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Autore: Hoel    02/07/2021    5 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
Capitoli:
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 17.12.2021

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Capitolo Ventinovesimo

Sabato 27 settembre 1511 – Domenica 28 settembre 1511

(prima parte)

 

 

“Se il malvagio si ritrae da tutti i peccati che ha commessi e osserva tutti i miei decreti e agisce con giustizia e rettitudine, egli vivrà, non morirà. Nessuna delle colpe commesse sarà ricordata, ma vivrà per la giustizia che ha praticata.

Forse che io ho piacere della morte del malvagio - dice il Signore Dio - o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?

[…] E se l'ingiusto desiste dall'ingiustizia che ha commessa e agisce con giustizia e rettitudine, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà."

(Ezechiele 18, 21-28)

 

 

 

 

 

 

Correva voce che nello Stato di Terra i campanili apparissero tanto alti da eguagliare l’animo beghino dei suoi abitanti; in realtà, cogitava Mercurio Bua mentre supervisionava i suoi stradioti montare le tende nell’accampamento, il motivo era quello di creare punti di riferimento e di avvistamento per colpa degli alberi svettanti e fitti che nascondevano gran parte dei paesi. Ciò creava un bel problema, concluse il condottiero, poiché le strade principali costeggiavano i fiumi e i canali: peccato che questi fossero battuti costantemente dagli stradioti marciani, vigili e rapidi nelle loro azioni di disturbo.

L’ultimo contingente dell’esercito franco-imperiale era giunto a Torre di Maserada alle prime luci dell’alba: appena il tempo di finire di sistemare le proprie tende, che già dovevano aggregarsi alla compagnia comandata direttamente da La Palice per tentare un secondo atto intimidatorio sotto le mura trevigiane. Una staffetta giunta dalla Patria del Friuli recava notizie dell’appropinquarsi del resto dell’esercito tedesco a Motta di Livenza, rincuorando il maresciallo che non solo vi leggeva tra le righe l’esito positivo dell’assedio di Gradisca e dunque l’arrivo di viveri e artiglierie, ma anche dell’intera forza bellica a disposizione, finalmente riunita e dai numeri decisamente promettenti, assieme alle truppe ausiliari comandante da Giovanni e Federico Gonzaga, stanziate a Soave.

Nonostante l’euforia generale, nel suo intimo Mercurio non era entusiasta all’idea di sfilare in parata dimostrativa a Treviso, ancora memore della sua debacle alcune settimane addietro, preferendo piuttosto guadagnare terreno fino ad accamparsi più vicino e da lì attendere gli ultimi contingenti rimasti. Perlomeno, si consolava, se proprio doveva obbedire, egli avrebbe avuto modo di studiare le mura onde trovare il punto debole dell’apparente impenetrabile Treviso. E scovato lo avrebbe, si ripromise.

Inoltre, aveva un conto in sospeso con un certo qualcuno in quella città, nello specifico il fratello del suo prigioniero, la cui ferita provocatagli sia all’orgoglio sia alla coscia tuttora gli bruciava, malgrado la seconda si fosse abbastanza rimarginata. Una sensazione di crudele compiacimento gli accarezzava l’animo alla prospettiva di sgozzare il Miani più anziano, anche per vendicarsi del più giovane, la fonte primaria di ogni suo malessere e disgrazia. Era d’altronde colpa sua e della sua doppiezza se il Bua non aveva potuto cavalcare a Musestre assieme a Leka, impedendo così che Zilio venisse ucciso … Colpa sua e del suo valore pressoché nullo, se quel disgraziato del suo barba ancora non rispondeva alla sua ambasciata, di scambiar lui per Caterina … Mercurio avrebbe intinto la sua casacca del sangue di Marco Miani e l’avrebbe sbattuta in faccia ad Hironimo, costringendolo ad inalare il sangue fraterno e se ciò non fosse bastato per spezzare definitivamente quella testa dura …!

Il condottiero greco-albanese lanciò un’occhiata di sbieco all’oggetto delle sue cupe elucubrazioni, il quale se ne stava legato alla ruota di un carro, a capo chino e talmente immobile, che da lontano lo si sarebbe potuto scambiare per morto, se non fosse stato per il lento alzarsi ed abbassarsi del petto. La bravata della notte scorsa era rimasta vividissima nella memoria del Bua, così come marchiata a fuoco era lo sguardo del giovane, ben lungi da quello di una persona sconfitta. Mercurio si scoprì detestare quella che lui giudicava infinita alterigia, domandosi come fosse mai possibile che, a seguito dei tormenti inflittigli, quel moccioso viziato seguitasse nella sua imperturbabilità, neanche da neonato avesse dalla sua balia poppato orgoglio al posto del latte.

Hironimo avvertì il passo del suo carceriere prima ancora di aprire gli occhi, rimpiangendo quel fragile sonno a fatica conquistato dopo un’estenuante marcia notturna. Era stato separato, ovviamente, dal suo compagno di sventura, cacciato quest’ultimo tra gli altri prigionieri – pregò si sentisse meglio rispetto alla notte scorsa.

Quanto a lui, il giovane Miani attendeva che il Bua si sbrigasse a montare quel suo dannatissimo padiglione, così da giacere finalmente su della paglia pulita poiché, per quanto un solido appoggio, la ruota ugualmente risultava sporca di fango e generalmente scomoda. Lo sterno poi gli doleva a causa degli sporadici colpi della ballotta da 9 libbre (circa 5kg, ndr.), quando le dita gli erano divenute troppo torpide per reggere il suo peso o tener ferma la catena. Le braccia gli dolevano, tremandogli i muscoli in lievi e continui spasimi fino ad irrigidirsi ribelli e le sue mani arrossate presentavano vene talmente grosse e sporgenti, da scambiarle per quelle di una vecchia lavandaia. Il collo gli grattava e così polsi e caviglie, mescolandosi rivoletti di sangue alle croste di melma e pus. Aggiungendo poi la faccia ancora mezza gonfia dai colpi ricevuti, i capelli sporchi e appiccicaticci nonché la barba incolta, il giovane patrizio ispirato dal macabro umorismo del rassegnato, si considerò né più bello né più comodo dei prigionieri dei Pozzi.

Un calcio alla coscia lo distrasse da quel suo intimo scherzo e costrinse Hironimo a sforzarsi di levare un poco lo sguardo verso l’alto, provocandogli un unico lampo di dolore dalla nuca fino agli occhi, che gli parvero volergli scoppiare dal cranio.

“In piedi!”, gli venne intimato; il giovane Miani strinse i denti e obbedì docile, ignorando le fitte alle piote sanguinanti e infreddolite. “Che fai? Rabbrividisci? Così impari a giocare al buon samaritano!”, lo derise Mercurio, notando il discreto ma costante tremore lungo il corpo del patrizio, sia per la fatica sopportata sia per l’aria decisamente autunnale, umida e fredda. Le mani rattrappite del veneziano avevano assunto una tinta vagamente bluastra sotto il rosso dello sforzo di reggere la ballotta, così come le unghie sporche e rotte.

Fosse stato il se stesso di una settimana addietro, Hironimo avrebbe rinfacciato aspramente al greco-albanese che, a furia di servire l’Imperatore, ne aveva ereditato la famosa tirchieria, visto che non si penava di dargli un altro cencio con cui coprirsi. Ora, però, la cosa non lo tangeva. Anzi, più il Bua lo tormentava, più gli suscitava la medesima commiserazione di un adulto che deve sopportare i capricci di un bambino particolarmente petulante.

Hironimo socchiuse le palpebre gonfie e nere: era stanco, davvero stanco.

Il condottiero lo trascinò alla sua tenda, indirizzandolo al famigliare angolino dove aveva trascorso parte della sua prigionia a Montebelluna, con la sola eccezione che il suo Thomà non si trovava più con lui a tenergli compagnia, mitigando la solitudine. Al pensiero del piccoletto, il cuore del patrizio fremette per un istante, sperando e pregando che sia lui sia Fra’ Anselmo fossero giunti sani e salvi a Treviso, lontani dal nemico e le sue insensate crudeltà. Quella consolazione gli avrebbe di gran lunga addolcito quell’ennesimo giorno di prigionia …

Un violento strattone lo riportò alla realtà, strappandolo un gemito di sorpresa: senza concedergli tempo d’acclimatarsi al giaciglio di paglia, Mercurio gli aveva levato le cavigliere e le manette “da marcia” (come li appellava giocosamente) per sostituirli con altri più costringenti. Quasi stesse assistendo alla scena fuori dal proprio corpo, Hironimo osservava stranito i due grossi chiodi di ferro che chiudevano i suoi nuovi ceppi, quest’ultimi uno passato nell’altro. Due manette senza chiodi ne chiusero un altro paio identico, mentre attraverso due al centro del petto venne fatta passare una catena di anelli schiacciati acciocché gli avvolgesse il corpo, serrandogli le gambe, e lo forzassero in posizione fetale anche da seduto. Infine, il Bua chiuse un lucchetto su due anelli del palo di legno; un secondo sulle manette e un terzo sui ceppi.

Ad operazione conclusa, Hironimo constatò come neanche il più sanguinario dei criminali della Serenissima fosse mai stato incatenato così, a guisa di cane rabbioso. Quasi ogni movimento gli era impedito, oppure reso particolarmente doloroso. Si chiese come se la sarebbe cavata quando natura avrebbe chiamato, rabbrividendo al pensiero di quell’ennesima umiliazione: finché si trattava di urinare in marcia, non visto, poteva anche sopportarlo, ma davanti al suo carceriere …

“Così non dovresti neppure essere in grado di grattarti il culo”, sentenziò Mercurio perversamente soddisfatto, specie allo scatto della chiave nell’ultimo lucchetto. “Figurarsi scappare via. Ma se anche ci riuscissi”, gli si inginocchiò accanto, sventolandogli malevolo la chiave sotto il naso, “se anche per miracolo tu riuscissi a liberarti da queste catene e a fuggire, sappi che non arriverai mai a Treviso. Ti farò cercare, ti farò ricondurre qui all’accampamento e ti scuoierò via la schiena a furia di frustate, non prima d’averti fatto fottere pubblicamente dai miei cani!”, gli promise crudele e premette sulla caviglia gonfia, onde ribadire il concetto tramite una fitta acutissima di dolore.

