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Autore: Old Fashioned    08/07/2021    11 recensioni
Prima guerra mondiale. A un giovane e ardimentoso pilota tedesco viene assegnata una strana missione: dovrà atterrare con il suo aereo dietro le linee nemiche e lì caricare a bordo una persona, poi rientrare alla base. Tutto semplice, all'apparenza, peccato che la persona che dovrà caricare, una pericolosa spia tedesca, sia inseguita dal suo arcinemico: una spia inglese di pari livello, disposta a tutto pur di catturare il rivale.
Questa storia è stata scritta per Crazy_person, come modesto ringraziamento per tutte le bellissime recensioni che mi ha sempre lasciato.
Genere: Angst, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gente mia,
ho finito di sfrangiarvi le gonadi con agenti segreti e aviatori. Questo è l’ultimo capitolo della lunga vicenda.
Ringrazio tantissimo ognuno di voi, affezionati lettori, adorati commentatori e passanti che magari hanno dato un’occhiata. Siete voi che fate vivere le storie, per cui grazie: senza il vostro prezioso sostegno, questa storia sarebbe rimasta nel buio di un cassetto.






Capitolo 14

Le querce nella nebbia sono come come fantasmi silenti. La bruma si torce adagio nell’aria ferma, scorre sul terreno in una lenta corrente che nasconde ogni cosa.
Ovunque regna una quiete ovattata.
Egli si guarda intorno. Percepisce, più che vederla, la mole immanente di un castello. Sa che più in basso scorre il fiume. Ne coglie ogni tanto il profilo sinuoso, quando le falde di vapore si diradano.
A un tratto comincia a udire un rumore in avvicinamento: è uno scalpiccio lento di zoccoli, accompagnato da un passo umano. Si percepisce di tanto in tanto un tinnire lieve di metallo.
Si volta in quella direzione con uno strano senso di aspettativa.
Dalla foschia emerge un cavaliere che tiene il destriero per le redini.
Cammina adagio verso di lui.
Quando l'ha raggiunto, egli si accorge che è Reiner. Anche se non l'ha mai visto, sa che è lui, in qualche modo ne è sicuro. Ha un volto pallido, nobile, pervaso di una strana calma remota. Gli occhi sono grigi e trasparenti. Porta una lucida cotta di maglia e ha lungo manto candido, con una croce nera sulla spalla. Lo stesso simbolo è anche sul petto.
Al fianco ha una spada.
Si ferma muto di fronte a lui. Il suo cavallo, un morello nero come il carbone, dilata le froge per fiutarlo, poi drizza le orecchie nella sua direzione e lo fissa con occhi di giaietto.
Egli allunga una mano per accarezzargli il muso, ma l'animale si sottrae al contatto.
Riporta il braccio lungo il fianco, e per qualche motivo sa che è giusto così. Che non è ancora giunto il momento di toccare quel cavallo.

A quel punto, il cavaliere abbandona le redini dell'animale e sfila la spada dal fodero. Gliela porge.
Egli la osserva: l'elsa è una testa d'aquila le cui piume pian piano si trasformano in foglie di quercia. La lama è lucido acciaio.
Ora è tua,” dice pacato il cavaliere.
Mia?” ripete lui stupito. Fissa la magnifica arma, poi solleva lo sguardo sugli occhi dell'altro, limpidi e freddi come i laghi in cui andava a bagnarsi da ragazzino.
Spetta a te,” è la pacata risposta. “Le foglie muoiono ogni anno, ma la quercia è sempre viva.”
Egli si trova a deglutire per dominare l'emozione, ma la spada è sempre immobile di fronte a lui e lo sguardo del cavaliere – di Reiner – non lo abbandona.
Tende la mano, la chiude titubante su quell'elsa scura, ed è come se una scossa di energia gli percorresse il braccio.
L'altro arretra di un passo. “Ora è tua,” ripete. Raccoglie le redini del cavallo, gliele passa sul collo e monta in sella. Gli rivolge un'ultima occhiata, poi si dirige lentamente verso il bosco di querce.
La spada stretta in pugno, egli per un po' lo segue con lo sguardo, poi esclama: “Aspetta!”
Il cavaliere si ferma, egli lo raggiunge. “Aspetta,” ripete a voce più bassa.
L'altro scuote la testa. “No, è giunto il mio tempo. Ora porterai tu questa spada, combatterai tu al suo fianco.”
Egli non replica, si limita a chinare il capo in segno di assenso, pronto a tener fede in ogni modo a quella che a tutti gli effetti è un'investitura. “Ti rivedrò?” gli chiede.
No.”
Il cavallo riprende a muoversi lentamente. Le querce, nere e immobili, velate dalla foschia, sono come una barriera invalicabile.
Il cavaliere le raggiunge, si gira a guardarlo un'ultima volta poi vi si addentra, confondendosi pian piano nella bruma che avvolge ogni cosa.
Il rumore degli zoccoli sparisce.

