Non so cosa volessi esprimere con quella frase, con quel "Ti precedo" detto di getto e anche con malizia. Gioia per essere stato scelto per il ritiro; soddisfazione di potermi allenare con i migliori giocatori dei licei giapponesi; eccitazione di poter mettere alla prova tutte le mie capacità con persone che mi avrebbero seguito senza lamentarsi, e anzi, forse, mi avrebbero spinto ancora oltre. E tuttavia sapevo che c'era anche qualche sentimento meno positivo che turbava quell'estasi. Preoccupazione di non essere all'altezza della responsabilità che gli altri mi avevano messo sulle spalle; l'irritazione di non essere l'unico a partecipare a un qualcosa di così esclusivo, dato che quell'apatico quattrocchi era stato selezionato per un ritiro tra matricole; e quello che mi doleva più ammettere: la delusione che lui non fosse stato scelto e che non sarebbe stato possibile averlo lì. Ora che lo sto vedendo di nuovo dopo tanti anni, forse riesco a spiegarmi cosa intendessi con quel "Ti precedo": la certezza che, se anche io fossi migliorato, andato avanti, giocato con i pallavolisti migliori, lui mi avrebbe raggiunto, lui avrebbe dato tutto se stesso per arrivare a quel livello, e non perché avesse qualcosa da dimostrare a me, o agli altri e a chiunque lo credesse limitato a causa della sua altezza. Ma perché lui sapeva, sapeva, di esserne in grado, conscio di potersi sempre e continuamente migliorare: ne aveva già dato un'eccellente dimostrazione in difesa durante la partita contro la squadra dei gemelli. E a ritrovarmelo ora, davanti, ma dall'altra parte della rete, con divise diverse -e la sua ancora nera-, non posso non pensare che ce l'abbia fatta e vorrei urlarglielo contro. Mi limito invece a sorridergli: ho sentito il suo sussurrato eppure distinto Sono qui e l'unica cosa che posso rispondergli che abbia la stessa intensità di quello che so che stiamo provando è "Sei qui".