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Autore: mercutia    14/08/2021    1 recensioni
L'esperienza in Caerdicca Unitas ha cambiato Imriel, ma ha solo parzialmente rimosso la tensione dal suo rapporto con Phèdre. Per quanto sia felice di riaverlo a casa, a pochi mesi dal suo ritorno è chiaro che ancora tra loro esistano questioni in sospeso, attriti spinosi e ingombranti che solo una persona al mondo dice di poter dissipare. Con questa promessa Mélisande Shahrizai rientra improvvisamente nella vita di Phèdre, proponendole un patto controverso per quanto irrinunciabile.
A dodici anni di distanza la prescelta e l'erede di Kushiel si ritrovano faccia a faccia: chi delle due avrà la meglio nel loro eterno duello d'amore e d'odio?
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La storia è narrata dal punto di vista di Phédre anche se si colloca nella seconda trilogia, per la precisione dopo "Il sangue e il traditore", di cui però ignora il finale in cui Imriel decide di leggere le lettere di sua madre.
[fanfiction Phédre/Mélisande]
[piccoli spoiler fino a "Il sangue e il traditore"]
Genere: Erotico, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Imriel nó Montrève de la Courcel, Joscelin Verreuil, Mélisande Shahrizai, Phèdre nó Delaunay, Ysandre de la Courcel
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: Bondage
Capitoli:
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Mélisande ci attendeva nelle stanze private come stabilito, la trovammo in piedi non molto distante dalla porta quando Emeric l'aprì. La reazione che aveva avuto alla Serenissima quando le avevo portato Imri bambino era impressa nella mia mente come fosse appena accaduto: il sentimento che era esploso quando aveva sussurrato il suo nome riverberava ancora nelle mie orecchie, bruciandomi il cuore con la stessa identica intensità. Quello che accadde in quel momento non fu molto diverso, ma trovarsi davanti Imriel uomo credo l'avesse sopraffatta, nonostante i mesi, gli anni impiegati a immaginare e preparare quell'incontro. Si portó una mano alla bocca come a voler zittire l'emozione che la colse, ma i suoi occhi, Elua, i suoi occhi gridarono, gridarono! Gridarono un mare di sofferenza e di rimpianto tanto cupo e intimo da lasciarmi senza fiato e al contempo un'indicibile gioia, calda, limpida, colma d'orgoglio e vivida commozione. Restó incantata in quel modo a lungo, tanto che Imriel giró un attimo la testa a guardarmi, come a chiedermi se dovesse fare qualcosa. Anche lei volse a me il suo sguardo allora, lasciandovi trapelare tutta la gratitudine più sincera e profonda che pur già aveva tentato di dire a parole. Se alla Serenissima avevo faticato a sopportare quella vista, ora me ne sentivo schiacciata, perché ora con lei condividevo l'amore materno: ora che conoscevo il sapore amaro della privazione e della nostalgia per un figlio lontano, potevo percepire sulla mia stessa pelle quello che lei sentiva. E se mai avevo avuto dubbi sul diritto che le avevo concesso, in quell'attimo svanirono tutti. 
Feci un inchino con la testa e mi rivolsi di nuovo a lei, dicendo a bassa voce «Vi lascio soli». 
Mi aspettavo che Imriel a quel punto mi avrebbe guardata di nuovo, che mi lanciasse una muta richiesta d'aiuto, invece il suo viso restó diritto, la mascella tirata per il nervosismo, gli occhi attenti che osservavano sua madre e chissà cosa vedevano. Lo osservai, poi guardai di nuovo lei: erano una scena di una bellezza struggente, così simili e così diversi, così vicini eppure enormemente distanti. Me ne riempii gli occhi, quindi uscii dalla stanza. 
Una volta fuori esalai un respiro tremante, come se avessi trattenuto il fiato fino ad allora e poi, esausta, mi appoggiai di schiena alla porta finché Joscelin mi si avvicinó preoccupato. 
«Cos'è successo?» 
Io, ancora confusa, alzai gli occhi in direzione della sua voce e sussurrai «Ha solo rivisto suo figlio.» 
Avevo voglia di ridere e anche di piangere. Lui mi guardò e, per quanto fosse fermo il suo odio per Mélisande, capì: mi prese il viso tra le mani, mi impresse un bacio sulla fronte e anche lui si rese conto che avevamo fatto la scelta giusta. Restammo lì così qualche minuto, poi tornammo alle questioni concrete: feci anche con lui un giro della villa, dopodiché lui iniziò a fare avanti e indietro da casa nostra insieme a Emeric per il trasporto delle vivande. Io intanto vagavo per le stanze e i corridoi, un po' per scrupolo, un po' per cercare di prevedere la serata che mi attendeva, un po' per evitare di congetturare a vuoto sul dialogo che si stava svolgendo tra Mélisande e Imriel e sulle mie apprensioni per quella notte. 