Maximilian von Knobelsdorff aprì gli occhi: non c’erano querce.
Vedeva un soffitto bianco, alto, da cui pendeva un lampadario rotondo di metallo smaltato, a sua volta bianco ma con un bordo blu scuro, che gli fece venire in mente le bacinelle del bucato.
Strinse gli occhi: non ricordava di aver mai visto un lampadario del genere. Non c'era in nessuna stanza della tenuta di Rollwitz e non c'era nemmeno nella villa che fungeva da alloggio per i piloti della Jasta.
L’aria odorava di disinfettante. C’era silenzio, a parte un lieve chiacchiericcio lontano che giungeva a sprazzi, come portato da onde marine.
Cercò di sollevare la testa, ma non appena tese i muscoli, una fitta all'addome lo costrinse a desistere.
Ripiombò all'indietro mentre il dolore gli si irradiava nel corpo come un sisma, raggiungeva un parossismo e poi man mano scemava, rimanendo sullo sfondo come una dolenzia sorda.
Per non ripetere l'esperienza, si accontentò di far girare lo sguardo: era in una camera dall'arredamento essenziale. Di fronte aveva un piccolo armadio, e al centro della parete una croce e il ritratto di Sua Maestà. Alla sua destra c'era una porta chiusa; a sinistra, sotto una finestra dalla quale si vedeva un cielo azzurro, c'era un mobiletto basso coperto da un telo bianco, sul quale erano allineati bendaggi, bacinelle, boccette di vetro scuro e qualche ferro chirurgico.
Un ospedale?
La cosa gli parve plausibile. Ricordava una lotta, delle ferite, degli spari, ma era tutto confuso. I volti si confondevano, le situazioni anche.
Aveva in mente l'immagine di the Bishop chino su di lui, che diceva qualcosa, ma allo stesso tempo aveva l'impressione di ricordare anche il Werwolf, che gli parlava in un tono urgente, preoccupato, ma al tempo stesso anche rassicurante.
Chiuse gli occhi. Non riusciva a ricordare cosa fosse successo dopo.

Ma chi si rivede: Gretchen.”
I rebbi del forcone penetrano più a fondo, gli mozzano il respiro, lo costringono a emettere un gemito soffocato. Sente il ferro strisciare contro le costole.
E il dolore, il dolore è come una bestia che lo ha azzannato a mezzo corpo e sta scrollando la testa per straziarlo maggiormente.

Era successo prima o dopo l'arrivo del Werwolf? Non riusciva a ricordare nemmeno questo.
Spostò adagio la mano fino a toccarsi l'addome, coperto da una spessa medicazione. Man mano che riprendeva i contatti con la realtà, anche i ricordi diventavano più nitidi. Rivide the Bishop con le mani strette sul manico del forcone, pronto a spingerlo più a fondo, risentì la forma zigrinata del calcio della Mauser contro il palmo della mano, la detonazione, il rinculo dell'arma.
Poi le immagini si fecero di nuovo confuse: qualche sprazzo di dolore, voci, la sensazione di sprofondare in un abisso buio.
Braccia che lo sostenevano, una voce rassicurante che gli parlava.

