Vi
auguro una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 17.12.2021
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Capitolo
Ventinovesimo
Sabato
27 settembre 1511 – Domenica 28 settembre 1511
(prima
parte)
“Se
il malvagio si ritrae da tutti i peccati che ha
commessi e osserva tutti i miei decreti e agisce con giustizia e
rettitudine,
egli vivrà, non morirà. Nessuna delle colpe
commesse sarà ricordata, ma vivrà
per la giustizia che ha praticata.
Forse
che io ho piacere della morte del malvagio - dice
il Signore Dio - o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?
[…]
E se l'ingiusto desiste dall'ingiustizia che ha
commessa e agisce con giustizia e rettitudine, egli fa vivere se
stesso. Ha
riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse:
egli certo vivrà e non
morirà."
(Ezechiele
18, 21-28)
Correva
voce che nello Stato di
Terra i campanili apparissero tanto alti da eguagliare
l’animo beghino dei suoi
abitanti; in realtà, cogitava Mercurio Bua mentre
supervisionava i suoi
stradioti montare le tende nell’accampamento, il motivo era
quello di creare
punti di riferimento e di avvistamento per colpa degli alberi svettanti
e fitti
che nascondevano gran parte dei paesi. Ciò creava un bel
problema, concluse il
condottiero, poiché le strade principali costeggiavano i
fiumi e i canali:
peccato che questi fossero battuti costantemente dagli stradioti
marciani,
vigili e rapidi nelle loro azioni di disturbo.
L’ultimo
contingente
dell’esercito franco-imperiale era giunto a Torre di Maserada
alle prime luci
dell’alba: appena il tempo di finire di sistemare le proprie
tende, che già
dovevano aggregarsi alla compagnia comandata direttamente da La Palice
per
tentare un secondo atto intimidatorio sotto le mura trevigiane. Una
staffetta
giunta dalla Patria del Friuli recava notizie
dell’appropinquarsi del resto
dell’esercito tedesco a Motta di Livenza, rincuorando il
maresciallo che non
solo vi leggeva tra le righe l’esito positivo
dell’assedio di Gradisca e dunque
l’arrivo di viveri e artiglierie, ma anche
dell’intera forza bellica a
disposizione, finalmente riunita e dai numeri decisamente promettenti,
assieme
alle truppe ausiliari comandante da Giovanni e Federico Gonzaga,
stanziate a
Soave.
Nonostante
l’euforia generale,
nel suo intimo Mercurio non era entusiasta all’idea di
sfilare in parata
dimostrativa a Treviso, ancora memore della sua debacle alcune
settimane
addietro, preferendo piuttosto guadagnare terreno fino ad accamparsi
più vicino
e da lì attendere gli ultimi contingenti rimasti. Perlomeno,
si consolava, se
proprio doveva obbedire, egli avrebbe avuto modo di studiare le mura
onde
trovare il punto debole dell’apparente impenetrabile Treviso.
E scovato lo avrebbe,
si ripromise.
Inoltre,
aveva un conto in
sospeso con un certo qualcuno in quella città, nello
specifico il fratello del
suo prigioniero, la cui ferita provocatagli sia all’orgoglio
sia alla coscia
tuttora gli bruciava, malgrado la seconda si fosse abbastanza
rimarginata. Una
sensazione di crudele compiacimento gli accarezzava l’animo
alla prospettiva di
sgozzare il Miani più anziano, anche per vendicarsi del
più giovane, la fonte
primaria di ogni suo malessere e disgrazia. Era d’altronde
colpa sua e della
sua doppiezza se il Bua non aveva potuto cavalcare a Musestre assieme a
Leka,
impedendo così che Zilio venisse ucciso … Colpa
sua e del suo valore pressoché
nullo, se quel disgraziato del suo barba ancora non rispondeva alla sua
ambasciata, di scambiar lui per Caterina … Mercurio avrebbe
intinto la sua
casacca del sangue di Marco Miani e l’avrebbe sbattuta in
faccia ad Hironimo,
costringendolo ad inalare il sangue fraterno e se ciò non
fosse bastato per
spezzare definitivamente quella testa dura …!
Il
condottiero greco-albanese
lanciò un’occhiata di sbieco all’oggetto
delle sue cupe elucubrazioni, il quale
se ne stava legato alla ruota di un carro, a capo chino e talmente
immobile,
che da lontano lo si sarebbe potuto scambiare per morto, se non fosse
stato per
il lento alzarsi ed abbassarsi del petto. La bravata della notte scorsa
era
rimasta vividissima nella memoria del Bua, così come
marchiata a fuoco era lo
sguardo del giovane, ben lungi da quello di una persona sconfitta.
Mercurio si
scoprì detestare quella che lui giudicava infinita
alterigia, domandosi come
fosse mai possibile che, a seguito dei tormenti inflittigli, quel
moccioso
viziato seguitasse nella sua imperturbabilità, neanche da
neonato avesse dalla
sua balia poppato orgoglio al posto del latte.
Hironimo
avvertì il passo del suo
carceriere prima ancora di aprire gli occhi, rimpiangendo quel fragile
sonno a
fatica conquistato dopo un’estenuante marcia notturna. Era
stato separato,
ovviamente, dal suo compagno di sventura, cacciato
quest’ultimo tra gli altri
prigionieri – pregò si sentisse meglio rispetto
alla notte scorsa.
Quanto
a lui, il giovane Miani
attendeva che il Bua si sbrigasse a montare quel suo dannatissimo
padiglione,
così da giacere finalmente su della paglia pulita
poiché, per quanto un solido
appoggio, la ruota ugualmente risultava sporca di fango e generalmente
scomoda.
Lo sterno poi gli doleva a causa degli sporadici colpi della ballotta
da 9
libbre (circa 5kg, ndr.), quando le dita gli erano divenute troppo
torpide per
reggere il suo peso o tener ferma la catena. Le braccia gli dolevano,
tremandogli i muscoli in lievi e continui spasimi fino ad irrigidirsi
ribelli e
le sue mani arrossate presentavano vene talmente grosse e sporgenti, da
scambiarle per quelle di una vecchia lavandaia. Il collo gli grattava e
così
polsi e caviglie, mescolandosi rivoletti di sangue alle croste di melma
e pus.
Aggiungendo poi la faccia ancora mezza gonfia dai colpi ricevuti, i
capelli
sporchi e appiccicaticci nonché la barba incolta, il giovane
patrizio ispirato
dal macabro umorismo del rassegnato, si considerò
né più bello né più comodo
dei prigionieri dei Pozzi.
Un
calcio alla coscia lo
distrasse da quel suo intimo scherzo e costrinse Hironimo a sforzarsi
di levare
un poco lo sguardo verso l’alto, provocandogli un unico lampo
di dolore dalla
nuca fino agli occhi, che gli parvero volergli scoppiare dal cranio.
“In
piedi!”, gli venne intimato;
il giovane Miani strinse i denti e obbedì docile, ignorando
le fitte alle piote
sanguinanti e infreddolite. “Che fai? Rabbrividisci?
Così impari a giocare al
buon samaritano!”, lo derise Mercurio, notando il discreto ma
costante tremore
lungo il corpo del patrizio, sia per la fatica sopportata sia per
l’aria
decisamente autunnale, umida e fredda. Le mani rattrappite del
veneziano
avevano assunto una tinta vagamente bluastra sotto il rosso dello
sforzo di
reggere la ballotta, così come le unghie sporche e rotte.
Fosse
stato il se stesso di una
settimana addietro, Hironimo avrebbe rinfacciato aspramente al
greco-albanese che,
a furia di servire l’Imperatore, ne aveva ereditato la famosa
tirchieria, visto
che non si penava di dargli un altro cencio con cui coprirsi. Ora,
però, la
cosa non lo tangeva. Anzi, più il Bua lo tormentava,
più gli suscitava la
medesima commiserazione di un adulto che deve sopportare i capricci di
un
bambino particolarmente petulante.
Hironimo
socchiuse le palpebre
gonfie e nere: era stanco, davvero stanco.
Il
condottiero lo trascinò alla
sua tenda, indirizzandolo al famigliare angolino dove aveva trascorso
parte
della sua prigionia a Montebelluna, con la sola eccezione che il suo
Thomà non
si trovava più con lui a tenergli compagnia, mitigando la
solitudine. Al
pensiero del piccoletto, il cuore del patrizio fremette per un istante,
sperando e pregando che sia lui sia Fra’ Anselmo fossero
giunti sani e salvi a
Treviso, lontani dal nemico e le sue insensate crudeltà.
Quella consolazione
gli avrebbe di gran lunga addolcito quell’ennesimo giorno di
prigionia …
Un
violento strattone lo riportò
alla realtà, strappandolo un gemito di sorpresa: senza
concedergli tempo
d’acclimatarsi al giaciglio di paglia, Mercurio gli aveva
levato le cavigliere
e le manette “da marcia” (come li appellava
giocosamente) per sostituirli con
altri più costringenti. Quasi stesse assistendo alla scena
fuori dal proprio
corpo, Hironimo osservava stranito i due grossi chiodi di ferro che
chiudevano
i suoi nuovi ceppi, quest’ultimi uno passato
nell’altro. Due manette senza
chiodi ne chiusero un altro paio identico, mentre attraverso due al
centro del
petto venne fatta passare una catena di anelli schiacciati
acciocché gli
avvolgesse il corpo, serrandogli le gambe, e lo forzassero in posizione
fetale
anche da seduto. Infine, il Bua chiuse un lucchetto su due anelli del
palo di
legno; un secondo sulle manette e un terzo sui ceppi.
Ad
operazione conclusa, Hironimo
constatò come neanche il più sanguinario dei
criminali della Serenissima fosse
mai stato incatenato così, a guisa di cane rabbioso. Quasi
ogni movimento gli
era impedito, oppure reso particolarmente doloroso. Si chiese come se
la
sarebbe cavata quando natura avrebbe chiamato, rabbrividendo al
pensiero di
quell’ennesima umiliazione: finché si trattava di
urinare in marcia, non visto,
poteva anche sopportarlo, ma davanti al suo carceriere …
“Così
non dovresti neppure essere
in grado di grattarti il culo”, sentenziò Mercurio
perversamente soddisfatto,
specie allo scatto della chiave nell’ultimo lucchetto.
“Figurarsi scappare via.
Ma se anche ci riuscissi”, gli si inginocchiò
accanto, sventolandogli malevolo
la chiave sotto il naso, “se anche per miracolo tu riuscissi
a liberarti da
queste catene e a fuggire, sappi che non arriverai mai a Treviso. Ti
farò
cercare, ti farò ricondurre qui all’accampamento e
ti scuoierò via la schiena a
furia di frustate, non prima d’averti fatto fottere
pubblicamente dai miei
cani!”, gli promise crudele e premette sulla caviglia gonfia,
onde ribadire il
concetto tramite una fitta acutissima di dolore.
