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Autore: AveAtqueVale    15/07/2021    2 recensioni
Alexander Lightwood è un giovane uomo di ventitré anni costretto dai suoi genitori a frequentare, settimanalmente, un noto psicologo che in qualche modo gli capovolgerà l'esistenza.
Magnus Bane è un brillante e ricercato psicologo incapace di affezionarsi ai propri pazienti -per lui semplici casi da comprendere e rimettere in sesto come fossero puzzle da ricostruire- che si ritroverà ad avere Alexander in cura, ritrovandosi spiazzato dalle loro stesse sedute.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Magnus Bane, Maryse Lightwood, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Non gli erano mai piaciuti i club. La musica era troppo alta e non particolarmente di suo gradimento, non amava bere e soprattutto odiava ballare. Sostanzialmente era lì solo per guardare i suoi amici divertirsi. Quella sera, però, trovò quasi piacevole trovarsi lì.

Sotto le luci stroboscopiche del posto sembrava quasi di trovarsi in un qualche tipo di luogo immaginario ed irreale, fuori dal mondo: tutto era immerso nell'oscurità ad eccezione dei punti in cui i fari mobili facevano ricadere piccole zone di luci colorate. Rosse, verdi, azzurre, bianche, viola. Delineavano i contorni di figure accalcate, di una ringhiera che affiancava una scalinata non troppo larga che conduceva ad un ballatoio non molto affollato. Tavolini e divanetti erano appena visibili nei momenti in cui quelle luci colorate non ne sfioravano la superficie.

Il piccolo gruppo si era seduto su uno di quei divani in pelle e stava chiacchierando animatamente del più e del meno. Isabelle stava mostrando a Clary e Jace alcune foto del piccolo Church dal suo cellulare mentre Alec sorseggiava la sua birra guardandosi attorno. La musica era così alta che poteva sentire le onde sonore colpire fisicamente il proprio corpo. Sentiva la vibrazione delle stesse riverberarsi nelle sue orecchie, nella sua stessa gola. Era quasi nauseante. Ma lo aiutava a non pensare, ad estraniarsi da se stesso. Forse ora iniziava a capire perché la gente scegliesse di andare in quei posti. Quante di quelle figure ammassate laggiù erano alla disperata ricerca di una distrazione? Alla disperata ricerca di un momento di fuga?

«Non dirmi che vuoi andare di sotto a ballare!» esclamò Jace, d'un tratto, dopo aver notato il modo in cui l'amico stava fissando attentamente la folla sottostante.

Alec si riscosse e rivolgendogli un'occhiata di sbieco sbuffò sonoramente con fare sarcastico. «Sì, come no.»

Isabelle osservò il fratello con fare esitante, umettandosi le labbra in maniera nervosa. Non voleva esattamente costringerlo a parlare, ma in qualche modo sentiva che ignorare quello che palesemente stava accadendo all'altro fosse sciocco e magari persino deleterio.

«E allora cosa vorresti fare?» tentò la ragazza sorridendo appena al maggiore. «A noi va bene qualsiasi cosa, purché ti tenga fuori dalla tua stanza»

Era evidente che fosse in difficoltà in quel momento, la prudenza con cui stava cercando di prendersi cura del fratello fingendo di parlare in maniera casuale non passò inosservata agli occhi di Alec. La cosa confondeva ancora di più il suo animo.
In parte era felice di sapere che, a tutti gli effetti, non era solo, che tutte quelle persone erano lì per lui. Al tempo stesso, però, non poteva fare a meno di sentirsi in colpa: tutte quelle persone erano anche in ansia per lui.

Scuotendo leggermente il capo, il ragazzo si limitò a guardare la sorella e parlare sopra la musica assordante del locale.

«Non c’è niente in particolare che vorrei fare» disse sincero rigirandosi la bottiglia fra le dita, sovrappensiero. «Ora come ora mi basta stare qui e bere con voi» ammise abbozzando un sorriso tranquillo.

Era evidente che fosse un modo per non parlare del reale problema che lo stava affliggendo, ma questa risposta era senz’altro un’alternativa migliore al vederlo nuovamente chiuso in camera ad ammuffire sotto le coperte. Per il momento, Isabelle se la fece bastare.

«E allora, beviamo!» esclamò sollevando il suo cocktail con la sua solita verve.

Jace ridacchiò accanto a lei tenendo un braccio attorno alle spalle di Clary. «Ora che ci penso non credo di averlo mai visto ubriaco» disse con uno dei suoi sorrisetti sghembi che non preannunciavano mai niente di buono.