La porta si aprì, sulla soglia comparve un caporale della sanità anzianotto, corpulento, con un Krätzschen bisunto in testa.
L'uomo notò che si era svegliato. “Perbacco,” borbottò. Si tolse il berretto, se lo rigirò un paio di volte fra le mani, quindi lo indossò di nuovo. “'Giorno, signor tenente,” disse infine, portandosi due dita alla fronte in un informale saluto.
Prima che von Knobelsdorff potesse rispondere, il caporale era già uscito e stava dicendo: “Signor capitano medico! Signor capitano medico, faccio rispettosamente notare che il ferito della stanza sedici si è svegliato!”
All'esterno ci fu un rapido confabulare, poi entrò nella stanza un dottore. Anche lui aveva l'aria anzianotta, pacifica, da buon medico condotto di paese. Von Knobelsdorff immaginò che i medici più giovani fossero al fronte, dove era necessaria maggiore prestanza fisica, e quelli più vecchi si occupassero delle retrovie.
Si girò a guardarlo.
Il nostro giovanotto si è ripreso, dunque?” lo apostrofò il nuovo arrivato raggiungendo il letto. Gli prese il polso e per un po' rimase assorto a tastarlo, controllando di tanto in tanto un orologio che aveva estratto dalla tasca. “Molto bene,” approvò infine, deponendoglielo sulla coperta.
Von Knobelsdorff continuava a fissarlo in silenzio, tanto che l'altro dopo un po' gli chiese: “Mi capisce, giovanotto? Sente quello che dico?”
Il tenente accennò di sì con la testa. “Sissignore,” balbettò poi.
Molto bene,” ripeté il medico. “Sa, non è così raro che al risveglio da un lungo stato di incoscienza si abbiano episodi di confusione.”
Capisco.”
Io sono il capitano medico Albert Fischer, a proposito. Questo è l’ospedale militare di Treptow.”
Maximilian von Knobelsdorff.”
Ricorda quello che è successo, giovanotto?”
Il tenente rimase per un po' in silenzio, cercando di recuperare le immagini sfocate di poco prima, poi rispose: “Sì e no.”
Fischer lo fissò come se non si fosse aspettato altro. Annuì grave e infine gli rivelò: “È stato aggredito da un pazzo, giovanotto. Uno squilibrato, un uomo che una ferita di guerra aveva reso folle. Lei, essendo un eroe che ha ricevuto la più alta delle decorazioni al valore, è stato l'incolpevole catalizzatore del suo odio.”
Von Knobelsdorff non replicò. Senza dubbio la faccenda del pazzo era la scusa con cui il Werwolf aveva sistemato tutto quanto.
La voce del medico attirò nuovamente la sua attenzione: “Non ricorda?”
Il tenente scosse la testa. “Temo di no,” rispose, anche solo per sentirsi raccontare quello che l’agente segreto aveva inventato.
Fischer gli tirò giù le coperte, mise a nudo la medicazione. Mentre aiutato dal caporale svolgeva con perizia le bende, cominciò a raccontare: “Lo squilibrato, tale Anton Pohl, era riuscito a farsi assumere come mozzo di stalla. Pareva una persona normale, nessuno aveva mai avuto motivo di lamentarsi di lui, eppure nel suo intimo covava un risentimento senza pari. Odiava tutto ciò che aveva a che fare con i militari, capisce?”
Sissignore.”
Molto bene,” approvò il medico. Gli palpò delicatamente l'epigastrio. “Fa male qui?”
Von Knobelsdorff strinse i denti. “Un po',” rispose, irrigidendosi suo malgrado.
La mano si spostò verso il fegato. “E qui?”
Sissignore.”