La
gola d’Hironimo si serrò in
conato di acida bile: aveva udito di tali pratiche ai danni dei civili,
atti ad
umiliare specialmente le donne. In tutta onestà le aveva
credute leggende o
usanze turche, incapace di concepire tale vile bassezza in un cristiano
e il
pensiero di dover subire uguale sorte – unita ai suoi ricordi
circa gli
accoppiamenti tra i cani – lo spinse a sputare a malincuore
della saliva, non
avendo alcun cibo in stomaco.
Mercurio
contemplò la scena
ridacchiando, divertito dall’ansante boccheggiare dello
scioccato patrizio.
“Hai inteso?”, reiterò, afferrando ora
il giovane Miani per i capelli e
torcendogli il collo sulla sinistra, creando una doppia fitta dolorosa,
da una
parte la frizione del cerchio di ferro sulla carne viva e
dall’altra il
bruciore dei muscoli tesi allo spasimo per sorreggere la palla di
marmo.
“Rispondi, che la lingua ce l’hai quando vuoi: hai
capito cosa t’aspetta, se
proverai di nuovo a scappare?”
Il
veneziano annuì, guadagnandosi
un secondo strattone allo scalpo. “Parla, perdio!”,
lo assordò per poco il
condottiero.
“Ho
… ho compreso …”, gracchiò
Hironimo, la gola secca e ruvida, l’ultimo rivoletto di
saliva sulle sue
ginocchia. “Acqua …?”, aggiunse
timidamente, una volta libera la sua zazzera
dalle tenaglie del greco-albanese.
“Uh?”,
sbatté perplesso le ciglia
Mercurio, preso un attimo di contropiede. Poi, riavendosi:
“Hai sete?”,
schioccò la lingua, arricciando la bocca in una maniera poco
raccomandabile.
Stancamente,
il Miani rispose di
sì.
“Implorami,
allora.”
Un
altro giochetto, un’altra
prova. Hironimo scorse con la punta della lingua il taglio e le piaghe
sul
labbro inferiore screpolato, assaggiandone il retrogusto ferroso. Il
suo
spirito si ribellava dinanzi a quell’ignominia,
all’abbassarsi così
codardamente dinanzi ad un volgare avventuriero. Era un figlio di
Venezia, l’altera
mai conquistata. Con che faccia si sarebbe ripresentato alla sua
famiglia, non
solo sconfitto ma pure supplice ai piedi del nemico? Un
Miani si spezza
ma non si piega, gli aveva insegnato Padre e suo figlio anche
in quello non
voleva deluderlo.
Ma
non di solo orgoglio vive
l’uomo ed Hironimo faceva gli equilibrismi sul filo del
limite della
sopportazione fisica: la disidratazione l’aveva fiaccato
delle ultime energie,
le orecchie gli fischiavano, la vista ormai s’era tramutata
in un incessante
dondolio e la febbre non cessava di tormentarlo, riempiendolo di
brividi freddi
pur bruciandogli la faccia. Pochi giri di parole: pur nella sua
testardaggine,
Hironimo voleva vivere e per farlo doveva considerare anche i
compromessi.
Doveva, poi? Non sapeva più niente, in quel mese ogni sua
certezza gli era
stata sottratta, abbandonandolo alla stregua d’una foglia
preda dei capricci
del vento autunnale.
“Se
questa è la volontà di Dio
…”, mormorò infine il giovane Miani, le
gote vermiglie sia per la temperatura sia
per la vergogna suscitatagli dalle sue medesime parole,
“allora ti supplico di
darmi dell’acqua …”
Mercurio
tirò indietro il capo,
sedendosi sui talloni, interdetto da quell’affermazione che
nulla aveva di
disperato né di rassegnato, al contrario, gli suonava alle
orecchie alla
stregua d’una sfida. Cosa c’entrava adesso Dio e la
Sua volontà in tutto
questo?
Quel
veneziano doveva invero
essere uscito di senno.
“Ci
voleva così tanto?”, si
raddrizzò il condottiero, modulando la voce
acciocché il prigioniero non vi
catturasse alcuna traccia di sorpresa o tentennamento. “Per
stavolta ti porto
da bere e anche da mangiare. Ma bada di non allargarti troppo: al
minimo
sgarro, ti beccherai la giusta punizione”, disse, levandosi
in piedi per
dirigersi alla volta del tavolo.
“L'è
miei jessi in disgraćie di
Dio …”, [1] udì però subito
dopo alle sue spalle e il Bua si voltò di scatto,
il coltello rimasto incastrato nel pane nero che stava affettando.
“Cosa?”,
fece confuso il
condottiero, cogliendo qualche parola di quell’idioma a lui
sconosciuto. “Di
che blateri, adesso?”
Graffiando
le unghie taglienti e
mezze rotte sulla palla di marmo, Hironimo replicò
calmissimo. “Lo hai
ascoltato.”
Mercurio
mulinò nervosamente il
coltello. “Sì, ma che significa?”,
l’incalzò spazientito, tirandogli addosso la
fetta di pane, che lo centrò in pieno, rotolando per terra
ai suoi piedi.
Ineffabile, il patrizio raccolse goffamente il cibo e se lo
portò alla bocca
senza neppure soffiarci sopra, masticando lento e sul lato sinistro,
laddove
gli doleva di meno.
“Non
ti dirò più niente”, chiuse
in via definitiva Hironimo la conversazione, lo stomaco momentaneamente
placato
ma non soddisfatto. In silenzio bevve l’acqua mescolata al
mosto, avvertendo
una piccola e dolce sensazione di conforto nel corpo e
nell’anima.
Che
il greco-albanese lo
insultasse, lo minacciasse, lo tormentasse pure: non gliene importava
più
nulla, il suo spirito era al sicuro da lui, irraggiungibile. Quanto al
resto,
hé, sebbene Hironimo si fosse genuinamente pentito della sua
condotta passata,
non poteva certo cambiare radicalmente costumi dall’oggi al
domani – complice
la sua testa dura – e forse
ancora peccava della sua innata
superbia, ma su di una cosa non avrebbe ceduto: soltanto davanti a
Cristo e al
suo lieve giogo si sarebbe piegato, soltanto a Lui. Gli altri potevano
impiccarsi tutti al primo albero disponibile.
E
quella sua rinnovata
determinazione dovette trasparire dai suoi occhi neri,
giacché Mercurio non
seppe cosa rispondere, o meglio lo sapeva ma non gli parve forse il
caso, la
sua coscienza pungolata da un’inusuale pesantezza.
Si
morse dunque l’interno della
guancia ed uscì dal padiglione, pronto a seguire il
maresciallo La Palice a
Treviso. Il Bua rimase in silenzio per tutto il tempo, mentre sistemava
la
sella e le briglie del suo cavallo, perfino quando il generalissimo
francese
dava le ultime istruzioni. Non reagì neanche alla scoperta
della fuga di tre
prigionieri, tra cui quel contadino difeso da Hironimo la notte
precedente.
Perché,
si domandava Mercurio,
perché più lui tentava d’umiliare il
Miani, più lui e non il veneziano ne
usciva al contrario sconfitto?
***
Immerso
in cupi pensieri
sguazzava anche sier Marco Miani. Il patrizio veneziano aveva infatti
accolto
con gioia l’alba e l’inizio del suo turno di ronda
al Castello, avendo
trascorso la notte a fissare inquieto il soffitto del suo nuovo
alloggio, non
più allietato dal dolce solletico del respiro della moglie
Helena, bensì dal
fastidioso ronzio dell’irriducibili zanzare. Soltanto il
vento, che per
l’intera durata della breve funzione mattutina aveva
graffiato sui vetri della
chiesetta, riusciva a scuotere via il suo torpore mentale e lo
distoglieva
dalla malinconia, spronando il trentenne patrizio a concentrarsi
sull’incarico
affidatogli.
Lungo
il lato del Castello
prospiciente al Sile e lungo il canale Polveriera suo derivato, si
stava
costruendo di buona lena l’ennesima palada, ossia una
palizzata in tronchi di
rovere posta di traverso nel letto del fiume per impedire alle
imbarcazioni
nemiche di entrare in città. Gli esploratori marciani,
infatti, avevano
avvertito il Provveditore, il Podestà e i capitani delle
imbarcazioni per il
momento ancora ferme al porticciolo di Nervesa, chiaro segno che
avevano
intenzione di navigare sia la Piave sia la Piavesella raggiungendo poi
Treviso
tramite il Sile, sfruttando certamente le zattere sequestrate a Cividal
di
Belluno. A Porta Altinia, poco distante, si stava abbassando la torre e
finendo
di scavare il fosso, uno degli ultimi lavori rimasti per completare la
difesa
cittadina e sier Zuam Paulo Gradenigo aveva nuovamente arruolato sia
uomini che
donne per rispettare la sua personale scadenza di massimo due giorni.
Da
un angolo della caminada del
Castello, Marco osservava silente i genieri lavorare alla palada, ogni
tanto
spintonato all’indietro da una folata particolarmente
violenta di vento,
portandolo ad aggrapparsi al parapetto, divenuto più sobrio
a seguito dello
smantellamento delle inutili merlature scaligere. Il Miani, pur
infastidito dai
fischianti refoli d’aria malgrado l’elmo e la
cuffia gli coprissero le
orecchie, giudicò salvifico quel vento poiché
arieggiava l’imponente baluardo e
si portava via un po’ di zanzare e quel fastidioso tanfo di
marciume, che da
qualche tempo lo stava appestando.
Similmente
a Treviso, anche il
Castello aveva subìto un drastico cambiamento: sorto in
qualità di fortezza
quasi due secoli addietro per volere di Alberto e Mastino Della Scala,
e
successivamente ampliato da Francesco da Carrara che l’aveva
trasformato nella
sua residenza, originariamente esso era stato concepito a pianta
quadrata con
grosse torri agli angoli. Ora, pesantemente
rimaneggiato, il
Castello appariva a forma pentagonale, inglobato nelle mura e di
conseguenza
trasformato in un unico e ampio bastione. I lati esposti sul canale
Polveriera
e sul Sile erano stati rinforzati da una spessa muraglia e provvisti di
cannoniere alla base, mentre all’interno si trovava un
terrapieno. I lati invece
che davano verso la città presentavano cortine
più leggere, i loro vertici
adibiti a polveriere. La cappella gentilizia era stata convertita ed
ampliata
in una vera e propria chiesa, nomata San Marco dei
Bombardieri,
subito meta di gran devozione da parte degli omonimi soldati, a
giudicare dal
numero di ceri accesi e rosari improvvisati.
Marco
non si vantava di possedere
grandi nozioni d’ingegneria, tuttavia aveva incominciato a
sospettare che quel
puzzo di marcio, non dissimile a quello sul litorale lagunare quando
s’apprestava a piovere, significava che, in qualche punto del
Castello, l’acqua
s’era fermata, stagnando e di conseguenza rilasciando fetore
e zanzare.