«Nemmeno io» realizzò Isabelle solo in quel momento, voltandosi istantaneamente a guardare il fratello. «Non dirmi che non lo hai mai fatto?!» chiese sconvolta.

Alec si strinse nelle spalle bevendo un altro sorso di birra.

Isabelle sembrò improvvisamente stordita. «Non riesco davvero a capire da chi tu abbia preso».

«Io?» domandò Alec con un sopracciglio inarcato. «Guarda che sei tu il caso strano. Pensi che mamma o papà si siano mai ubriacati ad una festa?»

Jace rise di cuore alla sola idea mentre Isabelle, in crisi, si portò una mano alla fronte con aria disperata. «Sono stata davvero adottata» borbottò alla fine non trovando alcun’altra spiegazione logica alla situazione.

«Nemmeno io mi sono mai ubriacata, ma sono piuttosto certa che mio padre lo abbia fatto. Non è detto che dobbiamo necessariamente prendere dai nostri genitori Izzy» intervenne Clary cercando di confortare la sua amica.

La mora sollevò lo sguardo improvvisamente galvanizzata dalla ventata di speranza portata dalla ragazza.

«Lo credi davvero?» chiese sul limitare di una deprimente crisi esistenziale.

Clary sorrise divertita stringendole una mano. «Ne sono sicura, Izzy. E poi a noi piaci così come sei.»

Quelle parole sembrarono risollevare immediatamente la giovane portandola a raddrizzarsi sul posto come se fino ad un momento prima non fosse stata vicina a chiedersi se tutta la sua vita non fosse mai stata una completa menzogna.

«Grazie Clary» disse nuovamente ricca di energia prima di osservarla con sguardo divertito. «E così non ti sei mai ubriacata eh…?»

La ragazza arrossì leggermente grattandosi il capo.

«Ehm—no.» ammise quasi come se si vergognasse della cosa.

«Direi che dobbiamo assolutamente rimediare!» replicò istantaneamente Isabelle con assoluta convinzione. Tolse dalle sue dita la birra che aveva preso in precedenza e la sostituì con il cocktail che lei stessa aveva ordinato per sé. «Prova questo. Voglio farti provare i miei drink preferiti!»

Nel giro di un’ora il tavolino fra loro fu ricoperto di bicchieri vuoti, cannucce rosicchiate e ombrellini colorati fatti a pezzi.

Clary era visibilmente ubriaca e, in qualche modo, anche in quello stato riusciva ad apparire incredibilmente adorabile. Ogni cosa la faceva ridere e le sue guance arrossate la facevano sembrare ancora più giovane di quanto già non sembrasse normalmente.
Jace parve adorare quella versione così tenera della sua ragazza: si divertiva a vederla ridere per la cosa più stupida, esattamente come Isabelle. Alec, dal canto suo, si stava stranamente divertendo anche solo a guardarli. Non aveva parlato molto, aveva bevuto vari bicchieri anche lui, ma al contrario di Clary sembrava resistere meglio all’alcol. Non era esattamente ubriaco ma era sicuramente brillo: non abbastanza da comportarsi in maniera imbarazzante ma a sufficienza per calmare i pensieri. Si sentiva stranamente tranquillo in quel momento, rilassato mentre la musica intorno rimbombava e le luci danzavano brillanti da un angolo all’altro del locale. Sentiva i suoi sensi leggermente ovattati, il mondo roteargli attorno senza sfiorarlo. Era come se non fosse realmente lì, come se stesse assistendo a quella scena da lontano, dall’altra parte di una finestra che lo teneva ben distante da tutto impedendogli di farsi ulteriormente del male. Di farne a loro.

Per anni si era chiesto cosa la gente trovasse di interessante nel bere, perché uscissero all’unico scopo di scolare un bicchiere dopo l’altro, soprattutto considerato lo stato in cui si trovavano il mattino dopo: adesso sentiva di capire. Forse avrebbe dovuto farlo prima. Sicuramente avrebbe dovuto farlo più spesso. Sì, aveva deciso.

«Daaaai, andiamo a ballare!» esclamò d’un tratto Clary, allegramente, alzandosi dal tavolo. Con le mani stava tirando verso di sé il braccio di Jace che si era sfilata dalle spalle, invitandolo non troppo velatamente a seguirla al piano di sotto.
Il ragazzo, che aveva una resistenza straordinaria a qualsiasi forma di influenza esterna, non era capace di rifiutarle alcun ché: soprattutto non quando i suoi occhi lo guardavano con quello scintillio carico di felicità. Sorridendole a sua volta si alzò anche lui e la seguì verso le scale, assicurandosi che Clary non inciampasse nello scenderle.