Già, già.” Il medico si sistemò gli occhiali, quindi spiegò: “È chiaro che sente male. I medici di Pasewalk hanno dovuto operare d'urgenza, c'era un'importante emorragia interna.” Fece cenno al sottufficiale, che subito prese una delle boccette scure, pose un po' del suo contenuto su un batuffolo d'ovatta e iniziò con quello a ripulire la cicatrice operatoria.
Fischer frattanto continuava a visitarlo. “Tutto bene,” disse poi, “tutto nella norma. Lei è molto forte, giovanotto, si rimetterà presto.”
Grazie, signore,” disse von Knobelsdorff, irrigidendosi suo malgrado sotto il batuffolo imbevuto di tintura di iodio. “Signore....?” chiese poi esitante.
L'altro, che si stava lavando le mani in un catino, si voltò. “Sì, giovanotto?”
Ecco, signore... io credo di ricordare che ci fosse un ufficiale degli ussari con me. Un Rittmeister che...”
L'altro non lo lasciò nemmeno finire. “Ma certo,” rispose subito. “Un suo buon amico, direi, o forse il suo angelo custode, dato che le ha salvato la vita non una, ma due volte.”
Tra le sopracciglia aggrottate di von Knobelsdorff comparve una ruga verticale. “Che intende dire?”
Il Cielo ha voluto che fosse presente, quando lo squilibrato l'ha aggredita. È stato lui a neutralizzare quell'uomo e a prestarle le prime cure, ed è stato sempre lui a offrirsi per una trasfusione quando lei rischiava di morire dissanguato.”
A quella notizia il tenente sussultò e d'istinto cercò di sollevarsi a sedere, ma subito intervenne il sottufficiale, che lo afferrò per le spalle e gli impedì il movimento.
Mi lasci!” protestò von Knobelsdorff irritato. Imperturbabile, l'altro si limitò a rivolgere un'occhiata al medico.
Questi scosse la testa. “Non è bene che lei si alzi, giovanotto,” lo ammonì severo.
Il tenente rinunciò ai suoi propositi di ribellione. Si rilassò sotto la presa erculea del caporale, emise un sospiro e ripeté: “Una trasfusione?”
Molto consistente,” fu la risposta. “Quel bravo capitano le ha dato così tanto sangue che abbiamo dovuto tenere ricoverato anche lui per qualche giorno.”
A quelle parole, von Knobelsdorff sentì il cuore balzargli nel petto. “È ancora qui?” chiese. Fece saettare lo sguardo tutt'intorno, come aspettandosi di vederlo da qualche parte.
L'altro scosse la testa. “È rientrato in servizio: ordini superiori. Io ero contrario, naturalmente, il paziente aveva ancora bisogno di riposo, ma...” Si strinse nelle spalle, con l'aria di chi si piega all'ineluttabile.
Non c'è più?”
Di nuovo, Fischer scosse la testa.
Il tenente aggrottò le sopracciglia e chiese: “E io quando posso andarmene?” D'un tratto, gli sembrava importantissimo uscire, rientrare in servizio. Ma soprattutto andare a cercare Karl.
Ancora non aveva idea di come l'avrebbe trovato, ma doveva assolutamente cercarlo.
Il medico toccò di nuovo la ferita, facendolo irrigidire per il dolore, quindi rispose: “Ci vorrà ancora un po', giovanotto.”
Ma io sto già bene!” protestò von Knobelsdorff.
L'altro alzò teatralmente gli occhi al cielo. “Siete tutti uguali,” proferì infine, “nessuno che abbia pazienza, nessuno che dia il tempo alla Natura di fare il suo corso.”
Sto bene,” ripeté caparbio il tenente.
La voce di Fischer si fece dura: “Lei non sta affatto bene, e se avesse un minimo di buon senso se ne renderebbe conto da solo. Obbedisca agli ordini di chi ne sa più di lei e attenda di ristabilirsi come si deve.”
Sissignore,” sospirò von Knobelsdorff, mentre già vagliava mentalmente la lista dei superiori che avrebbe potuto interpellare per farsi richiamare in servizio.