La gola d’Hironimo si serrò in conato di acida bile: aveva udito di tali pratiche ai danni dei civili, atti ad umiliare specialmente le donne. In tutta onestà le aveva credute leggende o usanze turche, incapace di concepire tale vile bassezza in un cristiano e il pensiero di dover subire uguale sorte – unita ai suoi ricordi circa gli accoppiamenti tra i cani – lo spinse a sputare a malincuore della saliva, non avendo alcun cibo in stomaco.

Mercurio contemplò la scena ridacchiando, divertito dall’ansante boccheggiare dello scioccato patrizio. “Hai inteso?”, reiterò, afferrando ora il giovane Miani per i capelli e torcendogli il collo sulla sinistra, creando una doppia fitta dolorosa, da una parte la frizione del cerchio di ferro sulla carne viva e dall’altra il bruciore dei muscoli tesi allo spasimo per sorreggere la palla di marmo. “Rispondi, che la lingua ce l’hai quando vuoi: hai capito cosa t’aspetta, se proverai di nuovo a scappare?”

Il veneziano annuì, guadagnandosi un secondo strattone allo scalpo. “Parla, perdio!”, lo assordò per poco il condottiero.

“Ho … ho compreso …”, gracchiò Hironimo, la gola secca e ruvida, l’ultimo rivoletto di saliva sulle sue ginocchia. “Acqua …?”, aggiunse timidamente, una volta libera la sua zazzera dalle tenaglie del greco-albanese.

“Uh?”, sbatté perplesso le ciglia Mercurio, preso un attimo di contropiede. Poi, riavendosi: “Hai sete?”, schioccò la lingua, arricciando la bocca in una maniera poco raccomandabile.

Stancamente, il Miani rispose di sì.

“Implorami, allora.”

Un altro giochetto, un’altra prova. Hironimo scorse con la punta della lingua il taglio e le piaghe sul labbro inferiore screpolato, assaggiandone il retrogusto ferroso. Il suo spirito si ribellava dinanzi a quell’ignominia, all’abbassarsi così codardamente dinanzi ad un volgare avventuriero. Era un figlio di Venezia, l’altera mai conquistata. Con che faccia si sarebbe ripresentato alla sua famiglia, non solo sconfitto ma pure supplice ai piedi del nemico? Un Miani si spezza ma non si piega, gli aveva insegnato Padre e suo figlio anche in quello non voleva deluderlo.

Ma non di solo orgoglio vive l’uomo ed Hironimo faceva gli equilibrismi sul filo del limite della sopportazione fisica: la disidratazione l’aveva fiaccato delle ultime energie, le orecchie gli fischiavano, la vista ormai s’era tramutata in un incessante dondolio e la febbre non cessava di tormentarlo, riempiendolo di brividi freddi pur bruciandogli la faccia. Pochi giri di parole: pur nella sua testardaggine, Hironimo voleva vivere e per farlo doveva considerare anche i compromessi. Doveva, poi? Non sapeva più niente, in quel mese ogni sua certezza gli era stata sottratta, abbandonandolo alla stregua d’una foglia preda dei capricci del vento autunnale.  

“Se questa è la volontà di Dio …”, mormorò infine il giovane Miani, le gote vermiglie sia per la temperatura sia per la vergogna suscitatagli dalle sue medesime parole, “allora ti supplico di darmi dell’acqua …”

Mercurio tirò indietro il capo, sedendosi sui talloni, interdetto da quell’affermazione che nulla aveva di disperato né di rassegnato, al contrario, gli suonava alle orecchie alla stregua d’una sfida. Cosa c’entrava adesso Dio e la Sua volontà in tutto questo?

Quel veneziano doveva invero essere uscito di senno.

“Ci voleva così tanto?”, si raddrizzò il condottiero, modulando la voce acciocché il prigioniero non vi catturasse alcuna traccia di sorpresa o tentennamento. “Per stavolta ti porto da bere e anche da mangiare. Ma bada di non allargarti troppo: al minimo sgarro, ti beccherai la giusta punizione”, disse, levandosi in piedi per dirigersi alla volta del tavolo.

“L'è miei jessi in disgraćie di Dio …”, [1] udì però subito dopo alle sue spalle e il Bua si voltò di scatto, il coltello rimasto incastrato nel pane nero che stava affettando.

“Cosa?”, fece confuso il condottiero, cogliendo qualche parola di quell’idioma a lui sconosciuto. “Di che blateri, adesso?”

Graffiando le unghie taglienti e mezze rotte sulla palla di marmo, Hironimo replicò calmissimo. “Lo hai ascoltato.”

Mercurio mulinò nervosamente il coltello. “Sì, ma che significa?”, l’incalzò spazientito, tirandogli addosso la fetta di pane, che lo centrò in pieno, rotolando per terra ai suoi piedi. Ineffabile, il patrizio raccolse goffamente il cibo e se lo portò alla bocca senza neppure soffiarci sopra, masticando lento e sul lato sinistro, laddove gli doleva di meno.

“Non ti dirò più niente”, chiuse in via definitiva Hironimo la conversazione, lo stomaco momentaneamente placato ma non soddisfatto. In silenzio bevve l’acqua mescolata al mosto, avvertendo una piccola e dolce sensazione di conforto nel corpo e nell’anima.

Che il greco-albanese lo insultasse, lo minacciasse, lo tormentasse pure: non gliene importava più nulla, il suo spirito era al sicuro da lui, irraggiungibile. Quanto al resto, hé, sebbene Hironimo si fosse genuinamente pentito della sua condotta passata, non poteva certo cambiare radicalmente costumi dall’oggi al domani – complice la sua testa dura –   e forse ancora peccava della sua innata superbia, ma su di una cosa non avrebbe ceduto: soltanto davanti a Cristo e al suo lieve giogo si sarebbe piegato, soltanto a Lui. Gli altri potevano impiccarsi tutti al primo albero disponibile.

E quella sua rinnovata determinazione dovette trasparire dai suoi occhi neri, giacché Mercurio non seppe cosa rispondere, o meglio lo sapeva ma non gli parve forse il caso, la sua coscienza pungolata da un’inusuale pesantezza.

Si morse dunque l’interno della guancia ed uscì dal padiglione, pronto a seguire il maresciallo La Palice a Treviso. Il Bua rimase in silenzio per tutto il tempo, mentre sistemava la sella e le briglie del suo cavallo, perfino quando il generalissimo francese dava le ultime istruzioni. Non reagì neanche alla scoperta della fuga di tre prigionieri, tra cui quel contadino difeso da Hironimo la notte precedente.

Perché, si domandava Mercurio, perché più lui tentava d’umiliare il Miani, più lui e non il veneziano ne usciva al contrario sconfitto?

 

***

 

Immerso in cupi pensieri sguazzava anche sier Marco Miani. Il patrizio veneziano aveva infatti accolto con gioia l’alba e l’inizio del suo turno di ronda al Castello, avendo trascorso la notte a fissare inquieto il soffitto del suo nuovo alloggio, non più allietato dal dolce solletico del respiro della moglie Helena, bensì dal fastidioso ronzio dell’irriducibili zanzare. Soltanto il vento, che per l’intera durata della breve funzione mattutina aveva graffiato sui vetri della chiesetta, riusciva a scuotere via il suo torpore mentale e lo distoglieva dalla malinconia, spronando il trentenne patrizio a concentrarsi sull’incarico affidatogli.

Lungo il lato del Castello prospiciente al Sile e lungo il canale Polveriera suo derivato, si stava costruendo di buona lena l’ennesima palada, ossia una palizzata in tronchi di rovere posta di traverso nel letto del fiume per impedire alle imbarcazioni nemiche di entrare in città. Gli esploratori marciani, infatti, avevano avvertito il Provveditore, il Podestà e i capitani delle imbarcazioni per il momento ancora ferme al porticciolo di Nervesa, chiaro segno che avevano intenzione di navigare sia la Piave sia la Piavesella raggiungendo poi Treviso tramite il Sile, sfruttando certamente le zattere sequestrate a Cividal di Belluno. A Porta Altinia, poco distante, si stava abbassando la torre e finendo di scavare il fosso, uno degli ultimi lavori rimasti per completare la difesa cittadina e sier Zuam Paulo Gradenigo aveva nuovamente arruolato sia uomini che donne per rispettare la sua personale scadenza di massimo due giorni.

Da un angolo della caminada del Castello, Marco osservava silente i genieri lavorare alla palada, ogni tanto spintonato all’indietro da una folata particolarmente violenta di vento, portandolo ad aggrapparsi al parapetto, divenuto più sobrio a seguito dello smantellamento delle inutili merlature scaligere. Il Miani, pur infastidito dai fischianti refoli d’aria malgrado l’elmo e la cuffia gli coprissero le orecchie, giudicò salvifico quel vento poiché arieggiava l’imponente baluardo e si portava via un po’ di zanzare e quel fastidioso tanfo di marciume, che da qualche tempo lo stava appestando.

Similmente a Treviso, anche il Castello aveva subìto un drastico cambiamento: sorto in qualità di fortezza quasi due secoli addietro per volere di Alberto e Mastino Della Scala, e successivamente ampliato da Francesco da Carrara che l’aveva trasformato nella sua residenza, originariamente esso era stato concepito a pianta quadrata con grosse torri agli angoli.  Ora, pesantemente rimaneggiato, il Castello appariva a forma pentagonale, inglobato nelle mura e di conseguenza trasformato in un unico e ampio bastione. I lati esposti sul canale Polveriera e sul Sile erano stati rinforzati da una spessa muraglia e provvisti di cannoniere alla base, mentre all’interno si trovava un terrapieno. I lati invece che davano verso la città presentavano cortine più leggere, i loro vertici adibiti a polveriere. La cappella gentilizia era stata convertita ed ampliata in una vera  e propria chiesa, nomata San Marco dei Bombardieri, subito meta di gran devozione da parte degli omonimi soldati, a giudicare dal numero di ceri accesi e rosari improvvisati.

