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Autore: FairyCleo    03/09/2021    1 recensioni
Dal capitolo 1:
"E poi, sorprendendosi ancora una volta per quel gesto che non gli apparteneva, aveva sorriso, seppur con mestizia, alla vista di chi ancora era in grado di fornirgli una ragione per continuare a vivere, per andare avanti in quel mondo che aveva rinnegato chiunque, re, principi, cavalieri e popolani".
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Goku, Goten, Trunks, Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un nuovo proprietario
 
Goten non aveva ben capito ciò che gli era capitato in quella piazza: aveva provato a spiegare a quello strano uomo che quel quaderno non gli appartenesse, ma la sua insistenza, e il fatto che nessuna delle altre persone presenti in piazza ne avesse reclamato la proprietà, lo avevano convinto a prenderlo e portarlo con sé.
Aveva ben altro a cui pensare, poi: sembravano che fossero trascorsi eoni da quando Trunks si era addentrato nella prigione, e di lui non c’era alcuna traccia. Cercando di apparire calmo e disinvolto per non attirare l’attenzione di soggetti indesiderati, il piccolo saiyan mezzosangue dai capelli a forma di palma si era seduto all’ombra, sulle gradinate consunte di un palazzo di tre piani, mentre fissava con sconforto il pesante portone che separava il mondo esterno da quell’accozzaglia di pietre e tegole in cui era stato rinchiuso Vegeta.
 
“Perché ci metti tanto? Sappiamo già che non potrai far uscire papà, ma non dirmi che ti sei fatto prendere anche tu! Non potrei sopportarlo. Per questo, Trunks, ti prego di non fare scherzi… Forza, fratellino: metticela tutta e torna da me”.
 
E, nell’appoggiarsi con la schiena contro il portone, il quaderno che reggeva in grembo – neanche avesse avuto vita propria – era caduto per terra, costringendo Goten a interessarsi a lui. Con l’animo pesante e il cuore in tumulto, il bambino lo aveva raccolto, lo aveva posato sulle gambe e ne aveva accarezzato il dorso e la copertina con le dita gentili, prendendo un profondo respiro prima di sfogliarlo: era giunto il momento di scoprire a chi appartenesse quell’oggetto così singolare.
 
*
 
Era riuscito a evitare miracolosamente ogni ostacolo che gli si era parato davanti, scoprendo di essere un autentico portento nell’occultarsi. Avrebbe dovuto sfruttare quella dote inaspettata in futuro, per scoprire dove sua madre nascondeva i regali di compleanno, per esempio. Sarebbe stato veramente utile, ammesso che avesse avuto indietro sua madre, era chiaro!
A ogni modo, non aveva sottovalutato il pericolo che incombeva su di lui. Per quanto fosse molto giovane, non era affatto totalmente sprovveduto, e per questo doveva ringraziare gli insegnamenti di suo padre e in parte il suo naturale talento.
Aveva cercato di mantenere la calma il più possibile, respirando piano ed evitando movimenti buschi. Per un breve istante, aveva temuto che persino il suo cuore stesse facendo troppo rumore, ma si era reso conto di quanto fosse stupido quel pensiero e lo aveva accantonato, scegliendo di essere responsabile e di non dire o fare sciocchezze di alcun tipo.
 
“Ci sono quasi… Ci sono proprio vicino. Devo solo svoltare e la cella di papà sarà la terza. O, almeno, così è stato l’ultima volta… Oddende, e se lo avessero spostato? Non ci voglio neanche pensare…”.
 
Ancora una volta aveva scacciato i brutti pensieri e, cercando di non farsi vincere dall’ansia, aveva guardato prima a destra, poi a sinistra, e alla fine si era incamminato con estrema cautela, strisciando nell’ombra lungo la parete con il preciso intento di non farsi cogliere sul fatto.
 
“Andiamo… Ci sono quasi… Ci sono quasi… ECCOMI!”.
 
