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Autore: AveAtqueVale    16/08/2021    2 recensioni
Alexander Lightwood è un giovane uomo di ventitré anni costretto dai suoi genitori a frequentare, settimanalmente, un noto psicologo che in qualche modo gli capovolgerà l'esistenza.
Magnus Bane è un brillante e ricercato psicologo incapace di affezionarsi ai propri pazienti -per lui semplici casi da comprendere e rimettere in sesto come fossero puzzle da ricostruire- che si ritroverà ad avere Alexander in cura, ritrovandosi spiazzato dalle loro stesse sedute.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Magnus Bane, Maryse Lightwood, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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!! Avvertenze: utilizzo di linguaggio volgare/offensivo. Naturalmente sono assolutamente contraria all'uso di determinati termini e relativi sinonimi, spero perciò di non urtare la sensibilità di nessuno e che si tenga a mente che qualsiasi termine usato si limita va contestualizzato !!


Seduto al tavolino esterno di un bar Magnus tamburellava nervosamente le dita della mano destra contro la superficie ruvida dello stesso. Ripensava a quello che era accaduto la sera precedente quando aveva casualmente incontrato Alexander fuori da un club.
Non si sarebbe mai aspettato di trovarlo in un posto simile ma ripensandoci a mente fresca suppose che non fosse stata una sua idea quella di recarvisi: probabilmente era stato trascinato dai suoi amici. L’idea lo faceva sentire parzialmente più tranquillo; sapere che il ragazzo non fosse solo e che non lo stessero lasciando a commiserarsi lo sollevava. Sperò comunque che non lo stessero mettendo sotto pressione per parlare dei suoi problemi ritrovandosi a quel punto a sospirare amaramente. Non stava più a lui pensarci, no? Non avrebbe dovuto essere una sua preoccupazione. Ma come poteva fermarsi? Come poteva semplicemente imporsi di ignorare qualcuno che aveva così evidentemente bisogno di aiuto? Del suo aiuto?
Dopo il triste incontro Magnus non se l’era sentita di entrare nel locale e, a capo chino, era tornato al suo loft. La sua testa era stata così piena di pensieri che, naturalmente, non aveva chiuso occhio ed alla fine aveva trascorso la nottata seduto nel salone a carezzare Presidente Meow sul suo grembo e ad osservare il cielo buio dalla finestra. Aveva osservato l’alba sorgere, i suoi colori pastello crepare il manto oscuro della notte in schizzi brillanti, ditate rosate su una tela buia. A quella visione aveva sentito lentamente il suo animo alleggerirsi, solo per un brevissimo istante, ritrovandosi così col sentire gli occhi chiudersi pesanti.
Riposò meno di un paio d’ore prima di sentire la sveglia risuonare per l’ampia stanza osservando il suo display con occhi stanchi.
Avrebbe dovuto andare al lavoro. Avrebbe dovuto presentarsi ai suoi pazienti con la consueta calma ed aiutarli a trovare la via giusta per affrontare i loro problemi quando il suo stesso animo era in tempesta. Come avrebbe potuto?
Per una volta, la prima, contattò Lucy per dirle di spostare tutti i suoi impegni.
Così aveva passato la mattinata chiuso in casa, una coperta avvolta attorno al corpo ed un profondo senso di stanchezza a gravargli sulle spalle. Aveva tentato di dormire per un po’ ma la sua mente non gli dava pace continuando a tenerlo ad un livello superficiale d’incoscienza, assai più vicino alla veglia che non al sonno profondo. Rannicchiato sul divano perse il conto del tempo fino a che non fu il suo corpo a metter fine a quel tormento. Digiuno dal pranzo precedente si forzò di mangiar qualcosa senza tuttavia le forze per cucinare alcunché, seduto sfibrato al bancone della cucina.
Sentiva di aver bisogno di qualcuno, di non rimanere solo in quel momento.
Telefono alla mano scorse l’elenco dei suoi contatti sapendo che c’era solo una persona cui aveva bisogno di parlare in quel momento.