Marco non si vantava di possedere grandi nozioni d’ingegneria, tuttavia aveva incominciato a sospettare che quel puzzo di marcio, non dissimile a quello sul litorale lagunare quando s’apprestava a piovere, significava che, in qualche punto del Castello, l’acqua s’era fermata, stagnando e di conseguenza rilasciando fetore e zanzare. Inoltre, aveva appurato non senza sudare freddo che la maggior parte degli ammalati di febbre proveniva proprio dal Castello, come suo cognato sier Nicolò Trivixan e sier Alvixe da Riva, ambedue rimpatriati a Venezia divorati dalla febbre. In aggiunta, anche sier Zuam Alvixe Dolfin e sier Aurelio Michiel, malgrado avessero fatto venire da Venezia dei medici apposta per curarli, erano dovuti rientrare velocemente. Sperò ardentemente di sbagliarsi, ma se avesse avuto ragione? Come intervenire e migliorare in fretta, con l’incombente ombra dell’assedio?

Quell’antica fortezza- residenza, d’altronde, non poteva rimanere uguale come ai tempi del Carrarese: collocata appena fuori dalle precedenti mura, se in passato era stata una geniale intuizione per evitare di finire vittima delle insurrezioni degli inquieti trevigiani, adesso essa rischiava di finire isolata in caso d’assedio e, se conquistata, poteva divenire una strategica roccaforte per i nemici, dove ripararsi e al contempo sferrare i loro attacchi. Per questo motivo, si erano interrati ambedue i fossati che circondavano sia un lato del Castello sia delle mura scaligere.

Per quanto puntigliosi e avvezzi ad opere idrauliche, l’acqua rimaneva per chiunque una bestia ostica da domare, portando ognora seco lo spettro tremendo della malaria.

“Christo d’on Christo!”, l’attirò da giù il ruggito del capo-geniere, a seguito del mancato rotolamento in acqua di uno dei tronchi di rovere per la palada. Evidentemente, il vento aveva intirizzito le mani dei genieri, ripercuotendosi negativamente sulla loro presa. “Man zànche! (sinistre, ndr.) Gh’avé man pì roèsse (rovesce, ndr.) di la crose di Sen Piero!”, continuava a sbraitare, rosso vino in faccia che pareva scoppiare da un momento all’altro e il più giovane dei genieri, magari perfino innocente, si beccò uno scappellotto sulla nuca per mondare i peccati di tutti. “Seti ‘no scandalo!”

“Poareti”, commentò comprensivo sier Alvixe da Canal, sporgendosi assieme al Miani onde assicurarsi che non si andasse al di là di qualche ceffone di rimprovero. “Non li biasimo: questo vento tira troppo forte, mi sta sguarattando il cervello!”, sospirò, massaggiandosi gli occhi arrossati dai colpi d’aria. “Novità?”, s’informò infine.

“Neanche un’ombra s’è mossa”, rispose stringatamente Marco, indicando col capo sia il bastione degli Spiriti sia Porta Altinia. Non appena La Palice aveva battuto la ritirata, il provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo e i capitani Renzo di Ceri e Vitello Vitelli avevano convocato un rapido consiglio di guerra, insistendo su turni serrati e specialmente sul lato meridionale, attualmente il più vulnerabile.

“Pensate che la Peliza ci onorerà di una seconda visita?”, domandò sier Alvixe, rabbrividendo e serrando stretto alla gola il pesante mantello.

“Ovvio”, mormorò accigliato il Miani, lo sguardo puntato sui vocianti genieri. “Hanno preso paura, ma non abbastanza. Soltanto rincarando la dose li spediremo in bocca diavolo!”, sentenziò bellicoso, stringendo le dita guantate sul parapetto.

“Se non lo fanno prima i nostri provvisionati”, ribatté sarcastico l’altro patrizio. “Non ho quasi più danari per mantenerli e la Signoria mi deve ancora i miei, di arretrati. Non si pretenderà certo che stiano qui a combattere amor dei!” (gratis, ndr.)

“Se non per amor dei, per timor mortis”, replicò sferzante Marco, il quale tuttavia riconosceva nel suo concittadino la difficoltà di placare le pance dei soldati assoldati a proprie spese, trovandosi infatti nella medesima situazione. “Dubito però che diserteranno, anche perché non hanno nulla dove andare, se non sottoterra”, rimarcò cupo, rivolgendo sconsolato lo sguardo al cielo livido e arrabbiato. Era stato il medesimo che il suo antenato, sier Zuanne Miani, aveva contemplato durante la liberazione di Treviso dai Carraresi?

Il Dì dei Morti ancora distava assai, tuttavia Marco rivolse una petizione a quel suo valoroso antenato, che aveva combattuto al fianco dei leggendari comandanti Vitor Pisani e Carlo Zen durante la Guerra di Chioggia; che da Capitano di Golfo aveva ottenuto la dedizione di Corfù, Durazzo, di Argo, di Napoli di Romania e del castello di Alessio; lo stesso che da provveditore era stato il primo ad entrare in questo Castello adesso presidiato dal suo discendente, la medesima fortezza dove Francesco da Carrara s’era rifugiato dai trevigiani insorti, offrendo come ultima spes di salvezza personale la città e la Marca ai viscontei guidati da Jacopo del Verme e Spinetta Malaspina. Invece anche quest’ultimi avevano trovato una ferrea resistenza nella popolazione, affatto disposta a finire sotto Milano. [2]  All’intrepida anima di Zuanne Miani, dunque, Marco domandò soccorso onde infondergli il medesimo ardore in battaglia e di condurre alla rovina i nemici della patria. Gli fece perfino voto che il prossimo nato a Ca’ Miani avrebbe portato il suo nome, specie se Marco fosse riuscito, in qualsiasi modo, a farla pagare ad un certo cittadino di Napoli di Romania, città da sier Zuanne assai nota.

La campana dalla torre di avvistamento del bastione della Madonna corrispose all’Amen delle sue preghiere, tosto seguito dal coro indiavolato dei tamburi che chiamavano all’assembramento i soldati, in risposta al lontano eco di quelli dei franco-imperiali, i cui vessilli incominciavano a far capolino all’orizzonte.

Marco batté le nocche sul palmo, infondendosi coraggio e cattiveria in corpo. “Fate rientrare immediatamente i genieri! Archibugieri e balestrieri si tengano pronti in direzione Porta Altinia! Idem per i bombardieri!”, ordinò il Miani ai connestabili e ai mastri bombardieri. “Notificate il sior provedador, che il Castello è pronto ad ogni suo cenno!”

Il bastione, dapprincipio silente, s’animò in un frenetico vespaio di andirivieni per poi chetarsi all’improvviso, stavolta in paziente attesa assassina.

 

***

 

Come il lupo osserva attento e feroce la preda ignara e tranquilla, prima di balzarle inatteso addosso e morderla alla gola, così sier Ferigo Contarini studiava la sagoma di Soave e le sue mura, a malapena illuminata dalla tenue luce mattutina e immersa nel suo placido sonno. La sua compagnia aveva cavalcato da Padova tutta notte senza imbattersi in alcun nemico, giungendo prima del previsto e straordinariamente freschi e vogliosi di combattere. Infatti, il Contarini aveva brillantemente persuaso i recalcitranti soldati a seguirlo, puntando sul suo naturale carisma e soprattutto titillando la loro avidità, avendoli promesso un grasso bottino a mo’ di risarcimento per le paghe arretrate. Astuta volpe, al giovane provveditore non era sfuggito il cupido luccichio negli occhi degli stradioti, i quali già gongolavano all’idea d’impadronirsi dei magnifici cavalli delle scuderie mantovane, tipici della compagnia di Federico Gonzaga di Bozzolo e di Giovanni Gonzaga.

“Ebbene?”, inquisì secco sier Ferigo all’arrivo di Pellegrino Busicchio, assentatosi per una rapida esplorazione del terreno.

“Rimangono solo due porte da cui entrare, tutte le altre sono state murate”, spiegò conciso il nipote di Domenico Busicchio, anche lui presente e accanto al provveditore degli stradioti.  

“Due ci bastano”, sentenziò il Contarini, girandosi indietro per calcolare come meglio suddividere i suoi uomini. Milleduecento cavalleggeri e quattrocento fanti, le sue forbici per tagliare la linea di comunicazione tra i due Gonzaga. Il patrizio diede di sperone al suo cavallo onde portarsi al riparo all’interno del bosco; dopodiché scese e, estratta una carta di Soave, la aprì e la stese per terra. Il resto dei capitani lo imitò, stringendosi a cerchio attorno a lui.

“Conte Guido: voi, tutti i vostri balestrieri a cavallo e cinquanta stradioti vi porterete davanti alla porta che va verso Vicenza”, ordinò al condottiero modenese, indicandogli sulla cartina con la punta della spada il punto in cui si sarebbe appostato. “Noialtri, invece, bloccheremo questa di Verona, acciocché nessuno della città possa uscire. Signor Sebastiano, voi invece disporrete la fanteria alla volta del monte, dietro la rocca. Sono pronte le scale?”

“Sissignore”, lo rassicurò il capitano bolognese. “In neanche un’ora avrete aperte ambedue le porte.”

“Ci conto, signor Sebastiano, ci conto”, esclamò Sier Ferigo soddisfatto, pur ridacchiando tra sé e sé per la tracotanza del condottiere. E ritornando serio: “Appena avrete superato la prima difesa, signor Sebastiano, urlate “Marco!” e il conte Guido ed io bruceremo ambedue le porte: ai nemici resteranno due opzioni, se attenderci dentro la rocca o tentare di fuggire, finendo dritti tra le nostre braccia. In ogni modo, li daremo battaglia. I capitoli li conoscete molto bene: una volta presa Soave, fate quel che più ritenete giusto per il vostro guadagno, ma il contino di Melzo, l’Estense e gli altri comandanti rimangono prede esclusive della Signoria”, e all’ultimo tuttavia aggiunse cupo: “Ricordate però che queste truppe le hanno destinate all’assedio di Treviso.”

Il Contarini aveva dovuto ingoiare la sua delusione nell’apprendere l’assenza a Soave sia di Federico che di Giovanni Gonzaga: mano sul cuore, l’aveva accarezzato la tentazione d’abortire il piano e di ritentare una seconda volta, quando sarebbe stato sicuro d’incrociare almeno uno dei due nobili mantovani. Tuttavia rimaneva l’annosa questione delle paghe arretrate, ch’aveva provocato gravi malumori tra gli stradioti, rifiutandosi quest’ultimi di trasferirsi alla custodia di Treviso come comandato dalla Signoria. Sicché per le leggi di “un ho val più di cento avrò” e di “prendere due piccioni con una fava”, Ferigo aveva deciso di risarcirsi con le teste di Galeazzo Sforza e di Sebastiano d’Este, conducendoli in catene a Padova assieme ad altri prigionieri di qualità, intanto che annientava l’armata ausiliare che doveva ricongiungersi a quella del La Palice. I provveditori sier Polo Capello e sier Christofal Moro avrebbero gradito assai quel suo sforzo e a Dio piacendo non si sarebbero accampate più scuse per posticipare la partenza per la capitale della Marca.  

