Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Persefone26998    09/07/2021    0 recensioni
"La fermentazione è pura magia, perché sa trasformare un semplice grappolo d'uva in una pozione in grado di mutare il comportamento, sopprimere le inibizioni, annebbiare la vista e spalancare le porte di interi regni immaginari
_Felipe Fernandez-Armesto"
Benvenuti nella mia personalissima vigna
Genere: Angst, Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Eren Jaeger, Levi Ackerman
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Parola scelta da Sam
Parole: 2217
Note: se c’è qualcuno di fede ebraica che rileva errori nel testo (ho fatto ricerche, ma non sono un’esperta) non si ponga problemi a dirlo perché correggerò subito
 
Suo padre aveva un vecchio giradischi risalente ai tempi della seconda guerra mondiale, quel periodo buio di cui aveva conservato soltanto i ricordi di un bambino che aveva visto la sua famiglia spegnersi nei gelidi campi della Polonia, in quella croce comune che ogni ebreo della sua epoca si è ritrovato a portarsi sulle spalle; quando poi suo padre era cresciuto, con quella faccia sempre arcigna di rancore e il cuore più nero di quei numeri che portava incisi nella pelle, quel giradischi era la sola cosa capace di renderlo quasi più umano e tangibile agli occhi suoi e di sua sorella. Sua madre gli aveva sempre detto che quell’uomo portasse dentro di sé un peso senza tempo, che certe cose loro dovevano solo capirle in silenzio e rispettare tutto il dolore che l’aveva formato; ma Kenny suo padre aveva imparato a non amarlo anno dopo anno, con quel suo vecchio giradischi che era finito a diventare il simbolo di un rapporto fatto di sale e di cenere.
Levi invece amava come un folle la bellezza intrinseca di quel giradischi, amava sentirsi parte della storia della loro famiglia attraverso quel vecchio pezzo da museo, amava sedersi vicino ad ascoltarlo con quell’uomo vecchio e consumato che Kenny aveva faticato a riconoscere come suo padre nei pochi anni che gli erano rimasti su quella terra; Levi che era arrivato una fredda sera di fine dicembre, in quella festa cristiana che aveva tinto di rosso le pareti dell’ospedale e che la vita gliel’aveva fatta a pezzi, ricomponendola nella  più bella forma che avesse mai avuto.
Levi era stato come un terremoto improvviso che aveva fatto crollare tutto, in quel tempo in cui aveva ancora il cuore troppo sanguinante del dolore del suo amore perduto, in quel tempo dove la sua piccola casina nella campagna belga gli era sembrata l’unico posto in cui fuggire; Kuchel l’aveva chiamato una mattina di inizio maggio, nel giorno sbagliato perché loro si sentivano solo di sabato, i singhiozzi che le scuotevano il petto e la bocca impastata di troppe lacrime, a sussurargli che era appena entrata nel secondo mese di gravidanza e lui l’aveva sbattuta fuori di casa per la vergogna di una figlia senza marito. Tornare in quella città intrisa di cattivi ricordi e fetida dell’odore della cinghia di suo padre era stata un’azione a cui non aveva minimente pensato, era partito con nient’altro che rabbia e urla che aveva riversato addosso all’uomo ed era rimasto per quel fagottino silenzioso in cui aveva riversato tutto l’amore che, un tempo, era stato del suo Uri.
E in quel momento, mentre il giradischi li guarda tutti come una presenza silenziosa dall’altro del suo tavolino in salotto, pensa di nuovo a lui per la prima volta dopo ventidue anni, lui che era stato il suo primo e unico tutto, lui che era un dolore più grande della consapevolezza che suo padre i finocchi come lui ce li avrebbe portati di peso nei campi di concentramento; perché a tenersi i segreti stipati nei cassetti si finisce a non riconoscersi neanche nello specchio e la figura che si riflette sulla superficie al di sopra del maledetto giradischi, mentre Levi tiene la testa bassa e le dita salde tra la presa di quell’Eren che non è mai stato solo il mio migliore amico, somiglia orribilmente a suo padre e lui ne è terrorizzato.
E un po’ lo capisce perché Levi tenga la testa bassa e lo guardi di sottecchi, ignorando tutto l’amore che solo una donna meravigliosa come Kuchel potrebbe riversare sul frutto del suo ventre, ignorando il modo in cui Eren gli stia accarezzando il dorso con il pollice.
Una mano pallidissima che stringe la sua, incredibilmente piccola come incredibilmente piccola è la persona a cui appartiene, due occhi talmente azzurri da parere viola nello scuro della pupilla; il mondo sembra andare al posto giusto sotto quella pianta in cui si sono rifugiati per scappare alla pioggia, sulle labbra di Uri tutto smette di fare male, anche l’odio che Kenny prova per se stesso.