«Magnus?» la voce di Catarina lo chiamò dall’altro capo del telefono vagamente coperta dai suoni del traffico. Il ragazzo poteva sentire il mormorio dei passanti attorno a lei, il fruscio del vento, il respiro accelerato di chi parlava mentre era in movimento. Una sirena suonava dalla distanza giungendo ovattata al microfono del cellulare.
«Ehi Cat.» salutò lui cercando di nascondere il suo disagio interiore con un tono tutto sommato tranquillo e neutrale. La cosa, in sé, era comunque strana dato che solitamente quando chiamava qualcuno aveva due tipi di toni: il lamentoso per quando qualcosa non andava come voleva lui o si sentiva in vena di far capricci e l’entusiasta che era il suo generico per qualsiasi altra situazione.
«Va tutto bene?» chiese la ragazza stranita.
Magnus si prese qualche attimo prima di rispondere.
«Possiamo vederci?» fu quel che riuscì a dire quando aprì bocca avvertendo dall’altro capo del telefono la sua amica fermarsi. La immaginò bloccarsi all’improvviso per strada, la gente passarle accanto come un corso d’acqua che incontri una roccia lungo il suo cammino.
«Certo. Passo da te?» Il suo tono si fece più serio ma non insisté oltre conoscendo Magnus bene abbastanza da sapere che se avesse voluto risponderle l’avrebbe già fatto la prima volta.
E così, un’ora e mezzo più tardi, la giovane giunse al loft dell’amico.
Invece di salire i due si diressero ad un bar non molto distante perché Magnus aveva profondamente bisogno di cambiare aria, di uscire e di fare qualsiasi cosa non fosse mettere radici in casa.
Mentre il ragazzo sedeva ad uno dei tavolini esterni del bar, Catarina era andata un attimo a lavarsi le mani nel piccolo bagno del locale lasciando modo al giovane di riordinare le idee. Era stato lui a chiamarla, a sentire il bisogno di sfogarsi con lei, eppure adesso che era lì non sapeva bene nemmeno lui cosa dire.
Il cameriere tornò, sorridente, lasciando sul tavolino i due caffè e Magnus fermò il ritmico tamburellare delle sue dita per pagargli distrattamente il conto.
Quando Catarina tornò fra i due calò un denso silenzio.
Gli unici suoni udibili furono quelli degli altri tavoli attorno, i clacson distanti della strada, il tintinnare dei cucchiaini contro le tazzine.
Solo dopo che l’infermiera ebbe bevuto il primo sorso di caffè caldo trovò la forza di spezzare la quiete fra loro.
«Allora.» esordì, incerta, umettandosi le labbra secche dal freddo. «Vuoi dirmi cos’è successo?» chiese calma guardando l’amico negli occhi.
La giovane non aveva bisogno di sentirgli dire che fosse accaduto qualcosa per saperlo: lo conosceva bene abbastanza da percepirlo nel suo sguardo.
Magnus espirò pesantemente mentre l’amica si stringeva nel suo cappotto e si morse nervosamente il labbro per qualche istante prima di dire qualsiasi cosa.
«Ho incontrato Alexander.» confessò.
Catarina sgranò leggermente gli occhi a quella rivelazione e l’osservò in muta sorpresa, la tazzina ferma a mezz’aria.
Il ragazzo non sollevò lo sguardo continuando a rigirare il suo caffè con fare assorto.
«Era fuori da un club, da solo. Ovviamente ho cercato di parlargli ma non ha voluto nemmeno starmi a sentire.» spiegò con un pesante sospiro fermando il moto rotatorio del cucchiaino. «Alla fine i suoi amici lo hanno raggiunto e sono andati via. Avresti dovuto vedere la sua faccia quando mi ha visto, sembrava sul punto di vomitare.» mormorò chiudendo gli occhi con fare stanco, le spalle pesanti tenute basse in una posa visibilmente sconsolata.