Quanto ai soavesi unitisi all’impresa, avrebbero finalmente avuto la loro vendetta per la strage dei loro compaesani per mano dei Collegati.

 

***

 

Cento uomini in più rispetto al giorno precedente – contò sier Zuam Paulo Gradenigo dalla sua postazione al bastione di San Tomaso, ascoltando il rapporto di uno stradiota proveniente da Porta Santi Quaranta, laddove gli si spiegava come una divisione di gendarmi e cavalleggeri francesi fosse apparsa anche lì. Il suo capitano Teodoro Paleologo, alloggiato al monastero fuori dalle mura, già aveva disposto i suoi uomini assieme, bloccando l’entrata al nemico e domandava al provveditore se e quando attaccare.

“Continuate a tenere sotto tiro il contingente di La Peliza”, si raccomandò Gradenigo a sier Ludovico Querini e al connestabile lì accanto a lui. “Sapete come agire, in caso dovessero muovere un sol passo!”

Il suo concittadino rispose affermativamente col capo e il patrizio scese le anguste scale fino a giungere al suo cavallo, spronandolo in direzione di Porta Santi Quaranta, deciso infatti a guidare di persona gli stradioti e i cavalleggeri lì schieratesi.

“I capitani Thodaro Rali e Andrea Pera sono rientrati?”, chiese il provveditore a sier Lunardo Zustignan, riferendosi allo squadrone di stradioti partiti in esplorazione.

“Il signor capitano Vitello e il signor Lorenzo ancora attendono loro notizie”, negò il patrizio col capo, aggrottando preoccupato la fronte quanto l’altro veneziano.

Una sgradevole inquietudine incominciò allora a rodere le viscere di sier Zuam Paulo, cogitando questi furiosamente sul motivo di quelle continue visite da parte dei franco-imperiali: non si trattava solo di dimostrazioni di forza, dovevano essere venuti in esplorazione del terreno, alla ricerca di un punto debole delle mura … E forse anche per compiere azioni di disturbo e di saccheggio, laddove possibile. Colpendoli in punti diversi sarebbe stato più difficile contrastarli, anche se …

Poteva benissimo trattarsi di una trappola da parte del maresciallo francese, onde fiaccare il loro spirito e privarli di uomini.

Zuam Paulo Gradenigo sperò ardentemente che Vitello Vitelli, quel giorno a presidio di Porta Altinia, fosse esentato dalla presenza di un contingente franco-imperiale. Con Renzo di Ceri s’era raccomandato poi di non uscire dalla città, limitandosi a respingere a cannonate gli assedianti, giunti senza artiglieria e dunque più vulnerabili. L’Orsini – forse quella mattina innervosito dalle fitte di dolore alla gamba, provocategli dalla piaga del malfrancese – aveva ribattuto di lasciare agli sbarbatelli tali raccomandazioni. Gradenigo aveva per un soffio mancato di ricresimare senz’olio quel laziale impertinente.

“Inviate quest’ordine al capitano Andrea Vassallo: dite di armare i burchi di due falconetti ciascuno ed imbarcare archibugieri e balestrieri quanti che ne può portare e che si spostino a pattugliare il fiume all’altezza di Porta Altinia”, istruì il provveditore un suo provvisionato, il quale diede di sperone al cavallo, facendo dietrofront e sparendo rapidissimo tra le viuzze di Treviso. 

 

***

 

Sebastiano del Manzino e i suoi fanti camminavano silenziosissimi rasente muro a guisa di lucertola, e come tali appoggiarono le scale, pronti a scalare la rocca, le mani leggermente sudate dentro i guanti dalla tensione e respirando appena dal naso. Tra i suoi uomini s’erano uniti dei soavesi ribelli agli invasori, i quali, conoscendo a menadito il Castello, lo aveva condotto nel punto meno visibile al nemico.

Il condottiero bolognese aveva scrutato attentamente le caminade prima dal suo nascondiglio boschivo e poi dal basso, cercando di capire le dinamiche di ronda del nemico, in modo così da calcolare quanto tempo gli sarebbe occorso per salire senza imbattersi immediatamente in una sentinella. Finora aveva ne aveva contate quindici, però qualcuno in più poteva sempre sbucare fuori.

Accertatosi come ogni scala fosse stata posizionata a dovere, Sebastiano sguainò circospetto la spada e, appoggiando il piede sul primo gradino, incitò silenziosamente il resto dei fanti a seguirlo in fretta, in sincronia impeccabile. Ogni tanto, udendo qualche rumore sospetto, il bolognese e i suoi compagni si appiattivano contro le mura, trattenendo il fiato e serrando la presa, per poi ripartire più veloci di prima, finché non raggiunsero l’agognato parapetto con le sue merlature. Scoccando una veloce occhiata attorno e trovando la caminada sgombra di sentinelle, il condottiero s’infilò dentro tra lo spazio dei merli, scavalcando la balaustra ed aiutando il resto dei fanti a raggiungerlo, aguzzando l’orecchio e la vista, vigilantissimo.

Quand’ecco, che un rumore inaspettato di passi lo colse alle spalle e, girandosi di scatto, Sebastiano si trovò faccia a faccia con un soldato probabilmente mantovano, il quale rimase per un brevissimo attimo lì impietrito, il viso pallidissimo e sgomento per quell’inaspettata apparizione. La bocca della sentinella si piegò tuttavia in una smorfia allarmata, gridando a pieni polmoni: “Fate buona guardia! Fate buona guardia!” e girò fulmineo sui tacchi, correndo in direzione opposta onde avvisare i suoi commilitoni.

Il Manzino non gli concesse tal privilegio. “Fai tu buona guardia”, berciò al fuggitivo e peggio d’un bracco scattò al suo inseguimento. L’afferrò per i capelli rimasti scoperti dall’elmo e, tirato il mantovano a sé tramite uno strattone talmente forte e brusco da costringere quest’ultimo in ginocchio, affondò dall’alto la punta della sua spada tra spalla e gola. Un’altra guardia, giunta in tardivo soccorso del compagno, caricò il bolognese con la sua picca, prontamente deviata dalla posta di coda longa di quest’ultimo, che gli permise d’afferrare la lancia, di tirarla a sé e d’avvicinarsi quel tanto da trapassare la gola anche di quell’avversario.

Nettandosi via dal viso gli schizzi di sangue e i rivoletti di sudore, Sebastiano portò la lama in posta di donna destraza e, alla vista del resto del nemico appropinquarsi ma certo della massiccia presenza dei suoi uomini dietro di sé, urlò con quanto fiato avesse nei polmoni: “Marco! Marco!” schizzando incontro agli altrettanti determinati difensori della rocca. “Tagliateli tutti a pezzi, perdio!”

Appostato ad una delle due porte rimaste, Ferigo Contarini si calò la celata dell’elmo non appena le sue orecchie captarono il veneziano ruggito di battaglia tosto seguito da “Armi! Armi!” degli assediati che, a giudicare dal trambusto sempre più vicino, si stavano apprestando a serrare i ranghi e porsi in ordine, o per combattere o per fuggire.

“Bruciate la porta!”, ordinò allora il giovane provveditore degli stradioti. “Pronte le lance! Nessuno esce vivo da Soave, finché non s’arrendono!”

In un battibaleno, il legno dinanzi a loro divenne un’unica lingua di fuoco, guizzando in alto d’arancio e denso fumo nero verso il cielo a malapena rosato del primo mattino, accompagnato questo falò improvvisato dalla lugubre cadenza dei tamburi. Alte grida di stupore e panico si levarono nell’aria e Ferigo poteva ben immaginare le reazioni scomposte e isteriche dei soldati intrappolati lì dentro, del loro frenetico ragionare in cerca di una rapida soluzione. Tamburellò le dita sull’elsa della spada, in attesa della loro decisione finale.

Guido Rangoni, davanti alla porta vicentina, diede il segnale di bruciare anche quest’ultima, raddoppiando le grida di sconcerto degli assediati, finiti invero come il proverbiale sorcio.

La prima mossa era stata fatta: ora toccava ai Collegati.

“Si aprono le porte! Si aprono le porte!”

 

***

 

Mercurio, non vedendo ritornare il terzo squadrone staccatosi in direzione del Terraglio, aveva richiesto e ottenuto il permesso dall’altrettanto apprensivo La Palice di raggiungere i ritardatari, lasciando Leka a capo del resto degli stradioti, anche per distrarsi dalla guerra di nervi ingaggiata sia da parte dei Collegati che dei veneziani, schieratisi ora non soltanto a Porta San Tomaso ma anche a Porta Santi Quaranta, sfidandoli ad avvicinarsi.

Per questo motivo il greco-albanese non aveva interpretato favorevolmente la sparizione del terzo contingente, non famigliare del territorio nonché il più isolato rispetto agli altri e di conseguenza facile preda di agguati.

E di fatti, sopraggiungendo in un punto piuttosto remoto lungo il fiume, il Bua s’imbatté in quel che doveva esser stato uno scontro particolarmente violento, scovando dappertutto gendarmi riversi disordinatamente nel fango e spogliati dei loro averi, similmente agli otto sopravvissuti già incatenati e pronti ad essere deportati in città. I cavalli degli sconfitti – dodici in totale - nitrivano nervosi e tentavano di ribellarsi alla presa dei nuovi padroni, tutti stradioti tra i quali Mercurio riconobbe il capitano Teodoro Ralli e accanto a lui il suo ex-prigioniero e  fratello di Zilio, Teodoro Madalo.

Al pensiero del suo fedele luogotenente, il condottiero stringe convulsamente le redini mentre estraeva la scimitarra, deciso come non mai di ribaltare la situazione: da oggi, si ripromise, la fortuna avrebbe smesso d’arridere ai veneziani.

“San Giorgio! San Giorgio!”, gridò Mercurio, dando di sperone al suo corsiero e gettandosi quasi in braccio all’avversario, cogliendolo impreparato e disperdendolo, senza neppure concedere ai marciani il lusso di capire quanto stesse accadendo.

