Seconda
parte!
Ulteriori
note si trovano a fine pagina, ma qualsiasi domanda fatemi sapere.
Avvertimenti:
momenti assai sanguinolenti, depressione generale e altre
peculiarità.
Un
ringraziamento ai miei lettori e ai miei recensori: Alessandroago_94,
Semperinfelix, Sagitta72
e Mrosaria. Grazie a chi ha messo
questa storia tra le seguite, preferite e ricordate.
Vi
auguro una buona lettura,
H.
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Capitolo
Ventinovesimo
Sabato
27 settembre 1511 – Domenica 28 settembre 1511
(seconda
parte)
Sier
Marco Miani osservava
impassibile, dal bastione del Castello, i dieci soldati borgognoni
catturati
spinti a frustate verso Porta Altinia, in una macabra e distorta
rappresentazione dei misteri dolorosi del Venerdì Santo.
Ridotti in camicia e
scalzi, i prigionieri barcollavano sotto i colpi della sferza, delle
canne e
degli spintoni dei militi marciani, ingiuriati dalla folla che li
seguiva, le
donne in prima fila che non si risparmiavano certo di ricoprirli del
loro
catarro o di lapidarli di sassi o fango. Talora uno di questi
borgognoni cadeva
bocconi, sopraffatto; immediatamente il suo carceriere strattonava
sbuffando la
corda legatagli al collo, fin quasi a strangolarlo mentre una o
più popolane, le
quali magari avevano un vecchio conto in sospeso, anguillavano da sotto
le
braccia e le lance dei marciani per ghermire il malcapitato e
graffiarlo fino a
trargli sangue, per poi finire ricondotte bruscamente al loro posto. Un
altro
prigioniero inciampò e non riuscì più
a rialzarsi: poco importò al suo
conducente, che lo trascinò ugualmente nel limo, intanto che
i civili, da
dietro, lo randellavano senza sosta e Marco, pur da lontano e pertanto
impossibile, giurò ugualmente d’aver udito qualche
ossa rompersi.
“Morte!
Morte al franzoso! Morte
al todesco! Sangue! Vitoria a Sen Marco!”
La
seconda parata dimostrativa
del maresciallo La Palice s’era da molte ore conclusa;
ciononostante, gli
strascichi del nervosismo e dell’incertezza provocati tuttora
indugiavano
nell’animo dei Trevigiani ed essi, per acquietare tal
sentimenti, avevano
ottenuto la loro azione
dimostrativa,
gestendo a propria discrezione la sorte dei nemici catturati.
Il
Miani e il suo concittadino
sier Alvixe da Canal allungarono il collo, sporgendosi lievemente: il
grottesco
corteo aveva raggiunto il ponte e, in sincronia perfetta, le urla e i
versi
canzonatori si chetarono improvvisamente, imponendosi un silenzio
ieratico dal
gusto d’antico. In ginocchio o sporgendosi dalla Porta,
dondolandosi avanti e
indietro, le donne avevano incominciato ad intonare uno strano
mormorio, non
dissimile dal fluire irrequieto di un ruscello; i soldati marciani
s’erano
invece posti, silenti ed immobili, su ogni lato del ponte, impedendo il
passaggio. Il loro caposquadra, che aveva preferito starsene al centro,
rigirava impaziente eppur solenne la scure tra le mani. I due
gentiluomini
veneziani a presidio dell’Altinia – sier Zuam
Badoer e sier Hironimo Bragadin –
assistevano anch’essi dall’alto della loro
postazione, trasfigurati in statue
di sale, indecisi se intervenire o meno.
Marco
ebbe una sgradevole sensazione
di déjà vu, parendogli quasi
d’assistere dal vivo ad uno di quei sacrifici
narrati nei poemi d’Omero e non a caso - constatò
ipnotizzato da tale arcaica
scena - s’erano
condotti i borgognoni al
fiume Sile, luogo d’antichissima venerazione in quelle terre
ben prima
dell’arrivo degli Antichi Romani e dei loro dèi.
Simil
a docili giovenche, i
prigionieri furono
costretti ad
inginocchiarsi ai bordi del ponte; dagli acuti lamenti, Miani e Da
Canal
supposero stessero piangendo e supplicando pietà, forse
perfino protestando
eventuali nobili natali o comunque una loro qualche importanza
all’interno
dell’esercito nemico. Ultimi respiri sprecati: il caposquadra
levò in alto la scure,
calcolando bene la parabola mortale che avrebbe condotto la lama a
tranciare la
carne, le vene, le ossa del balbettante uomo ai suoi piedi. Un sibilo
da carta
stracciata, il duplice tonfo della testa che rotolava e cadeva in
acqua, mentre
il corpo, sobbalzando in spasimi, crollava sanguinante a terra, accanto
ai
terrorizzati compagni del morto, il cui turno presto sarebbe giunto. Un
acuto
grido di trionfo coprì i loro singhiozzi, distendendo le
donne le loro braccia
in un’umana apertura alare, il capo gettato
all’indietro, balzando alcune di
loro in piedi. I militi marciani serrarono i ranghi e incrociarono le
picche,
onde impedire che si gettassero a sbrindellare i miseri resti dei
borgognoni
uccisi.
Sier
Alvixe distolse lo sguardo
dalla parte opposta, il volto lievemente verdognolo e bastandogli la
vista di
quella prima esecuzione. Marco, dal canto suo, seguitò ad
assistere indefesso finché
la chioma verde-acqua del Sile non assunse tinte rossastre, come i capelli delle Anguane, le bellissime ninfe a protezione sua e della Piave. Il viscoso liquido
scivolò
via pigro e lontano da Treviso, malevole messaggero d’un
antico tributo.
Il
patrizio veneziano ignorava
dove si trovasse ora l’accampamento dei franco-imperiali:
nondimeno, pregò che
quel sangue ivi giungesse, ammorbando le bevande del nemico.
“Sangue!
Vitoria a Sen Marco!
Sangue!”
***
All’Ospedale
di Santa Maria dei
Battuti, Zilio Madalo azzardò per la prima volta
dall’inizio della sua degenza
a porsi seduto, strizzando gli occhi e grugnendo non appena la ferita
alla
spalla incominciò a tirargli sotto la benda, costringendolo
a rinunciare per
qualche istante all’impresa. Cacciando fuori uno sbuffo assai
frustrato si
sistemò sul morbido cuscino, fissando il soffitto onde
distrarsi dalla fitta di
dolore.
Si
sentiva indubbiamente in
forze, complici le solerti cure dei monaci infermieri,
sicché si trattava di
una semplice questione di tempo, prima che lo stradiota fosse di nuovo
capace
di rimontare in sella. E tuttavia, questo promettente futuro gli era
avvelenato
dalla consapevolezza che, non appena i Veneziani lo avessero giudicato
abbastanza in salute, ben presto lo avrebbero trasferito nelle
prigioni, lì
dove sarebbe stato assai ben esaminato, in quanto luogotenente di
Mercurio Bua
e dunque custode dei suoi piani di battaglia.
Madalo
s’umettò il labbro
inferiore, inquieto: da una parte, la sua assoluta lealtà
verso il suo capitano
gli impediva di spifferare alcunché al nemico;
dall’altra, Zilio si conosceva
piuttosto approfonditamente da ammettere senza vergogna che sprezzava
sì la
morte ma non la tortura, verso la quale nutriva un sacro terrore. Non
si
sarebbe messo a piangere come quei borgognoni, non dinanzi al boia
pronto a
recidergli il collo. Se invece costui gli si fosse avvicinato con le
tenaglie
roventi, allora lo stradiota non soltanto avrebbe pianto,
bensì avrebbe spento
con la sua urina gli strumenti del supplizio.
I
suoi fratelli Teodoro e Giorgio
non cessavano un sol giorno di raccomandarlo al buonsenso: Zilio il suo
dovere
verso Mercurio l’aveva compiuto; dunque badasse al proprio
tornaconto
personale, specie ora che si ritrovava prigioniero. Al che lo stradiota
aveva
rimproverato i suoi maggiori di viltà e doppiogiochismo,
dichiarando che lui
non si sarebbe mai macchiato di fellonia, che lui seguiva
pedissequamente il
codice d’onore degli avi. Teodoro e Giorgio gli avevano
allora dato senza tanti
giri di parole del cretino, lasciandolo ragionare sul perché
lui si ostinasse a
giocare al Rolando, quando al contrario serviva un Gano dichiarato. Non
aveva
il Bua per i suoi guadagni abbandonato la Serenissima Signoria? E
Ludovico il
Moro? E il Re di Francia?
Zilio
si coprì il volto con le
mani. Come agire? Quale decisione prendere? Non desiderava che il suo
capitano
perdesse l’assedio; al contempo però la vittoria
dei franco-imperiali
significava la morte dei suoi fratelli …
“Kyría
Maria! Kyría Maria!”
Lo
stradiota si pose di scatto
sul fianco, ignorando la dolorosa stilettata figlia di quel movimento
brusco; i
suoi occhi si spalancarono apprensivi, mentre egli allungava il collo
onde
cercare di scorgere la fonte di quella supplica disperata. Aveva
infatti
riconosciuto la voce di Teodoro e già il suo cervello
elaborava scenari
tremendi, con il maggiore recante in braccio il corpo esamine di
Giorgio.
“Kyría
Maria! Kyría Maria!
Soccorso! Soccorso!”
No,
non si trattava del loro
fratello; ciononostante, Zilio aveva ugualmente compreso quale
agitazione
stesse divorando Teodoro, il quale trasportava in braccio un rantolante
Andrea
Pera, sporco di fango e sangue, le braccia strette al petto come se un
qualsiasi movimento lo stesse assassinando dal dolore.
Maria
Malipiero Gradenigo corse
incontro a Teodoro Madalo, ponendo una
mano sul volto contratto del capitano ferito, sia per valutare la
gravità delle
piaghe riportate sia per calmare l’esagitato paziente.
“Seguimi”, intimò ella
perentoria allo stradiota, conducendolo al primo letto vuoto
disponibile. E
utilizzando il medesimo tono autoritario del provveditore suo consorte:
“Distendilo
qui. Togligli i vestiti così respirerà meglio.
Madona Helena, rimanete col
signor Andrea fintanto che vado a cercare il cerusico.”
Teodoro,
abbassandosi un poco,
appoggiò quanto più delicatamente sul letto
Andrea Pera, aggrottando mesto la
fronte ad ogni guaito da parte di quest’ultimo, intanto che
Helena Spandolina
Miani gli reggeva accorta la testa, acciocché
l’appoggiasse comodamente sul
cuscino.
“Tranquillo
… tranquillo …”, lo rassicurava
teneramente la greca nella loro lingua natia, detergendogli con una
pezza
d’acqua la fronte sudaticcia e impolverata. Madalo assisteva
lì in piedi,
impotente, le mani tra i capelli arruffati.
“Perché te ne stai lì
imbambolato?”, lo rimbeccò aspra Helena.
“Non hai sentito la kyrìa Maria? Devi
spogliarlo!”
Lo
stradiota annuì deglutendo
saliva amara e con mani tremanti prese a slacciare la casacca del
ferito, il
quale però sobbalzò all’improvviso,
mugulando e supplicando in pieno delirio;
Pera si rannicchiò sul fianco nel vano tentativo di
sottrarsi a quell’ulteriore
supplizio. E ogni volta che Teodoro cercava di sfilargli una manica,
ecco che
Andrea gridava ancora, le ossa e i muscoli maciullati in congiura
contro di
lui. “Ochi … Ochi … No … No
…”, piangeva impazzito, non riuscendo
più a
sopportare tale lame dentro il suo corpo martoriato.
