrava che il sole avesse deciso di non abbandonare i cieli di Francia ancora a lungo, per fortuna.
Temeva l'inverno.
Inimmaginabile come gli eventi della vita abbiano il potere di alterare le percezioni, anche quelle da sempre ritenute immutabili.
E pensare che c'era stato un tempo in cui lo preferiva a tutte le altre stagioni dell’anno, quasi che nascere in un mese di dicembre qualsiasi, le avesse donato un'affinità particolare con quei giorni tinti di bianco.
Una volta le piaceva l'inverno.
Le piaceva al tempo in cui era l'infanzia spensierata a dettare le sue regole; quando significava infinite battaglie a palle di neve, solenni sgridate per aver inzaccherato i vestiti e latte caldo, dolce di miele perchè l'erede della casata Jarjayes non doveva e non poteva proprio ammalarsi.
Troppo pericoloso a quei tempi in cui le polmoniti erano in grado di abbattere i rami di interi alberi genealogici!
E anche quando significava mettersi a leggere nel vano delle vetrate, nella timida luce di un pallido mattino, capace però di trasformarsi in chiarore abbagliante nel momento in cui i raggi del sole iniziavano a giocare con la coltre di neve sui davanzali. E allora tutta la stanza veniva avvolta da un candore ovattato ed irreale, messaggero impalpabile di assoluta armonia e della certezza che lì, tra quelle pareti, nulla di male avrebbe mai potuto accadere.
E poi ancora quando significava un bicchiere di vino davanti al fuoco e una sensazione di calore intimo, resa ancora più avvolgente dall'allegria di un amico sincero, dispensatore instancabile di uscite argute e sagaci, con  il potere di farla sorridere e, talvolta, anche ridere di gusto per poi affrontare la notte a cuore leggero.
Poi era cambiato tutto.
Ora temeva le notti più lunghe dei giorni che lasciavano troppo tempo ai pensieri per affastellarsi, contorcersi, avvinghiarsi gli uni agli altri per poi, alla fine, sciogliersi ma soltanto per ricominciare, da lì a poco, a vorticare in una spirale infinita.
E i vestiti bagnati addosso a memoria di quel giorno che non avrebbe mai voluto facesse parte dei suoi ricordi.
E temeva il gelo ad intirizzirle le membra, consapevole di non essere più in grado di ritrovare il giusto calore.
A volte le capitava di pensare che ogni persona sfiorata anche solo per sbaglio, potesse percepire tutto il freddo che sentiva dentro...e forse era proprio così visto che, da tempo, certi appellativi nei suoi riguardi si sprecavano. Evidentemente anche il resto del mondo pensava che, in qualche remota piega del tempo, l'inverno l'avesse plasmata a sua immagine e somiglianza.
L'algido comandante De Jarjayes- la definivano a Corte per l'inflessibilità e la severità con le quali infarciva il suo ruolo. Come dar loro torto?
Oppure c'era quell'altro epiteto - il più subdolo - quello che riassumeva tutto ciò che non avrebbe dovuto essere e che non avrebbe voluto rappresentare. Serpeggiava a bassa voce, soffocato da ventagli di piume e provvidenziali colpi di tosse. Librava nell'aria, leggero come le note di un'arpa ma pungente come uno stiletto e, alla fine, era arrivato anche alle sue orecchie. E proprio nel momento in cui faceva più male. Tutti lo pensavano, nessuno lo esternava ad alta voce.
Maledetti cortigiani pettegoli, vacui e curiosi!
La vergine di ghiaccio - così l'avevano etichettata.
La donna – sì, la donna - visto che ormai nessuno ci credeva più all'espediente usato da suo padre per ingannare il destino, incapace di provare la men che minima emozione. Ma cosa ne potevano mai sapere loro?
Portò il braccio destro a formare un angolo perfetto con la linea del corpo.
Socchiuse appena l'occhio sinistro.
Era quella l'ora in cui tutta la campagna veniva inondata dalla luce aranciata del sole, basso sulla linea dell'orizzonte. Il suo bagliore infuocato risaltava dietro le chiome degli alberi che stavano già iniziando ad imitarne il colore e dietro i tronchi, resi neri in quel frangente, come se davvero, investiti dalle fiamme, si fossero trasformati in carbone e cenere.
Carbone e cenere...