Il cuore del bambino batteva all’impazzata. Non vedeva il padre da giorni, e solo gli dei potevano sapere quanto dura e pensate fosse stata la sua assenza. Trepidava, Trunks, in preda all’emozione, ma nello stesso istante in cui i suoi occhi avevano individuato la sagoma raggomitolata sul pavimento, turbamento e dolore si erano impossessati di lui, trascinandolo in un vortice di disperazione che nessun bambino della sua età avrebbe mai dovuto provare.
Non lo aveva chiamato: per quanto avesse provato ad articolare dei suoni, dalla sua bocca spalancata non era uscito niente, neppure un rantolo sconnesso. Stentava a credere che quell’uomo, quell’ammasso di carne ferita e sanguinante fosse ancora in grado di respirare. Proprio non riusciva ad accettare che quello fosse suo padre, il fiero principe dei saiyan, perché di lui non c’era più niente di riconoscibile all’infuori della fiamma che portava in testa.
Voleva piangere, Trunks. Voleva abbandonarsi alle lacrime e al dolore, ma se lo avesse fatto, non avrebbe causato altra sofferenza all’uomo che gli aveva dato la vita e lo aveva protetto fino all’ultimo?
Non avrebbe dovuto farsi vedere da lui in quello stato, anzi! Non avrebbe dovuto proprio farsi vedere! Per questa ragione, il piccolo mezzosangue aveva chiuso gli occhi e aveva preso un profondo respiro, cercando in se stesso la calma e la forza necessarie a fare quello che doveva: chiedere aiuto per aiutare suo padre.
 
*
 
Sfogliare le pagine di quello strano oggetto lo aveva reso dapprima eccitato, poi sconcertato, poi estremamente triste.
Goten non riusciva a capire perché quelle pagine ingiallite esercitassero un così grande fascino su di lui, così come non riusciva a capire perché ne era allo stesso tempo estremamente impaurito. A prima vista, quello sembrava un banalissimo vecchio plico di carta racchiuso in una copertina di pelle nera, ma nel maneggiarlo, nell’annusarlo, nel cercare di carpirne la natura, Goten si era convinto che fosse molto, molto più del comune oggetto che sembrava. In un primo momento, aveva creduto di essere nuovamente tornato in possesso della facoltà di avvertire le presenze altrui, tanto forte era stata la scossa avvertita nello sfiorarne il dorso e le pagine con i paffuti polpastrelli.
 
“Non riesco a capire… Che strana sensazione… Sembra quasi che… Sì… Per un attimo ho creduto che fossi vivo. Che idiozia…La tensione deve avermi proprio fatto male!”.
 
Aveva sorriso, il piccolo saiyan, ma il suo era stato un sorriso stanco e forzato. La verità era che aveva il terrore di perdere anche Trunks e di non avere più alcuna possibilità di riavere indietro la sua vita, di qualunque vita si trattasse.
E, mentre la sua mente vagava in quel bosco di triste pensieri, inavvertitamente si era ferito, tagliandosi il polpastrello del pollice che aveva premuto con troppa forza sul bordo delle pagine.
 
“AHI!”.
 
D’istino, il piccolo aveva portato il dito alla bocca, cercando di succhiare via il sangue caldo e ferroso.
 
“Come ho fatto? E soprattutto, perché fa così male? Si tratta di un taglietto… Ahi… AHI!”.
 
Aveva le lacrime agli occhi. Ma, per quanto il taglio facesse male, le sue non erano lacrime di dolore, ma di sconforto e senso di totale sconfitta. Sentiva di aver perso, Goten, e sentiva di averlo fatto su tutti i fronti. Cosa avrebbe pensato di lui Trunks? Cosa avrebbe pensato di lui Vegeta? E la sua mamma, il suo adorato fratello, sua zia Bulma, che opinione avrebbero avuto di lui?
 
“Penseranno che sono un debole…” – si era detto, incapace di frenare la lacrime raccolte agli angoli dei suoi occhioni scuri – “Penseranno che io… Che io…”.
 
Goten non si era mosso, non aveva posato le mani sulla copertina del quaderno e non l’aveva sollevata sulla prima pagina, così come era certo di non averlo aperto. Eppure, eccolo lì, ecco le pagine ingiallite schiuse al mondo, avide delle sue lacrime e del suo sangue.
 
“Ma che…”.
 