§

Il maggiordomo si avvicinò al principe von Thurn und Taxis reggendo cerimoniosamente un vassoio su cui si trovava un telefono. Alle sue spalle, il filo dell'apparecchio serpeggiava sul pavimento di marmo e si perdeva nel buio di un corridoio. “Una chiamata per lei, eccellenza,” annunciò compassato. Posò il vassoio su un tavolino.
Il principe abbandonò il libro che stava leggendo, si alzò dalla chaise longue e raggiunse il domestico. “Chi è?” chiese, raccogliendo la cornetta.
Non l'ha detto, eccellenza. Ha detto che lei l'avrebbe riconosciuto subito.”
Il Werwolf annuì. “Zio Oswald?” chiese nel ricevitore.
Volevo congratularmi per il cinghiale che hai abbattuto, ragazzo mio,” provenne dall'altra parte del filo.
Non è il caso.”
Sciocchezze! Era un bel po' che quella bestiaccia ci dava filo da torcere. Quando passi da questo povero vecchio?”
Quando vuoi, zio.”
Beh, mettiti in viaggio, allora. Per dove sai tu. Quel cinghiale non era mica l'unica bestia che ci rovinava le colture, eh.”
Il Werwolf scosse la testa come se l'altro avesse potuto vederlo, poi rispose: “Ho bisogno di qualche altro giorno. Giusto un paio.”
La voce dell'interlocutore suonò costernata: “Diamine! E per fare cosa?”
Ecco... c'è un giovane segugio che mi ha aiutato nella caccia, zio. È rimasto ferito e voglio controllare che si ristabilisca nel modo giusto, prima di venire a trovarti.”
Lascia queste cose a chi se ne intende, ragazzo mio. A ognuno il suo mestiere, non è così che si dice?”
Sì, zio.”
E poi, non avevi deciso di lasciar perdere i segugi? Dopo ti affezioni e sai come va a finire. La caccia è un'attività pericolosa.”
Il Werwolf si limitò ad annuire.
Ragazzo?” chiese dopo un po' l'interlocutore.
Sono qui, zio.”
Dicevo: lo sai come va a finire.”
Sì, lo so.”
Chiuse la comunicazione mentre l'altro stava ancora parlando, quindi disse: “Non voglio essere disturbato.”
Il maggiordomo si inchinò. “Sì, eccellenza.”
Nemmeno se richiamasse questa persona.”
Certamente, eccellenza.”

Rimasto solo, il Werwolf gettò uno sguardo al libro abbandonato sulla chaise longue, ma rinunciò a riprendere la lettura.
Andò alla finestra, invece, e da lì rimase immobile a contemplare il cielo.
Si trovava in una situazione che non gli era capitata spesso nella vita: non sapeva cosa fare. Forse avrebbe dovuto dar retta a Matthesius, e dimenticare Maximilian. Seguirlo da lontano, magari, nell'ombra. Accontentarsi di proteggerlo senza dar segno di sé.
D'altra parte, aveva fantasticato su quel ragazzo. Lui, che da anni si allontanava dalla realtà contingente solo per prevedere, supporre e pianificare, si era trovato a immaginare se stesso e Maximilian, fianco a fianco, impegnati in qualche missione.
Quelle fantasie invariabilmente terminavano con l'immagine di Maximilian riverso in un torrente, esattamente come anni prima era successo a Reiner.
Per quel motivo aveva smosso ogni suo contatto e si era fatto dimettere il prima possibile dall'ospedale militare di Treptow, poi non ci era più tornato. Se ogni ospedale militare inglese o francese pullulava di spie tedesche, anche quel posto doveva essere pieno di spie nemiche. Non era bene che i servizi segreti inglesi, inferociti per la morte del loro migliore agente e desiderosi di fargliela pagare, sapessero cosa lo legava a quel ragazzo.
Si staccò dalla finestra, fece qualche passo nervoso nella stanza. Maximilian era un cavaliere dei cieli, un asso. Era orgoglioso, coraggioso, deciso, ma per nulla avvezzo allo spionaggio.
Certo, avrebbe potuto addestrarlo, ma cosa avrebbe ottenuto? Forse di snaturarlo e basta, di esporlo al rischio di una fine iniqua, senza gloria e senza dignità, senza nemmeno l'onore di indossare l'uniforme del Paese per cui stava dando la vita.
Tirò il cordone del campanello, il maggiordomo si presentò sulla porta e chiese: “Eccellenza?”
Il telefono,” ordinò il Werwolf.
Quel signore ha chiamato altre due volte, eccellenza,” lo informò il domestico.
Lo immaginavo. Porti qui il telefono e poi mi lasci solo.”
Come vuole, eccellenza.”
L'agente segreto aspettò che l'uomo se ne fosse andato, quindi compose un numero e attese tamburellando col piede per terra. Quando dall'altra parte ci fu la risposta, smise di tamburellare e disse: “Zio Oswald? Vengo alla tenuta, dammi solo il tempo di fare una cosa stasera.”