“Ti amo anch’io Kenny”
Levi guarda solo lui, Levi dà tutte le attenzioni a lui, Levi non gli stacca gli occhi di dosso perché Kenny lo sa quanto suo nipote lo ami e quanto deluderlo sarebbe la cosa peggiore che potrebbe capitargli; perché anche Kenny ama quello scricciolo scazzoso che non è mai stato capace di vedere quanto il tempo l’avesse eroso e che l’aveva chiamato papà per buona parte della sua infanzia. Perché in fondo, per quanto non riusciranno mai a capirsi del tutto, Kenny suo padre nello specchio non vuole vederlo, la sola idea di distruggere la vita del suo Levi gli torce lo stomaco dal dolore spezzandogli il fiato.
“I tuoi lo sanno?”
Kuchel da fiato a una delle tante domande che gli frullano nella testa a una velocità immaginabile, cercando un senso a quei quattro anni di silenzio e di menzogne che avevano caratterizzato la vita di suo nipote; perché è sicuro di aver sempre tentato di dargli tutto l’amore che un essere umano possedesse, di aver sempre sostenuto il suo percorso e la sua vita, di avergli insegnato ad avere la forza e l’amore per se stesso che Kenny non aveva mai avuto per oltre venticinque anni della sua vita, di avergli trasmesso come l’amore che lui e Kuchel provavano nei suoi confronti non è qualcosa che sia possibile mettere in discussione. È certo di non avergli mai fatto credere che l’avrebbe odiato per quella croce che portano assieme, eppure una parte di sé lo sa che nell’accettare di essere una nota bellissima nella sua diversità ci vogliono sangue e lacrime.
“Sì, ne sono fin troppo contenti... penso che amino Lee quasi più di me certe volte”
Uri lo guarda, i suoi occhi sono talmente lucidi di lacrime che a Kenny sembrano diventare liquidi, sono bellissimi anche in quel modo per quanto il dolore che vi legge gli brucia il viso più del ceffone che gli ha rifilato suo padre; se lo stringe contro il petto, Uri diventa ancora più minuscolo tra le sue braccia e Kenny vorrebbe solo strappargli la sofferenza dalle spalle, prenderla su di sé e non macchiare quell’anima candida con la crudeltà del mondo.
“Non l’hanno presa bene, Kenny! Se non faccio come vogliono, hanno detto che mi manderanno in uno di quei centri di cura”
“In uno di quei lager autorizzati, vorrai dire”
Eren sorride a parlare di suo nipote, gli occhi gli brillano innamorati e a sua sorella sembra sciogliersi il cuore a quella vista, lo guarda anche lei e inclina la testa in un modo così lieve verso Levi che neanche suo nipote ha notato quel movimento; Levi continua a scrutarlo in silenzio, la mano che il suo ragazzo – e quanto è difficile dire quella parola nella sua testa, quanto dolore e quanti ricordi si porta appesi al collo come una catena sinistra e cigolante – non stringe trema incontrollata.
“Perché ce lo dici solo adesso?”
Perché di tutto ciò che rimane, Kenny ha bisogno solo di sapere quando il suo viso si sia trasformato in quello di suo padre, quando Levi nei suoi occhi abbia cominciato a vederci quella figura arcigna e spezzata dal dolore e dalla rabbia, quando gli ha fatto credere di non amarlo abbastanza; Uri un tempo gli aveva detto che tutta la somiglianza fisica con suo padre non corrispondeva a un briciolo nei loro caratteri, e Kenny gli aveva creduto perché se Uri l’aveva amato allora non tutto in lui era davvero così marcio. Ma forse nel tempo è finito davvero a diventare come lui: vecchio, stanco, burbero, avvelenato dalla vita; forse nei lunghi anni che sembravano diventati infiniti da quella fredda mattina di novembre, la pioggia aveva finito a congelargli il cuore.
E Kenny la odiava in modo viscerale la pioggia, gli si contorceva lo stomaco dal disgusto ad ogni gocciolina che picchiettava il suolo, ad ogni lampo che gli folgorava gli occhi arrossati, ad ogni tuono che faceva sussultare Levi come se fosse rimasto sempre lo stesso bambino di sei anni che correva ad infilarsi nel suo letto; e l’odore della pioggia, quel misto di terriccio e dei fiori umidi di una bara, lo odia mille volte di più perché gli entrato talmente dentro che certe volte non riesce a ricordare che profumo avessero i capelli di Uri, quelli che sapevano di un’terna estate in cui la pioggia non sembrava esistere.
“Perché nella Torah c’è scritto...”
“Pensi che me ne freghi qualcosa di quello che è scritto nella Torah?”
“Kenny!”
