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Autore: SkyDream    03/08/2021    3 recensioni
[Ship!SakuAtsu][Accenni UshiSaku]
Atsumu e Kiyoomi fanno parte dei MSBY Black Jackals ormai da due anni e il sogno della Nazionale comincia a farsi sempre più vivo davanti i loro occhi.
Eppure, non è così semplice come si crede.
Non è affatto semplice nemmeno accettare se stessi e ciò che si ha dentro, perchè spesso le emozioni e le pulsioni scuotono più di una cannonata.
Dal testo:
Glielo diceva sempre l’allenatore di stare attento quando si ritorna con i piedi per terra, perché a forza di passare troppo tempo in aria spesso i pallavolisti non riescono ad atterrare bene.
E per Atsumu la regola non faceva eccezione.
-
«E’ brutto vivere tutta la tua esistenza in simbiosi con qualcuno per poi separartene, ti fa sentire mutilato».
Già, mutilato, ecco come si sentiva Kiyoomi. Senza un braccio o senza una gamba.
Incompleto. Instabile. Vulnerabile.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa, Wakatoshi Ushijima
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note iniziali: Eccomi! Questa SakuAtsu è stata scritta per puro divertimento - e la cosa si evince facilmente dalle scene puramente fanservice, ahimè - e devo dire che mi sono divertita anche a scrivere per la prima volta di Ushijima! E' stata una bella sfida e non so ancora come si concluderà il tutto.
La prossima settimana arriverà il secondo e ultimo capitolo, intanto spero che questo sia di vostro gradimento!

Grazie a tutti per il sostegno <3 un bacio!



~ Walk me down your broken line ~
[SakuAtsu]
 
The clouds in your eyes
Down your face they pour
Won't you be the new one burn to shine
I take the blue ones every time
Walk me down your broken line

All you have to do is cry
(Joshua Radin - Closer)


I capelli sembravano oro luminoso e leggero mentre si aprivano a ventaglio sulla sua testa.
Biondi, lo illuminavano come una leggera aureola, inumiditi dal sudore che lento scendeva sugli zigomi e curvava sull’angolo della mandibola.
Le labbra schiuse lasciavano uscire lunghi respiri mentre le gambe toniche e affaticate si piegavano, pronte per il prossimo salto, per il prossimo tentativo.
Ecco che i piedi presero la rincorsa e le braccia si slanciarono verso l’alto per centrare in pieno il pallone e schiacciare con potenza.
Glielo diceva sempre l’allenatore di stare attento quando si ritorna con i piedi per terra, perché a forza di passare troppo tempo in aria spesso i pallavolisti non riescono ad atterrare bene.
E per Atsumu la regola non faceva eccezione.
Non avrebbe saputo dire se fosse stata colpa dei muscoli dei polpacci, esausti dai continui allenamenti, colpiti da un crampo allucinante oppure colpa di quel pensiero che regolarmente lo gettava giù.
Peccato lo avesse gettato sulla caviglia sinistra, letteralmente.
Atsumu urlò di dolore quando si ritrovò con la schiena per terra, d’istinto portò il ginocchio al petto nel tentativo di stendere il muscolo contratto e al tempo stesso tentò di stringere a sé la caviglia dolorante.
Non si accorse nemmeno delle lacrime che avevano preso a rigare il suo volto, ma la verità era che non sapeva dire nemmeno da quanto fossero lì.
Quante delle gocce che avevano inumidito il bordo della maglia fossero sudore e quante lacrime amare di sconfitta.
Lui no, ma Kiyoomi poteva giurare di essere riuscito perfino a contarle.
«Dannazione!» urlò l’alzatore con tutto il fiato che aveva nei polmoni, un po’ per maledire qualche divinità e un po’ per sfogare il dolore.
Portò la nuca sul pavimento e aspettò che il crampo lentamente scemasse lasciando solo la caviglia gonfia come ricordo.
«Neanche il tuo corpo sapeva più come dirti di fermarti un attimo.» Omi piegò le ginocchia e si accovacciò al fianco di Atsumu, gli occhi neri ben piantati su quelli castani dell’altro, velati e spenti come non mai.
Portò le mani lungo il polpaccio dell’altro e cercò di sciogliere il nervo teso che sentiva sotto le dita. Controllò anche la caviglia trovandola calda e leggermente gonfia, sicuramente il giorno dopo avrebbe assunto un imbarazzante color melanzana.
«Non sembra slogata, ma dovrai startene a riposo almeno fino a dopodomani. Anche tre giorni a letto non dovrebbero farti male».
«Tre giorni a letto ci starai tu, Omi!» Atsumu schioccò la lingua contro il palato e chiuse gli occhi nel tentativo di riprendere a respirare. Odiava essere aiutato, ma le mani del suo compagno erano a dir poco provvidenziali e sentiva già la gamba rilassarsi. Così come il resto del suo corpo.
«Io potrei starci benissimo, non ho assolutamente bisogno di ammazzarmi così con gli allenamenti. Soprattutto non voglio una distorsione alla caviglia.» il tono del ragazzo era serissimo e sereno, come se l’altro non fosse caduto al suolo inveendo ai Numi proprio davanti i suoi occhi.
«Sei uno dei tre assi del Giappone da quando eri al liceo, che ne vuoi sapere tu!» Atsumu si chiese se fosse rabbia, invidia o disperazione. Optò per tutte e tre le opzioni.
«Al liceo mi hanno presentato il miglior setter del Giappone, veniva dall’Inarizaki, esteticamente gli somigli molto, ma lui sembrava molto più intelligente di te».
Atsumu gli lanciò un’occhiata torva, Omi aveva però già scostato lo sguardo perso il campo ricolmo di palloni e bottigliette in parte piene d’acqua.
Le lunghe ciglia nere creavano piccole ombre sugli zigomi, così come i ricci scuri che gli sfioravano la fronte candida, solleticandola.
«Grazie per il massaggio, ora posso anche tornare ad allenarmi. Passa una buona serata, Omi Omi.» L’alzatore si mise seduto e fece per sollevarsi da terra quando, come una scarica elettrica, il piede non lo abbandonò nuovamente facendolo capitombolare sulla schiena.
«Dannazione!» ripetè un po’ a sé stesso e un po’ al cielo ormai scuro che si intravedeva dalle grandi finestre della palestra.
«Decisamente tre giorni a letto, Miya».
 