§

È notte, è sdraiato nel letto. A parte il riflesso delle luci del corridoio, che filtra dal vetro che c'è sopra la porta, la stanza è immersa nel buio. Nel silenzio che aleggia ovunque si ode solo il camminare lento del caporale infermiere Schulte, impegnato nel giro di ronda.
Si accorge che nella camera c'è una presenza. Non la vede e non la sente, ma è come se ne percepisse l'essenza vitale. È nell'angolo in cui l'oscurità è più densa, e lo sta guardando.
Non ha paura, però. Lo sguardo che percepisce su di sé è attento, indagatore, ma anche carico di una strana tenerezza, che scalda e rinfranca come vino forte.
Si puntella sul gomito per guardare meglio e dalle tenebre, appena delineata dal fioco chiarore che filtra dal corridoio, emerge la sagoma di un lupo.
Sei tu?” chiede sottovoce. Non sa bene a chi si stia rivolgendo, né perché in quei termini. Sa solo che quella misteriosa presenza gli comunica una sensazione di familiarità, di protezione.
Si solleva maggiormente. A quella vista, il lupo avanza appena, egli percepisce il lucore dei suoi occhi. Si ferma però prima di uscire dal buio.
Sei tu?” ripete. Prova ad alzarsi per raggiungerlo, ma le gambe non lo reggono e cade a terra.

Von Knobelsdorff si svegliò con un sussulto. Non era sul pavimento come aveva sognato, ma la sensazione della presenza rimaneva.
Si girò verso l'angolo buio e la sensazione divenne più forte che mai. “Sei tu?” sussurrò.
Non ci fu risposta.
Puntò il gomito sul materasso e stringendo i denti fece forza per sollevarsi. Gli parve di vedere una sagoma alta, che lo guatava silenziosa. “Karl,” disse, e non era una domanda.
La figura si staccò dalla parete, si spostò verso di lui come un misterioso lembo di oscurità. Si fermò muta a un metro dal letto.
Il tenente non poté fare a meno di sorridere. “Karl,” ripeté. Ricadde all'indietro spossato.