Kuchel stringe il pendente Hamsa nelle sue mani, la Shemà che scivola veloce dalle sue labbra e pare sempre il canto di un angelo sentire sua sorella pregare, stritola quel cuore nero e privo di Dio come se potesse ancora credere che da qualche parte nell’universo esista un senso all’odore dei fiori in un cimitero; Levi recita assieme a lei, la sua voce è sempre sottile e melodiosa come quella di sua madre, perché in fondo si dice che pregare cantando è come pregare due volte, con la voce e con lo spirito, quelli che Kenny non ha mai avuto e ha ormai perso da quando la terra era diventata pesante sotto le sue dita. Eppure, un tempo anche Kenny credeva che quel Dio l’amasse, che fossero gli uomini a odiare e a porre con l’inchiostro e col sangue la condanna del diverso, che solo nella violenza e nell’odio incapace di vedere il dono dell’amore quelle persone trovassero senso di esistere.
Quel novembre fa freddo e l’acqua scivola lungo lo strappo della camicia, inondando il braccio destro come un fiume che cala lungo le rapide di una cascata; eppure Kenny è sicuro di essere più morto della salma che quella terra maledetta sta avvolgendo, è sicuro che qualcuno che si sente così vuoto non possa definirsi vivo, è scuro di essere solo un ammasso di dolore dai polmoni di piombo e l’anima sanguinante. Sta piangendo Kenny, ma nessuno può sentirlo, nessuno può vedere le sue lacrime nella pioggia che cade nel silenzio più rumoroso del mondo; sta piangendo ma l’unico che l’abbia mai sentito gli è stato strappato da un genitore incapace di accettare che suo figlio lo amasse.
Uri è bellissimo nella foto che hanno scelto, che sua madre ha scelto come a chiedere scusa a quel figlio della cui fine è stata complice: i sui capelli pallidi, tanto da parere quasi bianchi, gli incorniciano il viso come una carezza e alcuni scivolano su quegli occhi talmente azzurri da parere viola; ha la sua camicia preferita in quella foto, quella grigissima che “mi ricorda i tuoi occhi, Kenny”, con quel colletto rigido che gli pungeva il collo quando si baciavano; e sorride Uri, sorride in quel modo che se tutte le luci dell’universo si fossero spente tutte di colpo sarebbe stato capace di illuminare anche i più remoti angoli.
Kenny continua a guardarlo, continua a maledire la società in cui sono cresciuti, i suoi occhi troppo azzurri, la sua anima troppo gentile e amante della vita, maledice il tempo in cui l’amato perché lo custodirà come il suo più grande tesoro e il peggiore fardello; maledice il destino e maledice anche Dio, mentre intona il Kaddish del lutto e nessuno può sentirlo in quel silenzio pieno di rumore.
Guarda suo nipote dritto negli occhi, guarda Eren che si incanta sempre a sentirlo pregare dopo tutti quegli anni, guarda sua sorella e poi guarda se stesso allo specchio: e Kenny ci vede Uri, ci vede i suoi occhi, la sua pelle, i suoi capelli, il suo sorriso; ci vede le loro dita strette l’una nell’altra, ci vede i loro corpi fusi su un letto, ci vede le sue mani cercare di far funzionare quel vecchio giradischi che continua a guardarlo e che Kenny non ha mai odiato più di quel momento; ci vede quella vita passata l’uno accanto all’altro, ci vede i loro litigi e le loro rappacificazioni, ci vede ogni gesto gentile, ogni minuto passato a sorreggersi insieme, ci vede la strada che hanno percorso e ci vede il momento in cui hanno ballato davanti a quel vecchio crudele giradischi.
“Un cristiano e un ebreo omosessuali... è una bella barzelletta per un nazista”
“Il tuo senso dell’umorismo è pessimo, Kenny”
“Ma mi ami lo stesso e tu ami me, sono la tua pessima barzelletta in fin dei conti”
“Solo se possiamo essere una pessima barzelletta per sempre?”
Lo stomaco è stretto, gli occhi gli bruciano di lacrime che Kenny è sempre stato certo di aver finito da tempo; Levi scatta in piedi non appena si alza, la mano che Eren tiene tra la sua si tende nel seguire quel movimento. È strano come il tempo paia sospendersi e ripetersi, come Levi si trovi nel posto e nelle parole che anche lui ha rivolto a suo padre al tempo, come l’amore abbia anch’esso una forma infinita e ritorni sempre su se stesso; ma sta a lui rendere il finale diverso.
“Stammi a sentire, ragazzino: non mi serve nessun libro scritto da un circolo di vecchi bigotti di duemila anni fa per dire che mio nipote va bene così com’è!”
E nell’abbraccio in cui Levi lo stritola, la mano sempre stretta in quella di Eren e bagnandogli la camicia, il giradischi pare suonare la canzone del suo Uri.
  
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