Atsumu detestava chiedere aiuto, ma detestava ancora di più essere aiutato senza il suo consenso.
Una marea di volte suo fratello lo aveva lasciato senza cena o senza compiti finiti, non erano affari suoi e anche volendo si sarebbe solo beccato le occhiatacce e i sospiri seccati del suo gemello. Che cuocesse nel suo brodo!
Pertanto, nonostante a volte fosse necessario collaborare, Atsumu non era abituato a ricevere aiuto da nessuno.
Men che meno da Kiyoomi Sakusa, il ragazzo con meno peli sulla lingua che avesse mai conosciuto.
«Darti dell’idiota sarebbe riduttivo. Forse deficiente rende meglio.» Quel commento poco simpatico gli fece sollevare la testa dal cuscino e fulminò con lo sguardo il ragazzo di fronte a sé.
«Potevi tornare a casa anziché farmi da balia!».
«Assolutamente sì, sarebbe stato più rilassante ma anche meno divertente. Non mi ricapiterà spesso di vederti in pigiama con un piede gonfio come una melanzana mentre piagnucoli come un bambino».
«Non piagn-».
Omi strinse la caviglia con fare fintamente sbadato e si godette l’espressione di puro dolore dell’altro. Lo sentì gemere appena, quasi volesse trattenersi.
«Dicevo, sapevo che sarebbe stato divertente venire ai tuoi personalissimi allenamenti notturni spacca-schiena».
Atsumu sentì le guance andare a fuoco, quindi Kiyoomi aveva davvero assistito al suo allenamento? A dir poco imbarazzante considerando il numero di errori che aveva commesso. E lui non si era nemmeno accorto della sua presenza?!
«Quando ti concentri sul servizio potrebbe anche caderti il soffitto addosso e non te ne accorgeresti nemmeno, Atsumu» aggiunse l’altro quasi a leggergli nel pensiero.
E, cavoli, aveva perfettamente ragione. L’alzatore desiderò di sprofondare tra le coperte pur di non mostrare il suo disagio in quel momento.
«Si può sapere perché eri lì?».
«Perché sapevo che ti saresti fatto male. Era solo questione di tempo, resti comunque una testa di rapa».
Atsumu era giusto pronto per rispondere piccato quando sentì la mano di Omi fermarsi sul dorso del suo piede. Aveva appena terminato di medicarlo e fasciarlo, ma ora sembrava studiare con meticolosa attenzione la sua caviglia.
«Devi assolutamente rimanere a letto, Atsumu, dico sul serio. Avverto Foster, gli dico che per qualche giorno sei impossibilitato a venire agli allenamenti».
Atsumu scattò seduto sul letto e si sbilanciò fino ad ancorarsi al suo polso e a stringerlo con forza – forse più di quella necessaria, ma Omi non parve farci caso.
«Non farlo! Non posso assolutamente saltare gli allenamenti, domani mattina starò sicuramente meglio».
«Come no, conoscendoti finirai per farti male anche all’altro piede. Stattene buono, Miya» Omi abbassò gli occhi e cercò il numero in rubrica ignorando la mano dell’altro ancorata al polso.
«Tu non hai davvero capito nulla!» Atsumu lo mollò e sprofondò nuovamente sul cuscino portando un braccio sugli occhi. Rise leggermente, nervoso, mentre ricacciava indietro le lacrime.
Diamine, lo sapeva benissimo che non si sarebbe mai e poi mai potuto allenare in quelle condizioni. Non avrebbe minimamente potuto aspirare alla sua perfezione.
Omi terminò di scrivere il messaggio a Foster e poi sollevò gli occhi sull’espressione afflitta del suo compagno.
«Quando usciranno i nomi degli atleti convocati per la Nazionale, il tuo nome sarà nella lista. Lo sai meglio di me.» La voce di Omi era decisa, tagliente e riuscì a smuovere qualcosa nell’animo dell’altro.
«Lo so».
«Di cosa hai paura, allora? Di non esserne degno?».
Atsumu prese un respiro profondo e si fermò un momento a riflettere. Pensava davvero di allenarsi solo per garantirsi un posto nella Nazionale, ma non era quella la reale motivazione, era ovvio.
Temeva altro, temeva di essere messo al secondo posto. Di guardare tutta la partita seduto in panchina, sotto l’ombra del suo rivale: Tobio Kageyama.
Kiyoomi si alzò dalla sedia e si assicurò che la batteria del telefono di Atsumu fosse carica.
«Non mi importa della tua risposta, pensa a riposarti una buona volta. Sono giorni interi che non stacchi la spina.» Kiyoomi si diresse in cucina e aprì il frigorifero in cerca di qualcosa di pronto.
Osamu doveva essere passato di lì il giorno prima a giudicare dalle scatole di onigiri sul ripiano in alto.
«Si può sapere da quanti giorni mi segui? Cosa sei, uno stalker? O la verità è che non riesci a stare senza di me, Omi Omi?» Atsumu sfoggiò il suo sorriso più strafottente nella speranza di stuzzicarlo un po’, ma l’altro non si smosse minimamente mentre gli lasciava la cena e l’acqua sul comodino accanto al letto.
«Mi servono le tue alzate per schiacciare. Fine. Mangia e stai buono a letto, domani mattina passerò prima degli allenamenti per assicurarmi che tu sia ancora vivo. Buonanotte».
Atsumu aggrottò le sopracciglia risentito per quella risposta piccata.
«Come faccio ad aprirti se me ne devo stare buono a letto?».
Per tutta risposta, Omi fece tintinnare le chiavi di casa Miya tra le sue dita e – non contento – chiuse la porta a doppia mandata prima di andar via.
 
Atsumu Miya detestava Kiyoomi Sakusa.
Detestava il modo in cui quel ragazzo riusciva a prevedere ogni sua singola mossa con una precisione disarmante, perfino la sera prima durante l’incidente in palestra non sembrava minimamente smosso o sorpreso.
In realtà, – si era ritrovato a pensare un po’ in imbarazzo – gli era sembrato preoccupato, anzi, premuroso nei suoi confronti. Lo aveva accompagnato a casa con la sua auto e lo aveva aiutato a mettersi a letto e a cambiarsi senza battere ciglio.
Sembrava sapere esattamente cosa fare e, doveva ammetterlo, questa cosa lo snervava da morire.
Trovava snervante il suo modo di fare tranquillo e pragmatico, così calcolatore sul campo come fuori da esso.
Kiyoomi sembrava irraggiungibile, mero spettatore delle vite altrui, separato da tutti da una spessa vetrata antiproiettile. Come se lo era ritrovato a fare da crocerossino dopo una – non – banale caduta?!
Si era addormentato così, con l’immagine degli occhi di Omi fissi sulla sua caviglia malandata, con il muso imbronciato e i pensieri così veloci da far rumore mentre decideva come riportarlo a casa.
La notte era trascorsa lenta e profonda, Atsumu aveva così tanta stanchezza accumulata che era precipitato in un sonno profondo senza sogni.
Aprì appena gli occhi quando era già l’alba, svegliato da un rumore di chiavi e porte. Stava ancora riemergendo dal torpore quando un profumo forte e pungente lo invitò a prendere un respiro profondo.
Era un profumo davvero buono, da uomo senz’altro, ma aveva qualcosa che lo stuzzicava come nessun profumo aveva mai fatto.
Atsumu si ritrovò a spalancare gli occhi di botto quando qualcosa di gelato gli si poggiò sul piede. Gemette appena per la sorpresa e per il fastidio, si ricordò all’improvviso della caviglia malandata.
«Oh, scusami, non volevo svegliarti.»
La prima cosa che notò Atsumu - dopo aver ricollegato a chi appartenesse quel profumo e aver raggiunto un color peperone acceso – furono le guance candide e morbide di Omi, aveva ancora il broncio tenero della sera prima e i ricci scuri sembravano umidi come se avesse fatto una doccia prima di uscire.
«Ero già sveglio, tranquillo.» mentì mentre si metteva a sedere e portava gli occhi sul piede fasciato.
«Ti ho messo del ghiaccio perché sembra ancora gonfia, per la storta che hai preso, anzi, non è messa malissimo.» Omi cominciò a girare per le stanze alla ricerca di un cuscino o qualcosa di simile per poter mettere l’arto sollevato in scarico e farla sgonfiare al più presto.
Trovò un paio di cuscini sul divano della cucina.
«Puoi dire a Foster che domani mattina arriverò al solito orario».
«Gli dirò che sei il solito cerebroleso e insicuro. Qui c’è la colazione, vedi di non romperti niente per favore che è già terrificante farti da balia così».
«Sei davvero tremendo, Sakusa! Non ti ho certo chiesto io di aiutarmi e non ho assolutamente intenzione di stare ai tuoi ordini come un bambino!».
Kiyoomi non mutò assolutamente espressione, cosa che fece infuriare ancora di più l’altro.
«Quanto sei disubbidiente, Miya. Fai quasi tenerezza visti tutti gli sforzi che hai fatto per arrivare fin qui, e ora ti fai spaventare da una banale competizione tra compagni di squadra. Sei proprio un bambino.» Omi rise leggermente portando le labbra all’insù in una smorfia irrisoria mentre si allontanava dal letto per andare verso la porta d’ingresso alle sue spalle.
«Io non sono spaventato proprio da nulla, so perfettamente che verrò convocato nella Nazionale e ti assicuro che farò di tutto per non alzarti nemmeno un pallone!».
«Non me ne alzerai nemmeno uno perché ci sarà Kageyama sul campo, no? Non è forse questo che ti spaventa?»
Atsumu spalancò gli occhi in un’espressione sorpresa e quasi gli si mozzò il respiro a sentire con le proprie orecchie il cruccio che gli rimbombava in testa ormai da settimane.
«Dalla tua faccia direi di sì.» Kiyoomi aprì la porta d’ingresso e fece per andarsene quando una voce profonda e seria lo chiamò per nome.
«Sakusa, lascia le chiavi sul mobile e vai via».
Lo schiacciatore non perse tempo neanche a guardarlo in faccia, fece come gli era stato detto e se ne andò senza aggiungere altro.
Atsumu tornò con la testa sul cuscino e il braccio sugli occhi, il cuore gli andava a mille. Come aveva fatto il suo compagno a metterlo a nudo in quel modo?!
Si sentiva umiliato, lui che cercava sempre di mostrarsi strafottente e sicuro di sé era riuscito a far trapelare quella paura così imbarazzante.
Essere battuto da Tobio Kageyama, assistere alle partite e al suo sorrisetto sghembo quando faceva i pallonetti e macinava punti.
Lui doveva essere migliore di Kageyama, doveva mostrare al suo allenatore di che pasta fosse fatto, doveva mostrare a tutti di cosa fosse capace.
Se solo non fosse stato per quella dannata caviglia, e gli faceva ancora un male incredibile. Spostò lo sguardo verso di essa e si perse a contemplare la fasciatura meticolosa e i cuscini morbidi su cui era poggiata.
Diede uno sguardo anche alla colazione che Omi gli aveva lasciato sul comodino insieme ad un bicchiere di latte.
Pensò che Omi fosse stato davvero infame a dirgli quelle cose con quel tono da sfottò, ma che in fondo avrebbe potuto fare molto peggio.
Non lo aveva abbandonato a sé stesso, anzi, si era interessato molto più del dovuto. Probabilmente era stato un po’ cattivo da parte sua cacciarlo in quel modo, ma poco importava, non avrebbe comunque potuto aprirgli il portone. Forse.
Pensò anche che in qualche modo sarebbe dovuto andare in bagno da solo e anche in cucina per bere e mangiare qualcosa.
Atsumu sbuffò sonoramente e ripiombò nel letto per l’ennesima volta.
I Numi del cielo furono scossi di nuovo da numerose imprecazioni.
 