Gli sfortunati, che non ebbero abbastanza prontezza di riflessi di rimontare a cavallo, furono tra le prime vittime, falciati via dall’impeto del primo scontro; i cavalleggeri francesi puntarono sui loro compagni prigionieri, rompendo le loro catene con un colpo di spada, issandoseli poi in sella e galoppando distante dalla mischia.

Quanto a Mercurio, esauritosi l’effetto sorpresa, si trovava impegnato a forzare la fila difensiva improvvisata dal resto degli stradioti marciani, con a testa il Ralli e Andrea Pera che spingevano e pressavano i fianchi dei propri cavalli contro quelli dei francesi in una sorta di lotta corpo a corpo, oltre che scimitarra contro scimitarra. Sbattendo le ciglia madide di sudore sotto a celata, il Bua s’accorse, dagli scatti improvvisi del suo corsiero, del piano dei due capitani: il terreno progressivamente più scivoloso e instabile significava che li stavano costringendo ad indietreggiare verso le golene, per poi buttarli in acqua.

Inaccettabile, grugnì mentalmente il condottiero, schivando un affondo di Andrea Pera e battendo di piatto la sua scimitarra contro il cavallo del nemico; immediatamente l’animale, confuso e stizzito, s’innervosì e s’impennò, scalciando e rompendo la formazione, il suo cavaliere in crescente difficoltà. Sogghignando crudele, Mercurio si sbilanciò in avanti e colpì il capitano Pera prima al fianco, poi alla gamba e tentò di recidere la cinghia del sottopancia, sennonché il corsiero, roteando sulle braccia, rispose agitando gli zoccoli delle gambe contro il greco-albanese, che dovette rinculare velocissimo. Nel medesimo istante, l’improvviso scatto sbalzò di sella Andrea che già ferito cadde e batté la schiena per terra, in un sinistro scricchiolio di ossa, seguito da un flebile grido di protesta quando la bestia, libera da ogni controllo, prese a galoppare via senza direzione, trascinando seco lo stradiota, il cui piede era rimasto incastrato nella staffa.

“Theodoros! Vai a recuperarlo!”, ordinò il capitano Ralli al suo sottoposto, il quale, per tutta risposta, balbettò qualche inintelligibile parola di protesta. “Vai!”, ribadì suo fratello Giorgio, serrando i ranghi così da permettergli di staccarsi senza creare una breccia utile al nemico.

Mercurio, pur non afferrando ogni singolo e perfetto lemma di quel discorso, ne intuì il contenuto di base e girò il suo cavallo per partire all’inseguimento di Madalo; tuttavia, Teodoro Ralli gli si parò innanzi, bloccandolo e armeggiando così d’impossessarsi e manomettere i finimenti della sua cavalcatura. Vomitando una mezza imprecazione e una mezza bestemmia, il Bua girò l’elsa della sua scimitarra e sbatté il pomello contro l’elmo del Ralli col duplice effetto di disarmarlo e d’intontirlo. Dopodiché, portatosi appresso, gli circondò il braccio attorno al collo, serrandolo intanto che decideva se strangolare il conterraneo o di farlo suo prigioniero. Teodoro, abbandonate le redini, d’istinto afferrò invece avambraccio di Mercurio e prese a battere i pugni contro di esso e il gomito, sfinendo la presa ferrea del ringhiante greco-albanese.

D’un tratto, alle sue spalle, quest’ultimo si sentì trascinare all’indietro e sia lui che il Ralli rotolarono per terra in un groviglio di corpi e fango. Postosi rapido in piedi e alzandosi la celata lercia, il Bua, perduta momentaneamente la sua arma, sparò un gancio a Giorgio Madalo, venuto in soccorso del suo superiore, e lo spedì contro un albero che però per effetto di rimbalzo glielo riportò davanti e stavolta il fratello di Zilio non esitò a sfilare il suo pugnale da sotto la casacca, sennonché due uomini del greco-albanese gli si buttarono di peso addosso e lo costrinsero in ginocchio, tenendolo fermo per ambedue le braccia. Ciò permise a Mercurio di concentrarsi su Teodoro Ralli, ancora barcollante e in affanno per il mancato ossigeno: caricandolo a guisa di toro, il Bua atterrò l’uomo, ponendosi a cavalcioni sopra di lui, e gli scaricò una serie di pugni  ben assestati così da impedirgli ogni sorta di reazione, fino a renderlo totalmente innocuo.

“Oggi vinciamo noi!”, ansimò l’epirota, le cui nocche bruciavano pur coperte dal cuoio dei guanti. “Oggi la Signoria ha perso. Oggi inizia la fine di Treviso!”

Ridendo sguaiatamente, i denti macchiati di sangue, Teodoro Ralli gli sputò in faccia. “Malakas!”, gracchiò. “Hai vinto solo la tua tomba!” e prima che l’altro potesse esigere spiegazioni (o ammazzarlo per spregio) il sibilo di una freccia e il gorgoglio d’un cavalleggero morente indusse Mercurio a voltarsi di scatto e i suoi occhi si dilatarono d’impaurito stupore allo sgradito spettacolo dei capitani Vitello Vitelli e Renzo di Ceri sopraggiungere in fretta assieme ai loro balestrieri e fanti, già in schieramento d’attacco. La vista in particolare delle due anguille incrociate sull’impresa dell’Orsini degli Anguillara [3] rievocò nel Bua l’antica e terrificante ansia sperimentata durante la rotta del Garigliano, laddove anche in quel frangente i due condottieri s’erano affrontati da avversari.

Ghermito e issato Ralli per un braccio, Mercurio recuperò in fretta la sua cavalcatura e, una volta in sella, con dei lacci improvvisati legò al pomello i polsi del suo prigioniero. “Ritirata! Ritirata!”, ordinò infine ai suoi. “Prendete ostaggio chi potete e ritiriamoci!”

“Cammina, Madalo!”, grugnì uno stradiota a Giorgio, rimasto in camicia dopo che gli avevano levato ogni suo avere personale. Con la scusa di farsi ammanettare, ecco che il fratello di Zilio gli elargì un’inaspettata spallata, approfittandone per sottrarre al suo carceriere il pugnale e piantarglielo dritto nell’occhio; dopodiché, giratosi, recise la gola di un altro stradiota e scappò via per il bosco, zigzagando a sufficienza così da scoraggiare i cavalleggeri francesi dall’inseguirlo, temendo quest’ultimi la presenza d’eventuali nemici appostati tra i fitti alberi.

“Lasciate perdere! All’accampamento!”, diede di sperone il Bua e i suoi uomini lo imitarono svelti, evitando così uno scontro coi i marciani giunti in soccorso dei loro stradioti.

Tre prigionieri soltanto – redasse il bilancio finale Mercurio - tra cui il capitano Teodoro Ralli. Magro bottino, certo, tuttavia ciò che bastava per inviare un chiaro messaggio al provveditore Gradenigo: Treviso non era così imprendibile come credeva né i suoi soldati imbattibili.

Anche perché, ripensando al luogo dello scontro appena terminato, il condottiero credeva ora d’aver scoperto finalmente il punto debole della città.

 

***

 

Galeazzo Sforza ricacciò indietro un conato di vomito, detergendosi la fronte pallida e sudaticcia col dorso della mano guantata, maledicendo l’infelice connubio del morbo che da giorni lo tartassava e del tanfo di fumo, il quale non cessava di molestargli lo stomaco, sconquassandoglielo. Il suo scudiero, tenendolo per una gamba, lo aiutò ad issarsi fino a sedersi in sella, i suoi occhi scuri scrutanti apprensivi il suo signore, la cui salute non aveva minimamente accennato ad un qualsivoglia miglioramento. E adesso, ad aggiungere l’insulto all’ingiuria, i veneziani avevano attaccato all’improvviso Soave, quella che i gonzagheschi avevano creduto una fortezza insospettabile, fuori dal loro raggio d’azione, e pertanto perfetta come tappa di sosta prima di procedere verso Treviso. Invece, le grida inferocite dei marciani s’avvicinavano sempre di più alla cittadella, unito ai rantoli dei loro compagni passati a fil di spada, mentre dalle finestre s’oscurava il panorama, coperto da dense cortine di fumo puzzolente.

“Signor Galeazzo!”, avvicinò Sebastiano d’Este al contino di Melzo, scuotendolo leggermente sulla spalla. “Dobbiamo andare!”, lo esortò, nel frattempo che indossava l’elmo con la mano libera, l’altra impegnata a tenere la lancia.

Il figlio illegittimo del fu Duca di Milano sbatté le palpebre doloranti, aspirando in un battito di denti l’aria d’un tratto gelida, come freddi erano i brividi e il sudore che gli percorrevano la schiena, sotto l’armatura. Stringendo a malapena le redini, lo Sforza annuì docile e batté i fianchi del suo cavallo, seguendo i suoi compagni verso una delle due porte del Castello di Soave.

Resisi conto di trovarsi dinanzi a due scelte davvero spinose – se affrontare i veneziani dentro o fuori le mura – Sebastiano d’Este aveva convinto gli altri capi a tentare una sortita in campo aperto, confidando nella forza e nella compattezza della loro cavalleria, una volta che gli uomini d’arme avessero distratto il nemico. Non confidava certo di salvare tutti, però buona parte sì e forse qualche possibilità sussisteva di scampare alla cattura, riparando a Verona.

Dovevano però agire in fretta.

“Andiamo! Andiamo!”, incitò il capitano Estense i suoi cavalleggeri in direzione di ambedue le porte, così da dividersi e tentare di sfondare almeno uno dei contingenti nemici. I soldati risposero in bellicoso eco, risuonando il rimbombo di numerosi zoccoli per terra, unendosi al clamore di ferro dentro e fuori la fortezza.

Ferdinando dal Persico si portò accanto a Galeazzo Sforza, cavalcando accanto a lui nelle sicure retrovie, assicurandosi che l’uomo, ciondolante, rimanesse in sella. “State di buona voglia”, lo rassicurò, raddrizzandogli il busto ricurvo in avanti. “Presto raggiungeremo i signori Giovanni e Federico e vedrete che vi rimetterete in sesto!”, disse, ricevendo un sorriso tirato da parte dello Sforza a mo’ di ringraziamento.