Isabelle rimase invece al tavolo con il fratello, ancora abbastanza in sé dato il suo essere avvezza a serate di quel tipo.

«Allora! Ti stai divertendo?» domandò volgendosi ora verso di lui con un fluido movimento del bacino.

Alec si umettò le labbra con fare rilassato. «Sì. Clary sembra una bambina quand’è ubriaca» osservò sorridendo leggermente al pensiero.

La sorella si illuminò a quelle parole scorgendo coi suoi stessi occhi lo stato tranquillo del ragazzo al suo fianco. «Vedi? Meglio che stare chiuso in camera tutto il giorno!»

Con un lieve incurvar degli angoli delle labbra verso l’alto, Alec annuì.

«Come ti ho detto non voglio chiederti cosa ti è successo o perché ti senti così, non se non vuoi parlarne» iniziò a dire Isabelle dopo un lungo momento di quiete. Era evidentemente nervosa all’idea di sollevare la questione, quasi temesse che il fratello potesse reagire immediatamente tornando a chiudersi nel suo guscio e nel suo silenzio. Alec, dal canto suo, s’irrigidì leggermente nell’avvertire il cambio di argomento e deglutì teso desideroso di tornare alle risate di poco prima. «ma voglio che tu sappia che qualsiasi cosa sia non devi affrontarla da solo.» riprese sollevando solo a quel punto lo sguardo verso di lui. Fino a quel momento aveva timidamente osservato il bicchiere fra le sue dita, ma adesso si ritrovò a cercare gli occhi del fratello. «Noi siamo qui, Alec. Quando vorrai, quando ne avrai bisogno… noi ci siamo, okay?» abbozzò un sorriso gentile, i suoi profondi occhi scuri animati di un affetto impossibile da non notare.

Alec se ne sentì sinceramente avvolto e avvertì uno strano calore diffondersi nel suo petto, un bruciore pungente dietro gli occhi.

«Lo so.» capitolò, infine, abbassando brevemente le palpebre.

«Andrà tutto bene, fratellone» mormorò Isabelle scivolando accanto a lui sul divanetto e avvolgendo le braccia snelle attorno le sue larghe spalle. Non sapeva se l’altro avesse sentito quelle ultime parole, data la musica assordante, ma sperava che quell’abbraccio potesse trasmettere il messaggio con anche maggiore intensità.

Il ragazzo non si scostò da quel contatto, lasciò che la sorella lo stringesse a sé per svariati minuti sentendo la testa improvvisamente piena di mille pensieri. L’annebbiamento dovuto all’alcol non era sufficiente per tenere a bada le sensazioni che quella breve conversazione aveva risvegliato, finendo col farlo sentire semplicemente ancora peggio di prima. Adesso si ritrovava a dover fare i conti non solo con il perpetuo conflitto fra i suoi sentimenti, ma anche col fatto che non era abbastanza lucido da sapere come controllarli.

In poche parole si sentiva in trappola.

La stretta di Isabelle iniziò ad apparire quasi intollerabile, uno spaventoso senso di claustrofobia lo assalì man mano che i suoi pensieri si facevano più assordanti ed invadenti, portandolo a sottrarsi a quel contatto strofinandosi le tempie con le dita.
«Ohhh no, no, no» iniziò a dire la ragazza nel vedere la reazione dell’altro. «O stai per vomitare o stai per svenire: non voglio assistere a nessuna delle due cose» dichiarò tornando in sé, alzandosi in piedi in un momento. «Hai bisogno di aria. Vieni.» gli disse prendendolo per un braccio, tirandolo su.
 