Kiyoomi accolse il fischio di fine primo tempo con un sonoro sospiro.
Poteva finalmente concedersi una pausa di ben cinque minuti che avrebbe speso scolando un’intera bottiglia d’acqua e ingurgitando almeno tre barrette energetiche.
Sentiva addosso tutta la fatica dei giorni precedenti, delle serate passate sugli spalti a sorvegliare quell’idiota di Miya e della notte prima trascorsa in bianco – troppo preoccupato per l’altro per dormire e troppo orgoglioso per ammetterlo-.
Si avvicinò alla panca quando con la coda dell’occhio notò un ragazzo in camicia che lo salutava con un cenno della mano.
«Kiyoomi, hai la faccia stanca. Hai dormito?».
«In tutta onestà non credo siano affari tuoi, Wakatoshi, ma grazie dell’interessamento».
Ushijima Wakatoshi, uno dei migliori assi del Giappone, si appoggiò alla ringhiera che lo separava dall’altro ragazzo, scontrò i suoi occhi olivastri con quelli neri e profondi di Omi e sembrò studiarlo attentamente.
Quelle labbra soffici e schiuse, lo sguardo tagliente e misterioso, perfino quei ricci scuri così morbidi che contrastavano duramente con la sua personalità, lo avevano fin da subito attratto.
Era raro, rarissimo, che qualcuno cogliesse la sua attenzione, ma il carattere di Kiyoomi era così simile al suo, così fuori dalle righe da averlo totalmente rapito.
Era meticoloso, a tratti al limite del maniacale, era preciso e pragmatico come nessuno. Un calcolatore seriale capace di studiare e anticipare le mosse di chiunque.
«Non voglio rubarti troppo tempo, Kiyoomi, volevo solo dirti che giocheremo dallo stesso lato del campo molto presto».
Omi, per tutta risposta, abbassò la bottiglietta da cui stava bevendo e rivolse un lungo sguardo all’altro ragazzo.
«Hai già ricevuto la lettera di convocazione?».
«Non ufficialmente».
«Sai chi saranno gli altri convocati?».
Wakatoshi annuì senza distogliere lo sguardo da quello di Kiyoomi, trovava davvero frustrante provare simili emozioni nei confronti di quel ragazzo.
Erano contorti, a tratti quasi animaleschi e spaventosi.
Era attratto come una calamita, era puro istinto quello che gli diceva di avvicinarsi di più e sfiorare quella pelle.
Lui che mai, in tutta la sua vita, aveva mai provato il desiderio di toccare qualcuno.
Una notte si era svegliato sudato nel suo letto, lo ricordava bene, aveva sognato di sfiorare l’orecchio dell’altro e di sussurrargli quanto avrebbe voluto fargli infrangere tutte le regole, avrebbe voluto vedere sciogliere quella rigidità che gli faceva sempre tenere la testa ben alta, tanto da scontrare sempre i suoi occhi non appena si voltava.
Aveva provato il vergognoso impulso di fare con lui certe cose sporche e sbagliate da disubbidire al loro rigido buonsenso.
«Bokuto Koutaro, Hinata Shoyo, Korai Hoshiumi, Tobio Kageyama, Aran Ojiro, Morisuke Yaku, Motoya Komori-».
«Motoya?» la voce di Omi si era ridotta ad un sussurro e un sorriso sincero si era fatto largo sul suo volto. Ushijima si ritrovò a notare come si fossero formate due piccole fossette sulle guance.
Prese un respiro profondo e spostò lo sguardo su Bokuto e Hinata al centro campo che saltellavano come due bambini.
«Ho delle conoscenze tra gli EJP Raijin e tutti mi hanno parlato molto bene di tuo cugino, pare che sia migliorato a vista d’occhio».
«Non avevo alcun dubbio.» Omi era sinceramente felice di poter giocare al fianco di suo cugino un’altra volta, proprio come quando erano bambini.
D’un tratto la sua espressione mutò totalmente, sollevò nuovamente il volto verso Ushijima notando come avesse congiunto le mani e portato la punta delle dita contro le labbra, lo faceva spesso quando era nervoso.
Se n’era accorto anni prima, durante il primo ritiro insieme.
Quella volta aveva provato ad imbucarsi nella palestra comune in piena notte per potersi allenare in santa pace, senza nessuno che parlasse e gli ronzasse intorno. Kiyoomi detestava la confusione, la folla, le voci che si mescolano, le persone che sbattono l’un l’altra, che si toccano quando parlano.
Si era sorpreso molto quando, aprendo la porta e trovandola aperta, per poco un pallone non lo aveva centrato in pieno volto.
«Mi dispiace, non ti avevo visto!» Ushijima lo aveva raggiunto in un paio di falcate e si era inchinato profondamente a circa un metro di distanza, senza invadere il suo spazio personale.
Kiyoomi si ritrovò a storcere il naso e poco c’era mancato che non se ne tornasse in camera rinunciando al suo sogno di allenarsi solo.
Poi Ushijima aveva sollevato il volto e i loro sguardi si erano incrociati. Una lunga scossa aveva percorso entrambe le loro schiene costringendoli a trattenere per un po’ il respiro.
«Rimarrò ancora un po’, se non ti dispiace» aveva poi aggiunto Ushijima riprendendo in mano il pallone.
«Dovrai bloccare almeno cinquanta delle mie battute».
«Ti farò contare oltre cinquanta».
Quella sera non avevano più detto una parola, avevano comunicato solo con gli sguardi e i sorrisetti sghembi di Kiyoomi ogni volta che l’altro parava nel punto opposto a dove andava la palla.
Adorava metterlo in difficoltà, lui – il grande Ushijima Wakatoshi della Shiratorizawa – battuto da dei banali polsi snodabili.
Più macinava punti, più dentro di lui cresceva un fuoco ardente che urlava “ancora”. Insaziabile.
E più perdeva di vista quel pallone, più Ushijima si sentiva attratto dall’intelligenza e dall’abilità dell’altro asso. Non era fuori dalla sua portata, ma era senz’altro un suo degno rivale.
Kiyoomi non si era minimamente scomposto, era rimasto rigido a giocare come fosse alla partita più importante della sua vita, senza prendere un momento di respiro ma anzi, saltando sempre più in alto di volta in volta.
Quando tutti i palloni furono lanciati nei più svariati angoli della palestra, il sole era ormai quasi a capolino nel cielo.
Kiyoomi e Ushijima si erano ritrovati a sistemare tutto, ancora senza parlare, per poi dirigersi alle docce.
Lo sapevano già da prima, dal loro primo incontro, di avere delle cose in comune, ma quale non fu la sorpresa di Omi quando vide l’altro pulirsi le mani meticolosamente con un netta unghie. Così come l’asso della Shiratorizawa era rimasto stupito nel constatare con che precisione maniacale l’altro ripiegasse i vestiti e sistemasse il borsone.
Potevano considerarsi sciocchezze, ma così non era.
Entrambi erano cresciuti con una disciplina rigida, autoritaria, nei loro movimenti vi era la sicurezza di chi non ha mai commesso un errore. O per esso era stato punito.
Il loro sbaglio, però, era stato quello di diventare adulti responsabili troppo presto.
Troppo presto avevano perso i loro punti di riferimento, finendo per diventare ciò di cui avevano bisogno.
Forse per questo motivo, anni dopo, si erano ritrovati ad accettare – finalmente – di essere legati da un filo sottile e invisibile, ma anche parecchio carogna.
Perché quel filo che prima era sottile e invisibile, anno dopo anno, si stava trasformando in una lunga e pericolosa lingua di fuoco, pronta a far divampare un incendio.
E ne erano entrambi consapevoli.
«Atsumu Miya? Ci sarà anche lui?» chiese Omi tornando con i piedi per terra, il pensiero del suo alzatore lo fece ridestare da quelle profonde elucubrazioni che spesso partivano nella sua testa senza il suo consenso.
«Lo avevano nominato, ma a quanto pare non ha racimolato abbastanza punti nell’ultima stagione».
La rabbia negli occhi di Omi doveva essere davvero ben visibile per far reagire Ushijima con quell’alzata di sopracciglia del tutto fuori contesto.
«Cosa significa che lo avevano nominato?».
«C’è ancora l’ultima partita prima delle convocazioni ufficiali. Dovrebbe portare a casa un bel po’ di punti per poter catturare l’interesse dei piani alti».
Kiyoomi si passò una mano tra i ricci scuri e sospirò pesantemente: doveva fare qualcosa e al più presto.
Al tempo stesso, però, dopo come si era rivolto Atsumu quella mattina, avrebbe voluto lasciarlo lì a cuocere nel suo brodo.
Aveva però un motivo abbastanza valido per non arrendersi ancora.
Ushijima sollevò gli occhi nel momento in cui l’allenatore fischiò la fine della pausa e decise che era giunto il momento di togliere le tende e ritirarsi a riflettere su ciò che aveva appena visto. Quel bagliore negli occhi di Omi al solo nominare Miya non gli era piaciuto per niente, anzi, sentiva allo stomaco la stessa stretta causata da un’indigestione di sashimi.
«Devo riprendere l’allenamento -» Kiyoomi alzò la mano per salutare l’altro che, in tutta risposta, gli dedicò un lieve sorriso. Le labbra appena stirate.
«Ci rivedremo presto, Kiyoomi Sakusa».
«Ci rivedremo presto, Ushijima Wakatoshi».
Prima di andar via, l’ex asso della Shiratorizawa si perse a contemplare la schiena ben dritta e le spalle sciolte dell’altro, pronto per iniziare il set con una battuta in salto.
Omi prese una piccola rincorsa e spiccò il volo prima di colpire la palla con i suoi polsi snodevoli.
La maglia si sollevò quel tanto che bastava per mostrare un neo sulla schiena e la pelle nivea, fatta di luna.
Ushijima strinse un pugno e decise di andar via davvero, prima di doversi sul serio conficcare le unghie nella pelle per poter evitare di dar manforte ai suoi istinti.
Mai.
Mai accaduto prima di quel ragazzino in ricci e mascherina che, proprio come un batterio resistente, continuava a moltiplicarsi nella sua mente senza sosta.
 