Il conte cremonese ebbe appena tempo d’imitarlo, che la sua bocca si piegò in una smorfia terrorizzata: la sortita di Sebastiano d’Este e della sua compagnia non solo era stata respinta e la maggior parte dei soldati finiti nelle fosse a gambe all'aria ma, in una violenta contromossa, i veneziani li stavano costringendo a rientrare nella fortezza, i loro balestrieri a cavallo che scoccavano incessanti piogge di frecce mentre gli stradioti infilzavano e spingevano indietro gli assediati. Ferdinando dal Persico riconobbe con orrore in prima fila i Rangoni, combattendo i tre fratelli Guido, Ludovico e Francesco alla stregua di diavoli dell’inferno, aprendosi questi un varco tra i gonzagheschi e avanzando sui loro cadaveri, i quali s’accumulavano senza sosta, come le mosche affogate nell’aceto.

Difendendo col braccio il contino di Melzo, il cremonese provò ad arretrare e a giocarsi il tutto per tutto uscendo dall’altra porta; purtroppo per lui, il conte Guido lo aveva adocchiato e gli galoppava incontro, la zagaglia pronta a colpire o lui o lo Sforza. Fortunatamente, un cavalleggero mantovano si frappose tra i due e il modenese, permettendo a Ferdinando d’afferrare le redini di Galeazzo e di rifugiarsi all’interno della cittadella e poi dentro il dongione, avendo infatti scoperto come anche la seconda porta fosse ormai in procinto di venir forzata dai veneziani.

Avanzando a fatica tra la ressa di soldati sbandati e fuggitivi, il conte cremonese si salvò per un soffio dal compatto muro dei fanti di Sebastiano del Manzino, sbucati all’improvviso manco la terra li avesse vomitati, le armature, le armi fino al viso lordi di sangue, tanto da risaltare il biancore degli occhi, ingigantendoli.

Emettendo urla neppure associabili alla razza umana, i soldati veneziani partirono all’assalto, spazzando via avversario dopo avversario come se stessero mietendo spighe di grano; quelli in prima fila, poi, allungavano il braccio ai finimenti dei cavalli, cercando di reciderli o di sbilanciare i loro cavalieri, colpendoli alle gambe, ai fianchi, ovunque riuscissero a raggiungerli. Ferdinando dal Persico calava alla rinfusa fendenti in difesa sua e del contino di Melzo e al contempo si premurava di mantenere il controllo sul suo sempre più nervoso e spaventato destriero, insidiato dai marciani. Portando il cavallo ad impennarsi e a battere gli zoccoli delle braccia contro il nemico, il conte cremonese si creò infine un varco e, trasferito Galeazzo sulla sua sella, Ferdinando partì in galoppo verso il dongione senza guardarsi indietro.

Ma lo Sforza, pur semisvenuto dalla febbre, sì che non poteva sottrarsi dalla grottesca visione della strage in cui lo scontro, pian pianino, si stava trasformando: i cavalleggeri gonzagheschi, abbrancati dai fanti e soprattutto dai vendicativi soavesi, venivano trascinati per terra e lì trafitti una, dieci, venti volte. Oppure, scaraventati contro il primo muro disponibile e lì tramutati in bersagli viventi dai balestrieri. Galeazzo vide un soavese aprire a metà la faccia di un soldato, cui schizzarono via i bulbi oculari e parte delle cervella. Gli stradioti marciani, armati di picche, calando quest’ultime perforavano sia uomini d’arme sia cavalieri, fino a piantarli al terreno e una volta lì inchiodati lasciavano ai loro compagni a piedi l’onore di terminare l’opera, scannandoli.

Era questa la fine che sarebbe spettata anche a lui?

“Al dongione! Al dongione!”

Guido Rangoni, manovrando nervosamente il suo cavallo in modo da girarsi attorno, scrutava avido nel marasma generale alla ricerca dei due conti, sfuggitigli per il rotto della cuffia. Spronò la sua bestia in direzione della cittadella, saltando sopra ai cadaveri e passando a fil di spada chiunque gli sbarrasse la strada, i balestrieri dietro di lui a coprirgli le spalle.

“Sforza! Persico! E Rossi! Quei figli di puttana sono miei!”, gridò e scese da cavallo una volta giunto davanti al portone d’ingresso del dongione, che già ci si stava premurando di sfondare.

“Attenzione!”, l’avvertì suo fratello Ludovico, riparandosi sotto la targa e appiattendosi contro il muro, schivando la freccia scagliatagli dai balestrieri nemici dalla finestrella del dongione. Senza tanti complimenti, uno della compagnia dei Rangoni lo puntò e lo centrò in pieno: l’avversario, esalando un roco gemito, cadde all’indietro, sparendo all’interno dell’edificio.

“Sbarrate la porta! Sbarratela!”, ordinava nel frattanto Ferdinando dal Persico, portando Galeazzo lontano da essa e sistemandosi davanti a lui a mo’ di scudo, la spada sguainata. Un sudore freddo gli colava dietro la nuca e il cuore gli martellava in gola, attenendo inesorabilmente il momento in cui i veneziani li avrebbero raggiunti … Allo stesso modo, il contino di Melzo,  pur a stento in piedi, s’incoraggiava, ricordandosi delle battaglie affrontate. Sei sopravvissuto a quelle, sopravvivrai anche a quest’altra!

Non appena il portone d’ingresso venne distrutto, Guido e i suoi fratelli per poco non si tuffarono dentro il dongione: spada e daga in mano, presero a correre invasati verso le scale, balzando a due a due e liberandosi in fretta della strenua resistenza mossali. Non risparmiarono nessuno, neanche coloro che, nella ressa, inciampavano giù per le scale: subito i fanti e gli stradioti dei Rangoni, rimasti in basso, li impironavano e scalciavano via i morenti.

“Corpo d’un diavolo!”, imprecò il modenese, imbattendosi nell’immobile porta serrata e dalla frustrazione le diede un poderoso calcio. Sgomitando tra i suoi compagni, un soavese armato d’ascia si fece avanti e, chiedendo implicitamente al condottiero di scansarsi, calò la lama contro il legno, sullo stesso punto, finché la luce prese a filtrare dal buco creatosi e allargato dalle impazienti mani dei marciani, incuranti delle schegge.

Ferdinando dal Persico levò in alto la guardia, osservando stranito la porta finire sbrindellata pezzo per pezzo malgrado le sedie e i cassoni posti a mo’ di barricata. In uno schiocco essa cedette completamente e, scardinata, da essa sfociarono in un fiume in piena gli assedianti e in prima fila Guido Rangoni, il quale in un balzo felino si scagliò contro il conte cremonese con tal foga da distruggere in un battibaleno la difesa di Ferdinando, relegandolo in un angolo del muro. Il condottiero modenese ne approfittò per disarmare l’avversario, di cui afferrò e torse il polso, quando notò come si stesse preparando ad estrarre il pugnale dalla cintura.

“Due pesci in un colpo solo, gran pesca oggidì!”, scherzò macabro Guido, premendo lievemente il filo dritto della spada sulla gola del conte cremonese, intanto che suo fratello Ludovico toglieva ogni arma a Galeazzo Sforza, sconfitto dopo una debole resistenza. Francesco, invece, era proseguito oltre alla ricerca di Benedetto de’ Rossi, nascostosi da qualche parte nel dongione.

Occupato con successo il cortile del Castello, sier Ferigo Contarini seguiva impassibile l’andamento dell’assedio adesso mutatosi in una gara al massacro. Il giovane provveditore, circondato dai suoi stradioti, trottava in direzione della cittadella, preparandosi a terminare l’impresa prima d’issare sulla torre il vessillo dorato di San Marco.

“Ormai Soave è nostra”, lo informò soddisfatto Domenico Busicchio, capitano degli stradioti, “al vostro segnale, possiamo chiudere qui la faccenda e incominciare a far bottino e prigionieri.”

Il suo superiore strinse la bocca in una linea dura. “Bottino sì. Prigionieri no”, ribatté secco il veneziano. “Si continua ad oltranza.”

“Ma ormai abbiamo vinto!”

“Voi e i vostri uomini volete oro. Ma qui i soavesi vogliono sangue e vendetta. E l’avranno, signor Domenico, come promesso.”

Lo stradiota scoccò un’occhiata obliqua ad un gruppo di soavesi che s’accaniva sui gonzagheschi, tagliandoli letteralmente a pezzi e macchiando di rosso le mura del Castello, insultando dei peggiori epiteti loro, le loro madri, i loro morti e ovviamente quella “gran vaca putana di la Marchesana”.

Poco distante da costoro, dei soldati avevano incominciato a depredare i cadaveri degli sconfitti, mentre altri trascinavano delle urlanti donne fuori in cortile – prostitute, indubbiamente, a giudicare dai vestiti. Una di queste, ribellatasi, venne tenuta immobile per le ascelle da un fante, mentre il suo compagno, afferrato lo scollo dell’abito, glielo apriva strappandolo a metà fino a trovare sotto d’esso una cintura con una scarsella piena di danari. Dopodiché, intascato il bottino, l’uomo pugnalò la meretrice sul basso ventre e lei cadde bocconi vomitando sangue. Le sue colleghe subirono la medesima sorte, derubate prima e ammazzate poi, la fame d’oro più forte della carne.

“Quando allora, signor provveditore, potremo fare prigionieri?”

Il Contarini si calò la celata e diede di sperone al suo cavallo, rispondendo così a Domenico.

Ferigo aveva finalmente individuato il luogotenente del Gonzaga di Bozzolo, Sebastiano d’Este, il quale stava riorganizzando i suoi cavalleggeri in un ultimo disperato tentativo di resistenza. Il ghigno del giovane provveditore s’allargò in uno talmente ferino, da sembrar strappato al divino Marte.

I primi ad uscire dalle due porte di Soave erano stati gli uomini d’arme dell’Estense, evidentemente per aprire il passaggio ai cavalleggeri e ai loro capitani, diversivo che il Contarini aveva lodato per la sua audacia strategica. Ma lì finiva la sua cortesia cavalleresca: ai suoi occhi, costoro non soltanto erano invasori, ma anche complici dei francesi e dei tedeschi, di quegli assassini ch’avevano trucidato orrendamente  366 soavesi, bruciando il paese e infierendo sui loro corpi, negando a questi innocenti perfino una sepoltura cristiana. Un groppo in gola gli si era formato all’udire i tremendi racconti dei sopravvissuti, portando il patrizio ad accogliere prontamente le loro richieste di partecipare all’assedio per riprendersi la loro città e il Castello.