Catarina non poté fare a meno di avvertire un colpo al cuore, il senso di colpa a chiuderle la gola. Non aveva mai voluto ferire nessuno e solo ora si rendeva conto di quanto avventate fossero state le sue azioni seppur fondate sulle migliori intenzioni.
 «Non è colpa tua Mags…» mormorò la ragazza, pentita, cercando di ignorare il nodo in gola. «E’ soltanto colpa mia se si sta comportando così, non è con te che ce l’ha.» proseguì con amarezza stringendo con forza le labbra fra loro per un brevissimo istante.
«Forse se riuscissi a parlargli di nuovo potrei convincerlo a starti a sentire…» azzardò l’infermiera, l’aria condensata ad uscire in piccole nuvolette di vapore bianco dalle sue labbra sottili.
Magnus sorrise amaramente alla sua proposta comprendendo lo stato d’animo dell’amica; sapeva che si sentiva responsabile per l’accaduto e che voleva fare qualcosa per sistemare la situazione. Capiva i suoi sentimenti ed in parte era contento del fatto che volesse genuinamente dargli una mano. Dall’altro lato era però ancora incapace di perdonare totalmente la sua intrusione e preferiva occuparsi personalmente della cosa. Non che sentisse di avere alcun modo per risolverla, comunque.
«Non credo vorrebbe sentire nulla da nessuno di noi in questo momento.» sospirò, sconfitto, sentendosi comunque leggermente meglio nell’aver parlato a qualcuno della vicenda. Si sentiva comunque incredibilmente triste ed abbattuto naturalmente ma era come se parte di quel peso che gli gravava sul petto si fosse alleviato.
I due rimasero in silenzio a lungo, a quel punto, sorseggiando pensierosi la loro bevanda più per il bisogno di assumere qualcosa di caldo che non per vero e proprio desiderio. Fortunatamente non c’era vento quella sera e l’aria frizzante era quasi piacevole contro il viso. Catarina indossava un adorabile cappello di lana grigio a tenerle caldo il capo mentre Magnus aveva la testa totalmente scoperta: qualsiasi tipo di protezione avrebbe inevitabilmente finito con il rovinargli l’acconciatura.
«Mi dispiace per quello che ho fatto» disse Catarina spezzando il denso silenzio dopo aver finito il proprio caffè. Aveva lo sguardo basso e osservava cupa la tazza vuota sul tavolo. Raramente Magnus le aveva visto una simile espressione in viso e benché sapesse che la colpa di tutto era stata unicamente sua, detestava vederla in quello stato.
«Lo so, Cat.» mormorò il ragazzo senza alcuna traccia di rabbia nella voce. Nel suo tono c’era solo una profonda e indescrivibile stanchezza.
«Volevo davvero solo proteggerti. Non avevo capito che la situazione fosse già ad un punto così critico…»
«Ma il problema non è quello che provo io a riguardo, Cat.» intervenne il ragazzo con tono paziente, la schiena comodamente abbandonata contro lo schienale della seduta. «Il problema è quello che prova lui. Anche se avevamo fatto dei progressi non avevamo ancora nemmeno sfiorato l’origine dei suoi problemi e adesso ho paura che oltre ad aver cancellato ogni passo fatto la situazione sia persino peggiorata.» 
Per quanto avesse già apertamente ammesso all’amica di provare qualcosa per quel ragazzo, la sua principale preoccupazione non era mai stata per se stesso; dalla sera del suo compleanno la cosa che più gli dava angoscia era l’idea che Alexander potesse sentirsi in colpa, che potesse soffrirne, che potesse essersi richiuso in se stesso ancor più spaventato e ferito di prima.
Catarina sapeva che non c’era niente che chiunque potesse dire o fare per alleviare questo tipo di peso dal suo petto. Si richiuse in un silenzio colpevole tenendo il capo chino e lo sguardo fisso su un punto imprecisato del tavolino.
Solo quando la suoneria del telefono di Magnus squillò dalla tasca interna del suo cappotto sollevò il viso per osservare l’amico. Il ragazzo, a sua volta piuttosto mogio, recuperò l’apparecchio fissando distrattamente lo schermo con occhi tristi.