«Sei un deficiente! Un d-e-f-i-c-i-e-n-t-e! Mi vergogno di essere tuo fratello, tuo gemello tra l’altro! Sono anni che ti chiedo di fare il test del dna, deve esserci uno sbaglio!» Le urla di Osamu rimbombavano nella stanza tramite il vivavoce impostato sul telefono.
«Deficiente ci sarai tu! Siamo identici, come credi che ci abbiano scambiati?! Al massimo sei caduto tu dal seggiolone da piccolo!».
«Tu sei caduto proprio dal balcone del terzo piano, razza di idiota!»
Atsumu fu fortemente tentato di chiudere il telefono in faccia al suo presunto gemello. Telefonargli per confrontarsi con lui circa gli ultimi eventi si era rivelata una vera fregatura.
«E comunque questa notte l’ho sentito, speravo si trattasse solo di un crampo. Ti fa ancora tanto male?» Osamu, dall’altra parte dell’etere, stava mescolando la zuppa di miso per la colazione.
Non era la prima volta che avvertiva quando suo fratello finiva per farsi male, anzi, a dir la verità, succedeva fin da neonati: se uno piangeva, l’altro frignava. Potevano essere divisi da anni luce di distanza, a niente sarebbe servito.
«Un po’, se mi tengo ai muri riesco a muovermi anche se zoppico. Kiyoomi ieri mi è stato di grande aiuto, anche se non riusciva proprio a starmi vicino senza riempirmi di insulti. Ehi, ‘Samu mi stai ascoltando? Sento rumore di penna, che stai scrivendo?!».
«Un promemoria, devo ricordarmi di offrire una scatola di onigiri all’umeboshi a Sakusa».
«Sei davvero uno stronzo!».
«Quindi mi hai telefonato solo per piagnucolare di una caviglia storta? Quando passiamo alla parte interessante della questione?».
Atsumu aggrottò le sopracciglia e sospirò rumorosamente, fissò il muro piastrellato di fronte a sé e picchiettò leggermente le dita sulle sue cosce.
«Ho – ecco – beh… potrei, potrei aver cacciato via Kiyoomi in modo un po’ brutale e potrei essere rimasto solo a casa e senza sapere bene come muovermi. Probabilmente morirò di fame e solitudine».
«La malerba non muore mai, né di fame, né di solitudine e ben ti sta! Perché hai trattato male Sakusa dopo quello che ha fatto per te? E dopo essere tornato stamattina solo per controllare come stavi, Atsumu! Sei davvero un…».
«Io non volevo cacciarlo veramente!» Atsumu rimase spiazzato dalle sue stesse parole e sentì un nodo alla gola.
Certo che non voleva cacciarlo veramente, Omi era un suo amico dopotutto. Avevano condiviso bei momenti, ne avrebbero condivisi altri e poi sembrava sempre riuscire a capirlo.
Soprattutto in campo, sembrava avere la chiaroveggenza con lui.
«Allora diglielo, razza di idiota. Mandagli un messaggio e chiedigli di tornare.» Osamu aveva addolcito il tono e, a giudicare dal rumore, stava riponendo le stoviglie nel lavandino per poter andare ad aprire il locale.
Si sentì anche il rumore di un bacio e il sospiro che accompagna sempre un sorriso vero. Rin doveva essere a casa sua.
«Come scrivo? Tipo “torna”?» ipotizzò Atsumu ora cominciando a tormentare il suo ciuffo.
«Come no, mettigli anche una minaccia dopo ed è perfetto!»
Atsumu sentì Rin ridere leggermente e si immaginò il fratello carezzargli una guancia come faceva sempre.
DIAMINE! Avrebbe voluto così tanto farlo anche lui! Certo, non con Rintaro Suna, sia chiaro.
«Ci penserò da solo, devo solo trovare il modo di evitare che Omi si ritrovi a dover sfondare la porta per poi trovarmi chiuso qui dentro, in qualche modo devo tornare a letto!» Atsumu sospirò pesantemente e guardò le piastrelle davanti a sé.
«’Tsumu?».
«Sì?».
«Non sei rimasto bloccato sulla tazza del gabinetto a causa della caviglia che si è gonfiata, vero?».
 
Il tu tu tu tu che ne seguì fu una risposta più che valida.
 
Kiyoomi avrebbe voluto disinfettare la panchina e sdraiarsi per lungo, rimanere lì un paio di ore a dormire e poi – solo poi – tornare a casa.
Non aveva alcuna voglia di tornare in quel bilocale solitario, aprirsi una birra analcolica e girare svogliato i programmi tv.
Non dopo quello che aveva saputo. Aveva più voglia di andare da Atsumu e prenderlo rumorosamente a pedate nel sedere per non aver prestato più attenzione al punteggio necessario per la convocazione.
Anziché dare ascolto alla voglia spietata di spiaggiarsi su una panca-poggia-sederi, Kiyoomi si infilò sotto la doccia e lasciò che tutto il sudore scorresse via.
Si strofinò parecchie volte il viso, sentiva l’acqua gelida colpirgli la pelle con insistenza.
«Omi-kun! Non so chi sia, ma qualcuno sta tentando di farti esplodere il telefono a furia di mandarti messaggi!» la voce di Bokuto lo raggiunse mentre finiva di insaponarsi i capelli.
«In quanto tuo capitano ho il dovere di vigilare anche sulla tua vita privata, Sakusa, non sia mai che qualche stalker attenti alla tua salute!» stavolta era stato Meian a parlare, il tono serio tentava di nascondere una risata che proprio non riusciva a trattenere.
Contarono fino a tre prima di vedere i ricci scuri del loro compagno uscire fuori dal box doccia.
«Date qua!» Prese in mano il cellulare e cominciò a scorrere i messaggi mentre con l’altra mano teneva stretto l’asciugamano attorno alla vita.
«Deve essere qualcuno di importante se è riuscito a farti uscire dalla doccia con ben tre minuti di anticipo. Devi dirci qualcosa?» Meian stava tamponando i capelli poco distante da lui e si beccò, in tutta risposta, un’occhiataccia fulminante.
Omi trovò effettivamente una decina di messaggi mandati l’uno a poca distanza dall’altro.
 
Torna!
Torna.
Torni?
Tornerai?
Potresti tornare?
Ciao Kiyoomi, appena puoi potresti tornare? Grazie.
Mi stanno rapendo gli alieni.
 
La smorfia confusa sulla sua faccia convinse tutti i compagni di come non fosse assolutamente un messaggio romantico o sentimentale.
«Dannato!» Omi gettò il telefono dentro il borsone con poca grazia e cominciò a vestirsi meticolosamente, con i nervi ben saldi. Non avrebbe affatto velocizzato il ritmo della sua routine per un idiota dal ciuffo biondo.
Certo, quei messaggi potevano anche essere indice di qualcosa di più grave. Magari era caduto e si era fatto male…
«E’ la prima volta che sei pronto prima di me!» gli fece però notare Shoyo – appena uscito dalla doccia – mentre si dirigeva verso la porta.
Distrattamente diede un’occhiata all’orologio.
Aveva impiegato quasi quindici minuti meno del solito.
Si mandò al diavolo da solo e afferrò le chiavi dell’auto. Tanto valeva sbrigarsi ormai.