C'erano state volte in cui anche lei avrebbe voluto diventarlo per non sentire più nulla e poter smettere di fare a pugni con la propria coscienza, unico ed imbattibile avversario di infinite schermaglie.
Non avrebbe mai rivelato ad alcuno che in quella radura, la canna della pistola era stata un richiamo suadente in più di un'occasione...
Ma invece era ancora lì, al suo posto, come una perfetta statuina di ceramica di Sèvres in bella mostra su uno scaffale di rappresentanza. Il silenzio della campagna era interrotto soltanto dai richiami degli uccelli migratori  che, disposti in schieramenti perfetti, stavano riunendosi ed organizzandosi per partire e andare lontano. E lei cosa diavolo ci faceva ancora lì quando anche il sole, tutte le sere, tramontava ad ovest, spegnendosi tra le acque dell'oceano Atlantico?
Se lo era domandato infinite volte negli ultimi anni quando cercava di darsi una spiegazione e di sopravvivere ad un'altra notte.
Era ancora lì per proteggere la Regina; glielo aveva chiesto lui prima di partire, prendendole le mani tra le sue e suscitandole sensazioni che non aveva mai provato prima.
Di certo non le avrebbe mai più provate dopo.
E lei aveva promesso, ammaliata dal suo sguardo seducente, dalle morbide carezze delle sue dita che le accarezzavano i polsi e da tutto ciò che le sembrava di poter provare in sua presenza.
Allora non sarebbe stata davvero in grado di rifiutargli nulla.
Era rimasta come imponevano il suo ruolo, il suo grado, il senso del dovere e le regole della buona società e della buona creanza.
Era rimasta al fianco di Maria Antonietta, della giovane Regina che aveva pianto senza vergogna quando un messo reale, impettito e ligio al dovere, aveva portato la notizia.
Le navi erano salpate; le truppe francesi erano in viaggio verso l'America!
Lei invece non aveva potuto permetterselo; soltanto dopo, nascosta dall'abbraccio ombroso delle fronde del parco, accasciata a terra con la schiena contro un albero, aveva potuto dar sfogo al suo dolore e alla sua angoscia. Era rimasta per compiere il suo dovere al meglio delle sue possibilità. Tutti i giorni.
Anche quando si sentiva mancare l'aria perchè di notizie dall'America non ne arrivavano.
Non ne arrivavano mai. Nemmeno una dannatissima lettera.
Le bottiglie erano disposte alla perfezione sullo steccato. Le ombre dei bersagli si stavano allungando lentamente, mangiandosi l'erba dorata di fine estate.
Sincronizzò lo sparo con la respirazione.
Ogni suo movimento era plasmato fino alla più impercettibile delle sfumature dalle pagine dei migliori manuali d'armi, imparati a memoria in tenera età, come le preghiere della sera. E da anni di allenamenti interminabili.
L'indicazione sempre la stessa, quella di sparare subito dopo l'espirazione. Quello è il momento ottimale e inoltre - aspetto fondamentale - l'indice va tenuto saldamente sul grilletto, non lo si deve mai rilasciare immediatamente dopo lo sparo ma è necessario rimanere immobili come ci fosse una calamita che collega la punta della pistola al bersaglio e rilasciare il grilletto solo dopo l’inspirazione.
Fuoco!
La prima bottiglia si disperse in mille pezzi così come, parecchio più in alto, lo schieramento degli uccelli impauriti dal fragore improvviso.
Ricaricò la pistola con rapidità ed efficacia.
Fuoco!
Anche la seconda bottiglia andò in frantumi.
Movimenti rapidi e ripetuti, frutto di anni di esercizio.
Fuoco!
Fuoco!
E ancora fuoco!
Dio, quanto aveva bevuto negli ultimi tempi? Almeno quelle notti di oblio alcolico avevano una controparte utile...
Era stata Nanny a suggerirle, involontariamente, l'idea. Lo sapeva che non approvava minimamente certi suoi atteggiamenti ma, con l'affetto che le portava e il ruolo che ricopriva, non si permetteva certo di parlarle apertamente. Però lo vedeva il suo sguardo sofferente, dietro gli occhiali tondi, quando la mattina raccoglieva le bottiglie vuote lasciate a casaccio sul tavolo o sulla mensola del camino, mentre scuoteva la testa in segno di disapprovazione, mordendosi le labbra per non lasciarsi sfuggire frasi inopportune. E notava anche la sua schiena, sempre più curva, piegata dall'inesorabile scorrere del tempo e da un dolore che cercava di non ascoltare per poter continuare a sopravvivere.