Non appena distinse le lettere sul display il suo sguardo mutò immediatamente.
«Alexander?» disse rispondendo alla chiamata.
 
 
*
 
 
Non aveva bene idea di dove fosse ma, in quel momento, non gli importava.
Non ricordava come fosse arrivato in quel pub, quali strade avesse percorso o quante volte avesse attraversato, troppo distratto dalla voce di Jace nella sua testa che continuava a ripetergli “so che avevi una cotta per me”.
La sola idea gli faceva venire i brividi raggelandogli il sangue. Non si era mai aspettato una simile svolta degli eventi, non aveva mai previsto che sarebbe giunto il giorno in cui questo suo segreto avrebbe visto la luce del giorno. Soprattutto, non aveva mai e poi mai immaginato che lo stesso Jace si sarebbe rivelato al corrente della situazione. E poco importasse che ne avesse parlato con un tono assolutamente sereno, che non fosse apparso disgustato o infastidito dalla cosa, per quel che riguardava Alec, niente e nessuno avrebbe mai potuto togliergli dal cuore il timore che le cose -da quel momento in poi- sarebbero inesorabilmente cambiate fra loro.
Jace sapeva.
Jace sapeva.
Più quella consapevolezza metteva radici nel suo animo, più il cuore del ragazzo martellava forte nel suo petto togliendogli lucidità e respiro. Si sentiva perso, stravolto, sull’orlo di una crisi isterica. Non voleva pensarci, non voleva affrontarlo, non voleva vedere nessuno né tornare a casa. Tutto quello che desiderava era scappare, fuggire lontano abbastanza da tutto e da tutti così da sentire di poter tornare a respirare anche solo per un momento.
Senza rendersene conto realizzò di essersi rifugiato in un locale sedendosi, agitato, al poco affollato bancone. Col cuore in subbuglio e la sensazione di non riuscire a respirare correttamente, sollevò lo sguardo sugli scaffali colmi di bottiglie di vetro trasparenti e ricordò le sensazioni della sera precedente. Seduto al tavolo di un locale non poi troppo diverso da quello -se non si considerava l’assenza di musica e folla sudata al seguito- aveva scoperto per la prima volta i sottili piaceri dell’alcol. Quel graduale stordimento che attutiva i pensieri, le paure e le preoccupazioni riducendoli a un misero brusio di sottofondo di cui potersi preoccupare in un secondo momento, quella pesante sensazione di leggerezza che confondeva i sensi e la mente, quel torpore che sembrava alterare la prospettiva al punto da far perdere ogni cosa di significato. Era una dolce fuga di cui, in quel momento, aveva disperatamente bisogno.
Bevve il primo bicchiere della prima cosa che gli fosse capitata di leggere alle spalle del barista senza nemmeno badare al sapore che gli aveva invaso la bocca. Accolse grato il bruciore lungo la gola e lo ricercò ancora e ancora e ancora.
Sapeva che una cosa simile non era da lui, sapeva che non sarebbe stata una soluzione, che era sbagliato e che probabilmente se qualcuno l’avesse visto si sarebbe sentito profondamente deluso dal suo atteggiamento, ma accantonò anche quella consapevolezza annegandola nell’ennesimo bicchiere assieme al resto dei suoi tormenti interiori.
Affogò ogni tentativo della sua coscienza di frenarlo con ostinazione e testardaggine ritrovandosi nel giro di quasi mezz’ora a riconoscere i primi segnali di sollievo. I suoi pensieri avevano iniziato ad essere meno chiassosi, il suo cuore più leggero, i suoi sensi meno lucidi ed un sospiro soddisfatto gli fece finalmente fremere le palpebre sciogliendo parte della tensione addensata sulle sue spalle.
Quando il suo cellulare suonò per l’ennesima volta non ebbe più l’istintivo impulso di scaraventarlo lontano dove non avrebbe più potuto raggiungerlo ma lo recuperò con mano leggermente incerta. L’apparecchio gli scivolò di mano un paio di volte mente tentava di estrarlo dalla tasca rimbalzandogli per le dita svariate volte durante i suoi goffi tentativi di non farlo cadere a terra.