*
 
Dopo l’improvvisata della signora Lightwood nel suo studio, Magnus era tornato a casa totalmente abbattuto e con l’umore sotto i piedi. Aveva cercato nel pelo del Presidente Meow un po’ di conforto ma persino la sensazione delle sue zampine sulle sue braccia non lo aveva aiutato. Per un istante aveva pensato di scolarsi una bottiglia di vino rosso sul balcone fino a perdere i sensi ma poi cambiò idea: quanto ancora più patetico sarebbe stato il risveglio se avesse concluso così la sua giornata?
Solitamente, quando si sentiva così, non aveva voglia di fare altro che non fosse crogiolarsi nel suo sconforto rigirandosi a vuoto sul letto alla ricerca di una posizione comoda che riuscisse a farlo addormentare. La cosa non lo aiutava sicuramente a tirarsi su ma gli garantiva il suo tanto bramato silenzio. Da qualche tempo, però, si era imposto di smetterla con questo genere di arrendevolezza. Ogni volta che si sentiva a terra si forzava ad uscire e cercare di distrarsi così da non crollare sotto il peso dei suoi stessi sentimenti. Anche questa non era una soluzione, il più delle volte si limitava semplicemente ad andare in un qualche locale per annegare i problemi in un po’ d’alcool o fra le braccia di qualcuno, ma almeno gli dava la sensazione di star reagendo al proprio dolore invece di lasciarsi avvolgere da esso.

Decise così, alla fine, di uscire.

Si fece una lunga doccia fredda e, una volta avvolto dal suo accappatoio di due taglie troppo grande, si distese sul divano col telefono all’orecchio.

«Ho voglia di ballare» disse quando Raphael rispose al secondo squillo, lo sguardo fisso sul soffitto sovrastante.

«Balla.» rispose monocorde il ragazzo dall’altro capo del telefono con il suo solito tono asciutto e disinteressato. Magnus alzò gli occhi al cielo sospirando.

«Ho voglia di andare a ballare.» specificò allora scuotendo la testa.

«Vai a ballare.»

«…»

Lo psicologo rimase in silenzio per un lungo istante prima di inspirare a fondo e pizzicarsi l’arco del naso con fare esausto.

«Raphael.» disse con evidente stizza nella voce. «Andiamo a ballare stasera?»

«Aaaaaah» chiosò il ragazzo dall’altra parte del telefono. «No.»

Magnus trattenne malamente un verso disperato abbandonando il capo oltre il bracciolo del divano. «Dai! Perché no? Voglio uscire!» esclamò con il tono lamentoso di un bambino che fa i capricci.

«Perché ho da fare. E perché comunque non mi andrebbe.» replicò asciutto, con il suo forte accento spagnolo Raphael. «Se non c’è altro, dovrei andare

«Vai, vai…» sbuffò lo psicologo sporgendo il labbro inferiore all’infuori in un broncio molto poco maturo. «…noioso.» borbottò poi mentre chiudeva la telefonata con aria offesa.

Ovviamente non era offeso per davvero ma gli dispiaceva sul serio non poter vedere l’amico quella sera. Mentre digitava il secondo numero di telefono si morse il labbro inferiore con fare nervoso: sperò che almeno Ragnor fosse disponibile. Catarina era troppo lontana e troppo indaffarata per dargli la benché minima speranza.

«Magnus?»

«Ragnor! Amico io!» esclamò lo psicologo con tono allegro, palesemente esagerato, portando ad un lungo attimo di silenzio da parte dell’altro.

«…Cosa vuoi?» domandò quello, alla fine, evidentemente sospettoso e scettico.

«Non soldi, puoi stare tranquillo.» scherzò il ragazzo. «Ho davvero, davvero, davvero, davvero bisogno di uscire stasera e tu sei stato eletto come mia spalla!»

«Grazie ma devo passare. Devo consegnare un progetto fra due settimane e sto ancora in alto mare.» disse il giovane dall’altro capo del telefono con un tono chiaramente impegnato. Magnus poteva perfettamente vederlo, nella sua testa, con gli occhiali in equilibrio sul naso e le dita a correre frenetiche sulla sua tastiera. «Prova con Raphael.»

Lo psicologo sbuffò ormai privo di speranze. «Niente da fare, ho già provato. Non può.»

«…Ah beh, quindi più che spalla sarei la ruota di scorta.» commentò con il tono petulante cui ricorreva quando scopriva una qualche innocente bugia.

«…beh, allora non ti disturberò oltre! Buona fortuna col progetto!» salutò Magnus sfuggendo alla precisazione altrui prima di chiudere rapidamente la telefonata.

A quanto pareva era rimasto comunque da solo. Sarebbe stato più semplice rilassarsi e non pensare assieme ai suoi amici, ma loro avevano le loro vite ed era giusto che di tanto in tanto riuscisse anche a cavarsela da solo. Così, sollevandosi lentamente dal divano, decise di prepararsi ugualmente: in compagnia o no, non avrebbe passato la serata a macerarsi nella sua malinconia sul suo letto.
 