L’incredulità e la confusione erano cresciute nel vedere che il suo sangue avesse assunto una forma ben precisa, quella delle lettere del suo nome.
 
GOTEN.
CIAO.
È UN PIACERE FARE LA TUA CONOSCENZA.
 
“Ma che diavolo succede?”.
 
Il piccolo saiyan aveva fatto un balzo dal gradino su cui era seduto ed era caduto a terra, sbattendo il coccige sui sanpietrini. Terrorizzato, aveva strisciato di lato, cercando di non sfiorare neppure per sbaglio le pagine di quel quaderno che lo aveva appena salutato e gli aveva detto che gli faceva piacere fare la sua conoscenza.
Una serie di pensieri confusi avevano cominciato ad affollare la mente del bambino. Come poteva, un oggetto inanimato, reagire, avere una coscienza e scrivere qualcosa? Forse lo aveva immaginato… Ma sì, doveva per forza averlo immaginato! O no?
 
Non sapeva dove avesse trovato il coraggio – e doveva ammettere di aver cominciato a credere che non fosse stato un caso la presenza di quell’uomo che gli aveva consegnato il quaderno in questione – e si era avvicinato, gattonando, noncurante del sangue che continuava a sgorgare dal polpastrello e imbrattava i sudici sanpietrini e degli sguardi delle persone che lo fissavano, incuriosite.
Aveva deglutito forte, Goten, strizzando gli occhi prima di avere il coraggio di posare lo sguardo sulle pagine aperte.
 
GOTEN.
CIAO.
È UN PIACERE FARE LA TUA CONOSCENZA.
 
Non lo aveva sognato! Non lo aveva sognato per niente! Quel quaderno si era rivolto a lui! Allora non era del tutto impazzito: aveva realmente avvertito la presenza di qualcuno o di qualcosa al suo interno! Ma come era possibile?
 
“N-n-non ca-ca-capisco… N-n-non è po-po-possibile! No, no e poi no!”.
 
Era certo di essere in preda a quella che gli adulti chiamavano una crisi di nervi. Tremava, sudava freddo e lo stomaco aveva cominciato a ballare un improbabile ballo di gruppo estivo. Presto avrebbe vomitato, ne era sicuro.
 
“Stai bene, bambino? Qualcosa non va?”.
 
Una vecchietta dai capelli color d’argento e la pelle candida e rugosa gli si era fermata accanto, preoccupata. I suoi occhi erano gentili, il suo sorriso era rassicurante ma, nel vederla, Goten era arrossito e si era rimesso in piedi, aveva preso il quaderno a gran velocità, lo aveva richiuso e nascosto nella tasca interna della giacca.
 
“Sì, signora, sto bene… Ma grazie per aver chiesto”.
“Sicuro, piccolo? Perché sei qui fuori da solo? Le mie vecchie ossa scricchiolano, sono certa che presto pioverà… Non vorrai prendere freddo, vero? Vai a casa a ripararti!”.
“Sto aspettando una persona, non si preoccupi… Ma grazie per essersi preoccupata, davvero. Lo apprezzo tanto”.
 
Non era una bugia, ma si vergognava lo stesso. Doveva essere stata una scena insolita quella che aveva attirato l’attenzione di quella dolce nonnina. La sua gentilezza era stata una vera benedizione, un evento inaspettato che lo aveva imbarazzato e gli aveva scaldato il cuore. Forse, qualcosa del mondo di prima esisteva ancora.
 
“Allora vado, piccolo… È stato un piacere… Ah! Tieni… E fai il bravo”.
 
La signora aveva preso una profumatissima mela rossa e gliel’aveva offerta, tirandola fuori dal cestino di vimini che aveva con sé.
 
“Oh, ma non doveva…”.
“Prendila… Ne hai bisogno. Devi crescere. E riguardati, va bene?”.
“Lo farò! Grazie ancora”.
 