Madalo
indietreggiò di un passo,
i palmi insanguinati verso madona Helena, pregandola tramite lo sguardo
di
trovare per lui una soluzione, incapace di continuare,
d’infliggere ulteriore e
non necessario dolore al suo superiore.
La
giovane patrizia strinse la
bocca in una linea dura, infondendosi coraggio. “Le
forbici”, gli indicò
infine, puntando il mobiletto dove si trovavano gli attrezzi. Lo
stradiota eseguì
senz’indugi, ghermendo le forbici col medesimo piglio di
quando estraeva la
spada in battaglia.
“Che
gli è successo?”, interruppe
Zilio la corsa del fratello verso la nobildonna, sporgendosi egli dal
bordo del
letto onde tirargli il bordo della casacca.
Il
maggiore si bloccò e,
stringendo le forbici al petto, gli berciò dietro astioso:
“Secondo te? Il tuo
preziosissimo capitano l’ha colpito a morte e forse, in
questo momento, starà
torturando nostro fratello per carpire informazioni su
Treviso!”
Zilio
abbandonò la presa dalla
veste, come scottato, tremandogli il labbro inferiore dalla
realizzazione che
sì, non aveva scorto Giorgio in nessun luogo. Era stato
fatto prigioniero?
Come? quando? Avrebbe osato Mercurio suppliziare suo fratello, pur di
sconfiggere i Veneziani? Avrebbe …?
Teodoro
non gli concesse altre
parole, tranne un’ultima occhiata di biasimo, ritornando al
capezzale di un
agonizzante Andrea Pera. “Sono qui, capitano, sono qui
…”, l’incoraggiò lo
stradiota. Recisi i lacci della casacca, l’uomo
afferrò la camicia e s’affrettò
a tagliarla sommariamente, per poi lacerarla in un unico strattone.
Helena
guaì alla vista delle
piaghe aperte e sanguinanti macchiare il candido lenzuolo sottostante;
tuttavia
seguitò a stringere la mano di Andrea, sempre più
fredda e umidiccia …
***
“Cul
del
cancaro!”, ruggì un livido sier Zuam Paulo
Gradenigo, battendo il pugno sul
tavolo e, stranamente, il capitano delle fanterie Renzo da Ceri
abbassò
colpevole gli occhi, conscio di trovarsi in effetti dalla parte del
torto.
“Quando vi avevo detto di non uscire per nessun motivo da
Treviso, pensavo
d’essermi espresso in chiara lingua italica e non in armeno!
Quale punto vi era
oscuro, signor Lorenzo degli Anguillara?! E anche voi, signor Vitello?
Da
codesto galantuomo mi sarei
aspettato
ovvia disobbedienza, ma da voi?! Sacramento!”
Vitello
Vitelli
non osò ribattere, limitandosi a giocherellare nervosamente
coi pennacchi del
suo cimiero. Il podestà sier Andrea Donado si vergognava per
lui, guardando un
punto indefinito davanti a sé e similmente a lui anche il
resto dei comandanti
e patrizi riunitisi a Palazzo, malgrado l’ora tarda e al
limite del coprifuoco.
Infischiandosi
dell’altrui riposo, il provveditore generale aveva convocato
tutti onde far il
punto della situazione; purtroppo, l’incontro era degenerato
in una pubblica
ramanzina non appena sier Zuam Paulo aveva appreso di come sia il
Vitelli che
l’Orsini avessero completamente ignorato i suoi ordini,
abbandonando le loro
postazione a favore di una sortita extra moenia. L’uomo era
esploso di tal
rumorosa collera da competere coi cannoni del capo-bombardiere Orlando
da
Bergamo e saggiamente non si osò contraddirlo
finché non si fosse sfogato, non
volendo finire in mezzo, accusati di connivenza.
D’altronde,
nessuno biasimava Gradenigo per quella sua sfuriata poiché
la batosta subita
dalla compagnia di Teodoro Ralli e di Andrea Pera aveva infuso una
condivisa ansietà
generale, sicché sapere i principali condottieri a zonzo
fuori dalle mura senza
un motivo apparente e a malapena armati non corrispondeva alla migliore
consolazione.
“Oggi
abbiamo
perso contro i francesi perché si è mandato i
nostri stradioti a schasafasso (di continuo, ndr.)
senz’ordine e senza un dannatissimo
piano! E adesso domino Todero non si sa se sia vivo o morto e domino
Andrea
invece …” e Gradenigo si passò una mano
sul collo, là dove la cicatrice gli
tirava, imponendosi di placare i suoi nervi e la sua rabbiosa
disperazione.
La
vista di Teodoro Madalo
trasportare in braccio l’agonizzante capitano
l’aveva sconvolto non poco, così
come il resoconto di Giorgio Madalo, giunto in serata ferito, sfinito e
in camicia,
ma ancora abbastanza in forze da raccontare dettagliatamente
l’accaduto.
Assieme ai tre prigionieri fuggiti dal campo, lo stradiota aveva
confermato i
timori del provveditore: i Collegati si stavano muovendo cadaun giorno
sempre
più presso a Treviso, in attesa forse di rinforzi, ma
soprattutto alla ricerca
del punto debole della città. Dio li scampasse da quel
pericolo …
“Come
se non bastasse, uno delle
vostre lance spezzate” proseguì furente il
patrizio, mulinando accusatore
l’indice contro Renzo da Ceri, che
s’ingobbì e indietreggiò di un passo,
“è
venuto alle armi, non alle mani, alle
armi con un caporale del capitano Mathio da Zara! Per colpa
di quelle due
teste balorde, tutta Trevixo è uscita per poco fuori di
senno dalla paura,
credendo essere penetrato il nemico in città!”
“Li
avete … li avete puniti, però
…”, borbottò l’Orsini, nel
suo intimo affatto contento di aver visto penzolare
un suo soldato per un motivo, in effetti, così sciocco.
Questi
era venuto in questione
con un caporale di Matteo da Zara per una ragione ancora non del tutto
chiarita. In ogni modo, i due soldati avevano combattuto ferocemente in
Piazza,
creando scompiglio e un gran spavento, allarmando l’intera
Treviso ch’era
accorsa armata e ancora lorda del sangue dei dieci borgognoni, credendo
i
Collegati esser riusciti a creare una breccia. Sier Zuam Paulo,
acquietati gli
animi e fatti arrestare i due contendenti, aveva ordinato di
giustiziarli
proprio nel medesimo luogo dov’era nata la zuffa, la sua
pazienza esaurita e
specialmente nei confronti degli uomini dell’Orsini, cui non
aveva ancora
perdonato la tracotante minaccia di picchiarlo con la spada e di
impiccarlo. S’assicurò
dunque che la sua sentenza venisse scrupolosamente eseguita entro le
cinque di
notte (23 circa, ndr.)
“Sicuro
che li ho puniti e ora il
capitano Mathio da Zara mi biasima, perché ho dovuto mettere
alla forca il suo
caporale!”, sbottò Gradenigo, cui la situazione
piaceva ancor meno, anche
perché il caposquadra del comandante zaratino era benvoluto
da tutti e ci si
era invero rammaricati d’aver perduto sì
stupidamente un tal brav’uomo.
Nondimeno, la decisione del provveditore era stata lodata per aver
finalmente
riportato ognuno all’obbedienza e addirittura si commentava
che, col senno di
poi, tali provvedimenti forse si sarebbero dovuti applicare assai
prima.
“Si
potrebbe inviare domino
Mathio assieme a sier Zuam Vituri a Marano o ad Osoppo ... Visto che i
duecento
stradioti di rinforzo non sono ancora partiti da Padoa
…”, tentò di negoziare
sier Andrea Donado, trasalendo dinanzi alla sferzante replica del suo
concittadino:
“E
mentre a Padoa fanno i loro
porci comodi, cianciando che Trevixo non è ben fortificata,
che quegli
stradioti servono a loro etc. etc.
io mi debbo privare dei
miei uomini, coi
francesi accampati ad un tiro d’archibugio?! Adesso che
arriveranno le
artiglierie dalla Patria del Friuli, nonché le truppe
tedesche e quelle
gonzaghesche da Soave … Non sappiamo neppure dove e come
attaccheranno! Non
possiamo privarci di un sol soldato! È fuori questione che
domino Mathio se ne
parta con sier Zuam!”
“Ma
al contempo”, insistette sier
Marco Miani, “non possiamo certo tenerci un comandante che
serve di malavoglia.
O in quest’impresa combattiamo convinti e uniti, oppure per
colpa di mai sopiti
rancori rischiamo liti e divisioni e il nemico ne
approfitterà! La coesione
interna è sempre stata la nostra forza!”
“Affiancate
Mathio da Zara e la
sua compagnia a quella di sier Zuam. Noi attenderemo gli stradioti di
sier
Ferigo Contarini: la loro reputazione incute più timore e
forse, nella
disgrazia, ne ricaveremo un guadagno”, convenne sier Lunardo
Zustignan. “Riguardo
ai piani d’attacco del nemico, dobbiamo pazientare e
attendere che rientrino le
nostre spie.”
“Da
quanto raccontato dai tre
fuggitivi, i Collegati stanno divenendo sempre più
diffidenti e impiccano al
minimo sospetto”, puntualizzò amaramente Vitello
Vitelli. “Questo rallenterà la
rattezza delle informazioni.”
Umettandosi
le labbra secche,
Renzo da Ceri dichiarò infine: “Abbiamo
contravvenuto ai vostri ordini, lo
ammettiamo”, si cosparse il capo delle dovute ceneri.
“Tuttavia, signor Provveditore,
quello squadrone nemico si stava avvicinando troppo a Porta Altinia e
dovevamo
impedirgli ad ogni costo di avvicinarsi, prima che scoprisse le parti
più
deboli delle mura. Abbiamo battuto l’area attorno per tutto
il giorno per
accertarci che non si ripresentassero. Quanto accaduto ai signori
Teodoro e
Andrea è lamentevole, ciononostante avevano soltanto
compiuto il loro dovere.”
Sier
Zuam Paulo aspirò a fondo
l’aria, grattandosi pensoso la cicatrice al collo. Il
bilancio della giornata
si presentava poco incoraggiante, mitigato soltanto
dall’esecuzione sommaria
dei dieci borgognoni, la cui notizia avrebbe forse smorzato la
tracotanza dei
franco-imperiali, sicuramente ubriachi del loro tipico delirio
d’onnipotenza a
seguito della scaramuccia vinta contro i comandati Ralli e Pera. In
aggiunta,
il provveditore riconosceva che l’impiccagione dei due
militari forse gli aveva
regalato il piccolo vantaggio di soggiogare finalmente quella bestia di
Renzo
Orsini, rampognato publice e perciò imboccato di sane
cucchiaiate d’umiltà.
“Siamo
sotto assedio, signori
miei”, sentenziò infine il patrizio veneziano.
“Ricordiamoci che ogni azione
che intraprendiamo oggi, domani ne dovremo render conto.
L’Imperatore ha
giurato la morte a questa città: vedete bene, che non
possiamo concederci il
lusso di fallire. Per il resto, non ci rimane altro che affidarci alla
Devotissima Signora di Trevixo, ch’è qui per
proteggerci”, disse e scoccò
un’occhiata feroce all’Anguillara, sfidandolo a
contraddirlo.
A
riunione terminata – ormai
erano quasi le sette di notte - ognuno ritornò alla relativa
postazione, chi
per coricarsi e chi per incominciare il proprio turno di ronda.