Presto per fortuna cominciarono a giungere le adesioni alla festa da parte delle Case della Notte: tutte avevano accettato, sottolineando fosse per loro un onore far partecipare i loro adepti. Tra i messaggi che arrivarono, uno senza stemmi sul sigillo mi informava che il mio piccolo esercito di tzingani si stava già appostando tra le colline nei dintorni e mentre le guardavo dalla finestra vidi arrivare i dieci cassiliani che avrebbero formato invece il servizio di guardia ufficiale. Andai ad accoglierli all'esterno, breve e formale, per lasciarli poi a Joscelin per le disposizioni della serata. Io non facevo che riflettere e osservare loro, Emeric che si affaccendava ad allestire le sale, la porta delle stanze private in cui Mélisande e Imriel erano chiusi da ore. Infine, sentendo l'agitarsi del groviglio dei miei pensieri, mi ritirai nelle mie stanze, mangiai qualcosa e passai il resto del pomeriggio a prendermi cura del mio corpo e della mia pace interiore. 
Stava per tramontare il sole quando Joscelin mi venne ad avvisare che la carrozza del primo ospite era stata avvistata. Io mi ero già preparata, avvolta dal mio mantello sangoire, la maschera in mano, guardai il cielo rosso fuoco fuori dalla finestra prima di uscire e alzai una muta preghiera a Naamah perché vegliasse su tutti noi e una a Kushiel perché proteggesse me. 
«È tutto pronto?» domandai. 
Joscelin annuì, prima di mettermi una mano dietro la nuca e avvicinarsi, appoggiando la mia fronte alla sua. Sapevamo che da quel momento probabilmente non avremmo più avuto modo di parlarci, finché non sarebbe finito tutto, eppure nessuno dei due disse nulla, ci crogiolammo soltanto nella nostra reciproca tenerezza, giusto qualche minuto, una pausa sospesa nel tempo, poi presi il suo viso tra le mani, lo baciai e la festa inizió.
Al primo ospite seguirono tutti gli altri, uno alla volta, rispettando con discreta puntualità le tempistiche che avevo dato loro nell'invito. Come da programma, Joscelin li accoglieva all'esterno, apriva loro la porta d'ingresso e me li presentava. Io, semiseduta su di un alto sgabello di legno, li ricevevo, li intrattenevo con qualche cortese convenevole, poi chiedevo loro di spogliarsi e indossare la maschera e il mantello che porgevo. Infine li accompagnavo ai piedi della scalinata e li invitavo a salire per accomodarsi alle sale della festa, mentre Emeric faceva sparire dall'ingresso i loro abiti e portava maschera e mantello per l'ospite successivo.
Non avrebbe certo dovuto stupirmi, eppure mi sorpresi a notare come il comportamento di ognuno degli adepti manifestasse in modo così preciso e radicato le caratteristiche tipiche delle loro Case di appartenenza. Erano tutti ovviamente giovani, ma non alle prime armi, anzi per la maggior parte erano ritenuti esperti veterani dai loro priori. Non era quindi certo immaturità o timidezza il motivo per cui ognuno di loro mi trattava con estrema deferenza. Persino i due adepti di Casa Mandragora, nei cui occhi brillava una spudorata attrazione nei miei confronti, si rivolsero a me in maniera sommessa, affatto usuale per loro. La questione era che Mélisande aveva ragione: la mia fama mi garantiva stima e autorevolezza tali che nessuno avrebbe mai dubitato di me o sospettato qualcosa relativamente a quella festa, anzi era più che evidente in ognuno dei miei ospiti tutto il più autentico entusiasmo di conoscere me e poter partecipare ad un simile evento. Tutto procedeva perfetto. 
Come previsto, mentre io accoglievo l'ultimo ospite, Joscelin andó a chiamare Imri e Mélisande: il tempo a loro disposizione era terminato. A quel punto Imriel avrebbe indossato maschera e mantello e sarebbe salito al piano superiore mescolandosi agli adepti e Joscelin avrebbe atteso insieme a Mélisande che anche l'ultimo ospite si unisse alla festa, quindi l'avrebbe scortata da me. Sapere che sarebbero stati soli, anche se soltanto per una decina di minuti, mi aveva portata a chiedere espressamente a Mélisande di evitare di rivolgere la parola al mio consorte e quando arrivarono all'ingresso non potei fare a meno di chiedermi se avesse rispettato la mia volontà: Joscelin mi gettó appena un'occhiata, gelida, prima di uscire sotto lo sguardo placido di Mélisande, le cui labbra, lente, s'incurvarono divertite. 
«Gli avete detto qualcosa?»
Sospiró una brevissima risata. 
«No, cara. Non ce n'era alcun bisogno.»
Osservai la porta da cui era uscito chiedendomi se avessi dovuto fermarlo, rincuorarlo un'ultima volta, ma non lo feci. 