 
Un’ora più tardi Magnus era per strada, diretto verso un club di cui aveva sentito ben parlare. Aveva indossato quello che definiva il suo outfit da battaglia per serate come quella: un gilet di pelle rosso sotto cui non v’era altro se non la sua pelle caramellata ed un paio di pantaloni attillati neri che gli fasciavano perfettamente le gambe. Ai piedi portava degli stivaletti di cuoio scuri decorati da catenelle in acciaio che tintinnavano ad ogni passo assieme ai numerosi braccialetti che pendevano ai suoi polsi. Alle dita portava dello smalto nero lucido ed una quantità non necessaria di anelli mentre attorno alla gola portava solo un paio di collane non troppo pacchiane: un choker nero formato da una semplice sottile striscia di corda nera ed una catenella argentata priva di pendenti.

Aveva tinto le punte dei suoi capelli con uno spray rosso vermiglio e truccato gli occhi con un accenno di ombretto nero sull’estremità esterna ed una sottilissima linea di eyeliner rosso lungo la rima inferiore per dare maggiore profondità al suo sguardo. Si sentiva perfettamente a suo agio in tutta questa eccentricità ma c’era comunque un nodo in fondo allo stomaco che non gli permetteva di apprezzare pienamente neppure il suo look. Se fosse stato di ben altro umore probabilmente si sarebbe trovato bellissimo.
Ancora una volta si forzò di abbandonare ogni sorta di pessimismo in favore delle molteplici possibilità che una serata come quella aveva da offrire e attraversò a testa alta la strada notando la fila che si protraeva al di fuori dell’ingresso del locale.
Stava già per unirsi alla coda quando qualcosa catturò la sua attenzione di sfuggita.

Voltò il capo verso la parte opposta della porta, quella da cui non v’era fila, e notò un ragazzo poggiato contro la parete con le mani sulle ginocchia. Non sembrava stare troppo bene e Magnus era fin troppo avvezzo a questo genere di scene fuori da locali come quello: sicuramente aveva bevuto troppo e aveva bisogno di vomitare, cosa da cui teneva a prendere quanta più distanza possibile. Tuttavia, proprio mentre stava voltandosi per tornare a guardare la fila di persone in attesa di poter entrare, il ragazzo alzò il viso bloccando lo psicologo sul posto.

Alexander.

Si ritrovò ad agire prima ancora di riflettere, muovendosi in sua direzione a passo svelto.

«Alexander!» esclamò quando gli fu vicino, fermandosi a poco più di un metro di distanza, la brezza serale a smuovere leggermente le punte sollevate dei suoi capelli.

Il ragazzo si voltò a guardarlo e sembrò più pallido che mai. Un rivolo di sudore scivolava dalla tempia destra percorrendogli il viso fino al mento, i suoi occhi lucidi improvvisamente preoccupati.

«Che ci fai qui? Stai bene?» domandò lo psicologo quando l’altro non sembrò dar segni di volergli rispondere. Guardandolo notò che per una volta non indossava nessuna delle sue magliette scolorite o felpe consumate ma, anzi, una camicia pulita che gli ricordava quella che aveva indossato il giorno del suo compleanno.

Il pensiero gli fece stringere il cuore.

Alexander sembrò voler sparire. Lo guardava con fare confuso e sembrava essere chiaramente nel panico mentre apriva e richiudeva la bocca senza emettere un singolo fonema. Magnus tentò di muovere un ulteriore passo verso di lui ma il ragazzo sembrò ritrarsi come un animale ferito davanti ad una minaccia.

«Alexander…» mormorò il ragazzo, preoccupato, abbassando la mano che aveva inavvertitamente sollevato verso di lui poco prima.

Il giovane si mise in posizione eretta, allungando del tutto le gambe e scostandosi dal muro e iniziò a lanciare frequenti occhiate all’ingresso del locale.

«Sto bene, non preoccuparti.» disse alla fine senza però guardarlo negli occhi. «Avevo solo bisogno di un po’ d’aria.» aggiunse con la voce bassa, leggermente impastata.

Magnus si chiese se fosse ubriaco, se avesse bisogno di essere riportato a casa.

Dubitava però che fosse lì da solo anche se non vedeva nessuno nelle vicinanze.