Fuori
dal Palazzo, nessuna stella
impreziosiva il cielo annuvolato e privo di luna, nerissimo, notte
ideale per i
ladri. Le vie e le piazze erano pertanto state illuminate quanto
più possibile,
pattugliate da un continuo viavai di uomini d’arme,
stradioti, balestrieri,
fanti, nobiluomini e con la stessa intensità del giorno,
temendo adesso Treviso
un attacco a qualsiasi ora. Nei quartieri attigui a Porta Altinia si
udiva il
costante brusio degli operai e delle donne intenti agli ultimi lavori
di
perfezionamento al terzo ingresso cittadino. Quanto al resto, ovunque
regnava
un teso silenzio, rotto soltanto dalle violentissime folate di vento,
che
sbatacchiavano contro i legni delle imposte, i gonfaloni cittadini e i
corpi
dei due impiccati, scontrandosi questi l’uno contro
l’altro come la ragione che
li aveva condotti a tal infamante morte.
“Sembrerebbe
che si stia
preparando un gran temporale. O che dal Paradiso stia per calare una
legione celeste
…”, mormorò trasognato Marco Miani,
contemplando a naso all’aria la fitta volta
sopra di sé: le nuvole, grosse e scure, si stavano muovendo
in modo vorticoso,
sempre più basso, quasi volessero formare una scala o un
corridoio. Anche il
sole vespertino, calando, aveva assunto una tinta inusuale, rossissimo.
“Mi
domando, se siano vere le parole di quel contadino …
se sia vero che abbiamo nauseato Nostro
Signore al punto da far scendere Sua Madre in questo mondo travagliato
e
puzzolente …” [1]
“Chi
se non Lei può intercedere
per noi, prima che sia troppo tardi?”, fu la mesta domanda
retorica di sier
Alvixe da Canal. “Tuttavia mi trovate d’accordo: il
tempo di questa notte mi
pare assai strano. Il cielo è coperto, eppure non un accenno
di pioggia … E quelle
nubi non si muovono in accordo col vento … ”
“Siete
fortunati”, commentò sier
Zuam Badoer, “che potrete comodamente speculare in letto su
tal meraviglioso
fenomeno.”
“Sguaraguaito
(ronda, ndr.) anche
stasera?”, s’informò sier Alvixe,
conoscendo però già la risposta affermativa.
“Alla
custodia di Porta Altinia
hanno collocato soltanto noi due”, sospirò il
patrizio mentre indicava il suo
collega sier Hironimo Bragadin, alludendo al fatto che al Castello
presidiasse
un maggior numero di gentiluomini, potendo quest’ultimi di
conseguenza alternare
più spesso i turni di ronda. “Per non dire che
lì si sta piuttosto stretti, tra
i capitani, connestabili, bombardieri, fanti, balestrieri e
archibugieri …”
“…
e le vivandiere …”
Sier
Zuam roteò infelice gli
occhi: magari ci fossero state delle donnine allegre ad allietare le
ore tra
una ronda e l’altra, così perlomeno quei
masnadieri dei soldati avrebbero
trovato una valvola di sfogo meno brutale e sanguinosa (ossia scannare
ogni
prigioniero su cui mettevano le zampe addosso, infischiandosene del
rango) e
più onorevole, finendola una volta per tutte
d’insidiare le monachelle dei
conventi attigui.
“Hé,
guardate il lato positivo:
almeno, nessuno a Porta Altinia s’ammala di febbre! Vi dovete
solo preoccupare dei
nemici”, esclamò
perfido Alvixe da Canal, ridacchiando dinanzi all’espressione
leggermente
ansiosa di sier Zuam, intanto che sia Hironimo Bragadin sia Marco Miani
ingoiavano
le labbra onde soffocare le risate.
“Noi
siamo arrivati”, annunciò sier
Hironimo una volta davanti alla Porta. “Speriamo che, almeno
per un po’, le
uniche cannonate che sentiremo siano le urla di sier Zuam Paulo a
domino
Renzo.”
“Ben
se lo merita: così impara a
beccarsi con lui e a disobbedirgli.”
“Domino
Renzo possiede molta
esperienza tuttavia coi Francesi.”
“E
sier Zuam Paulo ha sconfitto
sulle montagne dell’Albania Veneta i Turchi, i quali non son
certo più cortesi
di quest’altri senzadio.”
“Sarà.
In ogni caso, buonanotte e
buona ronda!”
“Anche
a voi, senza la ronda.”
“S-ciavo
vuostro et voggieme
ben!”
“No
t’indubitare.”
Sier
Alvixe e Marco proseguirono
in silenzio fino al Castello, affidando una volta giuntovi ai loro
scudieri i
rispettivi cavalli, affinché li conducessero nelle stalle.
Quand’ecco che da
Canal, notando come il suo compagno si stesse recando in direzione
opposta
degli alloggi cioè verso la caminada, gli domandò
perplesso:
“Non
vi ritirate?”
“Non
ho sonno.”
“Ve
lo farete venire”,
puntualizzò severo sier Alvixe, raggiungendo rapido Marco e,
afferratolo per il
braccio, lo costrinse a cambiar rotta, verso la sua camera.
“Non potete
continuare a strapazzarvi così,
v’ammalerete!”, gli ricordò
intransigente, in
risposta alla testarda e stizzita resistenza mossagli dal Miani.
Marco
si morse l’interno della
guancia, cedendo momentaneamente alle pressioni dell’altro
patrizio. Si
ripromise, tuttavia, di levarsi presto al mattino per la ronda. Non si
trattava
soltanto di una questione di zelo marziale: in cuor suo, egli sperava
di poter
scorgere, tra i fuggitivi che giungevano alle porte cittadine, il volto
di suo
fratello …
“In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti”,
s’inginocchiò
l’uomo, segnandosi, dinanzi al semplice crocifisso accanto al
letto. “Non
guardare le nostre colpe, o Signore, ma alla nostra fede in Te
… Liberaci da
ogni male, preservaci dall’inferno e spezza le nostre catene
…”, gracchiava
sommessamente Marco, abbandonandosi ad un pianto discreto e liberatore.
***
A
furia di fingere di dormire,
alla fine Hironimo s’era addormentato sul serio, piombando in
un sonno nero pece
senza sogni come se gli abissi delle tenebre l’avessero
inghiottito,
ghermendolo saldamente ed impedendogli di riaffiorare nella superficie
della
veglia.
Il
suoi arti doloranti s’erano abbastanza
adattati alle catene e all’innaturale posizione, cessando di
conseguenza ogni
fastidio; le sue orecchie avevano assunto una conveniente
sordità ad ogni rumore
circostante e perfino la sua epidermide sembrava troppo stanca, per
sollevarsi
dalla pelle oca a causa degli spifferi provenienti da sotto la tenda o
dall’umidità della terra bagnata. Quello del
giovane patrizio corrispondeva al
sonno del morto, che non ristora la mente bensì affligge un
corpo sfinito.
Una
violenta folata di vento
scosse il padiglione e un improvviso frastuono metallico, seguito da
una
sorpresa imprecazione, destò di soprassalto Hironimo, il
quale assaporò il
gusto del suo cuore in gola, soffocandosi per poco col collare quando
tentò di
balzare in piedi, giacché dimentico per un istante
d’indossarlo. Sballottato,
aveva creduto esser giunto Mercurio Bua ad interrogarlo e che quel
sinistro
rumore di ferro corrispondesse alla preparazione degli strumenti di
tortura.
Invece, la tenda divisoria non si accennava a scostarsi e, stando allo
sbuffare
di Nicho lo scudiero, dovette trattarsi o dell’armatura del
suo capitano o del
rastrello con le spade, forse caduti per terra a causa di
quell’impetuoso
vento.
In
effetti, constatò Hironimo
mentre si massaggiava stancamente il polso, le tende non cessavano per
un
istante d’ingrossarsi e poi afflosciarsi, manco fossero le
vele di una galea
sorpresa in alto mare da una terribile burrasca. Le ombre prodotte da
dietro la
tenda divisoria oscillavano vertiginosamente, come di sicuro anche le
lucerne
appese, accompagnate da un’infinità di rumori
sotterranei, quali lo
scricchiolio delle corde, il fruscio delle fronde piegate,
l’andirivieni dei
soldati di ronda, il sommesso chiacchiericcio dei bivacchi e i rantoli
dei
bracieri messi alla dura prova da un elemento di solito complementare,
ma ora
più potente.
Eppure,
il giovane Miani non
udiva il sordo borbottio dei tuoni appropinquarsi, né lo
scalpiccio o il nitrito
dei cavalli o il guaito spaventato dei cani, sempre nervosi e inquieti
dinanzi
agli sfoghi più violenti della natura.
E
tal impressione dovette
condividerla anche Mercurio Bua, che infatti espresse i suoi dubbi al
maresciallo La Palice: “Pensate ancora di trasferirvi
stanotte a Breda di
Piave? In fede mia non ho mai visto un simile vento: pare che il
Padreterno
voglia soffiarci via in un colpo solo!”
“I
cavalli, tuttavia, non paiono
risentirne …”
“Ed
è innaturale: solitamente
s’innervosiscono parecchio quando sta per scoppiare un
temporale.”
L’ennesimo
scossone di vento
allungò le ombre ballerine, finché una
d’essa s’ingigantì, oscurando parte
della tenda. Mercurio borbottò snervato qualche improperio
inintelligibile,
premurandosi di riaccendere la lucerna spentasi bruscamente.
“Se
volete partire, bisognerà
sbrigarsi: sono quasi le otto di notte.”
Hironimo
strabuzzò gli occhi:
così a lungo aveva dormito? D’accordo, aveva
notato l’assenza della luce
diurna, però non immaginava di ritrovarsi sveglio nel cuore
della notte. Almeno
aveva riposato – si consolò amaramente –
ben presto gli sarebbe toccata
l’ennesima faticosa marcia. L’ennesimo giorno di
prigionia.
Breda
di Piave, avevano detto?
Quindi … quindi si stavano spostando sulla Callalta e
significava che avrebbero
puntato a Porta San Tomaso per l’attacco finale …
“No,
forse avete ragione,
capitaine. Il vento soffia troppo forte: anche se i cavalli non
sembrano
intimoriti, ugualmente ci rallenterebbe la marcia. Attendiamo ancora
qualche
ora, se non proprio la chiaria”, convenne meditabondo La
Palice. “Alla fine non
abbiamo fretta: i cannoni da Gradisca ancora non sono giunti, quindi
non
possiamo certo incominciare da domani l’assedio.”
“Quindi
è confermato?”, s’inserì
un’altra voce, probabilmente quella di Giulio Sanseverino.
“Gradisca è sul
serio caduta?”, non tratteneva l’entusiasmo nella
sua voce.
Lo
stomaco d’Hironimo
s’attorcigliò dolorosamente alla notizia: Gradisca
d’Isonzo era stata una delle
loro fortezze di confine più importanti, non solo contro
l’Impero ma anche
contro i Turchi, pertanto fonte di continue spese di potenziamento
delle mura e
di stipendi per i soldati alla sua custodia. Perderla significava
aprire la
strada a nord-est, senza possibilità di impedire il
riversamento delle truppe
imperiali nella pianura friulana, fino alla Marca.
Alla
fine era accaduto sul serio,
insopportabile realtà: la Patria del Friuli era
inesorabilmente perduta, un
altro territorio conquistato da Maximilian e sottratto a Venezia,
un’altra
vittoria per l’ambizioso Imperatore che ora avrebbe
arrogantemente sfogato la
sua potenza contro la ribelle Treviso.