E per poter continuare a prendersi cura di lei.
Una mattina in cui non era riuscita a tacere, mentre, apparentemente noncurante, riponeva nei cassetti la biancheria pulita, le aveva parlato con un'ironia che non le conosceva ma di cui le era ben nota la provenienza. E che spazzava via inutili formalismi e forme di cortesia, lasciando solo poche lettere a comporre il suo nome.
“Oscar, hai deciso di incrementare gli allenamenti con la pistola? Con tutti questi vuoti si potrebbe addestrare un reggimento!” - aveva esordito senza il coraggio di guardarla in volto.
Lei aveva distolto lo sguardo dalla giubba dell'uniforme che stava abbottonando con cura poichè l'ordine e il rigore che si imponeva da sempre, sembravano essere gli unici appigli per non cedere e lasciarsi andare verso qualcosa a cui, talvolta, anelava con tutta l'anima.
L'aveva fissata stranita, dapprima incerta di aver capito bene e, in realtà, anche un po’ stupita da come la vecchia governante avesse assorbito, negli anni, un lessico militare che non le apparteneva.
Anche se a volte, in quella casa, sembrava davvero che il titolo di “Generale” non appartenesse soltanto a suo padre.
Poi aveva abbassato lo sguardo sorridendo ironicamente di se stessa e dandosi della stupida. Ma non riusciva proprio a comportarsi diversamente.
“Potrebbe essere un'idea...raccoglile in una di quelle grandi ceste che avete in cucina, per favore” - aveva risposto piano, garbatamente, sapendo di essere nel torto ma con orgoglio sufficiente a non ammetterlo.
Era troppo il bene che le voleva e non riusciva ad essere sgarbata con lei anche se a volte la nonna era davvero impertinente.
Ecco da chi suo nipote aveva ereditato quella caratteristica...
Aveva scosso il capo con forza, quasi fosse necessario quel movimento energico a scacciare i pensieri molesti, e si era diretta, ad ampie falcate, verso le scuderie ad iniziare una delle sue solite giornate ricche di impegni ufficiali ma davvero povere di vita. E in fin dei conti, poi, cosa importava? Una vita valeva l’altra, a quel punto...
“Quante bottiglie abbiamo ancora?”
“Tre”
“Bene...posizionale sullo steccato, equidistanti l'una dall'altra per quanto possibile”
Ricaricò nuovamente la pistola e assunse la posizione idonea allo sparo.
Fuoco!
Qualcosa cambiò in quota e la brezza della sera iniziò a farsi sentire, scompigliandole i capelli. Con un gesto rapido della mano li portò dietro l'orecchio destro e si preparò a sparare di nuovo.
Fuoco!
Ne rimaneva soltanto una.
Con la coda dell'occhio intravide un animale impaurito, probabilmente un gatto, nascondersi poco più in là, tra i covoni di fieno settembrino, lasciati ad essiccare nei campi, allo scopo di foraggiare gli animali di stalla nelle giornate fredde, ormai prossime.
La brezza, ancora tiepida e recante il profumo fragrante dell'erba tagliata, si insinuò sotto la leggera camicia di batista, facendola rabbrividire.
Il braccio destro formava di nuovo un angolo perfetto con la linea del corpo.
Socchiuse appena l'occhio sinistro e sincronizzò la respirazione. Quello era il momento ottimale, l'apice della concentrazione. Era come se, dai suoi occhi, potessero partire strali appuntiti rivolti direttamente alla bottiglia, inchiodandola alla sua posizione. In quelle condizioni nessun bersaglio, mobile o immobile, avrebbe mai potuto sfuggirle.
Fuoco!
Ancora una volta la bottiglia esplose in mille pezzi.
Ma non era stata colpita dal suo proiettile!
Una frazione di attimo prima di premere il grilletto era partito un altro colpo e la consistente esperienza balistica le suggerì in un istante che il punto di origine fosse dietro le sue spalle.
Si voltò di scatto, furente. Gli occhi fiammeggianti d'ira e di spavento.
“Chi è stato?”- intimò con tono feroce, lo stesso che usava per redarguire le nuove reclute quando aveva il sentore non le prestassero la dovuta attenzione.