Inoltre, aveva appurato non senza sudare freddo che la maggior parte
degli
ammalati di febbre proveniva proprio dal Castello, come suo cognato
sier Nicolò
Trivixan e sier Alvixe da Riva, ambedue rimpatriati a Venezia divorati
dalla
febbre. In aggiunta, anche sier Zuam Alvixe Dolfin e sier Aurelio
Michiel,
malgrado avessero fatto venire da Venezia dei medici apposta per
curarli, erano
dovuti rientrare velocemente. Sperò ardentemente di
sbagliarsi, ma se avesse
avuto ragione? Come intervenire e migliorare in fretta, con
l’incombente ombra
dell’assedio?
Quell’antica
fortezza- residenza,
d’altronde, non poteva rimanere uguale come ai tempi del
Carrarese: collocata
appena fuori dalle precedenti mura, se in passato era stata una geniale
intuizione per evitare di finire vittima delle insurrezioni degli
inquieti
trevigiani, adesso essa rischiava di finire isolata in caso
d’assedio e, se
conquistata, poteva divenire una strategica roccaforte per i nemici,
dove
ripararsi e al contempo sferrare i loro attacchi. Per questo motivo, si
erano
interrati ambedue i fossati che circondavano sia un lato del Castello
sia delle
mura scaligere.
Per
quanto puntigliosi e avvezzi
ad opere idrauliche, l’acqua rimaneva per chiunque una bestia
ostica da domare,
portando ognora seco lo spettro tremendo della malaria.
“Christo
d’on Christo!”, l’attirò
da giù il ruggito del capo-geniere, a seguito del mancato
rotolamento in acqua
di uno dei tronchi di rovere per la palada. Evidentemente, il vento
aveva
intirizzito le mani dei genieri, ripercuotendosi negativamente sulla
loro
presa. “Man zànche! (sinistre, ndr.)
Gh’avé man pì roèsse
(rovesce, ndr.) di la
crose di Sen Piero!”, continuava a sbraitare, rosso vino in
faccia che pareva
scoppiare da un momento all’altro e il più giovane
dei genieri, magari perfino
innocente, si beccò uno scappellotto sulla nuca per mondare
i peccati di tutti.
“Seti ‘no scandalo!”
“Poareti”,
commentò comprensivo
sier Alvixe da Canal, sporgendosi assieme al Miani onde assicurarsi che
non si
andasse al di là di qualche ceffone di rimprovero.
“Non li biasimo: questo
vento tira troppo forte, mi sta sguarattando il cervello!”,
sospirò,
massaggiandosi gli occhi arrossati dai colpi d’aria.
“Novità?”,
s’informò
infine.
“Neanche
un’ombra s’è mossa”,
rispose stringatamente Marco, indicando col capo sia il bastione degli
Spiriti
sia Porta Altinia. Non appena La Palice aveva battuto la ritirata, il
provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo e i capitani Renzo di Ceri e
Vitello
Vitelli avevano convocato un rapido consiglio di guerra, insistendo su
turni
serrati e specialmente sul lato meridionale, attualmente il
più vulnerabile.
“Pensate
che la Peliza ci onorerà
di una seconda visita?”, domandò sier Alvixe,
rabbrividendo e serrando stretto
alla gola il pesante mantello.
“Ovvio”,
mormorò accigliato il
Miani, lo sguardo puntato sui vocianti genieri. “Hanno preso
paura, ma non
abbastanza. Soltanto rincarando la dose li spediremo in bocca
diavolo!”,
sentenziò bellicoso, stringendo le dita guantate sul
parapetto.
“Se
non lo fanno prima i nostri
provvisionati”, ribatté sarcastico
l’altro patrizio. “Non ho quasi più
danari
per mantenerli e la Signoria mi deve ancora i miei, di arretrati. Non
si
pretenderà certo che stiano qui a combattere amor
dei!” (gratis, ndr.)
“Se
non per amor dei, per timor
mortis”, replicò sferzante Marco, il quale
tuttavia riconosceva nel suo
concittadino la difficoltà di placare le pance dei soldati
assoldati a proprie
spese, trovandosi infatti nella medesima situazione. “Dubito
però che diserteranno,
anche perché non hanno nulla dove andare, se non
sottoterra”, rimarcò cupo,
rivolgendo sconsolato lo sguardo al cielo livido e arrabbiato. Era
stato il
medesimo che il suo antenato, sier Zuanne Miani, aveva contemplato
durante la
liberazione di Treviso dai Carraresi?
Il
Dì dei Morti ancora distava
assai, tuttavia Marco rivolse una petizione a quel suo valoroso
antenato, che
aveva combattuto al fianco dei leggendari comandanti Vitor Pisani e
Carlo Zen
durante la Guerra di Chioggia; che da Capitano di Golfo aveva ottenuto
la
dedizione di Corfù, Durazzo, di Argo, di Napoli di Romania e
del castello di
Alessio; lo stesso che da provveditore era stato il primo ad entrare in
questo
Castello adesso presidiato dal suo discendente, la medesima fortezza
dove
Francesco da Carrara s’era rifugiato dai trevigiani insorti,
offrendo come
ultima spes di salvezza personale la città e la Marca ai
viscontei guidati da
Jacopo del Verme e Spinetta Malaspina. Invece anche
quest’ultimi avevano
trovato una ferrea resistenza nella popolazione, affatto disposta a
finire
sotto Milano. [2] All’intrepida anima di
Zuanne Miani, dunque, Marco
domandò soccorso onde infondergli il medesimo ardore in
battaglia e di condurre
alla rovina i nemici della patria. Gli fece perfino voto che il
prossimo nato a
Ca’ Miani avrebbe portato il suo nome, specie se Marco fosse
riuscito, in
qualsiasi modo, a farla pagare ad un certo cittadino di Napoli di
Romania,
città da sier Zuanne assai nota.
La
campana dalla torre di
avvistamento del bastione della Madonna corrispose all’Amen delle
sue preghiere, tosto seguito dal coro indiavolato dei tamburi che
chiamavano
all’assembramento i soldati, in risposta al lontano eco di
quelli dei
franco-imperiali, i cui vessilli incominciavano a far capolino
all’orizzonte.
Marco
batté le nocche sul palmo,
infondendosi coraggio e cattiveria in corpo. “Fate rientrare
immediatamente i
genieri! Archibugieri e balestrieri si tengano pronti in direzione
Porta
Altinia! Idem per i bombardieri!”, ordinò il Miani
ai connestabili e ai mastri
bombardieri. “Notificate il sior provedador, che il Castello
è pronto ad ogni
suo cenno!”
Il
bastione, dapprincipio
silente, s’animò in un frenetico vespaio di
andirivieni per poi chetarsi
all’improvviso, stavolta in paziente attesa assassina.
***
Come
il lupo osserva attento e
feroce la preda ignara e tranquilla, prima di balzarle inatteso addosso
e
morderla alla gola, così sier Ferigo Contarini studiava la
sagoma di Soave e le
sue mura, a malapena illuminata dalla tenue luce mattutina e immersa
nel suo
placido sonno. La sua compagnia aveva cavalcato da Padova tutta notte
senza
imbattersi in alcun nemico, giungendo prima del previsto e
straordinariamente
freschi e vogliosi di combattere. Infatti, il Contarini aveva
brillantemente
persuaso i recalcitranti soldati a seguirlo, puntando sul suo naturale
carisma
e soprattutto titillando la loro avidità, avendoli promesso
un grasso bottino a
mo’ di risarcimento per le paghe arretrate. Astuta volpe, al
giovane
provveditore non era sfuggito il cupido luccichio negli occhi degli
stradioti,
i quali già gongolavano all’idea
d’impadronirsi dei magnifici cavalli delle
scuderie mantovane, tipici della compagnia di Federico Gonzaga di
Bozzolo e di
Giovanni Gonzaga.
“Ebbene?”,
inquisì secco sier
Ferigo all’arrivo di Pellegrino Busicchio, assentatosi per
una rapida
esplorazione del terreno.
“Rimangono
solo due porte da cui
entrare, tutte le altre sono state murate”, spiegò
conciso il nipote di
Domenico Busicchio, anche lui presente e accanto al provveditore degli
stradioti.
“Due
ci bastano”, sentenziò il
Contarini, girandosi indietro per calcolare come meglio suddividere i
suoi
uomini. Milleduecento cavalleggeri e quattrocento fanti, le sue forbici
per
tagliare la linea di comunicazione tra i due Gonzaga. Il patrizio diede
di
sperone al suo cavallo onde portarsi al riparo all’interno
del bosco; dopodiché
scese e, estratta una carta di Soave, la aprì e la stese per
terra. Il resto
dei capitani lo imitò, stringendosi a cerchio attorno a lui.
“Conte
Guido: voi, tutti i vostri
balestrieri a cavallo e cinquanta stradioti vi porterete davanti alla
porta che va verso Vicenza”, ordinò al condottiero modenese,
indicandogli sulla cartina con la punta
della spada il punto in cui si sarebbe appostato. “Noialtri,
invece,
bloccheremo questa di Verona, acciocché nessuno della città
possa uscire. Signor
Sebastiano, voi invece disporrete la fanteria alla volta del monte,
dietro la
rocca. Sono pronte le scale?”
“Sissignore”,
lo rassicurò il
capitano bolognese. “In neanche un’ora avrete
aperte ambedue le porte.”
“Ci
conto, signor Sebastiano, ci
conto”, esclamò Sier Ferigo soddisfatto, pur
ridacchiando tra sé e sé per la
tracotanza del condottiere. E ritornando serio: “Appena
avrete superato la
prima difesa, signor Sebastiano, urlate “Marco!” e
il conte Guido ed io
bruceremo ambedue le porte: ai nemici resteranno due opzioni, se
attenderci
dentro la rocca o tentare di fuggire, finendo dritti tra le nostre
braccia. In
ogni modo, li daremo battaglia. I capitoli li conoscete molto bene: una
volta
presa Soave, fate quel che più ritenete giusto per il vostro
guadagno, ma il
contino di Melzo, l’Estense e gli altri comandanti rimangono
prede esclusive
della Signoria”, e all’ultimo tuttavia aggiunse
cupo: “Ricordate però che
queste truppe le hanno destinate all’assedio di
Treviso.”
Il
Contarini aveva dovuto
ingoiare la sua delusione nell’apprendere l’assenza
a Soave sia di Federico che
di Giovanni Gonzaga: mano sul cuore, l’aveva accarezzato la
tentazione
d’abortire il piano e di ritentare una seconda volta, quando
sarebbe stato
sicuro d’incrociare almeno uno dei due nobili mantovani.
Tuttavia rimaneva
l’annosa questione delle paghe arretrate, ch’aveva
provocato gravi malumori tra
gli stradioti, rifiutandosi quest’ultimi di trasferirsi alla
custodia di
Treviso come comandato dalla Signoria. Sicché per le leggi
di “un ho val più di
cento avrò” e di “prendere due piccioni
con una fava”, Ferigo aveva deciso di
risarcirsi con le teste di Galeazzo Sforza e di Sebastiano
d’Este, conducendoli
in catene a Padova assieme ad altri prigionieri di qualità,
intanto che
annientava l’armata ausiliare che doveva ricongiungersi a
quella del La Palice.