E
se l’avesse espugnata … se
l’avesse … Due anni di resistenza per cosa? Ora i
nemici della Serenissima
avrebbero rialzato la testa, ringalluzziti da questo successo e magari
avrebbero attaccato a sud, puntando su Padova …
“Esatto”,
rispose un quarto
interlocutore, ad occhio e croce Teodoro Trivulzio. “Stando
alla nostra staffetta,
la fortezza era piagata dalla peste e la guarnigione a difesa
s’è ammutinata al
proprio governatore, il signor Baldassarre di Scipione. Una vittoria
inaspettata, giacché Gradisca s’era fino a quel
momento difesa bene e pareva
imprendibile.”
“Come
Treviso?”, ridacchiò
sardonico uno dei comandanti, la cui voce però Hironimo non
riconobbe. “Se non
erro, i nostri informatori hanno sentito di una certa febbre mietere
vittime in
città. Chissà che la storia non si
ripeta.”
“Non
sottovalutate il
provveditore Gian Paolo Gradenigo, signor marchese Galeazzo”,
lo interruppe un
serissimo Mercurio Bua. “Io ho combattuto al suo fianco e so
per certo, che se
anche a Treviso dovesse esserci la peste, piuttosto di cederla a
noialtri egli di
gran lunga preferirebbe riesumare le vecchie catapulte, per scagliarci
addosso
i cadaveri degli appestati!”
Il
Pallavicino emise un
indefinito verso ingolato, come se stesse per replicare a tal sferzante
replica
da parte del greco-albanese, sennonché La Palice
seguitò ineffabile
nell’esposizione delle ultime informazioni:
“Ho
deciso di inviare Achille Borromeo al commissario imperiale Jean d'Aubigny, per invitarlo ad’incominciare ad
organizzare le
zattere da Cividal di Belluno, acciocché le artiglierie
dalla Patria del Friuli
possano essere trasferite all’accampamento il prima
possibile.”
“E
gli zattieri bellunesi
obbediranno?”, inquisì scettico Giulio
Sanseverino. “Mi pare assai improbabile
che costoro, di propria spontanea volontà, accettino di
trasportare i cannoni utilizzati
per combattere contro i loro stessi conterranei.”
“I
Bellunesi non sono più sudditi
della Serenissima, bensì dell’Empereur”,
tagliò corto il maresciallo francese.
“Così come lo saranno ben presto i Trevigiani.
D’altronde, les Italiens sono
fatti così: pronti a servire zelanti il vincitore;
irriconoscenti verso chi li
ha beneficiati e codardi, sfacciati trasformisti che pensano soltanto
al
proprio guadagno personale anche a scapito della
collettività. A loro basta
sopravvivere o - come si dice qui? - cavarsela
e poco importa chi sarà il loro nuovo padrone.
Basta mangiare e vivere
tranquilli. Per loro libertà
significa fare ciò che vogliono, gli altri possono andare a
farsi impiccare.”
Hironimo,
a tali sprezzanti
parole, digrignò i denti e si conficcò le unghie
nei palmi delle mani,
ribollendo di rabbia e sperò che una simil scintilla
d’indignazione colorisse
le gote anche di Sanseverino e Pallavicino, presi indirettamente in
causa,
giacché comportatisi esattamente come descritto dal
generalissimo francese, a
seguito della caduta del Moro e del Ducato di Milano. Il giovane Miani
poi
sbuffò sardonico, ricredendosi: come voleva che reagissero
quelle facce di
bronzo? Possedevano più peli nello stomaco d’una
scimmia, incapaci di
ricordarsi l’antico significato di parole quali dignità, fedeltà
e amor patrio.
Nella
mente del patrizio
veneziano riaffiorarono i volti della sua guarnigione trucidata; dei
suoi
servitori Menego, Trovaxo, Vico e Nadalin e dei capitano Paulo
Doglioni,
Christofal Colle e Vetor dil Pozzo: erano quelli gli sguardi di vigliacchi,
irriconoscenti trasformisti? Di gente che si credeva libera di fare
ciò che
voleva? Liberamente erano rimasti a presidiare Castelnuovo pur consci
di
perire; avevano sacrificato la propria vita di modo che i loro
conterranei
potessero seguitare a vivere liberi.
Hironimo
ripensò a Thomà, alla
sua famiglia, ai Feltrini che pur sapendo della crudelissima
rappresaglia
dell’Imperatore, ugualmente avevano scelto di ribellarsi,
preferendo una morte
da uomini liberi che da sudditi dell’Impero.
Ripensò
a Lussia e a Zanze, ai
contadini del Montello, che tutto avevano perduto, tutto li era stato
strappato
via, perfino l’onore e ciononostante seguitavano indefessi a
combattere, a
reagire, senza mai sottomettersi, più eroici dei paladini
carolingii. Hironimo
si ricordò delle parole del suo piccoletto quando parlava di
Lussia, del
sacrificio d’abbandonare il suo uomo pur di dare la
possibilità alla sua
creatura di nascere libera.
Ripensò
a suo fratello Lucha, che
avrebbe potuto cedere la fortezza della Scala e invece, solo contro un
esercito
più possente, non aveva esitato a mettere a repentaglio la
sua stessa vita,
perdendo per quattro mesi la libertà e per sempre
l’uso del braccio destro e
malgrado ciò ancora disposto a servire vigorosamente la
Signoria.
Ripensò
a Marco, a Carlo, ai suoi
amici Ferigo e Marco Contarini e a tutti gli altri suoi conoscenti che
s’erano
armati a proprie spese pur di vincere, pur di conservare libera e
indipendente la
Serenissima, offrendo chi la propria giovinezza chi
l’esperienza di mille
battaglie, così come tutti i patrizi stavano impiegando ogni
risorsa accumulata
dai loro avi onde pagare e rifornire adeguatamente
l’esercito. Cittadini,
villani, religiosi, nobili, giovani, vecchi, uomini e donne, nessuno
reputava alcun
sacrificio troppo oneroso se significava rimanere liberi, in piedi, a
testa
alta.
E se fossi libero, tornerei subito a
combattere …
Rimarrei a Treviso fin quando non avremo cacciato questi barbari dalle
nostre
terre … E non per gloria mia personale, no! Bensì
per onorare chi è morto anche
per me, per riconoscenza verso chi ha sofferto nel corpo e nello
spirito e,
soprattutto, per difendere coloro che non possono combattere.
Difendere gli innocenti contro cui i
veri vigliacchi si
scagliano.
Difendere chi ha soltanto Dio e la
Vergine rimasti come
ultimo scudo.
La mano di Dio colpisce forte, quando
la guida quella
dell’uomo; dunque, qualora riacquistassi la
libertà, voglio essere la manifestazione
in terra della Sua protezione verso i più indifesi. Fuori da
questo padiglione
io sono qualcuno, ho i mezzi e la forza e la volontà di
farlo. Se soltanto mi
fosse concessa questa possibilità, io …!
“Quanto
al resto dell’esercito
imperiale”, ritornò Hironimo ad ascoltare
attentamente il resoconto di La
Palice, “stanno puntando a Motta di Livenza e da
lì ci raggiungeranno, per poi
dividerci a Fiera.”
“Come?”
“Attaccheremo
su due lati”,
spiegò meglio Mercurio Bua, il cui tono vibrava di grande
eccitazione. “Una
volta superata Melma, ci divideremo presso il borgo di Fiera: da
lì, la parte
dell’esercito guidata da monseigneur il maresciallo
attaccherà a Porta San
Tomaso; quella invece dei reparti tedeschi, a Porta Altinia.”
“A
sud?”
“Corretto.
Ho sempre trovato
assai sospetta quella massiccia presenza di burchi e di stradioti sul
Terraglio. All’inizio pensavo volessero semplicemente
proteggere la strada per
Mestre e Venezia; invece, sono giunto alla conclusione che Porta
Altinia sia la
parte meno fortificata della città, in quanto da quelle
bande si trova il porto
e il Castello, i quali innanzitutto creano ben due potenziali aperture
per
accedere a Treviso; in secondo luogo, l’antica fortezza
scaligera sicuramente
avrà conservato parte delle sue antiche mura, è
impossibile modificarle completamente
in neanche due anni.”
“Ma
perché non concentrarci a
Porta Santi Quaranta? È più veloce da raggiungere
senza essere notati”,
puntualizzò il marchese Galeazzo Pallavicino.
“Inoltre, abbiamo visto come il
monastero lì davanti non sia stato demolito: potremmo
sfruttarlo come riparo
per piazzare uomini e artiglieria.”
“Giusta
osservazione”, gli
concesse sincero il Bua. “Il problema è che Porta
Santi Quaranta giace sullo
stesso versante di Porta San Tomaso. Così facendo,
otterremmo tutta Treviso
schierata in un unico blocco compatto sull’intera fascia.
Invece, attaccando a
sud, dalla parte opposta, spaccheremo in due la città e
rallenteremo le
comunicazioni tra di loro. Mentre i Veneziani perderanno tempo
preziosissimo - affrontando
in sostanza non uno bensì due eserciti - noi al contrario
guadagneremo terreno,
impedendo alle loro forze di congiungersi e di far fronte
unico.”
“Tuttavia,
dovete considerare che
anche noi saremo divisi, rischiando, di conseguenza, di finire nella
medesima
situazione del nemico”, obiettò Teodoro Trivulzio.
“E se i Tedeschi dovessero
venir sconfitti? I Veneziani si riconcentrerebbero tutti su di noi e
saremmo
daccapo.”
“Appunto
per questo, non appena
gli Imperiali avranno espugnato Motta di Livenza e ci avranno raggiunti
a Breda
di Piave, che prepareremo questo assedio nei minimi particolari, onde
coordinarci alla perfezione! Signori miei, abbiamo appena conquistato
la Patria
del Friuli, restringendo ulteriormente i territori della Serenissima
Signoria.
Francia, Impero, i nostri alleati Gonzaga ed Este, quale chance credete
che
abbia una città di provincia quale Treviso contro siffatta
coalizione? Niente e
nessuno può salvarla, neppure la sua preziosissima Madonna
dei Miracoli.
Guardate Motta di Livenza: lì è apparsa la
Vergine e vi pare che la stia proteggendo?”
Sentendo
di nuovo quel nome –
Motta di Livenza – Hironimo si sovvenne d’un tratto
che laggiù, l’anno
addietro, v’era effettivamente stata un’apparizione
della Vergine Maria, tosto seguita
dal prodigio del sole color del sangue. Un meraviglioso avvenimento
ch’aveva
suscitato un gran scalpore a Venezia, confermando quella mai sopita
speranza
che, forse, la Signoria non era stata completamente abbandonata al suo
destino.
Già la presenza della Madonna s’era manifestata
prima ancora della riconquista
di Padova, promettendo alla veggente la vittoria contro la Lega di
Cambrai, se
si fosse fatta per quattro giorni una processione in suo onore[2] e
questo dopo
la scomunica e l’interdizione papale, dopo la rotta di
Agnadello, dopo la
costruzione da parte di Re Louis di una chiesa votiva dedicata alla
Madonna
delle Vittorie, lì sul luogo della battaglia.
I
peccati della Serenissima e dei
suoi abitanti apparivano sì in gran numero, però
instancabile l’Avvocata
seguitava ad intercedere, a far sentire la Sua voce e a rendere nota la
Sua
presenza perfino nelle ore buie del periglio.
In
partenza per Castelnuovo di
Quero, Hironimo s’era attardato appena qualche giorno a
Treviso, ma abbastanza
per assistere alla folla di pellegrini che s’appropinquava a
festeggiare l’Annunciazione
a fine marzo. Gente ammalata, o bisognosa, o in cerca di conforto, o
piena di
riconoscenza riempiva il Santuario, accalcandosi davanti alla cappella
onde
ammirare e pregare davanti alla miracolosa immagine della Devotissima.