 
 
Kiyoomi si accorse di non avere le chiavi per entrare soltanto quando ormai era giunto sul pianerottolo di casa Miya. Atsumu lo sapeva – era stato lui stesso a chiedergli di posarle – quindi perché mandare quei messaggi?
Decise di citofonare e di tendere bene le orecchie alla ricerca di rumori.
Effettivamente sentiva un piede battere sul pavimento e vari insulti a numi non ben precisati. Dopo un paio di minuti vide la porta aprirsi.
Atsumu si stava aggrappando allo stipite e aveva il fiatone di chi si è fatto tutto il corridoio saltellando su una gamba sola. Ma non era quello il dettaglio più rilevante: Atsumu gli aveva aperto con addosso soltanto un paio di pantaloni morbidi, i pettorali ben scolpiti si muovevano a ritmo con i respiri più profondi così come il suo addome sembrava contrarsi mentre piccole goccioline scendevano lente fino al bordo dell’elastico dei pantaloni.
Atsumu aveva i capelli bagnati attaccati sulla fronte e il viso ancora rosso a causa dell’acqua calda.
«Ti sei…-fatto la doccia?» provò ad indovinare Omi, ancora con i piedi sullo zerbino.
«Ho ipotizzato che non ti saresti minimamente avvicinato ad un cadavere allettato da quasi ventiquattro ore.» e, soprattutto, sedersi dentro il box doccia gli era sembrata l’unica soluzione per stendere la gamba prima di rimettersi in piedi.
Aveva unito l’utile al dilettevole.
«Hai dunque ipotizzato che sarei tornato senza lasciarti cadavere sul letto».
«Avresti potuto non farlo, è vero, ma anche io a volte ho la chiaroveggenza con te!».
Atsumu sfoggiò il suo migliore sorriso sornione e sperò che quella menzogna non trapelasse troppo dai suoi occhi.
Altro che chiaroveggenza! Aveva piagnucolato sotto la doccia abbracciato alla bottiglia di sapone sperando di sentire il citofono suonare fino al minuto prima.
Omi assottigliò gli occhi mandandogli lo stesso sguardo omicida che aveva dedicato a Meian. Lo afferrò per un polso e lasciò che si poggiasse su di lui.
Atsumu circondò le spalle di Omi con un braccio e sentì la mano dell’altro insinuarsi tra le sue scapole per sostenerlo. Profumava di buono proprio come quella mattina, quando si era svegliato scoprendosi attratto da quella nota pungente.
«Come mai hai cambiato idea?» Kiyoomi lo accompagnò fino alla sua camera mentre con gli occhi studiava da lontano la sua caviglia e tutto il percorso per arrivare ad essa.
Atsumu era bello, maledettamente bello considerando che il carattere lasciava di gran lunga a desiderare.
Menefreghista, egocentrico, narcisista e-
«Mi dispiace, non volevo risponderti in quel modo stamattina.» Atsumu raggiunse il suo letto e stese le gambe sul materasso, rimanendo però seduto, la schiena ben dritta da cui risaltavano i singoli processi spinosi.        
Dire quelle parole gli era costata più fatica di zoppicare per mezza casa, aveva quindi raggiunto un invidiabile tono peperone.
«Significa che avevo ragione? Che ciò che temi è davvero Kageyama?» Omi non si avvicinò ulteriormente, anzi, sembrava aver preso una certa distanza e Atsumu interpretò quel comportamento come il risultato del suo comportamento della mattina.
Non al fatto che fosse mezzo nudo. E – per la cronaca – lui aveva utilizzato la carta sporca del “nudo e statuario” molte volte per vincere delle discussioni o convincere le ragazze a passare qualche oretta con lui da soli.
Ma non quella volta.
«Io non temo Kageyama, o meglio, non è solo lui il problema. Ho paura di deludervi, vorrei essere bravo come lui e alzarvi il pallone in modo da macinare punti come una macchina da guerra. Invece -».
Invece a volte aveva l’impressione che allenarsi duramente giorno e notte non fosse abbastanza. Era sempre stato il più bravo.
Ora sentiva il suo titolo minacciato e proprio non gli andava giù.
Kiyoomi, in confronto, come asso faceva impallidire il mondo. Hinata, Bokuto, Meian, e gli altri erano formidabili.
Erano una squadra meravigliosa sotto molti punti di vista.
«Macina punti, allora. Non vedo quale sia il problema».
«Che non ne sono in grado!» Atsumu si alterò leggermente nel doverlo constatare in modo così aperto. Doveva mantenere la calma.
«Certo che ne sei in grado, Miya. O non sarei tornato fin qui per dirti che non sarai convocato per la Nazionale».
Il respiro di Atsumu si mozzò improvvisamente.
 
Cosa?
 
«Tu come…?»
«Wakatoshi».
Atsumu sollevò gli occhi su di lui, li aveva lucidi, strabuzzati al limite dell’umanamente concepibile e probabilmente aveva smesso di respirare da un bel paio di secondi.
Non si era mai sentito così perso, così solo.
Kiyoomi e il resto della sua squadra sarebbe stata affiancata a Tobio Kageyama, lui sarebbe rimasto solo sul campo dei MSBY Black Jackals e tutti i suoi sforzi non sarebbero serviti a nulla.
Desiderò solo di sprofondare nel letto e scoprire di aver vissuto solo un brutto sogno.
«Atsumu?» Kiyoomi si era abbassato sulle ginocchia fino ad arrivare ad un palmo dal suo viso ancora attraversato da minuscole goccioline d’acqua. Immobile con gli occhi fissi sul muro.
Per la prima volta inchiodò il suo sguardo e Atsumu potè notare come la pupilla e l’iride di Omi non si fondessero realmente come aveva sempre creduto.
Vi era un piccolo anello screziato di verde smeraldo che li separava, così scuro e sottile da non essere visto da lontano.
Per un momento, uno solo, si chiese quante altre persone lo sapessero all’infuori di lui.
«E’ finita.» decretò l’alzatore mantenendo il contatto.
«No. Finchè ci sarò io, non sarà mai finita. Ricordalo».
 
Kiyoomi ricordava bene quando lui e Atsumu si erano ritrovati per la prima volta sullo stesso autobus per andare a giocare al centro di Hamamatsu. La prima volta come piccoli sciacalli, erano in squadra da sole due settimane e già disputavano partite.
Omi si era seduto in fondo, dal lato del finestrino che aveva aperto per far cambiare l’aria. Non era riuscito nemmeno a togliersi la mascherina.
Se ne stava poggiato al sedile con così tanta tensione che, ad un primo sguardo, più che seduto sembrava sospeso.
Aveva gli occhi incollati sull’asfalto che scorreva lento sotto le ruote del bus. I pensieri bloccati, incatenati, anestetizzati e rintontiti dal disinfettante.
Lo faceva spesso. Utilizzava così tanto disinfettante a base di alcol da rintronarsi con il solo odore.
Era così forte da farlo sentire intossicato, da bruciargli la gola e gli occhi. Allora poteva permettersi di pensare solo a quello, alle particelle di soluzione idroalcolica che si insinuavano dentro i polmoni e li inacidivano.
Come si sentiva lui dentro, sciolto nell’acido. Abbandonato come un relitto.
 
Gli mancava Motoya.
 
Gli mancava sentire il suo buonumore, il profumo dei dolcetti che aveva sempre con se, il modo che aveva di coinvolgerlo senza invadere mai i suoi spazi.
Da quando si erano dovuti separare, uno dall’altro lato del Giappone rispetto all’altro, sembrava l’ombra di se stesso, era diventato il suo peggiore incubo.
Kiyoomi si sentiva sporco, sudicio dalla testa ai piedi, colmo di un morbo putrido che lo rendeva pestilente agli occhi degli altri.
A dirla tutta, si sentiva così da quando, da bambino, si era beccato un’infezione idiopatica, da causa sconosciuta. Lì, esattamente in quel momento, sua madre aveva sviluppato una tremenda ossessione per la pulizia.