I provveditori sier Polo Capello e sier Christofal Moro avrebbero
gradito assai
quel suo sforzo e a Dio piacendo non si sarebbero accampate
più scuse per
posticipare la partenza per la capitale della Marca.
Quanto
ai soavesi unitisi
all’impresa, avrebbero finalmente avuto la loro vendetta per
la strage dei loro
compaesani per mano dei Collegati.
***
Cento
uomini in più rispetto al
giorno precedente – contò sier Zuam Paulo
Gradenigo dalla sua postazione al
bastione di San Tomaso, ascoltando il rapporto di uno stradiota
proveniente da
Porta Santi Quaranta, laddove gli si spiegava come una divisione di
gendarmi e
cavalleggeri francesi fosse apparsa anche lì. Il suo
capitano Teodoro
Paleologo, alloggiato al monastero fuori dalle mura, già
aveva disposto i suoi
uomini assieme, bloccando l’entrata al nemico e domandava al
provveditore se e
quando attaccare.
“Continuate
a tenere sotto tiro
il contingente di La Peliza”, si raccomandò
Gradenigo a sier Ludovico Querini e
al connestabile lì accanto a lui. “Sapete come
agire, in caso dovessero muovere
un sol passo!”
Il
suo concittadino rispose
affermativamente col capo e il patrizio scese le anguste scale fino a
giungere
al suo cavallo, spronandolo in direzione di Porta Santi Quaranta,
deciso
infatti a guidare di persona gli stradioti e i cavalleggeri
lì schieratesi.
“I
capitani Thodaro Rali e Andrea
Pera sono rientrati?”, chiese il provveditore a sier Lunardo
Zustignan,
riferendosi allo squadrone di stradioti partiti in esplorazione.
“Il
signor capitano Vitello e il
signor Lorenzo ancora attendono loro notizie”,
negò il patrizio col capo,
aggrottando preoccupato la fronte quanto l’altro veneziano.
Una
sgradevole inquietudine
incominciò allora a rodere le viscere di sier Zuam Paulo,
cogitando questi
furiosamente sul motivo di quelle continue visite da parte dei
franco-imperiali: non si trattava solo di dimostrazioni di forza,
dovevano
essere venuti in esplorazione del terreno, alla ricerca di un punto
debole
delle mura … E forse anche per compiere azioni di disturbo e
di saccheggio,
laddove possibile. Colpendoli in punti diversi sarebbe stato
più difficile
contrastarli, anche se …
Poteva
benissimo trattarsi di una
trappola da parte del maresciallo francese, onde fiaccare il loro
spirito e
privarli di uomini.
Zuam
Paulo Gradenigo sperò
ardentemente che Vitello Vitelli, quel giorno a presidio di Porta
Altinia,
fosse esentato dalla presenza di un contingente franco-imperiale. Con
Renzo di
Ceri s’era raccomandato poi di non uscire dalla
città, limitandosi a respingere
a cannonate gli assedianti, giunti senza artiglieria e dunque
più vulnerabili.
L’Orsini – forse quella mattina innervosito dalle
fitte di dolore alla gamba,
provocategli dalla piaga del malfrancese – aveva ribattuto di
lasciare agli
sbarbatelli tali raccomandazioni. Gradenigo aveva per un soffio mancato
di
ricresimare senz’olio quel laziale impertinente.
“Inviate
quest’ordine al capitano
Andrea Vassallo: dite di armare i burchi di due falconetti ciascuno ed
imbarcare archibugieri e balestrieri quanti che ne può
portare e che si
spostino a pattugliare il fiume all’altezza di Porta
Altinia”, istruì il
provveditore un suo provvisionato, il quale diede di sperone al
cavallo,
facendo dietrofront e sparendo rapidissimo tra le viuzze di
Treviso.
***
Sebastiano
del Manzino e i suoi
fanti camminavano silenziosissimi rasente muro a guisa di lucertola, e
come
tali appoggiarono le scale, pronti a scalare la rocca, le mani
leggermente
sudate dentro i guanti dalla tensione e respirando appena dal naso. Tra
i suoi
uomini s’erano uniti dei soavesi ribelli agli invasori, i
quali, conoscendo a
menadito il Castello, lo aveva condotto nel punto meno visibile al
nemico.
Il
condottiero bolognese aveva
scrutato attentamente le caminade prima dal suo nascondiglio boschivo e
poi dal
basso, cercando di capire le dinamiche di ronda del nemico, in modo
così da
calcolare quanto tempo gli sarebbe occorso per salire senza imbattersi
immediatamente in una sentinella. Finora aveva ne aveva contate
quindici, però
qualcuno in più poteva sempre sbucare fuori.
Accertatosi
come ogni scala fosse
stata posizionata a dovere, Sebastiano sguainò circospetto
la spada e,
appoggiando il piede sul primo gradino, incitò
silenziosamente il resto dei
fanti a seguirlo in fretta, in sincronia impeccabile. Ogni tanto,
udendo
qualche rumore sospetto, il bolognese e i suoi compagni si appiattivano
contro
le mura, trattenendo il fiato e serrando la presa, per poi ripartire
più veloci
di prima, finché non raggiunsero l’agognato
parapetto con le sue merlature.
Scoccando una veloce occhiata attorno e trovando la caminada sgombra di
sentinelle, il condottiero s’infilò dentro tra lo
spazio dei merli, scavalcando
la balaustra ed aiutando il resto dei fanti a raggiungerlo, aguzzando
l’orecchio e la vista, vigilantissimo.
Quand’ecco,
che un rumore
inaspettato di passi lo colse alle spalle e, girandosi di scatto,
Sebastiano si
trovò faccia a faccia con un soldato probabilmente
mantovano, il quale rimase
per un brevissimo attimo lì impietrito, il viso pallidissimo
e sgomento per
quell’inaspettata apparizione. La bocca della sentinella si
piegò tuttavia in
una smorfia allarmata, gridando a pieni polmoni: “Fate buona
guardia! Fate
buona guardia!” e girò fulmineo sui tacchi,
correndo in direzione opposta onde
avvisare i suoi commilitoni.
Il
Manzino non gli concesse tal
privilegio. “Fai tu buona guardia”,
berciò al fuggitivo e peggio d’un bracco
scattò al suo inseguimento. L’afferrò
per i capelli rimasti scoperti dall’elmo
e, tirato il mantovano a sé tramite uno strattone talmente
forte e brusco da
costringere quest’ultimo in ginocchio, affondò
dall’alto la punta della sua
spada tra spalla e gola. Un’altra guardia, giunta in tardivo
soccorso del
compagno, caricò il bolognese con la sua picca, prontamente
deviata dalla posta
di coda longa di quest’ultimo, che gli permise
d’afferrare la lancia, di
tirarla a sé e d’avvicinarsi quel tanto da
trapassare la gola anche di quell’avversario.
Nettandosi
via dal viso gli
schizzi di sangue e i rivoletti di sudore, Sebastiano portò
la lama in posta di
donna destraza e, alla vista del resto del nemico appropinquarsi ma
certo della
massiccia presenza dei suoi uomini dietro di sé,
urlò con quanto fiato avesse
nei polmoni: “Marco! Marco!” schizzando incontro
agli altrettanti determinati
difensori della rocca. “Tagliateli tutti a pezzi,
perdio!”
Appostato
ad una delle due porte
rimaste, Ferigo Contarini si calò la celata
dell’elmo non appena le sue
orecchie captarono il veneziano ruggito di battaglia tosto seguito da
“Armi!
Armi!” degli assediati che, a giudicare dal trambusto sempre
più vicino, si
stavano apprestando a serrare i ranghi e porsi in ordine, o per
combattere o
per fuggire.
“Bruciate
la porta!”, ordinò
allora il giovane provveditore degli stradioti. “Pronte le
lance! Nessuno esce
vivo da Soave, finché non s’arrendono!”
In
un battibaleno, il legno
dinanzi a loro divenne un’unica lingua di fuoco, guizzando in
alto d’arancio e
denso fumo nero verso il cielo a malapena rosato del primo mattino,
accompagnato questo falò improvvisato dalla lugubre cadenza
dei tamburi. Alte
grida di stupore e panico si levarono nell’aria e Ferigo
poteva ben immaginare
le reazioni scomposte e isteriche dei soldati intrappolati
lì dentro, del loro
frenetico ragionare in cerca di una rapida soluzione.
Tamburellò le dita
sull’elsa della spada, in attesa della loro decisione finale.
Guido
Rangoni, davanti alla
porta vicentina, diede il segnale di bruciare anche
quest’ultima, raddoppiando le
grida di sconcerto degli assediati, finiti invero come il proverbiale
sorcio.
La
prima mossa era stata fatta:
ora toccava ai Collegati.
“Si
aprono le porte! Si aprono le
porte!”
***
Mercurio,
non vedendo ritornare
il terzo squadrone staccatosi in direzione del Terraglio, aveva
richiesto e
ottenuto il permesso dall’altrettanto apprensivo La Palice di
raggiungere i
ritardatari, lasciando Leka a capo del resto degli stradioti, anche per
distrarsi dalla guerra di nervi ingaggiata sia da parte dei Collegati
che dei
veneziani, schieratisi ora non soltanto a Porta San Tomaso ma anche a
Porta
Santi Quaranta, sfidandoli ad avvicinarsi.
Per
questo motivo il greco-albanese
non aveva interpretato favorevolmente la sparizione del terzo
contingente, non
famigliare del territorio nonché il più isolato
rispetto agli altri e di
conseguenza facile preda di agguati.
E
di fatti, sopraggiungendo in un
punto piuttosto remoto lungo il fiume, il Bua
s’imbatté in quel che doveva
esser stato uno scontro particolarmente violento, scovando dappertutto
gendarmi
riversi disordinatamente nel fango e spogliati dei loro averi,
similmente agli
otto sopravvissuti già incatenati e pronti ad essere
deportati in città. I
cavalli degli sconfitti – dodici in totale - nitrivano
nervosi e tentavano di
ribellarsi alla presa dei nuovi padroni, tutti stradioti tra i quali
Mercurio
riconobbe il capitano Teodoro Ralli e accanto a lui il suo
ex-prigioniero
e fratello di Zilio, Teodoro Madalo.
Al
pensiero del suo fedele
luogotenente, il condottiero stringe convulsamente le redini mentre
estraeva la
scimitarra, deciso come non mai di ribaltare la situazione: da oggi, si
ripromise, la fortuna avrebbe smesso d’arridere ai veneziani.
“San
Giorgio! San Giorgio!”,
gridò Mercurio, dando di sperone al suo corsiero e
gettandosi quasi in braccio
all’avversario, cogliendolo impreparato e disperdendolo,
senza neppure
concedere ai marciani il lusso di capire quanto stesse accadendo.