Hironimo
realizzò che mai una
volta s’era recato a Santa Maria Maggiore, neanche per
curiosità - figurarsi
per fede! - malgrado
a Treviso vi avesse
risieduto in più occasioni. A Madre, che lo invitava ad
accompagnarla anche
solo per un rosario o una breve orazione, rispondeva scocciato quanto
trovasse
sciocco fare la fila per inginocchiarsi davanti ad un vecchio affresco;
similmente, aveva liquidato il miracolo della puttina come una
coincidenza,
sostenendo impietoso come i suoi sprovveduti genitori si fossero
sbagliati nel crederla
sul serio morta [3]. Nel suo intimo, in verità, si era roso
d’un invidia nera
nei confronti di quei patrizi veneziani, poiché a loro era
stata restituita la
figlia dopo una sola preghiera, mentre il giovane Miani da fantolino
giorno e
notte aveva supplicato Dio e la Madonna di resuscitare Padre e nulla
era accaduto.
Sentendosi
tradito e abbandonato,
Li aveva ripagati tramite anni di caparbia indifferenza e
ostilità, voltandoLi
le spalle, anche dinanzi alle chiare e manifeste prove
dell’operato della Madre
di Dio, sia in tempo di pace sia in tempo di guerra.
Sì,
Lei era sempre lì, presente,
a vegliare, ad ascoltare. E ora che Hironimo si stava avvicinando a
Treviso, la
città che L’aveva scelta a sua unica signora
proprietaria [4], là dove
risiedeva la Sua gloriosa immagine, ecco, forse, meditava speranzoso,
forse la
Sua presenza sarebbe stata più forte, forse stavolta Lei
l’avrebbe ascoltato.
La mia promessa non cambia – chiuse il giovane gli
occhi, stringendo forte le catene
al petto – visiterò il
Tuo santuario che
da anni ho sdegnato; ci verrò scalzo e in camicia;
farò dire Messe; userò la
mia ritrovata libertà per il bene della mia gente e non per
soddisfare la mia
vanità …
E
mentre ripeteva pieno di
rocciosa convinzione questo suo sacro giuramento, il vento
più non fischiava
attraverso gli spifferi del padiglione, né il brusio
dell’accampamento animava
la notte dei suoi schiamazzi. Perfino la fitta discussione tra i
comandanti
franco-imperiali s’era affievolita, fino a zittirsi
completamente. Una quiete
solenne l’avvolse, come se gli elementi della natura non
osassero disturbare la
sua preghiera. Un silenzio paradisiaco, soave e ristoratore lo cullava
e dopo
tanti anni, Hironimo si sentì veramente contento, godendo la
sua anima di una
letizia mai conosciuta prima d’allora, una letizia che gli
infondeva un
coraggio e una forza al limite del preternaturale. Credeva, no, sapeva
di poter
superare qualsiasi ostacolo; avvertiva come un enorme macigno
sollevatosi dal
petto e finalmente riusciva a respirare, ma non con la bocca,
bensì col cuore.
La
paura era svanita: qualsiasi
cosa gli fosse capitata, mai più si sarebbe lasciato
catturare dagli spettri
del dubbio e dello sconforto. Le sue catene gli divenivano sempre
più leggere,
impercettibili quasi …
Improvvisamente
una fulgida luce
accecò i suoi occhi a malapena socchiusi, portando il
giovane Miani a
coprirseli rapido, mentre balzava seduto e si rannicchiava
nell’angolo,
sopraffatto da tale violento biancore e chiedendosi se non fosse giunta
l’ora
della sua morte, giacché aveva udito di come i moribondi,
prima di render
l’anima, contemplassero una gran luce.
Ma
no, di tutto si sentiva tranne
che prossimo alla morte, per quanto i suoi cappelli si drizzassero
dietro la
nuca e il suo cuore martellasse violentemente. Circospetto, Hironimo
osò
sbirciare tra le sue dita, notando come la luce fosse scomparsa tanto
velocemente quanto apparsagli. Che l’avesse sognata?
Oppure
… oppure …
Hironimo,
cercando di comprendere
la natura di quel bizzarro fenomeno, prese a guardarsi spaesato
attorno,
studiando attento il famigliare ambiente: la tenda divisoria, il
giaciglio di
paglia, la ciotola, il palo con l’anello dove era stato
legato e sulla sua
destra … Oh?
Oh
…
Davanti
a sé, ritta in piedi, una giovane
donna lo osservava, stringendo tra lunghe dita un pasciuto mazzo di
chiavi, le
stesse sventolategli beffardamente sotto il naso da Mercurio Bua.
Il
labbro inferiore del veneziano
prese a tremare dall’angoscia di quel ricordo, ingobbendosi
egli e avvicinando
quanto più possibile le ginocchia al petto, vergognandosi a
morte d’apparire
così brutto, sporco e in mutande, come se con la sua
indecorosa presenza stesse
offendendo la misteriosa visitatrice. La quale, oltre a possedere una
bellezza
che Hironimo in un nessun volto mortale aveva mai contemplato (e che,
giudicò, nessuna
donna del passato, del presente e del futuro avrebbe mai potuto
eguagliare)
indossava un lungo, ampio e pesante mantello bianco come se non
più della neve,
sfavillante, adorno di una fibbia dorata al collo e il cui cappuccio
conteneva
a stento dei morbidi e vaporosi capelli sciolti. Da sotto il mantello
s’intravedeva
una semplice camorra color verde-acqua, del medesimo color del Sile.
Attorno
alla giovane donna vorticava un’aura di leggiadra
autorevolezza, da stimarla
una gran dama, macché, una regina, ma neanche,
un’imperatrice!
E
ciononostante, quei suoi occhi grandi
e benigni risplendevano d’immensa umiltà e
carità, virtù troppo aliene a coloro
ai vertici della gerarchia sociale. Quelle iridi vivacissime lo
guardavano
tanto amorevoli quanto una carezza, come se l’avessero
conosciuto da una vita.
E tale gioia la dimostrava anche quel soave sorriso, la stessa di chi
aveva incontrato
un carissimo amico da cui era stato crudelmente separato e che non
vedeva più
da lungo tempo. Eccoci dunque –
parevano dire – tu ed io, uno di
fronte
all’altro, liberi di poterci parlare senza maschere, senza
formalità. Ho tanto
atteso quest’istante, d’averti qui meco, sin dal
tuo primo vagito, poiché io ti
osservavo e ti chiamavo per nome ancora nel grembo di tua madre.
Il
Miani abbassò timido gli occhi e
fece per chinare il capo in deferenza, sentendosi piccolo e indegno
dinanzi
alla bellissima sconosciuta; ma ecco che le dita di lei gli
accarezzarono
consolatrici la guancia (lui però giurò di
percepire quel tocco fin nel
profondo del suo cuore) per scivolare poi delicatissime sotto il suo
mento,
invitandolo paziente a guardarla.
Vi
amo! Vi amo! Ed
Hironimo si chiese perché la sua mente stesse elaborando
queste illogiche parole
e perché stesse piangendo peggio d’un infante e
perché, senza apparente motivo,
avesse afferrato adorante la mano della giovane donna, ricoprendone il
palmo e
il dorso di baci. Singhiozzava, rideva, stava per scoppiare di
felicità,
sebbene seguitasse ad ignorare l’identità di
quella misteriosa dama, che
tuttavia possedeva l’inspiegabile dono di sconvolgergli
l’anima.
“Tolli
queste chiave”, disse ella
infine, porgendogli il mazzo di chiavi, la sua voce più
avvolgente del primo
bacio del sole ad aprile. Hironimo si mise di riflesso bene in
ginocchio,
sull’attenti, bevendo ogni sua parola. “Apri li
cepi et fuge via.”
Non
stava sognando. La mano
morbidissima e profumata di rose della giovane donna; il fruscio del
suo
candido mantello; il peso delle chiavi tra le sue mani e il loro
ferroso
tintinnare, non potevano appartenere né al mondo onirico
né ad
un’allucinazione. Non dubito della fisicità di
tale visione, neanche quando la sua
soccorritrice scomparve nel momento in cui Hironimo distoglieva per la
prima
volta lo sguardo, onde studiare incredulo le chiavi cedutegli.
Dov’è
andata? Perché non mi ha aspettato?
Non
stava sognando e non si trattava
dell’ennesimo giochetto di Mercurio Bua, anzi, il sospetto
che il condottiero gli
avesse teso una trappola non lo sfiorò minimamente. Il
veneziano non possedeva
alcune argomentazioni a riguardo, lo sapeva e basta. Si fidava della
sua benefattrice,
ciecamente.
Devo
sbrigarmi, forse mi aspetta fuori dal padiglione. Non
voglio che corra alcun pericolo per causa mia.
Sicché,
deglutendo e infondendosi
coraggio, Hironimo infilò una delle chiavi nel lucchetto che
serrava il primo
giro di catene e che lo costringeva piegato a metà.
Prendi
queste chiavi. Apri i ceppi e fuggi via.
Un
ordine semplice, diretto, senza
ambiguità e facile da eseguire (Deo volente). Le energie
avevano ripreso a
scorrergli vivaci nelle vene, la malattia, la denutrizione e i
maltrattamenti
un lontano ricordo. Era da Castelnuovo di Quero che il giovane Miani
non si
sentiva così in forze.
Prendi
queste chiavi. Apri i ceppi e fuggi via.
All’improvviso
la serratura scattò e
l’anello del lucchetto s’alzò,
sfilandosi subito quelli delle catene, che caddero
molli ai suoi piedi.
Prendi
queste chiavi. Apri i ceppi e fuggi via.
Hironimo
obbedì, da bravo cavaliere.
***
Come
tutti coloro appena morti da qualche ora, il viso di Andrea
Pera riluceva marmoreo e perfetto alla luce arancione delle candele,
infondendogli una preternaturale vitalità. I suoi medesimi
stradioti l’avevano
ripulito dal sangue, dalla polvere e dal fango e rivestito di una
semplice
tunica, utilizzando il suo gonfalone a mo’ di sudario e
lasciandogli il capo
scoperto. Una volta sistemata la bara sul semplice catafalco al centro
della
cappella di S. Croce dell’Ospedale di Santa Maria dei Battuti, Teodoro
Madalo aveva
insistito per calzarlo dei suoi stivali, secondo l’uso verso
coloro deceduti o
di parto o di morte violenta. In questo modo, si credeva, il capitano
Pera
avrebbe completato la sua vita terrena nell’Aldilà
e non sarebbero rimasto
sospeso, perseguitando i vivi così da sfogare su di essi la
propria
frustrazione.
A
giudicare dalla faccia devastata della sua compagnia, rimasta
ora orfana di comandante, Helena Spandolina Miani giudicò
che la prospettiva di
ritrovarsi accanto lo spirito del kyr Andrea non avrebbe spaventato
affatto
quegli stradioti, semmai avrebbero accolto il morto a braccia aperte e
invitato
a bivaccare assieme. In particolare Teodoro Madalo, con la casacca
ancora
sporca del sangue del capitano, fissava al limite del trasognato i
lineamenti gelidi
di Andrea Pera, quasi alla ricerca del benché minimo
movimento su quel bozzolo
di carne. Giorgio gli sussurrava frasi d’incoraggiamento,
ricordandogli che più
di così non aveva umanamente potuto fare: anche se avesse
posseduto i cavalli
del dio Febo, non sarebbe mai giunto a Treviso in tempo per salvarlo.
Mercurio
Bua l’aveva ferito troppo a fondo.
“E
ti prego, non prendertela con nostro fratello: non è colpa
sua,
bensì del suo capitano”, non gli era infatti
sfuggito lo sguardo fosco di
Teodoro, mitigato appena dalla dolce sorpresa di stringere nuovamente
il minore
tra le braccia, vivo e vegeto anche se con una spalla dislocata.