Sul display il riquadro di una notifica indicava 18 chiamate perse da parte di Jace e 6 di Isabelle. Una ruga si formò fra le sopracciglia di Alec mentre cercava di mettere a fuoco i caratteri luminosi. Non provò paura all’idea di fronteggiarli ma un profondo senso di fastidio e noia. Non potevano lasciarlo in pace per dieci minuti?
Poggiando sul bancone il bicchiere per l’ennesima volta vuoto, sospirò pesantemente e spense lo schermo: decise di rimandare quella questione ad un’altra volta. Certo, sapeva che da sobrio avrebbe trovato la faccenda ancora più complicata e difficoltosa, ma al contempo era certo che in quell’esatto istante non aveva alcuna voglia di mettersi a discutere con nessuno. Voleva solo bere in pace. Bere e dimenticare.
O almeno provarci.
Una zaffata di fumo gli giunse in pieno viso inondandogli i polmoni. Tossendo per qualche secondo Alec notò che accanto a sé c’era seduto un uomo sui quaranta, forse tardi trenta, dalle spalle larghe e una pesante camicia a quadri intento a fumare disinteressato uno spesso sigaro marrone. L’olezzo di quell’affare era atroce per lui e, oltretutto, gli faceva lacrimare gli occhi.
«Le dispiacerebbe fumare fuori?» si rivolse all’uomo, Alec, dopo essersi schiarito la gola un paio di volte. Nel farlo non mancò di sentirla irritata e bruciante: se fosse merito dell’alcol o colpa del fumo inalato, non avrebbe saputo proprio dirlo.
L’altro, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo, si limitò a sollevare il dito medio dell’altra mano guardando una qualche partita trasmessa in quel momento sulla TV appesa alla parete lì vicino.
Il gesto immotivatamente scortese fece vedere rosso al ragazzo che, senza i freni della sua coscienza, reagì senza nemmeno praticamente pensarci: con un rapido gesto Alec sfilò via il sigaro dalle dita sorprese dell’altro e glielo lasciò cadere nel bicchiere con un’espressione severa sul viso. 
Solo allora l’uomo sembrò degnarlo di vera e propria considerazione e, guardandolo con fare infuriato, ringhiò un roco: «Che cazzo ti salta in testa? Cerchi rogne?»
Alle sue parole seguì uno spintone che, assieme alla poca resistenza dell’altro all’alcol, lo spedì facilmente a terra nel silenzio generale; forse perché la caduta non era stata così terribile, forse perché magro com’era era pur sempre un uomo o forse perché i suoi sensi erano effettivamente ovattati, Alec non sentì particolare dolore e si rialzò in breve tempo stringendo i denti con rabbia.
«E allora? Se fosse?» reagì spintonandolo a sua volta premendo entrambe le mani sul suo petto, il sangue che gli fluiva nelle vene come un torrente in piena, il sangue a frusciare nelle orecchie quasi assordandolo.
In quel momento sentiva anni ed anni di rabbia e dolore repressi salire in superficie, addensarsi sotto le sue dita. Si riscoprì indifferente ai richiami del barista, così come alla voce di alcuni presenti che cercavano di fermare l’imminente rissa. Tutto ciò cui riusciva a pensare era che era stanco, che era incazzato e che quel tipo sembrava proprio la persona giusta contro cui sfogarsi.
La sua spinta non era stata in grado di farlo cadere dallo sgabello ma di smuoverlo solo leggermente sul posto. Con una risata di scherno l’uomo si alzò gonfiando il petto e guardandolo dall’alto in basso: era solo di poco più alto di lui ma la cosa più evidente era la differenza di stazza fra loro. Alec era sempre stato slanciato e longilineo, con un fisico asciutto e adatto alla corsa; l’uomo che aveva di fronte aveva una corporatura massiccia e importante con braccia spesse e spalle ampie.