Gli
sfortunati, che non ebbero
abbastanza prontezza di riflessi di rimontare a cavallo, furono tra le
prime
vittime, falciati via dall’impeto del primo scontro; i
cavalleggeri francesi
puntarono sui loro compagni prigionieri, rompendo le loro catene con un
colpo
di spada, issandoseli poi in sella e galoppando distante dalla mischia.
Quanto
a Mercurio, esauritosi
l’effetto sorpresa, si trovava impegnato a forzare la fila
difensiva
improvvisata dal resto degli stradioti marciani, con a testa il Ralli e
Andrea
Pera che spingevano e pressavano i fianchi dei propri cavalli contro
quelli dei
francesi in una sorta di lotta corpo a corpo, oltre che scimitarra
contro
scimitarra. Sbattendo le ciglia madide di sudore sotto a celata, il Bua
s’accorse, dagli scatti improvvisi del suo corsiero, del
piano dei due
capitani: il terreno progressivamente più scivoloso e
instabile significava che
li stavano costringendo ad indietreggiare verso le golene, per poi
buttarli in
acqua.
Inaccettabile, grugnì mentalmente il
condottiero, schivando un affondo
di Andrea Pera e battendo di piatto la sua scimitarra contro il cavallo
del
nemico; immediatamente l’animale, confuso e stizzito,
s’innervosì e s’impennò,
scalciando e rompendo la formazione, il suo cavaliere in crescente
difficoltà.
Sogghignando crudele, Mercurio si sbilanciò in avanti e
colpì il capitano Pera
prima al fianco, poi alla gamba e tentò di recidere la
cinghia del sottopancia,
sennonché il corsiero, roteando sulle braccia, rispose
agitando gli zoccoli
delle gambe contro il greco-albanese, che dovette rinculare
velocissimo. Nel
medesimo istante, l’improvviso scatto sbalzò di
sella Andrea che già ferito
cadde e batté la schiena per terra, in un sinistro
scricchiolio di ossa,
seguito da un flebile grido di protesta quando la bestia, libera da
ogni
controllo, prese a galoppare via senza direzione, trascinando seco lo
stradiota, il cui piede era rimasto incastrato nella staffa.
“Theodoros!
Vai a recuperarlo!”,
ordinò il capitano Ralli al suo sottoposto, il quale, per
tutta risposta,
balbettò qualche inintelligibile parola di protesta.
“Vai!”, ribadì suo
fratello Giorgio, serrando i ranghi così da permettergli di
staccarsi senza
creare una breccia utile al nemico.
Mercurio,
pur non afferrando ogni
singolo e perfetto lemma di quel discorso, ne intuì il
contenuto di base e girò
il suo cavallo per partire all’inseguimento di Madalo;
tuttavia, Teodoro Ralli
gli si parò innanzi, bloccandolo e armeggiando
così d’impossessarsi e
manomettere i finimenti della sua cavalcatura. Vomitando una mezza
imprecazione
e una mezza bestemmia, il Bua girò l’elsa della
sua scimitarra e sbatté il
pomello contro l’elmo del Ralli col duplice effetto di
disarmarlo e
d’intontirlo. Dopodiché, portatosi appresso, gli
circondò il braccio attorno al
collo, serrandolo intanto che decideva se strangolare il conterraneo o
di farlo
suo prigioniero. Teodoro, abbandonate le redini, d’istinto
afferrò invece
avambraccio di Mercurio e prese a battere i pugni contro di esso e il
gomito,
sfinendo la presa ferrea del ringhiante greco-albanese.
D’un
tratto, alle sue spalle,
quest’ultimo si sentì trascinare
all’indietro e sia lui che il Ralli rotolarono
per terra in un groviglio di corpi e fango. Postosi rapido in piedi e
alzandosi
la celata lercia, il Bua, perduta momentaneamente la sua arma,
sparò un gancio
a Giorgio Madalo, venuto in soccorso del suo superiore, e lo
spedì contro un
albero che però per effetto di rimbalzo glielo
riportò davanti e stavolta il
fratello di Zilio non esitò a sfilare il suo pugnale da
sotto la casacca,
sennonché due uomini del greco-albanese gli si buttarono di
peso addosso e lo
costrinsero in ginocchio, tenendolo fermo per ambedue le braccia.
Ciò permise a
Mercurio di concentrarsi su Teodoro Ralli, ancora barcollante e in
affanno per
il mancato ossigeno: caricandolo a guisa di toro, il Bua
atterrò l’uomo,
ponendosi a cavalcioni sopra di lui, e gli scaricò una serie
di
pugni ben assestati così da impedirgli
ogni sorta di reazione, fino
a renderlo totalmente innocuo.
“Oggi
vinciamo noi!”, ansimò l’epirota,
le cui nocche bruciavano pur coperte dal cuoio dei guanti.
“Oggi la Signoria ha
perso. Oggi inizia la fine di Treviso!”
Ridendo
sguaiatamente, i denti
macchiati di sangue, Teodoro Ralli gli sputò in faccia.
“Malakas!”, gracchiò.
“Hai vinto solo la tua tomba!” e prima che
l’altro potesse esigere spiegazioni
(o ammazzarlo per spregio) il sibilo di una freccia e il gorgoglio
d’un
cavalleggero morente indusse Mercurio a voltarsi di scatto e i suoi
occhi si
dilatarono d’impaurito stupore allo sgradito spettacolo dei
capitani Vitello
Vitelli e Renzo di Ceri sopraggiungere in fretta assieme ai loro
balestrieri e
fanti, già in schieramento d’attacco. La vista in
particolare delle due
anguille incrociate sull’impresa dell’Orsini degli
Anguillara [3] rievocò nel
Bua l’antica e terrificante ansia sperimentata durante la
rotta del Garigliano,
laddove anche in quel frangente i due condottieri s’erano
affrontati da
avversari.
Ghermito
e issato Ralli per un
braccio, Mercurio recuperò in fretta la sua cavalcatura e,
una volta in sella,
con dei lacci improvvisati legò al pomello i polsi del suo
prigioniero.
“Ritirata! Ritirata!”, ordinò infine ai
suoi. “Prendete ostaggio chi potete e
ritiriamoci!”
“Cammina,
Madalo!”, grugnì uno
stradiota a Giorgio, rimasto in camicia dopo che gli avevano levato
ogni suo
avere personale. Con la scusa di farsi ammanettare, ecco che il
fratello di
Zilio gli elargì un’inaspettata spallata,
approfittandone per sottrarre al suo
carceriere il pugnale e piantarglielo dritto nell’occhio;
dopodiché, giratosi,
recise la gola di un altro stradiota e scappò via per il
bosco, zigzagando a
sufficienza così da scoraggiare i cavalleggeri francesi
dall’inseguirlo,
temendo quest’ultimi la presenza d’eventuali nemici
appostati tra i fitti
alberi.
“Lasciate
perdere!
All’accampamento!”, diede di sperone il Bua e i
suoi uomini lo imitarono
svelti, evitando così uno scontro coi i marciani giunti in
soccorso dei loro
stradioti.
Tre
prigionieri soltanto –
redasse il bilancio finale Mercurio - tra cui il capitano Teodoro
Ralli. Magro
bottino, certo, tuttavia ciò che bastava per inviare un
chiaro messaggio al
provveditore Gradenigo: Treviso non era così imprendibile
come credeva né i
suoi soldati imbattibili.
Anche
perché, ripensando al luogo
dello scontro appena terminato, il condottiero credeva ora
d’aver scoperto
finalmente il punto debole della città.
***
Galeazzo
Sforza ricacciò indietro
un conato di vomito, detergendosi la fronte pallida e sudaticcia col
dorso
della mano guantata, maledicendo l’infelice connubio del
morbo che da giorni lo
tartassava e del tanfo di fumo, il quale non cessava di molestargli lo
stomaco,
sconquassandoglielo. Il suo scudiero, tenendolo per una gamba, lo
aiutò ad
issarsi fino a sedersi in sella, i suoi occhi scuri scrutanti
apprensivi il suo
signore, la cui salute non aveva minimamente accennato ad un
qualsivoglia
miglioramento. E adesso, ad aggiungere l’insulto
all’ingiuria, i veneziani
avevano attaccato all’improvviso Soave, quella che i
gonzagheschi avevano
creduto una fortezza insospettabile, fuori dal loro raggio
d’azione, e pertanto
perfetta come tappa di sosta prima di procedere verso Treviso. Invece,
le grida
inferocite dei marciani s’avvicinavano sempre di
più alla cittadella, unito ai
rantoli dei loro compagni passati a fil di spada, mentre dalle finestre
s’oscurava il panorama, coperto da dense cortine di fumo
puzzolente.
“Signor
Galeazzo!”, avvicinò
Sebastiano d’Este al contino di Melzo, scuotendolo
leggermente sulla spalla.
“Dobbiamo andare!”, lo esortò, nel
frattempo che indossava l’elmo con la mano
libera, l’altra impegnata a tenere la lancia.
Il
figlio illegittimo del fu Duca
di Milano sbatté le palpebre doloranti, aspirando in un
battito di denti l’aria
d’un tratto gelida, come freddi erano i brividi e il sudore
che gli
percorrevano la schiena, sotto l’armatura. Stringendo a
malapena le redini, lo
Sforza annuì docile e batté i fianchi del suo
cavallo, seguendo i suoi compagni
verso una delle due porte del Castello di Soave.
Resisi
conto di trovarsi dinanzi
a due scelte davvero spinose – se affrontare i veneziani
dentro o fuori le mura
– Sebastiano d’Este aveva convinto gli altri capi a
tentare una sortita in
campo aperto, confidando nella forza e nella compattezza della loro
cavalleria,
una volta che gli uomini d’arme avessero distratto il nemico.
Non confidava
certo di salvare tutti, però buona parte sì e
forse qualche possibilità
sussisteva di scampare alla cattura, riparando a Verona.
Dovevano
però agire in fretta.
“Andiamo!
Andiamo!”, incitò il
capitano Estense i suoi cavalleggeri in direzione di ambedue le porte,
così da
dividersi e tentare di sfondare almeno uno dei contingenti nemici. I
soldati
risposero in bellicoso eco, risuonando il rimbombo di numerosi zoccoli
per
terra, unendosi al clamore di ferro dentro e fuori la fortezza.
Ferdinando
dal Persico si portò
accanto a Galeazzo Sforza, cavalcando accanto a lui nelle sicure
retrovie,
assicurandosi che l’uomo, ciondolante, rimanesse in sella.
“State di buona
voglia”, lo rassicurò, raddrizzandogli il busto
ricurvo in avanti. “Presto
raggiungeremo i signori Giovanni e Federico e vedrete che vi
rimetterete in
sesto!”, disse, ricevendo un sorriso tirato da parte dello
Sforza a mo’ di
ringraziamento.