Sembrava vivere solo per pulire, per pulirlo, e Kiyoomi si sentiva sempre sporco, mai abbastanza pulito e così si lavava sempre, sfregava le mani alla ricerca di quella pace interiore per zittire la voce che gli diceva che era sporco.
Che si sarebbe ammalato.
E allora sentiva prurito, sentiva i germi brulicare sulla sua cute, e doveva alzarsi dal letto e strofinarli via ancora e ancora finchè la puzza di alcool non lo rintontiva, non lo faceva sentire intossicato, ubriaco.
Allora si diceva che se lui era intossicato, lo erano sicuramente anche i germi.
E la sua cute, anno dopo anno, si faceva sempre più fragile e si lesionava ad ogni corrente d’aria a volte fino a sanguinare.
E giù, di nuovo, a pulire e disinfettare perché le ferite aperte sono la porta d’ingresso di ogni infezione.
Lo diceva sempre anche sua madre.
Poco importava che la ferita fosse fisica o meno, le infezioni sarebbero arrivate comunque.
E Kiyoomi aveva medicato ogni sua ferita, aveva evitato ogni luogo esposto a germi -a gente – e ogni volta che sentiva il morbo inghiottirlo, soffocarlo, si allontanava da tutto e da tutti, cercava riparo in un luogo che avrebbe nascosto la sua ferita così che nessuno potesse infettarla.
Quella sensazione di sporco non lo aveva mai mollato, a volte si era ridotta ma non lo aveva mai lasciato realmente, e lui era cresciuto così. Nella convinzione di essere macchiato irrimediabilmente.
Sua madre lo aveva lasciato che era solo un bambino – per un’infezione, volle uno scherzo del destino– e suo padre lo aveva catalogato come caso senza speranza di vita normale, uscendo dalla stessa prima che Omi potesse fare lo stesso con casa sua.
Suo fratello e sua sorella, unici a non aver mai subito le ossessioni maniacali della madre, da sempre naturalmente più legati al padre che all’altro lato della famiglia, si erano ridotti a trattarlo alla stregua di un estraneo.
Allora Kiyoomi aveva imparato a cucinare, aveva imparato a lavare e a pulire ciò che lo circondava, aveva imparato a cavarsela da solo e a defilarsi da chiunque volesse farlo entrare nella propria vita.
Perché, insomma, se per metà della tua vita qualcuno non ha fatto altro che disinfettarti e per l’altra metà qualcuno non ha fatto altro che evitarti, un motivo ci sarà.
Motoya però non lo evitava, non lo disinfettava neanche, lo faceva entrare nella propria stanza offrendogli della cioccolata e dei biscotti e ne approfittava per raccontagli le sue ultime conquiste sentimentali o l’ultimo videogioco uscito che dovevano assolutamente provare.
A volte ne approfittava per farsi aiutare con i compiti, soprattutto matematica, ma questo ad Omi non era mai pesato.
Vivere con Motoya era un po’ come vivere con l’altra metà di se stesso. Una metà più sana, equilibrata, pulita.
Motoya era la sua parte migliore che aveva deciso di staccarsi per avere una vita più felice. Lo pensava spesso quando era solo un bambino.
Con Motoya poteva fare tutto, poteva giocare e mangiare senza stare attento a ciò che toccava. Poteva parlare senza timore.
Così, anche da adulti, anche dopo il diploma, Motoya era comunque rimasto parte della sua coscienza.
Staccarsene e ritrovarsi a vivere da soli era stato devastante come essere mutilati.
Era proprio sul punto di chiedere all’autista di fermarsi e tornarsene a piedi fino a Gunma, a quattrocentosettantacinque chilometri di distanza, quando qualcuno si avvicinò a lui.
Atsumu Miya aveva il segno della felpa sulla guancia, indice che doveva essersi addormentato durante la prima parte del viaggio.
Il resto della squadra, in effetti, era già collassato nel mondo dei sogni, così erano rimasti svegli solo loro due.
«Non riesco a dormire, posso?» indicò il sedile accanto al suo e con l’altra mano si sfregò un occhio in un gesto che trasudava tenerezza.
Omi non era ancora riuscito ad entrare in sintonia con la squadra, nonostante buona parte dei membri li conoscesse già dai tempi del liceo, motivo per cui continuava a sedersi sempre solo.
Non quella volta però.
Negli occhi di Atsumu c’era il bisogno non di stare al fianco di qualcuno, ma al suo fianco. E presto avrebbe capito perché.
L’alzatore si sedette e poggiò la testa all’indietro dando una rapida occhiata al paesaggio cittadino che brulicava fuori, vi erano miliardi di luci.
«Ti manca Motoya?»
A quella frase, Omi sussultò e si voltò del tutto verso di lui come se ne avesse catturato l’attenzione.
«A me manca spesso Osamu, anche se non lo ammetterò mai davanti a lui. E’ brutto vivere tutta la tua esistenza in simbiosi con qualcuno per poi separartene, ti fa sentire mutilato».
Già, mutilato, ecco come si sentiva Kiyoomi. Senza un braccio o senza una gamba.
Incompleto. Instabile. Vulnerabile.
«Però so che potrei chiamarlo anche adesso e lui risponderebbe comunque, Osamu risponde sempre alle telefonate. Risponderebbe anche dopo essere morto con quella voce fastidiosa che dice “Pronto, Onigiri Miya, buongiorno come posso esserle utile?”» e quell’imitazione parecchio parodiata del gemello fece sorridere Omi dietro la mascherina.
«Motoya è così pure, non è vero?» Atsumu notò che gli occhi dell’altro erano ora rivolti verso il basso, verso le mani screpolate e fredde poggiate in grembo.
«Motoya è la mia famiglia. Non ho nessun altro.»
Kiyoomi non voleva la pietà di nessuno, anzi, odiava quando la gente lo guardava come il bambino orfano di madre che era stato.
Abbandonato a se stesso da un padre che non voleva prendersene cura.
Atsumu, però, non lo guardò con compassione ma con comprensione. Lui aveva entrambi i genitori, era vero, ma non aveva mai avuto una buona sintonia con loro.
Era Osamu l’intermediario, era lui che teneva intrecciati i fili di casa Miya.
«Adesso hai noi, anche se per ora non ti fidi. Noi ci saremo tutti quanti per te, proprio come una famiglia. La famiglia più rumorosa che potesse mai capitarti!» Atsumu rivolse uno sguardo a Bokuto addormentato qualche sedile più avanti con le cuffie nelle orecchie. Lo aveva sentito sussurrare qualcosa a Keiji Akaashi prima di chiudere gli occhi e cominciare a russare come un trombone.
Omi quella volta non riuscì nemmeno a ringraziarlo, riuscì soltanto a portare la mano verso la mascherina e ad abbassarla.
Gli sembrava di sentire in testa la voce di Motoya che, qualche anno prima, davanti scuola gli aveva detto “Hai notato che con me non hai mai portato la mascherina? Perché di me ti fidi! E’ tutta una questione di fiducia nella vita, ricordalo!».
E aveva maledettamente ragione.
Vicini l’uno all’altro, spalla contro spalla, Atsumu e Kiyoomi erano finalmente riusciti a prendere sonno.
 
Erano passati quasi due anni da quella volta e, almeno inizialmente, nessuno avrebbe scommesso una sola dracma sulla loro accoppiata: Atsumu era sempre sarcastico e presuntuoso, Kiyoomi non faceva altro che ribattere a volte con toni offensivi e diretti.
Eppure, schiacciata dopo schiacciata, partita dopo partita, quei due avevano cominciato dapprima a tollerarsi e poi a darsi manforte a vicenda.
Non era infatti raro vedere Atsumu dare una pacca sulla schiena di Omi dopo qualche schiacciata sbagliata, così come era diventato ormai normale per tutti vedere come Omi portasse acqua e cibo anche per lui.
Quando uno si allenava, l’altro osservava e dispensava consigli non richiesti dal bordo del campo.
Erano passate così due primavere e due autunni, senza accettare minimamente come il loro legame si fosse ormai fatto più solido di quelli che si erano creati all’interno della stessa squadra.
Per cui, dopo aver scoperto che Atsumu rischiava di non essere convocato a causa dei punti minimi mancanti, Kiyoomi si propose come suo allenatore personale.
Non ci fu spazio per i rifiuti, ma solo per i giuramenti: Omi sarebbe stato tremendo, si sarebbe fatto odiare e Atsumu avrebbe tentato plurimi omicidi.
Ma non importava a nessuno dei due.
La vetta era ancora ben lontana e l’avrebbero raggiunta. A qualunque costo.
 