Sul basso argine che separava la tenuta da uno dei tanti canali confluenti nella Senna, trasformato dal genio di qualche sconosciuto in valida fonte per l'irrigazione dei campi, erano comparse due figure, due uomini a cavallo. Il riverbero del sole non le permetteva di distinguerli adeguatamente ma uno dei due teneva tra le mani un fucile. La canna sembrava ancora avvolta da un’ombra di polvere da sparo.
Se ne stava lì, ad aspettare una risposta sensata mentre stringeva saldamente la pistola tra le dita, preparandosi a sparare se fosse stato necessario; pur consapevole che di colpi in canna ne era rimasto soltanto uno e, senza ombra di dubbio, non sarebbe stato sufficiente per far fronte a due uomini armati.
Ma non arrivò nessuna risposta, non ancora.
Invece, nel silenzio attonito della campagna risuonò, forte, una risata.
L'unica con il potere di fermare il tempo.
Il suono della sua risata.
Quella che aveva chiuso a doppia mandata in fondo all'anima affinchè nessuno mai potesse giungere e pretendere di portargliela via.
Quella in grado di far ripartire il cuore.
Ma non poteva essere. Era un altro subdolo inganno della sua mente che ancora non si arrendeva, nonostante tutto.
Infine, uno dei due parlò. C'erano una risata trattenuta e un impronta di allegria nella sua voce.
“Madamigella Oscar, non prendetevela per questa sciocca dimostrazione...rimanete sempre voi il miglior cecchino di Francia!”
“...Ma chi?...”
Non riusciva a capire. E forse non lo voleva nemmeno. I sensi impazziti bramavano una risposta che però non sembrava essere quella giusta.
“Non mi riconoscete? Non posso darvi torto...sono il Conte Hans Axel di Fersen, appena tornato dall'America”
Hans Axel di Fersen” sussurrò piano tra le labbra puntando su di lui due occhi azzurri increduli, ridotti a poco più di una fessura, per trovare il giusto punto di fuoco. Era così diverso quell'uomo dai lunghi capelli chiari e dall'aspetto trasandato dal raffinato nobiluomo che aveva conosciuto. Ma a dar credito alle sue parole c'era quell'accento inconfondibile che tanti anni in Francia non erano riusciti del tutto a cancellare...
Fersen...Fersen...sì, poteva essere davvero lui. Allora, forse...
Se Fersen era tornato, allora...
Finalmente poteva sperare di...
Si portò una mano alla fronte, a cercare di mitigare, per quanto possibile, il riflesso del tramonto.
Era davvero Fersen? Certo che lo era...
Ma perchè allora? Eppure...
Per un attimo le era sembrato...
La sua mente galoppava veloce ma la stava tradendo fino a quel punto? Sì, era sicuramente così...i cocci delle bottiglie sparsi nella radura probabilmente erano la risposta ai suoi dubbi.
Avanzò di un passo; stava per corrergli incontro ma si bloccò di colpo, incespicando quasi, inchiodata sul posto da un pensiero improvviso che le fece assottigliare lo sguardo per poi puntarlo come un rapace sull'uomo di fianco al Conte, cercando di delinearne i contorni mentre la mente lavorava veloce a cercare il motivo per il quale l’altro cavaliere non si era nemmeno presentato, pur essendosi permesso di sparare.
Sì, era stato lui…
E Fersen lo aveva lasciato fare, aveva lasciato si cimentasse in quell’esibizione goliardica, del tutto fuori luogo. Avrebbe potuto aspettarselo dal Conte, non di certo da….da chi? Un valletto...un attendente?
La sorpresa andava amalgamandosi sempre più profondamente con l'inquietudine.
La sua posizione in controluce la poneva in notevole svantaggio. Affilò ancora di più lo sguardo sul cavaliere che la osservava in silenzio, con il fucile adagiato alla spalla, la canna  rivolta al cielo. La stava guardando dall'alto della sua posizione e, trovandosi in condizioni favorevoli, riusciva bene a distinguere l'espressione della donna, sgomenta e confusa che si era, però, rasserenata per un momento quando aveva compreso di trovarsi di fronte al Conte di Fersen.
Aveva percepito il suo desiderio di corrergli incontro così come pure il motivo che l'aveva frenata.
Leggendo il vuoto nei suoi occhi, sospirò piano e spronò il cavallo a fare qualche passo in avanti per uscire da quel gioco di luce a lei avverso.