Il
conte cremonese ebbe appena
tempo d’imitarlo, che la sua bocca si piegò in una
smorfia terrorizzata: la
sortita di Sebastiano d’Este e della sua compagnia non solo
era stata respinta e la maggior parte dei soldati finiti nelle fosse a gambe all'aria
ma, in una violenta contromossa, i veneziani li stavano costringendo a
rientrare nella fortezza, i loro balestrieri a cavallo che scoccavano
incessanti piogge di frecce mentre gli stradioti infilzavano e
spingevano
indietro gli assediati. Ferdinando dal Persico riconobbe con orrore in
prima
fila i Rangoni, combattendo i tre fratelli Guido, Ludovico e Francesco
alla
stregua di diavoli dell’inferno, aprendosi questi un varco
tra i gonzagheschi e
avanzando sui loro cadaveri, i quali s’accumulavano senza
sosta, come le mosche
affogate nell’aceto.
Difendendo
col braccio il contino
di Melzo, il cremonese provò ad arretrare e a giocarsi il
tutto per tutto
uscendo dall’altra porta; purtroppo per lui, il conte Guido
lo aveva adocchiato
e gli galoppava incontro, la zagaglia pronta a colpire o lui o lo
Sforza.
Fortunatamente, un cavalleggero mantovano si frappose tra i due e il
modenese,
permettendo a Ferdinando d’afferrare le redini di Galeazzo e
di rifugiarsi
all’interno della cittadella e poi dentro il dongione, avendo
infatti scoperto
come anche la seconda porta fosse ormai in procinto di venir forzata
dai
veneziani.
Avanzando
a fatica tra la ressa
di soldati sbandati e fuggitivi, il conte cremonese si salvò
per un soffio dal
compatto muro dei fanti di Sebastiano del Manzino, sbucati
all’improvviso manco
la terra li avesse vomitati, le armature, le armi fino al viso lordi di
sangue,
tanto da risaltare il biancore degli occhi, ingigantendoli.
Emettendo
urla neppure
associabili alla razza umana, i soldati veneziani partirono
all’assalto,
spazzando via avversario dopo avversario come se stessero mietendo
spighe di
grano; quelli in prima fila, poi, allungavano il braccio ai finimenti
dei
cavalli, cercando di reciderli o di sbilanciare i loro cavalieri,
colpendoli
alle gambe, ai fianchi, ovunque riuscissero a raggiungerli. Ferdinando
dal Persico
calava alla rinfusa fendenti in difesa sua e del contino di Melzo e al
contempo
si premurava di mantenere il controllo sul suo sempre più
nervoso e spaventato
destriero, insidiato dai marciani. Portando il cavallo ad impennarsi e
a
battere gli zoccoli delle braccia contro il nemico, il conte cremonese
si creò
infine un varco e, trasferito Galeazzo sulla sua sella, Ferdinando
partì in
galoppo verso il dongione senza guardarsi indietro.
Ma
lo Sforza, pur semisvenuto
dalla febbre, sì che non poteva sottrarsi dalla grottesca
visione della strage
in cui lo scontro, pian pianino, si stava trasformando: i cavalleggeri
gonzagheschi, abbrancati dai fanti e soprattutto dai vendicativi
soavesi,
venivano trascinati per terra e lì trafitti una, dieci,
venti volte. Oppure,
scaraventati contro il primo muro disponibile e lì tramutati
in bersagli
viventi dai balestrieri. Galeazzo vide un soavese aprire a
metà la faccia di un
soldato, cui schizzarono via i bulbi oculari e parte delle cervella.
Gli
stradioti marciani, armati di picche, calando quest’ultime
perforavano sia
uomini d’arme sia cavalieri, fino a piantarli al terreno e
una volta lì
inchiodati lasciavano ai loro compagni a piedi l’onore di
terminare l’opera,
scannandoli.
Era
questa la fine che sarebbe
spettata anche a lui?
“Al
dongione! Al dongione!”
Guido
Rangoni, manovrando
nervosamente il suo cavallo in modo da girarsi attorno, scrutava avido
nel
marasma generale alla ricerca dei due conti, sfuggitigli per il rotto
della
cuffia. Spronò la sua bestia in direzione della cittadella,
saltando sopra ai
cadaveri e passando a fil di spada chiunque gli sbarrasse la strada, i
balestrieri dietro di lui a coprirgli le spalle.
“Sforza!
Persico! E Rossi! Quei
figli di puttana sono miei!”, gridò e scese da
cavallo una volta giunto davanti
al portone d’ingresso del dongione, che già ci si
stava premurando di sfondare.
“Attenzione!”,
l’avvertì suo
fratello Ludovico, riparandosi sotto la targa e appiattendosi contro il
muro,
schivando la freccia scagliatagli dai balestrieri nemici dalla
finestrella del
dongione. Senza tanti complimenti, uno della compagnia dei Rangoni lo
puntò e
lo centrò in pieno: l’avversario, esalando un roco
gemito, cadde all’indietro,
sparendo all’interno dell’edificio.
“Sbarrate
la porta! Sbarratela!”,
ordinava nel frattanto Ferdinando dal Persico, portando Galeazzo
lontano da
essa e sistemandosi davanti a lui a mo’ di scudo, la spada
sguainata. Un sudore
freddo gli colava dietro la nuca e il cuore gli martellava in gola,
attenendo
inesorabilmente il momento in cui i veneziani li avrebbero raggiunti
… Allo
stesso modo, il contino di Melzo, pur a stento in
piedi,
s’incoraggiava, ricordandosi delle battaglie
affrontate. Sei
sopravvissuto a quelle, sopravvivrai anche a quest’altra!
Non
appena il portone d’ingresso
venne distrutto, Guido e i suoi fratelli per poco non si tuffarono
dentro il
dongione: spada e daga in mano, presero a correre invasati verso le
scale,
balzando a due a due e liberandosi in fretta della strenua resistenza
mossali.
Non risparmiarono nessuno, neanche coloro che, nella ressa,
inciampavano giù
per le scale: subito i fanti e gli stradioti dei Rangoni, rimasti in
basso, li
impironavano e scalciavano via i morenti.
“Corpo
d’un diavolo!”, imprecò il
modenese, imbattendosi nell’immobile porta serrata e dalla
frustrazione le
diede un poderoso calcio. Sgomitando tra i suoi compagni, un soavese
armato
d’ascia si fece avanti e, chiedendo implicitamente al
condottiero di scansarsi,
calò la lama contro il legno, sullo stesso punto,
finché la luce prese a
filtrare dal buco creatosi e allargato dalle impazienti mani dei
marciani,
incuranti delle schegge.
Ferdinando
dal Persico levò in
alto la guardia, osservando stranito la porta finire sbrindellata pezzo
per
pezzo malgrado le sedie e i cassoni posti a mo’ di barricata.
In uno schiocco
essa cedette completamente e, scardinata, da essa sfociarono in un
fiume in
piena gli assedianti e in prima fila Guido Rangoni, il quale in un
balzo felino
si scagliò contro il conte cremonese con tal foga da
distruggere in un
battibaleno la difesa di Ferdinando, relegandolo in un angolo del muro.
Il
condottiero modenese ne approfittò per disarmare
l’avversario, di cui afferrò e
torse il polso, quando notò come si stesse preparando ad
estrarre il pugnale
dalla cintura.
“Due
pesci in un colpo solo, gran
pesca oggidì!”, scherzò macabro Guido,
premendo lievemente il filo dritto della
spada sulla gola del conte cremonese, intanto che suo fratello Ludovico
toglieva ogni arma a Galeazzo Sforza, sconfitto dopo una debole
resistenza. Francesco,
invece, era proseguito oltre alla ricerca di Benedetto de’
Rossi, nascostosi da
qualche parte nel dongione.
Occupato
con successo il cortile
del Castello, sier Ferigo Contarini seguiva impassibile
l’andamento
dell’assedio adesso mutatosi in una gara al massacro. Il
giovane provveditore,
circondato dai suoi stradioti, trottava in direzione della cittadella,
preparandosi a terminare l’impresa prima d’issare
sulla torre il vessillo
dorato di San Marco.
“Ormai
Soave è nostra”, lo
informò soddisfatto Domenico Busicchio, capitano degli
stradioti, “al vostro
segnale, possiamo chiudere qui la faccenda e incominciare a far bottino
e
prigionieri.”
Il
suo superiore strinse la bocca
in una linea dura. “Bottino sì. Prigionieri
no”, ribatté secco il veneziano. “Si
continua ad oltranza.”
“Ma
ormai abbiamo vinto!”
“Voi
e i vostri uomini volete
oro. Ma qui i soavesi vogliono sangue e vendetta. E
l’avranno, signor Domenico,
come promesso.”
Lo
stradiota scoccò un’occhiata
obliqua ad un gruppo di soavesi che s’accaniva sui
gonzagheschi, tagliandoli
letteralmente a pezzi e macchiando di rosso le mura del Castello,
insultando
dei peggiori epiteti loro, le loro madri, i loro morti e ovviamente
quella
“gran vaca putana di la Marchesana”.
Poco
distante da costoro, dei
soldati avevano incominciato a depredare i cadaveri degli sconfitti,
mentre
altri trascinavano delle urlanti donne fuori in cortile –
prostitute,
indubbiamente, a giudicare dai vestiti. Una di queste, ribellatasi,
venne
tenuta immobile per le ascelle da un fante, mentre il suo compagno,
afferrato
lo scollo dell’abito, glielo apriva strappandolo a
metà fino a trovare sotto
d’esso una cintura con una scarsella piena di danari.
Dopodiché, intascato il
bottino, l’uomo pugnalò la meretrice sul basso
ventre e lei cadde bocconi
vomitando sangue. Le sue colleghe subirono la medesima sorte, derubate
prima e
ammazzate poi, la fame d’oro più forte della carne.
“Quando
allora, signor
provveditore, potremo fare prigionieri?”
Il
Contarini si calò la celata e
diede di sperone al suo cavallo, rispondendo così a Domenico.
Ferigo
aveva finalmente
individuato il luogotenente del Gonzaga di Bozzolo, Sebastiano
d’Este, il quale
stava riorganizzando i suoi cavalleggeri in un ultimo disperato
tentativo di
resistenza. Il ghigno del giovane provveditore
s’allargò in uno talmente
ferino, da sembrar strappato al divino Marte.
I
primi ad uscire dalle due porte
di Soave erano stati gli uomini d’arme
dell’Estense, evidentemente per aprire
il passaggio ai cavalleggeri e ai loro capitani, diversivo che il
Contarini
aveva lodato per la sua audacia strategica. Ma lì finiva la
sua cortesia
cavalleresca: ai suoi occhi, costoro non soltanto erano invasori, ma
anche
complici dei francesi e dei tedeschi, di quegli assassini
ch’avevano trucidato
orrendamente 366 soavesi, bruciando il paese e
infierendo sui loro
corpi, negando a questi innocenti perfino una sepoltura cristiana. Un
groppo in
gola gli si era formato all’udire i tremendi racconti dei
sopravvissuti,
portando il patrizio ad accogliere prontamente le loro richieste di
partecipare
all’assedio per riprendersi la loro città e il
Castello.