E il loro odio era divenuto il suo. A Ferigo non importava delle giustificazioni dei Gonzaga, degli Este, di qualsiasi famiglia signorile italiana ostile alla Signoria: a lui apparivano tanto sporche e vili quanto i franco-imperiali. Avevano voluto allearsi con quest’ultimi per saltare sul carro dei vincitori? Benissimo, ne avrebbero condiviso la sorte, saltando nella fossa comune.

Dunque, il giovane provveditore lasciò che codesta fredda collera vendicatrice guidasse la sua spada, quando ingaggiò un serratissimo duello a cavallo contro l’Estense, costringendolo ad alzare costantemente la guardia senza concedergli né respiro né una sola apertura per la controffensiva. Voleva proprio contemplare l’umiliazione della sconfitta sul suo volto, ridergli in faccia, se non addirittura staccargli la testa. Sangue. Sangue. Sangue!

Sebastiano d’Este bloccò infine un suo fendente, cadendo però nella trappola del veneziano: roteando in un stridulo gargarismo le lame, il Contarini allontanò il braccio dell’avversario, rendendogli accessibile il petto che colpì tramite una mirata e potente gomitata alla base del collo, mozzandogli il fiato. Agguantatolo, Ferigo lo denudò di malagrazia dell’elmo, afferrandolo per i capelli biondi e sudati, costringendolo a mostrare in sottomissione la gola.  

“Soave è nostra e voi, voi siete prigioniero della Signoria!”, sibilò trionfante Ferigo e quello corrispose all’agognato segnale, che decretava la fine di ogni combattimento e l’inizio ufficiale della tanto agognata corsa al bottino, cui i marciani s’abbandonarono esultanti.

Trecento bellissimi cavalli mantovani vennero raggruppati e accarezzati in genuino apprezzamento sia dagli stradioti che dai cavalleggeri, i quali discutevano animatamente tra di loro, decantandone le qualità e mangiandoseli a momenti cogli occhi adoranti. Alcuni controllavano i denti degli animali, altri sotto gli zoccoli, taluni ne accarezzavano dolcemente i fianchi nervosi, calmandoli. Più che dei reduci da uno scontro, parevano dei mercanti ad una fiera, se non fossero stati circondati da corpi seminudi e mutilati, dal tanfo di fumo, di sangue, di escrementi. Il nemico, sconfitto, giaceva agli angoli già dimenticato oppure in catene, come quei trenta fortunati uomini d’arme che, per aver resistito fino all’ultimo, erano riusciti a salvarsi dalla carneficina.

“Signor Pellegrino, quando avrete ripreso fiato, partite alla volta di Padoa per riferire la notizia di questa nostra vittoria”, istruì Ferigo Contarini il nipote del capitano stradiota, finendo di scrivere un veloce resoconto di quanto avvenuto e sperando che la sua calligrafia risultasse leggibile, in quanto redatto ancora in sella. “Signor Domenico, voi invece preparate i carri: voglio che i capi nemici siano ben visibili, quando entreranno in città! Riguardo noialtri, una volta raggruppata la compagnia dei Rangoni, proseguiremo fino a Montagnana e …”

All’udire ciò Sebastiano d’Este ebbe uno scatto d’orgogliosa ribellione e digrignò i denti, agitando i polsi costretti nelle manette. “Chi vi credete d’essere?!”, lo interruppe indignato, avanzando di qualche passo verso il giovane provveditore, sennonché due fanti lo bloccarono prontamente. “Esibirci su di un carro? Come schiavi? Vi pensate forse un generale romano in trionfo? Scipione l’Africano?”, berciò malevolo, deridendolo. “Siete bestie voialtri, senza alcun rispetto per l’avversario! Tipico di voi veneziani, così sprezzanti verso il prossimo e pieni di boria e rancore! Ma sappiate che il re Ludovico e l’Imperatore Massimiliano non lasceranno impunito quest’affronto, avremo la nostra  …”

“Ma per favore, chiudete quella fogna e smettetela di lagnarvi peggio d’un infante!”, lo zittì perentorio e a voce alta il Contarini, le cui gote però s’erano tinte di scarlatto e i suoi occhi incominciarono a brillare di una fredda luce assassina, la medesima quando s’apprestava a frustare sulla pubblica piazza gli stradioti indisciplinati.

Portandosi davanti al prigioniero, Ferigo afferrò il viso di Sebastiano, stringendolo fino ad imprimervi il segno delle unghie. “E non mi fate inutili e patetici predicozzi: credete che non conosca il vostro disprezzo per noi? Cani veneziani, gli odiatissimi veneziani, i nostri nemici giurati, ecco come ci chiamate! Noi saremo anche alteri e vendicativi, ma voi vi siete piegati alla stregua di puttane al Re Cristianissimo e all’Imperatore, credendoli dei Giove in terra e onnipotenti, pronti a correre in vostra difesa al minimo accenno, razza di donnicciole petulanti e invidiose! Incapaci nella guerra, ma abilissimi al tradimento e a persuadere gli altri a combattere per le vostre cause! Mi fate schifo quanti che siete!”, sibilò astioso il patrizio, lasciando trapelare tutto il veleno accumulato in due anni di guerra, depurandosi lui stesso dagli orrori cui aveva assistito e che aveva dovuto soffocare onde non perdere lucidità. Non si accorse dei soavesi riunitisi dietro di lui, del loro cupo mormorio d’assenso, degli sguardi feroci di chi aveva perduto casa, figli, genitori, consorti in nome delle altrui ambizioni e che ora esigeva la sua libbra di carne, anche se si trattava d’un misero sostituto.

“Concedetemi di darvi un motivo per cui odiarci sul serio, allora”, gli confidò Ferigo, reclinando beffardo il capo. “La Signoria ha destinato voi e i vostri compagni alle Orbe. Le conoscete?”, cinguettò crudele dinanzi all’espressione di puro sgomento dell’Estense. “Sono celle sotterranee, laddove non filtra il benché minimo raggio di sole e si dice che, a seconda della marea, esse si riempiano d’acqua”, gli descrisse minuziosamente, deliziandosi del terrore del suo nemico. “Prima perderete la vista; poi vi si spezzeranno le ossa; i reumatismi vi toglieranno ogni requie; vi piglierete un bel raffreddamento di polmoni e i granchi entrati assieme all’acqua semplicemente adoreranno nutrirsi della vostra nobile carne. In ogni caso, voi uscirete in bara dalle Orbe, ma non in breve tempo – oh no!-  questo ve l’assicuro: faremo il possibile per tenere voi e i vostri amici ben vispi e allegri, finché non impazzirete e invocherete la morte. E neanche allora vi sarà concessa e, se lo sarà, solamente quando ne avremo voglia e con arma a nostra discrezione. I vostri corpi deformi e ciechi serviranno a mostrare al mondo la misericordia della Signoria, verso coloro che vogliono distruggerla!”, ringhiò il giovane provveditore, mollando violentemente la presa dalla mandibola di Sebastiano.

“Ora odiaci pure, Estense, odiaci pure mentre rimpiangerai questo giorno, quello in cui vi ho risparmiato la vita!”, concluse gelido Ferigo. Ad un rapido cenno del capo del patrizio, i fanti a sua custodia spinsero il luogotenente sconfitto verso il carro, costringendolo a salire, mentre questi sputava maledizioni su maledizioni contro la Serenissima e i suoi diavoli che partoriva al posto di cittadini.   

Il Contarini, sordo e cieco a tali scenate, montò ineffabile a cavallo e si diresse verso il dongione per accertarsi che i fratelli Rangoni avessero catturato gli altri comandanti, come precedentemente raccomandatosi.

Quella sera, a Padova, i provveditori sier Christofal Moro e sier Polo Capello inviavano a Venezia una consolatrice lista per mitigare la dolorosa perdita di Gradisca:

 

Questi sono la nome di capi presi et sarano conduti im Padoa.

El contin di Melz, fo fiol dil ducha Galeazo Maria di Milan, naturale et cugnato di lo imperator, amalato.

El signor Sebastiano da Este, fo fiol dil signor Nicolò, loco tenente de signori di Bozolo et zerman dil ducha di Ferara, foraussito.

Domino Manfredo de Landriano, milanese, capo di balestrieri 50.

Domino Beneto di Rossi, da Parma, capetanio di homeni d’arme 50 et di balestrieri 100, al qual lo imperator à donato lochi per ducati XVI milia di valuta.

El conte Ferando dal Persico, cremonese, capo di balestrieri 50.

Jacomo Tristam, citadino veronese, rebello manifesto.

 

 

***

 

Hironimo strisciò sulla paglia fintanto che la catena fissata al palo glielo permetteva, cercando di scostare un lembo della tenda separatoria così da sbirciare quanto stava accadendo.

Un vivace brusio di voci più o meno alterate e di passi concitati lo aveva distratto dalle sue orazioni, l’unica consolazione che gli era rimasta onde mantenere la lucidità in quell’eterno limbo. Ad incuriosirlo erano stata la realizzazione che, tra i nuovi arrivati dentro il padiglione, non vi si trovavano soltanto a Mercurio, Leka e ai loro stradioti: sia il tono che il timbro di voce delineavano situazioni diverse dalle usuali conversazioni, cui il giovane patrizio s’era abituato. Sbuffi, imprecazioni, un rapidissimo e ostile scambio di botta e risposta in greco, elementi totalmente estranei a quelli di un comandante in procinto o di elaborare un piano d’attacco o di impartire degli ordini.

Appoggiandosi  sulla ballotta e allungando quanto più possibile il collo dolorante, Hironimo riuscì a scorgere le figure di Mercurio e di Leka, in piedi e in atteggiamento assai intimidatorio dinanzi al misterioso terzo interlocutore, costretto quest’ultimo su di uno sgabello, in camicia e le mani legate dietro la schiena. A giudicare dalla barba e dalle trecce, doveva trattarsi anch’egli di uno stradiota; tuttavia, il Miani notò come i due comandanti si limitassero a colpire il prigioniero solo all’addome, alla schiena e ogni tanto alla faccia ma senza molta convinzione, e ne dedusse che doveva trattarsi di un loro parigrado o comunque qualcuno di abbastanza importante da non torturarlo senza penarsi delle conseguenze.