Tornai a lei invece, innervosita da quell'ennesima sottile derisione, la fissai incollerita e sibilai una parola che in tutta la mia vita mai avevo pronunciato, mi era sempre solo stata ordinata.
«Spogliatevi».
La sorpresa attraversó gli occhi di Mélisande per un istante, poi sorrise, compiaciuta persino, forse dalla mia rabbia, forse dall'assurdità di quella situazione che sapeva perfettamente avrebbe ribaltato di lì a poco. 
L'abito che aveva indossato per l'occasione aveva il taglio tipico della regione del Kusheth, con il bustino rigido e stretto abbottonato fino al collo, il fatto che fosse oltretutto nero e rifinito in oro era un voluto richiamo alla dinastia Shahrizai. Una scelta senz'altro adatta per l'incontro con Imriel, ma decisamente sconsiderata per qualcuno che doveva evitare di farsi riconoscere. Ma stiamo parlando di Mélisande Shahrizai e quella sfacciata insolenza faceva parte di lei, quanto il colore dei suoi occhi. Senza indugi cominciò a sbottonarsi, godendo della mia espressione che man mano perdeva ogni traccia di ostilità. 
Per una serva di Naamah mostrare la grazia del proprio corpo è un dono, un atto d'amore, il primo che si concede al proprio patrono. Per me, per un'anguissette, è inoltre un gesto di sottomissione, che può assumere quella sensazione di eccitante umiliazione, che proprio lei aveva portato allo stremo trascinandomi tra i pari del regno vestita solo di un velo trasparente nella notte in cui ero stata al suo servaggio. Tuttavia non c'era umiliazione nell'espressione di Mélisande mentre si svestiva davanti a me, né un minimo segno di sottomissione, anzi quando il suo abito scivolò in un cumulo informe di stoffa nera a terra attorno ai suoi piedi, fece un sicuro passo in avanti e mi chiese ironica «Ora vuoi anche mi inginocchi?»
Elua! Volevo farlo io. Con tutta me stessa. La sua sola presenza lì, nuda davanti a me, fomentava i miei più atavici impulsi e rappresentava un implicito e potentissimo imperativo. Con enorme sforzo portai entrambe le mani ad afferrare lo sgabello sotto i miei fianchi e strinsi fermamente il legno per impedire al mio corpo di agire come gli veniva naturale, ma non solo quella dura resistenza mi era faticosa, per me non obbedire a quell'istinto era puro dolore. 
Mélisande sorrise, capendo, e restó lì ad ammirare la mia sofferenza, aspettando che cedessi. 
Non lo feci. 
Non so come, ma riuscii a trattenermi, afferrare con forza il suo mantello e porgerglielo quasi violentemente. Lei di me amava quell'aspetto, la mia ribellione, me l'aveva detto, per questo mi sorrise, poi prese il mantello e lo indossó, chiudendo la spilla che faceva sovrapporre i lembi di stoffa subito sotto l'incavo tra i seni in modo che la nudità non venisse esposta involontariamente ad ogni movimento. A quel punto, ostinata a mostrarle il mio autocontrollo, mi alzai e mi avvicinai per metterle la maschera e tirarle su il cappuccio. 
«Fuori di qui dovrete sembrare al mio servizio, pensate di poterci riuscire?»
«Sei tu che fatichi a non sottometterti.»
«Basta coi giochini, Mélisande. Fuori di qui non ammetto la minima trasgressione. Mi starete accanto come un'ombra, in modo che possa vedervi in ogni momento, discreta e insignificante. So che ne siete capace, ve l'ho visto fare quando volevate nascondervi da me e mi è costato caro.»
«Tutto ciò che desidera la mia signora» mormorò inclinando lievemente il capo. 
Avrei voluto non rabbrividire a quelle parole, ma lo feci. Questione di un attimo, sufficiente a far innervosire me e divertire lei. Per riscattarmi le posai la maschera sul viso e allungai le mani dietro la sua testa per legarne i lacci con fare sicuro. Quindi cercai il cappuccio e lo sollevai. 
«Posso chiedervi almeno com'è andato l'incontro con Imriel?» domandai prima che quel contatto così ravvicinato potesse di nuovo far emergere le mie debolezze. 
«Posso solo dirti grazie.»
Fermó le mie mani mentre le sistemavo il bordo del cappuccio ai lati del viso e io intercettai i suoi occhi attraverso le fessure della maschera. 
«Infinitamente grazie.»
Mi bació. 
Mi bació come non l'aveva mai fatto prima, senza sensualità, senza malizia, ma con una passione colma d'amore, così assoluto e puro che dentro di me esplose in un ruggito il suono del nome di dio. Restai inebetita a guardarla quando si staccò dalle mie labbra, finché sorrise e sussurró «Credo che dovremmo andare ora.».

   
 
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