Adesso che se lo trovava davanti si sentiva estremamente combattuto. C’erano così tante cose che avrebbe voluto dirgli eppure al tempo stesso le parole sembravano sfuggirgli di bocca. Lo guardava in silenzio sapendo che dire la cosa sbagliata poteva farlo svanire da sotto i suoi occhi come una nuvola di fumo dissolta dal vento. Sapeva però che se voleva risolvere quella situazione spettava a lui compiere un passo. Sia perché il fraintendimento era nato dalla sua parte e sia perché Alexander era evidentemente incapace di affrontare anche questa situazione in quel momento. Lui era l’adulto. Lui doveva essere la roccia, il riferimento fra i due, e doveva prendersi la responsabilità di fare quel primo passo.

«Senti Alexander, per quanto riguarda…» iniziò quindi col dire Magnus dopo un lungo, denso attimo di silenzio. Il ragazzo parve comprendere immediatamente ciò cui si stava riferendo il maggiore e scuotendo la testa lo fermò agitando una mano davanti a sé.
«No, no, non serve. Lascia stare.» lo interruppe senza ancora riuscire a sollevare su di lui lo sguardo.

D’istinto Magnus sollevò una mano e afferrò il polso di Alexander per tentare di fermarlo, di non farlo scappare una volta ancora da sé prima di aver potuto spiegare.

«Alexander, ti prego, ascoltami. Io non—»

Cinque dita si chiusero improvvisamente attorno al polso di Magnus così da staccare la sua mano da quella dell’altro ragazzo.

«Cosa pensi di fare esattamente?» domandò una voce scura, seria e sottilmente minacciosa. Lo psicologo abbassò leggermente lo sguardo sulla figura di un ragazzo di poco più basso di lui ma decisamente più piazzato e muscoloso. Aveva chiarissimi capelli biondi ed un’espressione molto poco gentile sul viso. Due ragazze gli stavano dietro fissando il dottore con fare confuso. Una era minuta, bassina, dal viso arrossato e i lunghi capelli color carota; l’altra era slanciata, bellissima e attraente con i suoi grandi occhi neri e le labbra carnose.

«Niente io stavo solo—» iniziò col dire Magnus capendo che, ad occhi esterni, la scena avrebbe potuto essere fraintendibile.

«N-Non è niente Jace, per favore—andiamo a casa» lo interruppe nuovamente Alec muovendo un paio di passi verso l’amico e afferrandolo per un braccio.

Quindi quello era il famoso Jace, annotò mentalmente lo psicologo. Poteva vedere nei suoi occhi l’affetto che lo legava all’amico e l’autentico desiderio di volerlo proteggere. Era felice di sapere che Alexander potesse contare su qualcuno come lui nonostante il polso avesse iniziato a fargli discretamente male.

Delle due ragazze una sembrava totalmente persa in chissà quale riflessione lontana, probabilmente ubriaca, mentre l’altra sembrava starlo fissando intensamente.

«Alec ma quello non è—?» disse proprio quest’ultima venendo istantaneamente fermata dal fratello. Sembrava seriamente vicino a dare di stomaco in quel suo modo di barcamenarsi fra una persona e l’altra nel tentativo di fuggire. Magnus si sentì colpito da quelle sue reazioni come da uno schiaffo.

«Andiamo via! Per favore…» insisté trascinando questa volta per il braccio la ragazza. Questa, nel sentire il suo tono implorante, ammorbidì i tratti e distolse finalmente lo sguardo dal terapeuta andando a guardare il giovane.
Dopo un breve annuire mise una mano sulla spalla di Jace rivolgendo a Magnus, oltre la spalla del biondo, uno sguardo indecifrabile. «Dai Jace. Portiamo Clary a casa.»

Solo a quel punto il ragazzo lasciò libera la mano di Magnus rivolgendogli un’ultima, glaciale occhiata di avvertimento.

Quest’ultimo abbassò il braccio il cui polso era decisamente indolenzito e espirò leggermente quando vide il piccolo gruppo allontanarsi. Il modo in cui Alec aveva pregato i suoi amici di andare via fu la goccia che gli fece comprendere quanto sbagliato fosse, da parte sua, tentare di raggiungerlo ancora una volta. Lo aveva visto smantellarsi in pezzi sotto i suoi occhi al solo vederlo. Lo aveva visto andare nel panico, sbiancare, ritrarsi come fosse stato fatto di fuoco. Non era giusto, da parte sua, imporgli la sua presenza. Non era giusto ferirlo ancora e ancora e ancora. Catarina, tutto sommato, forse aveva avuto ragione fin dall’inizio. Aveva superato un limite cui non avrebbe mai dovuto neppure avvicinarsi. Adesso era giunto il momento di tornare dal lato giusto di quel confine. Lontano da lui.
   
 
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