Un pugno dritto al naso dello stradiota lo costrinse a gettar indietro il capo, mentre dalle nari straripavano già pingui rivoletti di sangue e Hironimo a quella vista rabbrividì, memore della medesima cortesia subita per mano di Mercurio, quando gli aveva gonfiato la faccia di cazzotti.

“Ebbene?”

“Ebbene niente.”

“Oh, fai il coraggioso adesso?”

“Insultami pure, tanto da me non saprai niente!”

Il Bua si sfilò la casacca, la ripiegò con cura, si arrotolò la camicia e piazzò un gancio all’addome di Teodoro Ralli, piegandosi quest’ultimo a metà in un sordo grugnito.

“Parla o quand’è vero Theos, ti ammazzo e non lentamente”, l’ammonì calmissimo l’epirota, girando intorno al prigioniero e colpendolo di nuovo stavolta tra le scapole. “In quale punto la difesa di Treviso è più debole? Quale porta è peggio difesa? Come sono messi con i rifornimenti? Armi? Quanti uomini ci sono alla custodia?”

“E quante domande fai? Chi sono io, il provveditore?”, rise Teodoro, sputando sangue e saliva. “Caro amico mio, anche se potessi risponderti – e non lo farò – queste mie informazioni ti saranno di poco aiuto. Voialtri” e indicò anche Leka, “state marciando verso la vostra morte. Voi credete di porre sotto assedio Treviso, ma non avete alcun’idea di ciò che si sta preparando alle vostre spalle, qualcosa di molto più grosso di una banale scaramuccia!”

“Mi hai scambiato per Megas Alexandros, che t’esprimi come la Pizia?”, ruggì stizzito Mercurio, afferrando Ralli per il colletto della camicia. “Treviso è la chiave per arrivare a Venezia: cosa vorresti insinuare con “una banale scaramuccia”?!”

“Sciocco! Anni e anni in questo paese e ancora non hai compreso che qui, in Italia, non sono gli eserciti a vincere le guerre?”

Mercurio aprì la bocca per ribattere, bloccandosi però all’improvviso. Si staccò bruscamente da Teodoro e si diresse a grosse falcate verso Hironimo, il quale d’istinto indietreggiò spaventato nel suo angolino, dove si girò sul fianco mentre fingeva di dormire in maniera assai profonda.  

La tenda venne scostata violentemente e il patrizio avvertì la presenza del greco-albanese dietro di lui, in particolare lo scricchiolio della paglia pestata finché un lieve movimento d’aria sulla sua pelle accaldata tradì la faccia del condottiero quasi sopra la sua, in attento studio dei suoi lineamenti rilassati ad arte.

Fai che non se ne accorga! Fai che ci caschi! O Mater, non farmi scoprire! Ti prego, non farmi scoprire! , si ripeteva ossessivamente Hironimo, il cui viso in apparenza inespressivo  in realtà celava dietro un panico furioso, il suo cuore battente la chamade in petto e lo stomaco stretto in un doloroso nodo, già risalendogli in gola i primi acidi sintomi di reflusso.

Non sarebbe sopravvissuto ad un altro pestaggio, lo sapeva. E il giovane Miani non poteva -  non voleva! -  morire così, senza aver avuto modo d’impiegare la sua vita in fini più nobili e utili. Senza riscattarsi. Senza render fieri Madre e Padre. Non voleva morire su di un pagliericcio, alla stregua d’un cane, seminudo, sporco, malato e ridotto ad una massa informe di sangue e ossa. Non voleva.

Confido in Te! Confido in Te! Confido in Te!

Due dita premettero sulla sua carotide e un occhio gli venne forzatamente aperto. Non reagire! Stai fermo!

“Dai, Maurikos, lascialo perdere! Non lo vedi che sta dormendo?”, lo richiamò annoiato Leka, un poco divertito dal modo in cui il suo collega pendeva minaccioso sul veneziano e lo punzecchiava coi suoi paranoici controlli, manco si fosse trasformato in un avvoltoio.

A malincuore e tuttora sospettoso, Mercurio si alzò lentamente, gli occhi fissi sulla figura immobile di Hironimo. Indietreggiò guardingo e senza mai distogliere lo sguardo, lasciando la tenda ben aperta così da controllarne ogni movimento, in caso si fosse destato. Anche se il giovane avesse visto e udito qualcosa, non sarebbe stato nulla di vitale importanza tranne assistere alla tortura di un suo alleato, rammentandogli quanto già inflittogli e quanto l’avrebbe atteso, in caso avesse giocato al furbo.

Conscio della trappola preparatagli, Hironimo non osò muoversi di una spanna per l’intera durata dell’interrogatorio,  ignorando il sordo formicolio dell’avambraccio  destro, su cui appoggiava la testa, finché di questi non ne perse la sensibilità. Non si “svegliò” neppure quando la vescica prese a pulsargli dolorosa, preferendo urinarsi addosso piuttosto d’attirare l’attenzione del suo carceriere, le orecchie insidiate e vinte dall’incessante schioccare di ossa, di grugniti e gemiti, d’impazienti domande rimaste senza risposta.

Pregò che il suo turno non arrivasse mai. Perché sapeva ciò che l’attendeva: in passato lui si era trovato al posto di Teodoro Ralli, sopravvivendo a stento; un suo passo falso e lui avrebbe potuto ritrovarsi al suo posto per il terzo e ultimo giro. Il Bua l’avrebbe ammazzato, l’avrebbe ammazzato di botte e stavolta sul serio.

Un tonfo, seguito da un forte lamento e poi da un gorgoglio strano, tipico di chi sveniva e anche malamente.

“Portatelo tra gli altri prigionieri. Fra poco si riavrà e sarà cura del maresciallo di farlo cantare.”

“Testa dura.”

“Testa di cazzo, vuoi dire.” Silenzio, rotto a malapena da un gentile rumore d’acqua, Mercurio e Leka molto probabilmente si stavano lavando via il sangue dalle mani.

“Ma ancora dorme ‘sto qua? Sicuro che non sia schiattato?”

“Di sicuro puzza come un cane morto.”

“Cosa intendeva dire il kyr Theodoros con quella frase?”

“Lo ignoro, ma forse il nostro veneziano qua potrebbe illuminarci: quegli intriganti sanno tutto di tutti e tra di loro non ci sono segreti. Quando finisce di ronfare …”

Rilassa il respiro. Non aprire gli occhi.

“Lo sveglio?”

Non fiatare …

“No, non c’è fretta. Possiamo sempre interrogarlo a Breda o a Ponte di Piave.”

“Eh? Ma se ci siamo appena accampati!”

… O finisci lì, su quello sgabello …

“Ordini del maresciallo.”

“Contento lui.”

“Contenti tutti, tranne i veneziani che non sapranno per un bel po’ dove trovarci!”

Oh, Madonna! Oh, Madonna! Salvami! Salvami!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Il prossimo aggiornamento arriverà speriamo a breve, stavolta l’attesa sarà meno lunga! Inoltre, incomincia da qui la revisione ufficiale della storia.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!

Alla prossima,

 

 

Un po’ di noticine:

 

[1] Il proverbio friulano completo è: “L'è miei jessi in disgraćie di Dio che da justizie”, ossia “È meglio essere in disgrazia di Dio che della giustizia”, poiché Dio è più misericordioso degli uomini.

[2] In breve, la faccenda si svolse così:

Treviso, dopo la Pace di Torino che sanciva la fine del conflitto tra la Repubbliche di Venezia e di Genova, era rimasta sotto il Duca d’Austria, Leopoldo III d’Asburgo il bisnonno di Massimiliano (ecco perché l’Imperatore considerava la Marca “proprietà di famiglia”, non solo un feudo nell’orbita del SRI per tradizione carolingia.) Tuttavia, l’Asburgo s’era reso ben presto conto di come quei territori facessero troppo gola a tutti gli Stati confinanti, in primis i Carraresi di Padova, i Visconti di Milano e ovviamente la Repubblica di Venezia che rivoleva indietro ad ogni costo Treviso. Sicché, comprendendo la situazione precarissima, Leopoldo vendette la città ai Carraresi per un bel po’ ducati (e questo punto a Massimiliano dev’essere sfuggito) e se la diede in Austria, al sicuro da queste beghe italiche. Mossa saggia, poiché Venezia era uno Stato con una missione e tanta cattiveria in corpo dopo le pesanti perdite territoriali a seguito della Pace di Torino. In particolar modo, gliel’aveva giurata ai Carraresi.

Per farla breve, in un giro vorticoso di alleanze fatte e disfatte, nel 1388 Francesco da Carrara si ritrovò in guerra contro Gian Galeazzo Visconti e Venezia, finendo sconfitto su tutti i fronti e la sua famiglia pressoché in ostaggio a Milano, mentre l’anziano Carrarese s’arroccava nel Castello di Treviso, assediato dalla popolazione insorta. Come ultima mossa disperata, Francesco offrì a Jacopo del Verme e Spinetta Malaspina, i comandanti viscontei, Treviso e la Marca a Milano così anche da seminar zizzania tra gli alleati e guadagnar tempo. E il suo piano sarebbe pure andato a buon fine, se la popolazione trevigiana non si fosse ribellata anche alla prospettiva di finire sotto la biscia viscontea.

Infatti, il Del Verme sarebbe andato in giro in città a proclamare Gian Galeazzo signore di Treviso, ma ricevette un netto rifiuto, che risultò, stando alle cronache, in un bel tafferuglio tra soldati viscontei e i trevigiani, i quali costruirono barricate in città, in attesa dell’arrivo dei provveditori Guglielmo Querini e Giovanni Emiliani. L’esercito veneziano occupò dunque Treviso ed insieme ai trevigiani espugnarono appunto la fortezza il 13 dicembre 1388, giorno per Venezia simbolico poiché era la festa di Santa Lucia, verso cui i veneziani nutrivano una particolare devozione e di fatti ampliarono la chiesa di Santa Maria delle Carceri cui associarono il nome di Santa Lucia, indicendo un palio a commemorazione di questa vittoria.

Insomma, vox populi vox Dei. Va anche detto che Gian Galeazzo Visconti, intelligentemente, non contestò il ritorno di Treviso e della Marca a Venezia, rispettando i patti.

[3] secondo altri fonti, lo stemma degli Anguillara mostrerebbe invece due serpenti e non due anguille, secondo una leggenda riguardante la famiglia.

 

  
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