Nel vedere la palese differenza fra loro, questi ridacchiò squadrandolo da capo a piedi.
«Allora saresti proprio uno stupido» replicò l’uomo con un luccichio freddo nello sguardo, l’espressione tagliente di chi voleva ferire e far male. «Che cosa credi di poter fare con quelle braccine, frocetto?»
La parola, gettata lì con estrema non curanza, venuta fuori quasi con naturalezza in un’aberrante dimostrazione d’ignoranza, raggelò per un istante il sangue nelle vene di Alec.
Si trattò solo di un secondo, di un istante.
Era come il momento che precedeva lo scoppio d’un’esplosione quando il silenzio sembrava acuirsi al suo massimo prima d’infrangersi al pari d’un’onda contro uno scoglio.
Il suo corpo s’irrigidì per un secondo, ogni sua funzione s’interruppe per una frazione di secondo prima che qualcosa scattasse ed Alec perdesse definitivamente il controllo.
Quasi abbaiando si gettò contro l’altro con fare istintivo. Abbassandosi leggermente sulle ginocchia usò la spalla per colpire l’addome dell’altro in una sorta di placcaggio inaspettato che finì col portarli entrambi a terra, l’uomo disteso di schiena al suolo ed Alec quasi a cavalcioni su di lui.
«Non sono un frocio!» tuonò sentendo la gola graffiare, il suo primo pugno ad atterrare contro il viso dell’altro mentre la mano libera gli stringeva il colletto della maglietta. «Non sono un frocio! Non sono un frocio!» continuò a dire colpendo, ad ogni ripetizione, con un altro pugno. «Non-lo-sono!»
Il ragazzo non aveva mai fatto nulla del genere, non si era mai ritrovato coinvolto in una rissa, né aveva mai tirato uno schiaffo a nessuno in tutta la sua vita: non sapeva come e dove si colpisse qualcuno per fargli genuinamente male e perciò tutti i suoi colpi -improvvisati e guidati dal mero istinto- ebbero il solo risultato di far infuriare il suo avversario semplicemente di più.
 Questi ringhiò qualcosa che Alec non riuscì a capire nel trambusto generale e con un rivolo di sangue che gli colava dal labbro lo colpì un’unica volta in pieno viso.
Con un’esplosione di dolore, tutto piombò nel buio.
 
 
Quando i suoi occhi riuscirono a rimettere tutto a fuoco, Alec vide il viso di un altro uomo sulla quarantina riempire il suo campo visivo. Aveva lo sguardo fermo sul suo volto, grandi occhi scuri e folti baffi biondicci.
Stordito com’era seguì il suo primo istinto: allontanare lo sconosciuto spingendoselo via di dosso. Questi schiaffeggiò la sua mano come un genitore contrariato e gli voltò il viso con una certa forza, assottigliando lo sguardo.
«Il naso non sembra rotto.» disse l’uomo guardandolo attentamente in viso, il tono serio e rigido. Alec ci mise qualche istante a capire che stava parlando di lui, del suo naso. Rotto? Fece per inspirare dalle narici avvertendo solo allora un’intensa ondata di dolore propagarsi dal centro del suo viso a tutta la testa. Era intenso, acuto e violento: come aveva fatto a non notarlo un istante prima?
Sgranò gli occhi cercando di trattenere un grugnito e tentò di non pensare al rapido pulsare che sentiva alle tempie, in mezzo agli occhi. Si sentiva la testa prossima ad esplodere per quanto stava vibrando.
«Deve solo ringraziare!» esclamò un’altra voce che solleticò il desiderio del ragazzo di attaccare ancora.
L’uomo che aveva controllato il suo viso lo trattenne per le braccia rivoltandoselo fra le mani come fosse stato un pupazzo; Alec sentì i polsi chiusi in fredde e strette costrizioni di metallo, la mano di qualcuno spingerlo in mezzo alle scapole.