Mentre la osservava allontanarsi, non aveva potuto fare a meno di sorridere.
Ma cosa avrebbe fatto, adesso? Avrebbe tenuto la mela come aveva tenuto il quaderno? Goten era certo della buona fede della vecchietta, così come era sicuro della malafede dell’uomo che gli aveva consegnato quell’affare. Ormai, però, non poteva più fingere di non aver letto quello che aveva letto. Il polpastrello aveva smesso di sanguinare e aveva iniziato a pulsare fastidiosamente, il respiro era diventato affannoso e il cuore aveva iniziato a palpitare furiosamente.
 
“Goten… Adesso basta. Sei stato istruito e allenato dal principe dei saiyan in persona, e lui non ti ha insegnato ad avere paura senza una ragione. Ora, datti una calmata e ragiona. Questo coso ha qualcosa che non va. Cerca di capire cosa e rispediscilo al mittente”.
 
Deciso più che mai a scoprire la verità, Goten si era seduto nuovamente sulle scale, aveva preso il quaderno, aveva respirato a fondo e poi aveva cercato la pagina incriminata, l’unica vergata tra tante toccate solo dallo scorrere del tempo.
Era inequivocabile: le parole che avevano preso forma all’improvviso su quella tavola bianca erano rivolte proprio a lui. Aveva deglutito, Goten, e mandare giù la saliva non era stato per nulla semplice. Proprio non riusciva a capire come funzionasse quell’affare, in che modo potesse far sì che “gli dicesse qualcosa”.
 
“Pensa, Goten… Pensa… Com’è successo? Pensa… Ce la puoi fare”.
 
E poi, all’improvviso, aveva avuto come una sorta di epifania, capendo che, chissà per quale ragione, era stato il suo sangue a far sì che accadesse quella cosa degna di un libro fantasy dai tratti quasi horror.
Non ci aveva pensato due volte, Goten: aveva fatto pressione con l’unghia del dito medio sul polpastrello e aveva fatto sì che la ferita si riaprisse, poi aveva stimolato la parte affinché fuoriuscisse una maggiore quantità di sangue e aveva poggiato il dito sulla carta, lasciando che questa lo assorbisse e dando inizio a una danza già vista in passato.
 
“Chi sei?”.
 
*
 
Uscire dalla prigione non era stato facile come entrarci. Trunks aveva dovuto dare fondo a tutto il suo sangue freddo e alla sua astuzia, ma alla fine era riuscito a non farsi vedere dalle guardie, sgattaiolando fuori da quel luogo di disperazione attraverso una delle finestrelle del pian terreno che aveva una sbarra allentata: per una volta, la fortuna era dalla sua parte.
Era atterrato a piedi uniti con un tonfo sordo e si era allontanato con passi tranquilli, cercando di non dare troppo nell’occhio. Scosso, ma deciso nei suoi propositi, Trunks era ansioso di incontrare Goten per raccontargli ciò che aveva visto. Era finito il tempo di fare l’idiota o il bambino spaventato. Arrivati a quel punto, era necessario agire.
 
Quando aveva messo piede fuori dalla finestra non aveva avuto modo di guardarsi attorno, ma più si avvicinava alla piazza, più il suo sguardo vagava alla ricerca del suo migliore amico. Non voleva spaventarlo o angosciarlo, ma doveva assolutamente spiegargli qual era la situazione in cui si trovava suo padre e chiedergli consiglio su come agire. Aveva il fiato corto e lo stomaco in subbuglio: aveva compiuto un’azione memorabile, più grande di quella volta in cui aveva recuperato l’uovo di dinosauro per mostrare a Vegeta quanto grande fosse la sua determinazione. Sembrava averla finalmente ritrovata, poi, eppure, se c’era una cosa che il piccolo Trunks non aveva ancora imparato, era che le cose, spesso, troppo spesso, non vanno come erano state progettate.
Ne aveva preso coscienza solo nel momento in cui aveva individuato il punto in cui Goten lo stava aspettando e, in quello stesso istante, aveva capito come tutto stesse per precipitare rovinosamente.
 
“Non è possibile… No… No… NO!”.
 
Goten era lì, seduto sui gradini, chino sulle ginocchia che facevano da appoggio a qualcosa che Trunks conosceva benissimo e che credeva di aver sepolto per sempre.
Come aveva fatto a entrare in possesso di quell’abominio? E perché, perché stava facendo scorrere il dito su quelle pagine tentatrici?
 