E
il loro odio era divenuto il
suo. A Ferigo non importava delle giustificazioni dei Gonzaga, degli
Este, di
qualsiasi famiglia signorile italiana ostile alla Signoria: a lui
apparivano
tanto sporche e vili quanto i franco-imperiali. Avevano voluto allearsi
con
quest’ultimi per saltare sul carro dei vincitori? Benissimo,
ne avrebbero
condiviso la sorte, saltando nella fossa comune.
Dunque,
il giovane provveditore
lasciò che codesta fredda collera vendicatrice guidasse la
sua spada, quando
ingaggiò un serratissimo duello a cavallo contro
l’Estense, costringendolo ad
alzare costantemente la guardia senza concedergli né respiro
né una sola
apertura per la controffensiva. Voleva proprio contemplare
l’umiliazione della
sconfitta sul suo volto, ridergli in faccia, se non addirittura
staccargli la
testa. Sangue. Sangue. Sangue!
Sebastiano
d’Este bloccò infine
un suo fendente, cadendo però nella trappola del veneziano:
roteando in un
stridulo gargarismo le lame, il Contarini allontanò il
braccio dell’avversario,
rendendogli accessibile il petto che colpì tramite una
mirata e potente
gomitata alla base del collo, mozzandogli il fiato. Agguantatolo,
Ferigo lo
denudò di malagrazia dell’elmo, afferrandolo per i
capelli biondi e sudati,
costringendolo a mostrare in sottomissione la gola.
“Soave
è nostra e voi, voi siete
prigioniero della Signoria!”, sibilò trionfante
Ferigo e quello corrispose all’agognato
segnale, che decretava la fine di ogni combattimento e
l’inizio ufficiale della
tanto agognata corsa al bottino, cui i marciani
s’abbandonarono esultanti.
Trecento
bellissimi cavalli
mantovani vennero raggruppati e accarezzati in genuino apprezzamento
sia dagli
stradioti che dai cavalleggeri, i quali discutevano animatamente tra di
loro,
decantandone le qualità e mangiandoseli a momenti cogli
occhi adoranti. Alcuni
controllavano i denti degli animali, altri sotto gli zoccoli, taluni ne
accarezzavano dolcemente i fianchi nervosi, calmandoli. Più
che dei reduci da
uno scontro, parevano dei mercanti ad una fiera, se non fossero stati
circondati da corpi seminudi e mutilati, dal tanfo di fumo, di sangue,
di
escrementi. Il nemico, sconfitto, giaceva agli angoli già
dimenticato oppure in
catene, come quei trenta fortunati uomini d’arme che, per
aver resistito fino
all’ultimo, erano riusciti a salvarsi dalla carneficina.
“Signor
Pellegrino, quando avrete
ripreso fiato, partite alla volta di Padoa per riferire la notizia di
questa
nostra vittoria”, istruì Ferigo Contarini il
nipote del capitano stradiota,
finendo di scrivere un veloce resoconto di quanto avvenuto e sperando
che la
sua calligrafia risultasse leggibile, in quanto redatto ancora in
sella. “Signor
Domenico, voi invece preparate i carri: voglio che i capi nemici siano
ben
visibili, quando entreranno in città! Riguardo noialtri, una
volta raggruppata
la compagnia dei Rangoni, proseguiremo fino a Montagnana e
…”
All’udire
ciò Sebastiano d’Este
ebbe uno scatto d’orgogliosa ribellione e digrignò
i denti, agitando i polsi
costretti nelle manette. “Chi vi credete
d’essere?!”, lo interruppe indignato,
avanzando di qualche passo verso il giovane provveditore,
sennonché due fanti
lo bloccarono prontamente. “Esibirci su di un carro? Come
schiavi? Vi pensate
forse un generale romano in trionfo? Scipione
l’Africano?”, berciò malevolo,
deridendolo. “Siete bestie voialtri, senza alcun rispetto per
l’avversario!
Tipico di voi veneziani, così sprezzanti verso il prossimo e
pieni di boria e
rancore! Ma sappiate che il re Ludovico e l’Imperatore
Massimiliano non
lasceranno impunito quest’affronto, avremo la
nostra …”
“Ma
per favore, chiudete quella
fogna e smettetela di lagnarvi peggio d’un
infante!”, lo zittì perentorio e a
voce alta il Contarini, le cui gote però s’erano
tinte di scarlatto e i suoi
occhi incominciarono a brillare di una fredda luce assassina, la
medesima
quando s’apprestava a frustare sulla pubblica piazza gli
stradioti
indisciplinati.
Portandosi
davanti al
prigioniero, Ferigo afferrò il viso di Sebastiano,
stringendolo fino ad
imprimervi il segno delle unghie. “E non mi fate inutili e
patetici predicozzi:
credete che non conosca il vostro disprezzo
per noi? Cani
veneziani, gli odiatissimi veneziani, i nostri nemici giurati, ecco
come ci chiamate! Noi saremo anche alteri e
vendicativi, ma voi vi
siete piegati alla stregua di puttane al Re Cristianissimo e
all’Imperatore,
credendoli dei Giove in terra e onnipotenti, pronti a correre in vostra
difesa
al minimo accenno, razza di donnicciole petulanti e invidiose! Incapaci
nella
guerra, ma abilissimi al tradimento e a persuadere gli altri a
combattere per
le vostre cause! Mi fate schifo quanti che siete!”,
sibilò astioso il patrizio,
lasciando trapelare tutto il veleno accumulato in due anni di guerra,
depurandosi lui stesso dagli orrori cui aveva assistito e che aveva
dovuto
soffocare onde non perdere lucidità. Non si accorse dei
soavesi riunitisi
dietro di lui, del loro cupo mormorio d’assenso, degli
sguardi feroci di chi
aveva perduto casa, figli, genitori, consorti in nome delle altrui
ambizioni e
che ora esigeva la sua libbra di carne, anche se si trattava
d’un misero
sostituto.
“Concedetemi
di darvi un motivo
per cui odiarci sul serio, allora”, gli confidò
Ferigo, reclinando beffardo il
capo. “La Signoria ha destinato voi e i vostri compagni
alle Orbe.
Le conoscete?”, cinguettò crudele dinanzi
all’espressione di puro sgomento
dell’Estense. “Sono celle sotterranee, laddove non
filtra il benché minimo raggio
di sole e si dice che, a seconda della marea, esse si riempiano
d’acqua”, gli
descrisse minuziosamente, deliziandosi del terrore del suo nemico.
“Prima
perderete la vista; poi vi si spezzeranno le ossa; i reumatismi vi
toglieranno
ogni requie; vi piglierete un bel raffreddamento di polmoni e i granchi
entrati
assieme all’acqua semplicemente adoreranno nutrirsi della
vostra nobile carne.
In ogni caso, voi uscirete in bara dalle Orbe, ma non in breve tempo
– oh
no!- questo ve l’assicuro: faremo il
possibile per tenere voi e i
vostri amici ben vispi e allegri, finché non impazzirete e
invocherete la
morte. E neanche allora vi sarà concessa e, se lo
sarà, solamente quando ne
avremo voglia e con arma a nostra discrezione. I vostri corpi deformi e
ciechi
serviranno a mostrare al mondo la misericordia della Signoria, verso
coloro che
vogliono distruggerla!”, ringhiò il giovane
provveditore, mollando
violentemente la presa dalla mandibola di Sebastiano.
“Ora
odiaci pure, Estense, odiaci
pure mentre rimpiangerai questo giorno, quello in cui vi ho risparmiato
la
vita!”, concluse gelido Ferigo. Ad un rapido cenno del capo
del patrizio, i
fanti a sua custodia spinsero il luogotenente sconfitto verso il carro,
costringendolo a salire, mentre questi sputava maledizioni su
maledizioni
contro la Serenissima e i suoi diavoli che partoriva al posto di
cittadini.
Il
Contarini, sordo e cieco a
tali scenate, montò ineffabile a cavallo e si diresse verso
il dongione per
accertarsi che i fratelli Rangoni avessero catturato gli altri
comandanti, come
precedentemente raccomandatosi.
Quella
sera, a Padova, i
provveditori sier Christofal Moro e sier Polo Capello inviavano a
Venezia una
consolatrice lista per mitigare la dolorosa perdita di Gradisca:
Questi sono la nome di capi presi
et sarano conduti im Padoa.
El
contin di Melz, fo fiol dil
ducha Galeazo Maria di Milan, naturale et cugnato di lo imperator,
amalato.
El
signor Sebastiano da Este, fo
fiol dil signor Nicolò, loco tenente de signori di Bozolo et
zerman dil ducha
di Ferara, foraussito.
Domino
Manfredo de Landriano,
milanese, capo di balestrieri 50.
Domino
Beneto di Rossi, da Parma,
capetanio di homeni d’arme 50 et di balestrieri 100, al qual
lo imperator à
donato lochi per ducati XVI milia di valuta.
El
conte Ferando dal Persico,
cremonese, capo di balestrieri 50.
Jacomo
Tristam, citadino
veronese, rebello manifesto.
***
Hironimo
strisciò sulla paglia
fintanto che la catena fissata al palo glielo permetteva, cercando di
scostare
un lembo della tenda separatoria così da sbirciare quanto
stava accadendo.
Un
vivace brusio di voci più o
meno alterate e di passi concitati lo aveva distratto dalle sue
orazioni,
l’unica consolazione che gli era rimasta onde mantenere la
lucidità in
quell’eterno limbo. Ad incuriosirlo erano stata la
realizzazione che, tra i nuovi
arrivati dentro il padiglione, non vi si trovavano soltanto a Mercurio,
Leka e
ai loro stradioti: sia il tono che il timbro di voce delineavano
situazioni
diverse dalle usuali conversazioni, cui il giovane patrizio
s’era abituato.
Sbuffi, imprecazioni, un rapidissimo e ostile scambio di botta e
risposta in
greco, elementi totalmente estranei a quelli di un comandante in
procinto o di
elaborare un piano d’attacco o di impartire degli ordini.
Appoggiandosi sulla
ballotta e allungando quanto più possibile il collo
dolorante, Hironimo riuscì
a scorgere le figure di Mercurio e di Leka, in piedi e in atteggiamento
assai
intimidatorio dinanzi al misterioso terzo interlocutore, costretto
quest’ultimo
su di uno sgabello, in camicia e le mani legate dietro la schiena. A
giudicare
dalla barba e dalle trecce, doveva trattarsi anch’egli di uno
stradiota;
tuttavia, il Miani notò come i due comandanti si limitassero
a colpire il
prigioniero solo all’addome, alla schiena e ogni tanto alla
faccia ma senza
molta convinzione, e ne dedusse che doveva trattarsi di un loro
parigrado o
comunque qualcuno di abbastanza importante da non torturarlo senza
penarsi
delle conseguenze.