«Stai buono, non combinare altri guai» si sentì dire con tono di rimprovero, la sua mente ancora parzialmente annebbiata a rendergli difficile la lettura della situazione. Frammenti di immagini si ripercorsero nella sua mente ricostruendo parte della serata: la lite con Jace, il bere, lo scontro con l’energumeno. Ad un punto, fra quel momento e questo, doveva aver perso i sensi perché non aveva idea da dove fosse spuntato l’agente che adesso lo stava spingendo fuori dal locale con fare seccato. «Ti porto in centrale, hai un paio di domande a cui dover rispondere, ragazzo.»
Il cuore di Alec batté forsennatamente nel suo petto: per quanto fosse ancora intontito dall’alcol, dai residui dell’adrenalina ancora in circolo, dal pulsante e insopportabile dolore alla testa, riusciva ancora a comprendere quanto seria fosse la situazione.
Lui. Alec Lightwood. In manette.
Se solo non avesse trovato la situazione profondamente tragica, probabilmente si sarebbe messo a ridere.
Sfibrato dalle emozioni della giornata e, soprattutto, dal martellante dolore al volto, il ragazzo si lasciò condurre fino alla macchina in assoluto silenzio senza più dire una parola. S’abbandonò stanco contro i sedili della vettura osservando con occhi spenti la città sfrecciare oltre il finestrino, chiedendosi come fosse arrivato a quel punto. Come avesse fatto a ritrovarsi in quella situazione, cosa fosse successo per farlo finire lì.
L’agente, a sua volta, rimase in assoluto silenzio,
Guidò placidamente lasciando che la bassa musica proveniente dalla radio riempisse l’abitacolo dell’auto. Di tanto in tanto, quando si fermava ad un semaforo rosso, tamburellava con le dita sul volante al ritmo della canzone riprodotta al momento, una sola volta canticchiò a labbra chiuse mentre parcheggiava la macchina nei posti riservati di fronte alla centrale.
Il poliziotto -l’agente Smith- aiutò Alec a scendere dalla macchina e lo guidò verso l’interno dell’edificio.
Sebbene fosse stato rigido e distaccato al pub, non era mai stato violento o sgarbato con lui: quando lo afferrava per il braccio per manovrarlo lo faceva con cautela e meticolosità ma mai forza. Anche se non gli aveva mai sorriso né detto nulla di gentile, aveva mostrato un’espressione tranquilla che portò Alec a pensare che forse era dispiaciuto per lui. Poteva immaginare, dopotutto, quanto ai suoi occhi avesse dovuto apparirgli giovane e patetico.
Più tempo passava, più Alec sentiva sollevarsi il velo di leggerezza portato giù dall’alcol.
Man mano che rimaneva fermo, seduto contro il muro, il suo corpo si rilassava e la sua mente riacquistava lucidità. Immaginava che la scarica di adrenalina di poco prima e la breve rissa dovevano aver bruciato rapidamente gli effetti della sbronza sulla sua mente: tanto affanno per nemmeno un’ora piena di libertà dai propri problemi. Alec si sentì amaramente beffato dalla triste ironia della situazione.
Si chiese adesso cosa sarebbe successo.
Il poliziotto, dopo averlo messo a sedere, si era allontanato senza dirgli nulla ed ora Alec non aveva idea di cosa aspettarsi. Dopotutto non aveva commesso propriamente un crimine, no? Non era stata nemmeno una vera rissa, un solo pugno era bastato a stenderlo! Possibile che per questa storia avrebbe dovuto finire nei guai? Il suo naso quasi rotto era stata una punizione più che sufficiente per quanto lo riguardava: dubitava avrebbe bevuto di nuovo molto presto. Non in pubblico, almeno. O non da solo.
Sospirando si ritrovò quindi a vagliare tutta una serie di possibilità e scenari offerti dalla sua mente ancora scossa fino a quando, non sapeva nemmeno lui quanto tempo dopo, alzando distrattamente lo sguardo non si ritrovò a notare -incredulo- una figura dolorosamente familiare accanto all’agente Smith.
   
 
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