Il Werwolf rimase immobile. Dopo qualche secondo, il tenente girò il volto nella sua direzione e mormorò: “Karl, ti aspettavo.”
A quel punto, l’altro si avvicinò e tese adagio una mano a sfiorargli i capelli. “Sono venuto a salutarti,” gli disse poi.
Il più giovane si irrigidì. “A salutarmi?” ripeté. Lo squadrò diffidente e l’ormai famosa ruga verticale gli comparve tra le sopracciglia.
Devo andare.”
Maximilian tentò nuovamente di sollevarsi sul gomito, non vi riuscì e ricadde all’indietro con un gemito di disappunto. “Io vengo con te,” ansò poi.
Il Werwolf si limitò a scuotere la testa.
Certo che ci vengo,” insisté il tenente. “Appena sono guarito, è ovvio. Il che accadrà molto presto.”
L’altro si chinò fino a che non ebbe il volto a livello del suo, poi rispose: “Non sai quello che mi stai chiedendo.”
Lo so benissimo, invece. Voglio tornare in missione con te, voglio combattere al tuo fianco.”
Di nuovo il Werwolf gli accarezzò i capelli, poi disse: “È troppo pericoloso.”
Davvero? Lo sai perché i piloti vanno in volo portandosi dietro una pistola carica?”
No.”
Perché se va a fuoco l’aereo, si sparano per non bruciare vivi.”
L’altro rimase in silenzio. Dopo qualche secondo, il tenente insisté: “Secondo te, fare voli di guerra è più o meno pericoloso di quello che abbiamo fatto insieme dietro le linee?”
A quelle parole, il Werwolf si rialzò in piedi, allontanandosi addirittura di un passo. In tono duro, replicò: “Qui non si tratta di giocare a chi ha l’ultima parola in una disputa verbale, Maximilian. Seguirmi in missione significa abbandonare la tua vita precedente, gli affetti, le amicizie, il tuo ruolo nella Jasta, il tuo aereo. Diventeresti un anonimo impiegato senza gloria né decorazioni, che svolge lavori spesso sporchi e pericolosi, costretto a fare cose perlopiù contrarie all’onore di un ufficiale.”
A me non pare che tu sia senza onore,” lo interruppe il tenente.
Perché non mi conosci, oppure sei accecato da...” Non finì la frase. Gli girò bruscamente le spalle, valutando l’eventualità di andarsene in quel momento e far perdere per sempre le tracce di sé.
Da cosa?” lo incalzò Maximilian.
Senza voltarsi, il Rittmeister rispose: “Dai sentimenti.”
E tu no?”
Forse, ma non intendo per questo metterti in pericolo o spingerti a una vita che non ti darebbe alcuna soddisfazione e ti priverebbe di quello che sai fare meglio.”
Ovvero discutere con te? Non penso proprio che me ne priverei.”
Il Werwolf si girò con un sospiro. “Maximilian...”
Portami con te, Karl, oppure giuro che troverò il modo di seguirti ugualmente.” Detto questo, il tenente con risolutezza buttò da una parte le coperte e fece per scendere dal letto. Le gambe non lo ressero ed egli crollò in avanti con un gemito.
D’istinto il Rittmeister si lanciò in avanti e lo afferrò prima che toccasse il pavimento. Lo strinse a sé, poi lo adagiò nuovamente sul giaciglio. “Perché hai fatto una cosa del genere?” ringhiò. “Sei stupido e impulsivo.”
Fece per ritrarsi, ma il tenente gli circondò il collo con un braccio, impedendogli il movimento. Rimasero immobili a fissarsi per qualche istante, poi il più giovane rispose: “Sono le stesse cose che mi ha detto anche the Bishop...”
Perché è vero.”
...Prima che gli sparassi.”
Il Werwolf, che aveva passato notti insonni a struggersi sulla sorte del giovane ufficiale, reputò quella frase una tracotante provocazione. Aggrottò le sopracciglia e replicò: “Ma prima o dopo che ti infilasse un forcone nella pancia?”
Maximilian lo fissò serio. “Dopo, e questo dimostra quanto so resistere al dolore, dominare la paura e mantenere il sangue freddo.”
L’altro annuì. “Lo so.” Avvicinò il proprio viso al suo. Il più giovane per tutta risposta rinsaldò la presa sul suo collo, egli percepì contro il torace il battito accelerato del suo cuore. Lo rivide cereo, abbandonato in un lago di sangue, e poi lo rivide orgoglioso, fiero, che sfoggiava la decorazione appena conseguita con l’eleganza spavalda di una giovane aquila. “Se ti impedisco di venire con me, è perché il mio è un lavoro sporco. Non è un modo onorevole di combattere, non riceverai mai medaglie per quello che hai fatto, i nemici ti disprezzeranno, i tuoi colleghi ti considereranno un pantofolaio codardo che se ne sta rintanato nelle retrovie.”
Non m'importa, io voglio combattere al tuo fianco.”
Maximilian...”
I volti ormai si sfioravano. La presa del tenente non accennava a sciogliersi, ma anzi di attimo in attimo sembrava farsi più ferrea, come se il giovane avesse voluto fondere le loro due persone in un'entità sola.
Voglio combattere al tuo fianco,” ripeté, quindi risolutamente incollò le proprie labbra alle sue.