Ecco, così poteva bastare…
E allora il mondo smise di girare. E gli uccelli di cantare, l’acqua di scorrere, il vento di soffiare.
Forse anche il cuore cessò di battere per un istante per poi ripartire a ritmo così forsennato da togliere completamente il respiro.
Con un tonfo sordo la pistola cadde ai piedi di lei che ebbe la netta sensazione di udire gli ingranaggi del tempo stridere per poi fermarsi.
Non le riusciva di muovere un passo; ad articolare qualche parola nemmeno a pensarci. Soltanto l'onda dorata dei suoi capelli fluttuava leggera, sospinta dalla brezza della sera.
Alla ricerca di un appiglio - uno qualsiasi - Oscar si portò, di scatto, entrambe le mani alla bocca, del tutto insensibile al sottile sentore di polvere da sparo che le inondò le narici. Tutta la sua attenzione era rivolta ad un viso abbronzato, incorniciato da capelli corvini, folti e ribelli, lunghi fino alla base del collo. Le dita invisibili della brezza ne scompigliavano le ciocche divertendosi a scoprire gli occhi profondi, dello stesso colore dell'oceano che avevano attraversato.
“Scusami se ti ho rovinato l’allenamento. Ciao Oscar”- e c'era ancora l'eco della risata di poco prima in quella voce dal tono pacato e inconfondibile, stemperato in un sorriso, lo stesso che ricordava e che un giorno lei stessa aveva contribuito a spegnere, a stirare le labbra.
Oscar iniziò impercettibilmente a tremare mentre l'equilibrio era pericolosamente sul punto di abbandonarla. Deglutì più volte mentre sentiva le lacrime spingere lì, dietro le ciglia, senza distogliere mai lo sguardo dall'uomo a cavallo.
“Monsieur...Monsieur Oscar, va tutto bene? Devo andare a chiamare qualcuno?”- pronunciò una voce intimorita, che ancora non aveva abbandonato del tutto i toni dell'infanzia.
Poche parole che ebbero il potere di riallacciarla al tempo e allo spazio.
Quando le parve di riuscire ad emettere un filo di voce, pur avvertendo un senso di vertigine alla sensazione, mai percepita con tale intensità, dell’aria che scivolava lenta ad espanderle i polmoni, tolse lentamente le mani dalla bocca, facendole scivolare piano lungo il collo, fin sul petto, nel tentativo di stringere insieme i lembi della camicia e il cuore, diventato impossibile da governare e, con voce tremante, si rivolse, senza voltarsi, al ragazzino rimasto immobile alle sue spalle.
Dal viso spolverato di efelidi era scomparsa ogni traccia della fierezza del suo ruolo, quello di apprendista attendente di Monsieur le Comte. Ora c'era soltanto spavento per lo sparo inatteso e preoccupazione per la reazione inaspettata del Colonnello, come rivelavano le piccole perle di sudore sulla fronte, tra i capelli della stessa consistenza della stoppa, della quale avevano rubato anche il colore.
“Pierre, per favore...corri a Palazzo. Riferisci a tua madre e alla nonna che stasera abbiamo ospiti”
 
 
 
Questi miei vaneggiamenti sono stati scritti e accantonati tanti mesi fa, quasi un anno forse, per diversi motivi, insieme ad altri vaneggiamenti che dovrebbero seguire questo primo capitolo. L'idea è abbozzata, il tempo è poco ma proviamo a salpare l'ancora e partire...poi vedremo dove ci condurrà la navigazione che non sarà più rapida di quella di una barca a vela, temo.
Genere e rating potrebbero anche cambiare in corso d’opera e, a tal proposito, visto che so di essere una frana nell’assegnare caratteristiche, accetto ben volentieri ogni suggerimento di modifica se ne ravvisate la necessità.
Grazie a tutti coloro che avranno voglia di passare di qua con critiche, spunti di riflessione e anche in silenzio.
Dimenticavo di ringraziare l'inconsapevole ruolo di "spinta motrice" alla pubblicazione svolto da Hebert 80 con l'ultimo capitolo della sua "Next to you". Lui non ha fatto nulla, a parte scrivere un capitolo bellissimo, ma leggere le sue righe, con le quali mi sento molto in sintonia (e lui lo sa) mi ha fatto venire voglia di rispolverare queste mie farneticazioni.
   
 
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