“Ma
respirava ancora … io … lui … lui mi
parlava e … e … Forse, se
l’avessi afferrato in tempo, se gli avessi impedito di porsi
in prima fila …
”
Ma sapeva
ch’era inutile attaccarsi alle chimere della
possibilità: l’uomo, già parecchio
indebolito, era spirato stringendo la mano
di Helena, ritornata al suo capezzale quando lo aveva sentito rantolare
ed
invocare disperato un prete. Purtroppo, non essendoci ortodossi nelle
vicinanze, la gentildonna greca aveva richiesto ad un monaco infermiere
un’immagine sacra e poi, ponendola di fronte al moribondo,
dopo averla baciata
i due s’erano messi a pregare incessantemente Dio e la
Vergine Maria. E mentre
la giovane Spandolina recitava energicamente O
Panagia Despoina, me to Monogeni sou, ela tziai si voitha mas,
tziai dws’ mas tin eftzin sou [5],
ecco
che Andrea Pera, in un ultimo guizzo d’energia,
l’aveva ringraziata tramite un
tremulo sorriso insanguinato. “Nelle … nelle tue
mani …”, aveva ansimato in
grandissimo affanno, per poi chetarsi bruscamente. La sua presa perse
vigore,
facendosi lasca, fino a scivolare dalle dita di lei per non muoversi
mai più.
Nella
cappella dell’Ospedale ,
gli occhi incollati sulla bara scoperta, Helena notò che
qualcuno doveva aver
messo accanto al catafalco un piatto di koliva [6] e una piccola croce
di legno
tra le dita intrecciate del morto. Se il prete cattolico, che stava
officiando
la messa da requiem, disapprovava tal pratica, di certo stava
dissimulando alla
perfezione il suo dispiacere. Sospirando profondamente, la patrizia
avanzò
verso il defunto Andrea Pera, onde salutarlo e baciare la croce tra le
sue
mani. “Addio, kyr Andreas”, mormorò e,
uno alla volta, anche il resto degli
stradioti la imitò.
“Buon
viaggio, capitano”, si
congedarono uno ad uno, rimpiangendo di non poter rimanere
lì tutta la notte a
vegliare sul defunto, in quanto la guerra li obbligava a rientrare nei
loro
alloggi e riposare. Già il Provveditore e il
Podestà erano stati così gentili
d’accordare loro di restare fino ad un’ora
così tarda; giudicavano quindi
irriconoscente approfittare di tanta cortese comprensione. Nondimeno,
gli
stradioti si ripromisero di ritornare alla cappella alle prime luci
mattutine
per accompagnare Andrea Pera alla sua ultima dimora terrena.
La
giovane greca reclinò il capo,
acciocché lo zendale coprisse il suo sorriso amaro: ora, fratello, viaggerai in una patria laddove
nessun conquistatore
potrà mai scacciarti.
“Si
è fatto tardi, madona
Helena”, le s’avvicinò Fra’
Anselmo, provocandole un piccolo sussulto
colpevole. “Dovreste rincasare e riposarvi.
L’esperienza d’oggi vi deve aver
notevolmente provata: siete molto pallida, mi preoccupate.”
La
nobildonna si voltò verso il
monaco, arcuando il sopracciglio. “Come posso aiutare i
feriti durante
l’assedio, se mi stanco per uno solo? Inoltre, ormai
è notte fonda e non ho
nessuno che m’accompagni né che mi aspetti a
casa”, troncò brusca il discorso,
rientrando all’ospedale mentre si nettava via le lacrime che
le offuscavano la
vista. Si segnò sovrappensiero, a guisa ortodossa,
particolare che non sfuggì
al benedettino, che rimarcò appunto:
“Ma
egli era un vostro
conterraneo, nonché fratello in Cristo e ciò vi
ha doppiamente sconvolta,
turbandovi e allontanandovi dai giusti precetti” e dinanzi
all’espressione
interdetta della giovane, Fra’ Anselmo proseguì,
senza però alcuna nota di
biasimo: “Voi orate con la bocca da cattolica, ma seguitate a
rimanere ortodossa
nel cuore. Piangevate mentre pregavate col signor Andrea,
perché vi ha
ricordato chi siete e cosa avete dovuto abbandonare.”
“Siamo
tutti servi del medesimo
Padrone, non vedo perché dobbiate sorprendervi che io da
cristiana abbia dato
conforto ad un altro cristiano”, replicò aspra
lei, sulla difensiva,
allontanandosi via in fretta.
Sì,
vero, per sposare Marco s’era
necessariamente convertita al cattolicesimo, tuttavia non aveva
abiurato quella
che i Greci consideravano la “Vera Fede”, rispetto
alla sua versione imperfetta
ch’era quella latina. Per non sentirsi né
traditrice dell’una né bugiarda
nell’altra, Helena aveva mischiato le due ed era giunta alla
conclusione che,
in fin dei conti, erano davvero come i due servi litigiosi e miopi
della lettera
di San Paolo ai Romani.
La
patrizia si morse la lingua,
conscia di aver incautamente sparlato, proferendo riflessioni sue
personali e
assai pericolose se udite da orecchie intransigenti o ignoranti.
Asciugandosi
le ultime lacrime,
Helena ritornò alla sua postazione nella speranza di
divenire invisibile e di
sfuggire da ogni sguardo accusatore. Controllò che le bende
e gli unguenti
fossero al loro posto, in ordine e pronti per l’uso; i letti
preparati e le
cortine di lino pulite, gli ancora pochi pazienti nutriti e confortati,
cercando nel lavoro consiglio e forza morale. La giovane greca aveva dormito
malissimo la notte precedente e soltanto aiutando madona Maria
Malipiero
Gradenigo e i monaci infermieri, ella sentiva di trovare la distrazione
necessaria per dimenticare che oramai l’assedio era un fatto
certo e
inevitabile e che pertanto suo marito Marco non avrebbe più
potuto assentarsi
dal Castello, come invece aveva potuto fare prima, rientrando a turno
finito.
Neppure
il tempo di congedarsi le era stato concesso, essendo
giunto uno dei provvisionati del suo consorte a ritirare rapidamente le
sue
cose. La perdonança, patrona –
fu
l’unica spiegazione che la nobildonna aveva ricevuto
– ma da stanotte il vostro sior
marido alloggerà del quartiere del
Castello, assieme a tutti gli altri gentiluomini e soldati. Ordini del
magnifico sier Provveditore.
Helena
s’era ripromessa di non piangere nel suo letto vuoto;
ciononostante la tentazione l’aveva sopraffatta e qualche
lacrima l’aveva
spenta, più che altro perché, senza il marito
lì accanto, lo spettro funesto
della guerra e dei suoi orrori le appariva adesso più
concreto, minaccioso e
soffocante. Forse per quest’ansia ultimamente soffriva di
crampi allo stomaco e
di lievi capogiri. Quella mattina aveva avuto perfino un po’
di nausea.
Anche
madona Felicita aveva sofferto una semi-separazione dal suo
Donado, il quale instancabile era corso di qua e di là ad
aiutare lo sgombero
dei mulini e a controllare che nessuno s’avvicinasse ai
magazzini, dove si
depositavano le farine. Contrariamente ad Helena, però, la
giovane trevigiana
poteva contare sulla presenza del suocero, della madre, della fantesca,
del suo
Jacopino nonché del pargolo in ventre per tenersi
focalizzata sul presente e
non rimuginare sul passato e sul futuro. La greca rimaneva al contrario
sola
coi suoi pensieri e, per non impazzire, aveva deciso che tra sofferenze
peggiori poteva esorcizzare la sua. S’era consolata poi
ripensando a sua
sorella Chiara, appena sposata a sier Nicolò
Trivixan e già rischiava di rimanere vedova.
Ma la
morte di Andrea Pera le aveva sbattuto in faccia la
durissima realtà, abbattendo le sue fragili difese; lui era
soltanto il primo,
chissà quanti ne sarebbero seguiti. Dio e la Vergine non
volessero che anche
suo marito passasse per quel tavolo chirurgico, agonizzante e mutilato
…
“Nessuno
è migliore del proprio
Maestro né il servo è più importante
del proprio Padrone, è vero”, raccolse
Fra’ Anselmo un telo che le era inavvertitamente caduto.
Helena strabuzzò gli
occhi, impaurita, accelerando il passo d’istinto
sicché il benedettino dovette
a momenti rincorrerla. “E appunto per questo, per servire al
meglio, che
dobbiamo riposare. Per favore, rincasate: domani ogni cosa vi
apparirà
migliore. Il signor Andrea è con Dio, ma noi siamo ancora in
questa valle di
lacrime e dobbiamo farci forza e vivere anche per loro.”
La
patrizia abbassò il capo, un
poco vergognosa. “Mi dispiace d’avervi aggredito
così.”
Grattandosi
la fronte, il monaco
ridacchiò a sua volta a disagio: si era, in effetti,
lasciato trasportare
dall’ognora insidioso peccato di superbia, considerandosi
all’apice della
saggezza e della conoscenza. Proprio lui era andato a fare un velato
predicozzo
alla giovane su cosa fosse o non fosse da degni cristiani, quando lui
aveva
mentito e disobbedito al suo Priore, drogato i suoi assistenti e
pazienti e
progettato una fuga? I lunghi anni all’Abbazia di
Sant’Eustachio lo avevano
insuperbito, dimenticando egli di essere un piccolo tassello del grande
e
variegato mosaico del mondo e Dio, mettendolo costantemente alla prova
nelle
ultime settimane, glielo aveva pazientemente ricordato.
“Figliola
mia, non angustiatevi
per me: vostro cognato sier Hironimo m’ha assai ben
fortificato, quando si
trattava di cantarmele. E se non nutro rancori verso di lui -
ch’era lucido e
cosciente delle sue parole - debbo
averne nei vostri confronti, che siete chiaramente affranta?”
“Hieronymos
possiede un buon cuore”,
obiettò la greca, accennando col capo a quel contadino
ammalato, che le aveva
raccontato di come Hironimo non soltanto lo avesse salvato da morte
certa,
ponendosi tra lui e il lanzichenecco, ma anche come gli avesse donato
la sua
coperta e lo avesse aiutato a proseguire nella marcia forzata. Mi ha dato la forza di reagire, di poter
scappare! , aveva aggiunto, mostrando quel panno a
mo’ di prova, manco
corrispondesse ad una reliquia.
“Sì
lo so, per questo l’ho
perdonato!”, scherzò debolmente Fra’
Anselmo. Le campane avevano preso a
suonare mezzora dopo le sette e il frate si rassegnò a far
da scorta
all’ostinata gentildonna, non tanto perché temesse
birbonate da parte dei
pazienti, bensì per controllare che lei non collassasse a
causa o della
stanchezza o di un malore.
“Bene,
giovanotto!”, si rivolse
il benedettino a Giorgio Madalo, indicandogli il muro.
“Levati la camicia e
appoggiati lì con la schiena …”, lo
istruì e una volta avutolo tra le mani,
Fra’ Anselmo in un’unica mossa secca e decisa gli
rimise la spalla al suo
posto, strappando allo stradiota un acuto, brevissimo e intenso urlo
che
svegliò chiunque si fosse addormentato in quella stanza, dai
pazienti agli
altri infermieri.