§§§

La veranda del Raffles Hotel di Singapore aveva un pavimento di marmo così lucido che ci si poteva specchiare. Qua e là vi erano dei tavolini di legno esotico, intorno ai quali si trovavano poltroncine di rattan intrecciato. Oltre gli archi candidi che delimitavano l'area, lussureggiava una vegetazione dai mille toni di verde, opulenta, carica di fiori dai profumi inebrianti. L'aria torrida, madida, risuonava del canto di innumerevoli uccelli.
Le palme ondeggiavano lente.
Sul prato passarono due ragazze flessuose, fasciate in sarong multicolori, ognuna con un cesto in equilibrio sulla testa. Un macaco saltò con uno strido da un ramo all'altro, balzò a terra, raccolse un frutto caduto e si dileguò nella vegetazione.
Maximilian von Knobelsdorff – nome in codice Hati – sorrise e disse: “Hai visto?”
Il Werwolf, seduto al suo fianco, chiese: “Che cosa?”
La scimmia.”
Non le avevi mai viste prima?”
Il più giovane scosse la testa. Si passò una mano sulla fronte, coperta da un velo di sudore: nonostante indossasse un fresco completo di lino chiaro, faticava ad abituarsi al caldo dei tropici. Volse lo sguardo verso il compagno, che invece sembrava indifferente alla temperatura: nei panni di un commerciante olandese di legname, il Werwolf sedeva tranquillo, lasciando vagare sul parco del Raffles lo sguardo di chi sta calcolando il costo di ogni tronco d'albero. “Hai fatto quella cosa?” domandò l'uomo.
Maximilian annuì. “È stato facile. Ora sulla lista dei passeggeri del Sentosa Queen figurano anche i fratelli van Rijthoven, uomini d'affari di Rotterdam.”
Ottimo lavoro.”
Mi hai insegnato tu a falsificare i registri.”
Sopraggiunse un cameriere che depose sul tavolino due bicchieri alti, colmi di una bevanda di un sontuoso rosso aranciato, guarniti con una fetta d'ananas e una ciliegia.
Il Werwolf ringraziò con un cenno del capo e stese la mano verso il suo.
Maximilian lo fissò diffidente, poi chiese: “Che cos'è?”
Singapore Sling.”
Cosa?”
Un'invenzione del capo barman dell'hotel. Provalo, è buono.”
Di cosa sa?”
Il Werwolf alzò gli occhi al cielo. “Ti ho detto che è buono. Perché devi sempre essere così diffidente?”
Perché nel nostro mestiere la diffidenza salva la vita.”
In quel momento sopraggiunse una coppia, lui con il completo di lino chiaro tipico degli europei ai tropici, lei con un vaporoso abito d'organza. Sedettero a un tavolino poco distante.
In olandese, il Werwolf disse: “Certo, evita che ti rifilino del legname tarlato.” Poi con il labiale articolò: “Eccoli.”
Maximilian gettò un fugace sguardo ai nuovi arrivati e colse la stessa occhiata in tralice da parte della giovane donna. Le sorrise come un giovanotto un po' vanesio che si scopre oggetto di attenzioni da parte del gentil sesso, l'altra si affrettò a distogliere il viso.
Il Werwolf sorrise a sua volta, poi sollevò il bicchiere verso di lui. “Brindiamo?” propose.
A cosa vuoi brindare?”
Ai lupi, che cacciano di nuovo insieme.”


   
 
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