Tre giorni dopo la slogatura, Atsumu tornò in campo anche se non perfettamente in forma.
La partita decisiva si sarebbe tenuta solo una settimana dopo così, sotto la dittatura di Kiyoomi, gli allenamenti si protraevano anche oltre l’orario di chiusura della palestra.
Era estenuante, ai limiti del compatibile con la vita, ma ogni volta che si sdraiava sul campo alla ricerca di ossigeno, ecco che Kiyoomi lo raggiungeva con il broncio fisso sui suoi occhi.
«Sei un pappamolle, Osamu ha ragione.»
Kiyoomi passava ogni sera da Onigiri Miya a prelevare la cena sia per se che per Atsumu – solitamente collassato sul sedile del passeggero -. Osamu era sicuramente la parte più importante del loro allenamento infernale considerando che preparava loro anche i cestini del pranzo e una veloce colazione con gli avanzi degli ingredienti.
«Non mi va molto a genio il fatto che tu e ‘Samu andiate così d’accordo.» Atsumu erroneamente lo disse ad alta voce, ma in realtà avrebbe soltanto voluto pensarlo.
Quella considerazione era apparsa dal nulla così, emersa dal cuore.
«Sei per caso geloso del fatto che io e Osamu-kun la pensiamo allo stesso modo su molte cose? In effetti non posso che constatare che, tra i due, sia proprio tu la parte lesa».
Kiyoomi finì di parlare nell’esatto momento in cui cominciò una rincorsa per poi librarsi in aria ed effettuare un servizio micidiale. Il boato nella palestra fu tale da convincere Atsumu a rimettersi in piedi veloce come una molla.
«Con un servizio simile finirai per spaccare le braccia a Motoya!».
Omi cominciò a palleggiare mano a mano che i pensieri si scioglievano nella sua mente.
«Motoya è più resistente di quello che pensi e poi, se dobbiamo creare dei varchi per permetterti di fare punto, tutta l’attenzione e la tensione devono essere scaricati su di me. In questo modo i muri seguiranno i miei passi e potremo effettuare un attacco sincronizzato, Bokuto e Hinata faranno il resto. Inoltre, grazie ai miei servizi sottovaluteranno i tuoi e ti permetteranno di fare punto. Possiamo anche spingere il loro muro a placcarmi per far sì che io al secondo tocco non schiacci ma alzi la palla a te per un pallonetto-».
Omi non riuscì a terminare di parlare, ancora con gli occhi fissi sul pavimento di fronte a sé, le sue elucubrazioni mentali furono interrotte da due mani possenti che gli afferrarono i bicipiti.
«Omi? Ehi, Omi, spegniti! Spegniti!» Gli occhi di Atsumu erano lievemente preoccupati, Kiyoomi non riposava da giorni e passava intere notti ad elaborare strategie e guardare video.
Le profonde occhiaie che emergevano sulla pelle candida del suo volto ne erano la conferma.
Atsumu – per quanto egocentrico e strafottente – non voleva affatto che Kiyoomi si distruggesse così per lui. Voleva preparargli un pasto completo – senza riso, basta! – e vederlo dormire per dodici ore di fila.
L’illuminazione lo investì con la stessa intensità di uno shinkansen all’ora di punta.
«Per stasera basta, Omi, dico davvero, rimani a dormire da me e domani mattina cominceremo prima degli altri. Abbiamo bisogno di un po’ di riposo».
Kiyoomi lo guardò confuso. Lui dormire a casa Miya?
 
Ah?
 
Atsumu sfoggiò nuovamente la sua – falsissima – chiaroveggenza.
«Il padrone di casa mi ha fornito una lavatrice e un’asciugatrice, anche volendo ho almeno dieci magliette di ricambio che credo ti entrino. Il letto è pulito, le lenzuola le ha stese mio fratello, se può farti dormire meglio, e il cibo che ho in casa me lo ha sempre portato lui perché non ho la più pallida idea di come si faccia la spesa».
Kiyoomi lo guardò sorpreso per quella lista esaustiva di punti a cui lui stesso, in un solo secondo, aveva pensato.
Incredibile come Atsumu lo conoscesse bene.
«Confermo: sei tu la parte lesa tra i due Miya. Tuo fratello è molto meglio».

 
 
Dormire a casa di Atsumu si era rivelato più semplice del previsto.
Lui stesso gli aveva fornito panni monouso e uno spray per superfici da utilizzare per disinfettare “ciò che più gli pareva e piaceva ad eccezione dei suoi manga da collezione”.
Atsumu era provvisto di ciabatte ancora confezionate e un’invidiabile serie di asciugamani puliti e ripiegati. I dispenser di saponi erano stati tutti rabboccati da poco e sul lavandino del bagno non vi erano nemmeno tracce di dentifricio.
Atsumu era, in sostanza, una persona alquanto ordinata al di fuori della sua stanza – regno indiscusso di caos -.
 
In realtà aveva pulito e sistemato tutto il giorno prima proprio per timore di una situazione simile, ma questo Kiyoomi non lo avrebbe mai scoperto.
 
A sua volta, Atsumu, ebbe modo di poter studiare un Omi più casalingo. Era abitudinario, aveva i suoi ritmi ma non sembrava poi così ossessionato dai suoi rituali come sarebbe potuto apparire dall’esterno.
Ad Omi infastidivano gli estranei e i luoghi sconosciuti. Casa Miya e Atsumu non rientravano più nella lista nera e per questo aveva cominciato a sciogliersi.
Dopo la doccia si era accomodato a tavola – previa ricognizione della cucina per assicurarsi che l’altro non avesse mandato a fuoco nulla – e aveva ammirato il piatto di soba che era stato poggiato sulla sua stuoia in bambù, accanto le bacchette ancora confezionate e sterili.
«Hai davvero cucinato tu o quel rumore che ho sentito poco fa era il fattorino dello yatai qui all’angolo?» il tono sarcastico di Omi colpì profondamente Atsumu che si ritrovò a rivolgergli lo sguardo più offeso di cui fosse capace.
«E’ l’unico piatto che so cucinare dopo il ramen istantaneo e i bastoncini al forno!» ammise con troppo orgoglio nella voce, quasi si aspettasse dei complimenti.
«E, di grazia, come mai sai cucinare solo questo piatto? Non mi pare di averti mai visto mangiare soba».
«E’ il piatto preferito di Rin, il fidanzato di mio fratello, credo basti come spiegazione».
Osamu ci aveva impiegato mesi per preparare i soba perfetti prima di cucinarli e servirli a Rintaro Suna con una scioltezza disumana, come se non fosse nato per altri motivi all’infuori del renderlo la persona più felice e sfamata del mondo.
Atsumu, per tutto il tempo, aveva preso il ruolo di povera cavia a cui far ingurgitare chili e chili di soba di tutti i tipi: al manzo, al pollo, alle verdure, con e senza soia.
Dopo quell’esperienza, Atsumu non si era mai più avvicinato al piatto maledetto, ma aveva appreso la skill su come prepararli e – ringraziò Osamu, ma non troppo – gli stava comunque tornando utile.
Kiyoomi sorrise a quell’allusione e scartò meticolosamente le bacchette senza sfiorarne le punte, assaggiò una zucchina croccante e poi un paio di spaghettini.
Masticò lentamente e distogliendo lo sguardo da Atsumu, ancora con i soba a mezz’aria, mentre aspettava il suo giudizio finale con la stessa tensione con cui aspettava i voti al liceo per sapere se sarebbe stato bocciato e tagliato fuori dalla famiglia.
Kiyoomi non mutò espressione, rimase apatico per tutto il tempo senza neanche evidenziare una sola ruga del volto.
«Sono squisiti.» decretò, in fine, rivolgendo lo sguardo alla carota sul bordo del piatto.
«Ah?!».
«Non lo ripeterò una seconda volta. Si vede però che c’è lo zampino di tuo fratello nella scelta degli ingredienti».
Atsumu aggrottò le sopracciglia e rimestò gli spaghettini nel piatto.
Diamine, cos’era quel fuoco che gli si accendeva al centro dello stomaco quando Omi rivolgeva i complimenti a qualcuno che non fosse lui? E perché si accentuava ancora di più quando il ricevente di tali complimenti era proprio Osamu?
Kiyoomi, con un mezzo sorriso malcelato, continuò a mangiare la sua cena in silenzio.
 
Solo quando la cucina fu del tutto sistemata, e parte della colazione fu disposta ordinatamente sul tavolo, Omi potè augurare una buona notte all’altro ragazzo e andare a dormire.
Atsumu spense le luci e aspettò trenta minuti abbondanti prima di alzarsi e dirigersi, in punta di piedi, nella stanza a fianco. Era veramente piccola, alla stregua di uno sgabuzzino, ma il letto di Osamu vi entrava perfettamente.
Atsumu strizzò le palpebre per mettere meglio a fuoco: Kiyoomi per la prima volta dopo molte, troppe sere, non era seduto a studiare piani strategici.
Kiyoomi dormiva, sereno come un bambino, cullato dal profumo dell’ammorbidente all’argan che riempiva le stanze di quella piccola e accogliente casa.
Atsumu si perse a contemplarlo poggiato sullo stipite della porta.
Omi non era carino, era proprio bello. Era complesso e a tratti davvero insopportabile, ma era anche la persona più vera che conoscesse.
Aveva punti di forza disumani e punti deboli che faticava a nascondere, riusciva a leggergli non solo nel pensiero ma anche nel cuore, dandogli forza quando ne aveva bisogno e spronandolo quando decideva di mollare.
Atsumu decretò anche che, quando dormiva, Kiyoomi sembrava fragile e indifeso.
Sapeva quello che aveva passato da bambino, una volta glielo aveva accennato e qualche dettaglio era stato rivelato da Motoya durante i ritiri, per quanto lui fosse comunque molto riservato sulla questione.
L’alzatore si avvicinò al letto e si abbassò sulle ginocchia, poteva sentire il respiro caldo di Omi sulle sue dita.
Passò il palmo della mano sulla sua guancia in una tenera carezza, con i polpastrelli sfiorò i due piccoli nei sopra l’occhio destro e i riccioli scuri che ricadevano sulla fronte.
 