Un
pugno dritto al naso dello
stradiota lo costrinse a gettar indietro il capo, mentre dalle nari
straripavano
già pingui rivoletti di sangue e Hironimo a quella vista
rabbrividì, memore
della medesima cortesia subita per mano di Mercurio, quando gli aveva
gonfiato
la faccia di cazzotti.
“Ebbene?”
“Ebbene
niente.”
“Oh,
fai il coraggioso adesso?”
“Insultami
pure, tanto da me non
saprai niente!”
Il
Bua si sfilò la casacca, la
ripiegò con cura, si arrotolò la camicia e
piazzò un gancio all’addome di
Teodoro Ralli, piegandosi quest’ultimo a metà in
un sordo grugnito.
“Parla
o quand’è vero Theos, ti
ammazzo e non lentamente”, l’ammonì
calmissimo l’epirota, girando intorno al
prigioniero e colpendolo di nuovo stavolta tra le scapole.
“In quale punto la
difesa di Treviso è più debole? Quale porta
è peggio difesa? Come sono messi
con i rifornimenti? Armi? Quanti uomini ci sono alla
custodia?”
“E
quante domande fai? Chi sono
io, il provveditore?”, rise Teodoro, sputando sangue e
saliva. “Caro amico mio,
anche se potessi risponderti – e non lo farò
– queste mie informazioni ti
saranno di poco aiuto. Voialtri” e indicò anche
Leka, “state marciando verso la
vostra morte. Voi credete di porre sotto assedio Treviso, ma non avete
alcun’idea di ciò che si sta preparando alle
vostre spalle, qualcosa di molto
più grosso di una banale scaramuccia!”
“Mi
hai scambiato per Megas
Alexandros, che t’esprimi come la Pizia?”,
ruggì stizzito Mercurio, afferrando
Ralli per il colletto della camicia. “Treviso è la
chiave per arrivare a
Venezia: cosa vorresti insinuare con “una banale
scaramuccia”?!”
“Sciocco!
Anni e anni in questo
paese e ancora non hai compreso che qui, in Italia, non sono gli
eserciti a
vincere le guerre?”
Mercurio
aprì la bocca per
ribattere, bloccandosi però all’improvviso. Si
staccò bruscamente da Teodoro e
si diresse a grosse falcate verso Hironimo, il quale
d’istinto indietreggiò
spaventato nel suo angolino, dove si girò sul fianco mentre
fingeva di dormire
in maniera assai profonda.
La
tenda venne scostata
violentemente e il patrizio avvertì la presenza del
greco-albanese dietro di
lui, in particolare lo scricchiolio della paglia pestata
finché un lieve
movimento d’aria sulla sua pelle accaldata tradì
la faccia del condottiero
quasi sopra la sua, in attento studio dei suoi lineamenti rilassati ad
arte.
Fai che non se ne accorga! Fai
che ci caschi! O Mater, non farmi scoprire! Ti prego, non farmi
scoprire! ,
si ripeteva ossessivamente Hironimo, il cui viso in
apparenza inespressivo in realtà celava
dietro un panico furioso, il
suo cuore battente la chamade in petto e lo stomaco stretto in un
doloroso
nodo, già risalendogli in gola i primi acidi sintomi di
reflusso.
Non
sarebbe sopravvissuto ad un
altro pestaggio, lo sapeva. E il giovane Miani non poteva
- non
voleva! - morire così, senza aver avuto
modo d’impiegare la sua vita
in fini più nobili e utili. Senza riscattarsi. Senza render
fieri Madre e
Padre. Non voleva morire su di un pagliericcio, alla stregua
d’un cane,
seminudo, sporco, malato e ridotto ad una massa informe di sangue e
ossa. Non
voleva.
Confido in Te! Confido in Te!
Confido in Te!
Due
dita premettero sulla sua
carotide e un occhio gli venne forzatamente aperto. Non
reagire! Stai
fermo!
“Dai,
Maurikos, lascialo perdere!
Non lo vedi che sta dormendo?”, lo richiamò
annoiato Leka, un poco divertito
dal modo in cui il suo collega pendeva minaccioso sul veneziano e lo
punzecchiava coi suoi paranoici controlli, manco si fosse trasformato
in un
avvoltoio.
A
malincuore e tuttora
sospettoso, Mercurio si alzò lentamente, gli occhi fissi
sulla figura immobile
di Hironimo. Indietreggiò guardingo e senza mai distogliere
lo sguardo,
lasciando la tenda ben aperta così da controllarne ogni
movimento, in caso si
fosse destato. Anche se il giovane avesse visto e udito qualcosa, non
sarebbe
stato nulla di vitale importanza tranne assistere alla tortura di un
suo
alleato, rammentandogli quanto già inflittogli e quanto
l’avrebbe atteso, in
caso avesse giocato al furbo.
Conscio
della trappola
preparatagli, Hironimo non osò muoversi di una spanna per
l’intera durata
dell’interrogatorio, ignorando il sordo
formicolio dell’avambraccio destro,
su cui appoggiava la testa, finché di questi non ne perse la
sensibilità. Non
si “svegliò” neppure quando la vescica
prese a pulsargli dolorosa, preferendo
urinarsi addosso piuttosto d’attirare l’attenzione
del suo carceriere, le
orecchie insidiate e vinte dall’incessante schioccare di
ossa, di grugniti e
gemiti, d’impazienti domande rimaste senza risposta.
Pregò
che il suo turno non
arrivasse mai. Perché sapeva ciò che
l’attendeva: in passato lui si era trovato al
posto di Teodoro Ralli, sopravvivendo a stento; un suo passo falso e
lui
avrebbe potuto ritrovarsi al suo
posto per il terzo e ultimo
giro. Il Bua l’avrebbe ammazzato, l’avrebbe
ammazzato di botte e stavolta sul
serio.
Un
tonfo, seguito da un forte
lamento e poi da un gorgoglio strano, tipico di chi sveniva e anche
malamente.
“Portatelo
tra gli altri
prigionieri. Fra poco si riavrà e sarà cura del
maresciallo di farlo cantare.”
“Testa
dura.”
“Testa
di cazzo, vuoi dire.”
Silenzio, rotto a malapena da un gentile rumore d’acqua,
Mercurio e Leka molto
probabilmente si stavano lavando via il sangue dalle mani.
“Ma
ancora dorme ‘sto qua? Sicuro
che non sia schiattato?”
“Di
sicuro puzza come un cane
morto.”
“Cosa
intendeva dire il kyr
Theodoros con quella frase?”
“Lo
ignoro, ma forse il nostro
veneziano qua potrebbe illuminarci: quegli intriganti sanno tutto di
tutti e
tra di loro non ci sono segreti. Quando finisce di ronfare
…”
Rilassa il respiro. Non aprire
gli occhi.
“Lo
sveglio?”
Non fiatare …
“No,
non c’è fretta. Possiamo
sempre interrogarlo a Breda o a Ponte di Piave.”
“Eh?
Ma se ci siamo appena
accampati!”
… O finisci lì,
su quello
sgabello …
“Ordini
del maresciallo.”
“Contento
lui.”
“Contenti
tutti, tranne i
veneziani che non sapranno per un bel po’ dove
trovarci!”
Oh, Madonna! Oh, Madonna!
Salvami! Salvami!
Continua
…
***************************************************************************************************************
Il
prossimo aggiornamento
arriverà speriamo a breve, stavolta l’attesa
sarà meno lunga! Inoltre,
incomincia da qui la revisione ufficiale della storia.
Spero
che questo capitolo vi sia
piaciuto!
Alla
prossima,
Un po’ di noticine:
[1] Il proverbio
friulano completo è: “L'è miei jessi in
disgraćie di Dio che da justizie”,
ossia “È meglio essere in disgrazia di Dio che
della giustizia”, poiché Dio è
più misericordioso degli uomini.
[2] In breve, la
faccenda si svolse così:
Treviso,
dopo la Pace di Torino
che sanciva la fine del conflitto tra la Repubbliche di Venezia e di
Genova,
era rimasta sotto il Duca d’Austria, Leopoldo III
d’Asburgo il bisnonno di
Massimiliano (ecco perché l’Imperatore considerava
la Marca “proprietà di
famiglia”, non solo un feudo nell’orbita del SRI
per tradizione carolingia.)
Tuttavia, l’Asburgo s’era reso ben presto conto di
come quei territori
facessero troppo gola a tutti gli Stati confinanti, in primis i
Carraresi di
Padova, i Visconti di Milano e ovviamente la Repubblica di Venezia che
rivoleva
indietro ad ogni costo Treviso. Sicché, comprendendo la
situazione
precarissima, Leopoldo vendette la città ai Carraresi per un
bel po’ ducati (e
questo punto a Massimiliano dev’essere sfuggito) e se la
diede in Austria, al
sicuro da queste beghe italiche. Mossa saggia, poiché
Venezia era uno Stato con
una missione e tanta cattiveria in corpo dopo le pesanti perdite
territoriali a
seguito della Pace di Torino. In particolar modo, gliel’aveva
giurata ai
Carraresi.
Per
farla breve, in un giro
vorticoso di alleanze fatte e disfatte, nel 1388 Francesco da Carrara
si
ritrovò in guerra contro Gian Galeazzo Visconti e Venezia,
finendo sconfitto su
tutti i fronti e la sua famiglia pressoché in ostaggio a
Milano, mentre l’anziano
Carrarese s’arroccava nel Castello di Treviso, assediato
dalla popolazione
insorta. Come ultima mossa disperata, Francesco offrì a
Jacopo del Verme e
Spinetta Malaspina, i comandanti viscontei, Treviso e la Marca a Milano
così
anche da seminar zizzania tra gli alleati e guadagnar tempo. E il suo
piano
sarebbe pure andato a buon fine, se la popolazione trevigiana non si
fosse
ribellata anche alla prospettiva di finire sotto la biscia viscontea.
Infatti,
il Del Verme sarebbe
andato in giro in città a proclamare Gian Galeazzo signore
di Treviso, ma
ricevette un netto rifiuto, che risultò, stando alle
cronache, in un bel
tafferuglio tra soldati viscontei e i trevigiani, i quali costruirono
barricate
in città, in attesa dell’arrivo dei provveditori
Guglielmo Querini e Giovanni
Emiliani. L’esercito veneziano occupò dunque
Treviso ed insieme ai trevigiani
espugnarono appunto la fortezza il 13 dicembre 1388, giorno per Venezia
simbolico poiché era la festa di Santa Lucia, verso cui i
veneziani nutrivano
una particolare devozione e di fatti ampliarono la chiesa di Santa
Maria delle
Carceri cui associarono il nome di Santa Lucia, indicendo un palio a
commemorazione di questa vittoria.
Insomma,
vox populi vox Dei. Va
anche detto che Gian Galeazzo Visconti, intelligentemente, non
contestò il
ritorno di Treviso e della Marca a Venezia, rispettando i patti.
[3] secondo
altri fonti, lo stemma degli Anguillara mostrerebbe invece due serpenti
e non
due anguille, secondo una leggenda riguardante la famiglia.