“Ti
duole molto?”, domandò
timidamente Zilio al fratello, sistematosi borbottante sul lettuccio
accanto al
suo. Teodoro aveva fatto ritorno ai suoi alloggi in contrada San
Martino,
mentre a Giorgio era stato consigliato, almeno per il resto di quella
notte, di
rimanere in ospedale, specie dopo aver ingollato una bevanda agli
oppiacei onde
attutire il dolore alla spalla. Libero inoltre
dell’ingombrante presenza del
monaco benedettino e spostatasi madona Helena in un’altra ala
dell’ospedale
(non sia mai che, scoperta la sua identità, lei andasse a
riferire al marito e
allora sì, che Zilio sarebbe arrivato baccalà dal
boia), lo stradiota s’era
infine risolto d’affrontare il maggiore, il quale
s’era spesso dimostrato più
aperto al dialogo rispetto a Teodoro.
“No,
guarda … sto godendo come un
riccio …”, biascicò Giorgio sia per
l’intruglio sia per la naturale stanchezza,
massaggiandosi di riflesso l’arto offeso. “E ora
serra quella fogna, ché voglio
dormire”, si girò sul fianco sano, sbadigliando
sonoramente.
Zilio
deglutì a disagio, tuttavia
insistendo: “Come te la sei procurata?”
Suo
fratello aprì un occhio, per poi
sospirare pesantemente. Grugnendo infastidito, si portò
supino e volse il capo
in direzione del minore, rendendosi conto come in effetti egli ancora
non
sapesse ogni dettaglio di quanto accaduto il giorno prima.
“Il tuo capitano”,
esordì atono, “aveva disarmato il capitano
Theodoros Ralli … e lo stava per strangolare
col braccio ... Così gli sono saltato addosso e …
e siamo caduti tutti e tre da
cavallo …”, sbadigliò
di nuovo, le
palpebre pesanti. Quand’ecco, che Giorgio indicò
lo zigomo gonfio e spellato e
già tendente al blu e giallo. “Ah, dimenticavo
… anche questo è cortesia del
tuo comandante …”, e rise, manco si fosse trattato
di una zuffa tra amici,
invece di uno scontro all’ultimo sangue.
“Non
ti avrebbe mai ucciso”, gli
confessò sincero Zilio, appoggiando una mano
sull’addome e fissando infelice il
soffitto, dilaniato da quei due fortissimi affetti, verso il suo
capitano e
l’unica famiglia rimastagli.
“Bah,
gli dai troppo credito”.
“Credimi,
ti avrebbe solo fatto
prigioniero.”
“Grato
di avergli rotto le uova nel
paniere, allora”, commentò soddisfatto Giorgio,
grattandosi la barba sul mento.
“Smettila,
non sto scherzando!”,
protestò Zilio.
“Manco
io”, ribatté secco suo
fratello. “Ho promesso alla mia donna e ai nostri pulcini di
ritornare vivo e
ho ogni intenzione di farlo. Quando finirà questa guerra,
accenderò un cero
grosso così a questa Madonna di Treviso,
dopodiché invierò alla Signoria una
petizione per qualche campo da coltivare e vivremo felici. Tutto
questo”, e
indicò vagamente l’ospedale con un rapido svolazzo
della mano, “rimarrà
soltanto un brutto ricordo e nulla più.”
Zilio
annuì pensoso, realizzando d’un
tratto come avesse trascorso gli ultimi sedici anni a combattere su
questo o
quel fronte, senza tuttavia preoccuparsi di costruire una propria vita
al di fuori
del campo di battaglia. Era diverso per Giorgio, che s’era
sposato giovanissimo
e che a Venezia lo attendevano la moglie e una nidiata di figli: la
guerra per
lui corrispondeva ad una mera parentesi, mica lo scopo principale della
sua
esistenza. Per questo Zilio e Teodoro s’intendevano meglio
(quando non
litigavano): nel bene e nel male, avevano in fin dei conti intrapreso
le medesime
strade.
“Tzé,
contadino di nome e di fatto!”,
lo sfotté giocosamente Zilio in un arguto calembour. [7]
“Taci
e dormi, o ti do un pugno in
testa che ti svegli l’anno prossimo”,
borbottò Giorgio, fingendosi offeso. D’un
tratto assunse però un’espressione grave.
“Torna a casa da noi, Zilio. Ti prego”,
lo scongiurò apprensivo. “Non devi nulla
all’Imperatore, né al Re di Francia.
Loro non c’erano quando i Turchi hanno conquistato le nostre
città, rendendoci
esuli e raminghi. Non ci hanno accolto, non ci hanno aiutato. Solo la
Signoria
ed è per riconoscenza verso di essa, ch’io
combatto.”
“Siamo
stradioti, mercenari. Non è
nostro uso servire il miglior offerente?”
“Tu
e Theodoros, forse. Io no”, sentenziò
altero Giorgio, sistemandosi meglio il cuscino sotto il capo e
chiudendo
caparbiamente gli occhi, segno che la conversazione sul serio terminava
lì,
senza possibilità d’appello.
Zilio,
al contrario, pareva di
tutt’altro avviso e non demorse. Sforzandosi onde porsi
seduto, provò ad
attirare l’attenzione del maggiore, sennonché la
porta dello stanzone s’aprì
piuttosto rumorosamente, annunciando il concitato arrivo di due
soldati. Madalo
percepì del sudore freddo colargli lungo la schiena: che
fossero venuti per
condurlo alle prigioni e lì interrogarlo? Anche suo fratello
s’era posto
sull’attenti, rigido e immobile, temendo la cattiva notizia.
Invece,
i due uomini li ignorarono
completamente, passando oltre i loro letti. Sbuffavano ed imprecavano,
o
meglio, il milite dietro al primo non cessava di lagnarsi con quello
che apriva
la fila, asserendo come lo avesse inguaiato. Allungando il collo, i
fratelli
scoprirono che stavano trasportando qualcosa – o qualcuno?
– usando un mantello
a mo’ di lettiga improvvisata.
“Che
accade?”, ruppe Giorgio ogni
indugio, preferendo conoscere le cose direttamente
dall’altrui bocca, al posto
di dedurle.
Adagiato
su di un letto vuoto il
pesante fardello, uno dei due soldati gli andò incontro,
mentre il secondo
correva alla ricerca di un monaco infermiere. “Che
accade?”, ripeté snervato
quegli, stringendo la bocca in una linea dura. “Accade che se
lo sanno, ci
impiccano!”
“Ma
chi?”, insistette lo stradiota,
al limite dello sconcerto.
“Era
il mio turno di ronda a Porta
San Tomaso, d’accordo?”, ringhiò la
sentinella, cambiando peso nervosamente da
una gamba all’altra. “Era passata … che
so … al massimo mezzora dopo le otto e
me ne stavo lì tranquillo, quando …” e
aspirò violentemente l’aria, indicando
il compagno che ritornava con appresso Fra’ Mauro, uno dei
canonici regolari di
Santa Maria Maggiore trasferitosi all’ospedale assieme ai
suoi confratelli.
“Quando vedo ‘sto sempio che si dirige alla
portella. Io ovviamente lo fermo e
gli chiedo: Zò,
Marchiò, razza de bauco,
cossa fastu? E st’altro: Mi
vago a
verzer ea portela. Al che gli ricordo gli ordini del sior
Provedador: non
si apre a nessuno di notte, specie a ‘sta ora, senza speciale
autorizzazione. Ma la
patrona a me g’ha dito de verzer ea portela!, insiste
e tanto ha detto e
tanto ha fatto, che l’ho dovuto seguire fin giù
alla portella. E una volta apertala
…”, si passò una mano sulla bocca,
cangiando la sua espressione da indignata a
confusa, quasi intimorita. “Abbiamo trovato ‘sto
desgrasià, mezzo morto, lì per
terra … Io … io allora gli domando: Ma
‘sta siora patrona, chi xéla? Indove tea
g’ha vista?”
“Co’elo!”,
s’intromise Marchiò,
indicando spazientito il fagotto sul letto. “Gelmo, te
l’ho ripetuto mille
volte: ho visto in due avvicinarsi alla Porta! E uno di questi era una
donna,
che m’ha ordinato d’aprire la portella!”
Giorgio,
Zilio e Fra’ Mauro si
guardarono l’uno l’altro sconvolti, neanche
stessero assistendo alle
farneticazioni di un pazzo. E medesimo parere lo condivideva Gelmo, il
quale
esplose frustrato: “E tu spiegami com’accidenti sei
riuscito a sentire una
donna dalla caminada! Dall’alto! Ancora-ancora se si fosse
messa a gridare, ma
allora l’avrebbe sentita l’intera nostra
guarnigione! E invece l’hai sentita
solo tu! Ti rendi conto, testa- da-bigoli, che abbiamo disobbedito al
sior
Provedador? Io non voglio, per colpa tua e delle tue idiozie, andare a
fare
compagnia al caporale di Mathio da Zara!”
“Te
lo giuro sulla tomba di mia madre, che non ti
sto mentendo! L’ho udita come sto ascoltando te in questo
momento!”, divenne
Marchiò rosso in volto, stringendo il pugno. “E se
lo spieghiamo al sior
Provedador, sono sicuro che capirà e …”
“…
e forse sarebbe meglio, se voi due tornaste a
Porta San Tomaso?”, tentò Fra’ Mauro di
calmare gli animi, interponendosi tra i
due litiganti, anche per evitare che svegliassero e coinvolgessero il
resto dei
pazienti, creando più confusione del necessario.
“Il connestabile sa che siete
qui?”
Gelmo
confermò: “Sier Ludovico Querini ci ha dato
il permesso di venire: ha pensato probabilmente trattarsi di un nostro
commilitone svenuto per via di questa febbre …”,
glissò abile sui dettagli. Resosi
infatti conto del pasticcio combinato, lui e il suo complice avevano
prontamente
coperto quel poveretto con un mantello, in modo da nasconderlo dalle
occhiate
curiose ed evitare di rispondere a domande compromettenti. La
semioscurità
della porta d’ingresso aveva poi provveduto al resto.
“Perfetto!”,
batté le mani il canonico regolare, un
poco rincuorato. “Adesso però filate via, prima
che s’insospettisca. A lui
baderò io”, li esortò bonariamente,
accompagnando Marchiò e Gelmo fino alla
porta. Dopodiché ritornò al letto di colui
ch’aveva inconsapevolmente creato
tutto quello scompiglio. “Vediamo un po’
…”, mormorò tra sé e
sé Fra’ Mauro,
scostando delicatamente il mantello. Subito un pungente odore di rose
gli
invase le nari, stordendolo lievemente e costringendolo a strabuzzare
gli
occhi, incapace di conciliare quanto vedeva e quanto annusava.
“Che
storia bislacca!”, confidava nel frattanto
Zilio a suo fratello, il quale si ritrovava d’accordissimo.
“Forse si
salveranno dalla forca, ma non di certo da una solenne lavata di
capo!”
“Fra’
Mauro, chi è?”
Il frate
sobbalzò impercettibilmente dalla
sorpresa, voltandosi poi verso i due fratelli Madalo.
“E’ un giovane uomo …
bruno … poareto, è ridotto davvero male
…”, sospirò mestamente, scorrendo le
dita sui piedi ricoperti di piaghe sanguinanti e risalendo lungo le
caviglie
spellate, le gambe piene di graffi, di croste, di punture
d’insetto, nonché d’aloni
di fango secco e fresco.
Fra’
Mauro tastò l’addome incavato e giallognolo,
le costole sporgenti, storcendo la bocca dinanzi ai lividi sparsi, alla
tenera
cicatrice di una ferita recente, fino a giungere al volto lasco del
paziente,
pallidissimo, sudato, dalla barba incolta, ricoperto
anch’esso d’escoriazioni
ed ecchimosi. Colto da una grande pena nei suoi confronti, il canonico
regolare
gli accarezzò teneramente il capo, infischiandosene dei
capelli aggrovigliati e
sporchi. Ad averlo commosso, infatti, non erano state solo le
condizioni fisiche
di quel poveretto, bensì quegli orridi strumenti a prova di
quanto doveva aver
sofferto.