Omi era stato svegliato dal dolce profumo all’argan delle mani di Atsumu. Ricollegò il profumo al sapone per le mani che aveva utilizzato in bagno, così fece finta di dormire e si godette quelle carezze.
Nessuno lo aveva mai toccato in quel modo all’infuori di sua madre, venuta a mancare quasi tredici anni prima.
Ma questo Atsumu non lo avrebbe mai saputo.
 
 
 
«Nice kill!».
Kiyoomi si eclissò dai fari accesi della palestra, dalla folla che urlava il suo nome, dagli applausi e perfino dal fischio dell’arbitro.
Prese la rincorsa, saltò e colpì la palla proprio al centro snodando i polsi in modo da mandarla con una traiettoria tutt’altro che dritta.
Il rumore del pallone che si infrangeva a terra, proprio accanto i piedi di suo cugino Motoya, lo riportò alla realtà.
Il giorno della partita era giunto rapidissimo portando con se ansia e stanchezza.
Avevano vinto il primo set, Atsumu aveva messo a segno ben dieci dei venticinque punti totali e tutta la squadra degli EJP Raijin sembrava chiedere due bambole voodoo per l’alzatore malefico e lo schiacciatore disumano.
Bokuto e Hinata tentavano in tutti i modi di catturare l’attenzione dei loro avversari ma, non si capacitavano del perché, sembravano non riuscirci.
Kiyoomi e Atsumu brillavano troppo. Così tanto che era impossibile non vederli e Ushijima, lì nell’ultima fila degli spalti, poteva vedere ogni singolo sguardo d’intesa tra quei due.
Kiyoomi non era solito mettersi così in mostra – lo sapeva bene – per cui doveva essere una tattica studiata a tavolino.
E, come ogni cosa calcolata da Kiyoomi Sakusa, stava funzionando a meraviglia.
Il secondo set fu un vero e proprio travaglio. I Raijin si impuntarono su di lui dandogli il tormento.
A forza di ricevere, attaccare, salvare la palla e rimandarla ad Atsumu – perché la palla in qualche modo d-o-v-e-v-a andare ad Atsumu – aveva le braccia totalmente ustionate e livide.
Rintaro Suna, oltre ad essere il dolce fidanzatino di Osamu Miya, era anche un tremendo battitore e un ottimo centrale, così come Washio – ex membro della Fukurodani – non accennava a distogliere lo sguardo.
“Bene, continuate così. Osservatemi, guardate me, ignorate quel brutto ciuffo dell’alzatore. Guardatemi, guardatemi.” pensava Omi punto dopo punto.
Il secondo set fu nuovamente loro. Mancava l’ultimo.
Durante la pausa, Meian si avvicinò all’asso per consigliargli di prendersi un break un po’ più lungo e saltare qualche rotazione.
Come diversivo forse avrebbe funzionato, magari avrebbe mandato gli avversari in confusione.
Kiyoomi diede una fugace occhiata all’altro lato della rete, Suna non sapeva nulla della situazione di Atsumu (avevano deciso di non dire niente neanche a Motoya e Osamu per il momento, per evitare situazioni di conflitto) ma aveva preso a fissarlo intensamente, così come Washio.
Stavano entrando nel meccanismo della mente di Omi, presto avrebbero capito l’obiettivo primario di quella partita: non macinare punti, ma far macinare punti a Miya.
Kiyoomi decise di rifiutare la pausa e si preparò per la rotazione. La schiena ben dritta e il pallone tra le mani.
A qualunque costo.
 
Finchè ci sarò io, non sarà mai finita. Ricordalo.
 
La partita era durata in tutto due ore e mezza, estenuanti e lunghe.
Gli EJP Raijin non avevano mollato fino alla fine, dando del filo da torcere ad ogni componente dei MSBY Black Jackals.
Si muovevano rapidi come saette e i loro colpi dopo le ricezioni erano potenti come cannoni. Kiyoomi si era ritrovato a fare i conti proprio con Motoya, e più volte tra l’altro.
Suo cugino era un professionista e sembrava volerlo dimostrare ad ogni scambio per tutta la partita.
Per questo, dopo l’ultimo fischio, non riuscì a trattenere una battutina anche per lui.
«Da quando hai le molle al posto dei piedi, Toya?» gli urlò oltre la rete vedendolo sparire sotto il suo asciugamano.
Ebbe giusto il tempo di voltarsi che Atsumu gli era quasi saltato addosso. Gli occhi lucidi di lacrime e stanchezza.
«Ce l’abbiamo fatta?» l’alzatore non stava più nella pelle per quanto tentasse di non darlo a vedere, il sorrisone sul suo volto tremava e le mani non riuscivano a stare ferme.
«Sembrerebbe».
Omi si chiese se attendesse un abbraccio e – per un solo momento – fu perfino tentato di concederglielo.
Kiyoomi si era invece seduto in panchina, le braccia rosse e gonfie per i numerosi bagher e le dita tremanti e doloranti a causa delle schiacciate.
Poteva asserire di non aver mai giocato con tanta intensità.
«E tu da quando giochi al paladino difensore, Omi? Devi forse aggiornarmi su qualcosa?» Motoya – apparso dal nulla - gli passò una bottiglietta d’acqua e si assicurò che non fosse sul punto di morire lì per terra di fronte a lui.
«Ti aggiornerò non appena mi diranno se sono riuscito nell’intento».
«Vuol dire che aspetterò».
 
Qualche minuto dopo, nello spogliatoio, Atsumu era intento a tamponarsi i capelli con gli occhi fissi sullo schermo.
Il resto del gruppo era già uscito – chi per cenare, chi per rispondere ai giornalisti – lasciandolo solo con il suo cervello bacato.
«Non ti chiameranno a venti minuti dalla fine della partita, lo sai, vero?» la voce di Omi lo convinse a spostare lo sguardo su di lui, era rimasto sul ciglio della porta con il borsone sulla spalla, la mascherina abbassata che lasciava vedere il suo sorrisetto sghembo. Doveva essere andato a salutare Suna e Motoya per poi tornare a cercarlo.
Atsumu si ritrovò a pensare di non averlo mai visto così sfinito, nemmeno durante i loro allenamenti intensivi. Qualcosa gli morse lo stomaco – forse la preoccupazione? – e per un momento sentì l’impulso di ringraziarlo per tutto quello che aveva fatto per lui.
Non ne ebbe il tempo, però, perché Ushijima Wakatoshi in persona fece il suo ingresso nello spogliatoio.
«Ti ho trovato, – constatò come se fosse ovvio – ho girato mezzo palazzetto. Ti ho portato una cosa».
Kiyoomi sollevò le sopracciglia e lo lasciò passare, lo vide dirigersi verso il primo lavandino e lavarsi accuratamente le mani prima di prendere un tubetto da dentro una borsa a tracolla.
«Buonasera anche a te, Ushijima-san!» esclamò Atsumu senza nascondere una nota di rimprovero per non averlo salutato. Assottigliò le palpebre nel tentativo di fulminarlo.
«Buonasera a te, Miya-san.» la risposta dell’altro fu però totalmente atona, come una di quelle mail che arrivano in automatico non appena invii la domanda.
Ushijima si avvicinò a Kiyoomi e indicò i suoi avambracci – ora più scuri, a tratti lividi – premette il tubetto sopra la pelle candida e poi cominciò a massaggiare dal basso verso l’alto con movimenti rotatori.
«Sono proprio delle brutte escoriazioni e gli ematomi sono alquanto profondi, questa pomata refrigerante puoi tenerla ma devi metterla più volte al giorno».
Atsumu decise di alzarsi e cambiarsi in un altro punto della stanza, sentiva un fremito lungo la schiena a cui non riusciva a dare un nome ma che lo spingeva sempre di più al tentativo di omicidio.
Ushijima continuava ad affondare le dita nella pelle morbida di Kiyoomi che, ancora in piedi ed immobile, si stava lasciando massaggiare senza nemmeno provare a ritrarre le braccia.
Sembrava incantato da quei movimenti decisi, precisi e profondi. Non potè fare a meno di ricollegarli ad un contesto più intimo e senza pomate.
Ushijima sollevò gli occhi verdi sui suoi prima di terminare quel contatto, notò la scintilla di malizia che aveva percorso anche gli occhi di Omi.
«Ci rivedremo presto, le convocazioni dovrebbero arrivare a breve, questa era l’ultima partita.» la voce di un tono più profonda, affannata.
Kiyoomi annuì e lo ringraziò senza aggiungere altro, spostò gli occhi sulle proprie braccia e vi trovò dei segni rossi come il fuoco lì dove Ushijima lo aveva massaggiato.
Afferrò il borsone quasi con rabbia mentre decideva che, per quella giornata, dell’ossigeno puro gli avrebbe solo fatto del bene.
   
 
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