“Penso
sia un prigioniero … di sicuro scappato, ma
… ma da dove?”, cogitò ad alta voce,
sollevando perplesso le catene ch’avvolgevano
quel corpo sfinito e martoriato, sciolte abbastanza da permettergli
maggiore
libertà di movimento, ma in ogni caso pesanti ed
ingombranti. “Da qualche posto
vicino, perché con questi ceppi … con questa
palla ... non può aver camminato a
lungo né giungere da lontano …”
“Volete
che vada a informare il Provveditore?”,
s’offrì volontario Giorgio, alzandosi dal letto.
Dalla finestra s’udiva intanto
il coro delle campane annunciare le dieci del mattino (4 di mattina,
ndr.)
“Che
differenza vuoi che faccia? Fra due ore si
sveglierà e lo verrà a sapere
comunque”, scosse il capo Fra’ Mauro,
arrotolandosi le maniche del saio. “Piuttosto, vieni qui ad
aiutarmi a
distrigare questa matassa di catene. Il ragazzo ha più
bisogno delle nostre
cure, che il sior Provedador d’apprendere del suo
arrivo.”
Indossando
la casacca e il sonno ormai volato per
lidi oscuri, Giorgio ben volentieri accettò
l’incarico del monaco infermiere. “O
Panagia Despoina!”, fischiò impressionato,
spalancando gli occhi. “Mai visto
uno incatenato così, che diavolo stava pensando il suo
carceriere?! E poi cos’è
quest’odore di rose?”
“Mi
vuoi aiutare o preferisci filosofeggiare sul
senso del mondo?”
Lo
stradiota si chetò all’istante alla stregua
d’un
fanciullino rimproverato dal proprio magister, comprendendo infine
perché il
canonico regolare e Fra’ Anselmo avessero stretto una pronta
amicizia.
Con
delicata discrezione, i due uomini sfilarono
via uno ad uno gli strumenti di prigionia dal corpo del fuggitivo,
appoggiandoli pianissimo per terra onde non destarlo. E sempre usando
la
massima accortezza, Fra’ Mauro lo coprì di una
calda coperta di lana fino sotto
il mento. Nel sonno il ragazzo si rannicchiò in posizione
fetale sul fianco,
cacciando fuori un grosso sospiro. “Lasciamolo dormire
tranquillo”, sussurrò compiaciuto
il frate, ponendo una mano sulla spalla di Giorgio a mo’ di
ringraziamento. “Più
tardi avremo tempo e modo d’apprendere la sua
storia.”
Madalo
reclinò il capo, seguitando a studiare
incuriosito i lineamenti del giovane, i quali gli apparivano vagamente
familiari: era certo infatti d’averli già scorti
da qualche parte, peccato che al
momento gli sfuggisse il raffronto esatto …
“Oggi
è domenica, Fra’ Mauro”, si sovvenne
all’improvviso Giorgio e all’occhiata interdetta
del religioso, si spiegò
meglio: “Riacquistare la libertà, dopo la
prigionia, è come risorgere. Si torna
a vivere. Me l’ha confessato mio fratello Teodoro,
quand’è scappato dal campo
nemico …” e ridacchiò impacciato,
grattandosi il collo. “Di conseguenza stavo
pensando; di domenica c’è stata la Resurrezione,
no? Allora
dev’esser così, nascere una seconda
volta … Bah! Non fateci caso! Pensieri miei”, si
ricompose lo stradiota dalle
sue cogitazioni a voce alta, tossicchiando imbarazzato.
Farfugliò in fretta una
scusa per congedarsi, ritornandosene assai porporino al proprio
giaciglio ed
ignorando perfino le domande rivoltegli dal fratello Zilio.
Fra’
Mauro lo seguì con lo sguardo, gli angoli
della bocca piegati all’insù in un sorriso
indulgente. Non avendo null’altro da
fare, si portò uno sgabello al capezzale del suo giovane
paziente ed estrasse il
rosario, così da spendere in preghiera quelle poche ore
rimastegli prima dell’alba.
Eppure,
la mente del frate non riusciva ad
astrarsi, seguitando egli a fissare la figuretta sotto le coperte e a
chiedersi
chi fosse costui, da dove fuggisse nonché chi lo avesse
aiutato,
accompagnandolo fino a Porta San Tomaso e addirittura persuadendo una
sentinella a farsi aprire nel cuore della notte. Dove si trovava, ora,
questa
misteriosa compagna di viaggio? Nessuna delle guardie aveva
più accennato alla
sua presenza, dopo l’apertura della portella.
E
soprattutto, il canonico regolare non capiva
perché mai questo ragazzo olezzasse più
d’un giardino di rose a maggio, quando neppure
gli accattoni si presentavano tanto lerci quanto lui.
“Invero
oggi è domenica”, asserì piano
Fra’ Mauro,
riponendo il rosario alla cintola non appena i primi timidi raggi
mattutini s’infiltrarono
in punta dei piedi dalle finestre, punzecchiando dispettosi le ciglia
degli
ostinati dormienti. Colto da un subitaneo impulso, il religioso
accettò quella
carezza di luce sul volto e, congiunte le mani, recitò un
passo del Salmo 29,
ritenendolo il più adeguato a quella straordinaria
situazione: “Signore, a te
ho gridato e mi hai
guarito. Signore,
mi hai fatto risalire dagli inferi, mi hai
dato vita perché non scendessi nella tomba. Alla
sera sopraggiunge il pianto
e al mattino, ecco la gioia. Ascolta,
Signore,
abbi misericordia, Signore,
vieni in mio aiuto. Hai
mutato il mio lamento in danza,
Signore,
mio
Dio, ti loderò per sempre.”
Terminata
la sua orazione, il canonico regolare incominciò
ad elencare mentalmente le mansioni della giornata, in primis la
colazione da distribuire.
Una morbida quiete indugiava nello stanzone, mentre il sonno ancora
avvolgeva
ciascuno degli astanti, pellegrini in quel mondo inaccessibile e
personale,
laddove traevano quel necessario attimo di respiro, prima
d’immergersi
nuovamente nell’oceano delle vicissitudini umane.
A
Fra’ Mauro fece assai peccato doverli svegliare,
sicché non s’affrettò a scendere nelle
cucine, rimanendo lì a vegliare i suoi
pazienti per un’altra mezzoretta.
Continua
…
***********************************************************************************************
I come,
perché e quando nel prossimo capitolo! ;-)
Infinite
grazie a Sagitta72 e a Semperinfelix per i
loro consigli!
Alla
prossima!
Un po’ di noticine:
[1]
Il 9 marzo del 1510 vi fu
un’apparizione della Madonna a Motta di Livenza, dove venne
puntualmente
costruito un santuario a Lei dedicato, a seguito anche dei prodigi che
confermarono la veridicità della sopracitata apparizione e
tutt’oggi fiorente meta
di pellegrinaggi.
Il
veggente era un contadino di
nome Giovanni Cigana, il quale riferì di aver visto quella
mattina,
dinanzi al
capitello (cappella) della
Madonna col Bambino dove lui soleva pregare, una bellissima
giovinetta
biancovestita. Rivelatasi come la Madre di Dio, Ella gli
chiese di
digiunare con la famiglia per tre
sabati
consecutivi e di predicare il digiuno e la penitenza a tutta la gente
di Motta
e delle città e paesi di tutta la Marca Trevisana. Coloro che avessero
digiunato con vero
pentimento, avrebbero ottenuto misericordia e perdono dal Signore,
“sdegnato
per i troppi peccati del popolo”, come gli disse la Madonna
stessa.
Quanto
al “mondo travagliato e
puzzolente”, l’ho ripreso dal testamento dello
stesso Marco Miani, quando
questi suggerì alla figlia Cristina di farsi monaca o di
vivere da pizzocchera,
rifiutando il mondo. Poi dopo cambiò idea e le diede la dote
per sposarsi.
[2]
Narra il Sanudo (20.06.1509):
“È da saper, eri sera achadete, cossa notanda, che
nel borgo di San Trovaxo sta
una povera dona, vedoa, con 3 fioli, dorme sulla paja, et filla lanna
et nulla
ha al mondo, par che a hore 1½ di note batesse a la sua
porta una femena; et
questa, meravegliata chi bateva a quella horra, dimandato chi fosse,
disse: Apri. Et aperta,
intrò in caxa, non
havia luse, ma li paresse fusse una dona, vestita di biancho,
la qual li
disse: Va dal piovan et dili, che
’l faza
precession fin el dì di San Zuanne (San Giovanni
Battista, cioè il 24
giugno) con la madona di Ogni Santi, che
questa terra haverà vitoria contra i soi inimici, dicendo: Cussì
ho fato far a
la Madona di San Zuane Pollo. La qual femena disse: Chome volè vu, che vada, che i non me
crederà, e non si vede? E lei
disse: Va pur via; e paresse la
fosse
spenta fuora, et che fosse torze accese. Andò dal piovan, e
la dona rimase in caxa,
et li disse la cossa. Lo qual ordinò la venisse la matina;
et tornata a caxa,
la dona era partita. Et fo fato la precession, comenzata questa matina.
[3]
Dal Quarto Libro dei Miracoli
di Santa Maria Maggiore: (1511) Come una
putina morta resuscitò. Stendo morta una putina di uno
patricio veneto, de anni
quatro, havendo fede, et gran devotione in questa gloriosa immagine,
viene de
Venetia qui, co’ la sua consorte, et presentato la putina,
sula altare, com
lacrime pregano la Madonna che la facesse revivere. Et subito la putina
resuscitò già molti giorni morta, et
domandò da mangiare, li fu dato dele
solete, et sul’altar mangiò: et cussì
come piangendo veneno a Treviso co’
gaudio ritornorno alla patria sua Veneta, co’ la putina viva.
[4] A
seguito della cacciata dei Caminesi e della restaurazione
del libero comune, Treviso, oltre ad aggiungere nel 1313
l’immagine della
Madonna al proprio gonfalone, negli statuti del 1314 aveva ribadito
l’atto di
vassallaggio alla Madonna, che il Podestà ripeteva
pubblicamente a Santa Maria
Maggiore il giorno dell’Assunta.
In questo
modo, essendo la Vergine la Signora di Treviso, nessuna
famiglia nobile poteva più aspirare ad instaurare una
signoria, poiché sarebbe
stata un’usurpazione sacrilega. Ciò non
impedì purtroppo a Treviso di finire
sotto il dominio dei Conti di Gorizia, dei Tempesta, degli Scaligeri,
del Duca
d’Austria e dei Carraresi: tuttavia, tali signorie ebbero
vita assai breve
(quasi a monito?) e di fatti la Repubblica di Venezia, cui Treviso
s’era
dedicata spontaneamente, ben si guardò dal contestare questo
vassallaggio,
anzi, conservò la tradizione di far recitare al
Podestà in carica il dì
dell’Assunta l’atto di sottomissione alla Madonna,
donandoLe il pallio di seta
e molte candele a mo’ d’offerta.
[5]
(traduzione approssimativa)
Oh Vergine Maria Despina, assieme al tuo Figlio Unigenito, vienici in
soccorso
e benedicici.
[6]
Koliva = un piatto di grano e miele
con
una candela accesa al centro, per riprendere la parabola del chicco di
grano
dal Vangelo di San Giovanni (riferimento anche alla
ciclicità della vita.)
[7]
Giorgio (Georgios in greco)
significa appunto “lavoratore della terra”,
cioè contadino o agricoltore.