“Fe-fermati”.
 
Avrebbe voluto urlarlo, ma le parole gli erano morte in gola. Come poteva essere che il destino si fosse accanito a tal punto contro di loro? Com’era possibile che quel diavolo tentatore fosse sempre un passo avanti a tutti?
Trunks non aveva più dubbi: quello era il demonio. E, in quanto demonio, era sicuramente loro nemico.
Avrebbe voluto correre, ma le gambe erano diventate molli come budino. Lui era fermo lì, immobile, e Goten continuava a far scorrere il dito sul foglio. Stava per scoppiare in lacrime dalla rabbia, dalla paura, dal disgusto verso se stesso e la sua condizione. Gli occhi si erano velati di lacrime amare: l’immagine di Goten era sfocata, ormai, ma era certo di aver visto qualcosa, prima di non capire più dove fosse, in quale tempo, in quale momento: aveva visto un’ombra nera e spaventosa che sovrastava Goten alle spalle.
 
*
 
Un vento impetuoso.
Un dolore lancinante.
Un odore indefinito di carne putrefatta e sangue.
Un lampo accecante.
Una sensazione di vertigine.
Un boato spaventoso.
Poi, improvvisamente, il nulla.
 
*
 
Vegeta aveva dolore al petto, oltre che in ogni singolo punto del suo corpo martoriato. Le orecchie fischiavano incessantemente, ed era quasi sicuro di aver perso l’uso di un occhio. Debole, umano e pure mezzo cieco. Meglio di così non gli poteva proprio andare. Se ne stava accovacciato su quel pavimento sudicio, al buio, immerso nella più totale solitudine, in quanto aveva come unica compagna l’autocommiserazione provata verso se stesso.
Se fosse uscito da lì, e se ne fosse uscito più o meno integro, avrebbe avuto ancora il coraggio di guardarsi allo specchio? Vegeta cercava di ricacciare indietro quei pensieri, di seppellire i ricordi nelle aree più recondite della sua mente, in una delle stanze più lontane, ma i momenti di alcune cose subite bussavano incessantemente, strepitavano fino a uscire, portandolo a sprofondare nella più totale, assoluta vergogna. Era stato incapace di reagire e difendersi. Sarebbe stato capace, una volta uscito fuori da lì, di guardare in faccia chi nutriva tanta stima di lui?
L’ultima cosa che avrebbe voluto fare sarebbe stata scoppiare a piangere, ma se avesse arrestato quel fiume in piena, il suo malessere sarebbe solo accresciuto, portandolo a desiderare la morte.
E così, dopo tutto quel tempo trascorso a mostrarsi forte, Vegeta aveva smesso di esserlo, aveva smesso di fingere con se stesso di essere chi non era più da tanto tempo. Le sue non erano lacrime di frustrazione. Era un pianto di dolore, sintomo di un malessere che gli aveva devastato l’anima.
Era lì, imprigionato in quella topaia, alla mercé di un essere disgustoso che si era dimostrato il peggior mostro mai incontrato, ma la sua mente era altrove, divisa tra l’ansia di non sapere dove fossero i bambini e il desiderio di scoprire dove fosse andato a finire lui, la causa di tutte le sue sciagure, quel decerebrato che compariva sempre nel posto giusto al momento giusto, ma che adesso sembrava intenzionato più che mai a rimanere fuori dai giochi. Non ci sarebbero state entrare a effetto, per lui, evidentemente, nessun salvataggio in extremis. Aveva preferito starsene lontano, aveva preferito lasciarli al loro destino. Che fosse convinto, come aveva fatto con Gohan durante il Cell Game, che fossero in grado di uscire da quella situazione con le loro forze? Era veramente talmente stupido?
 
“Tsk… Certo che è così stupido. E sei ancora più stupido tu se speri in un suo aiuto”.
 
Il Vegeta di un tempo non avrebbe mai accettato di essere salvato da qualcuno, men che meno dal suo più acerrimo nemico. Era proprio quello il motivo per cui odiava così tanto quel decerebrato di terza classe, non solo per il fatto che avesse osato superarlo in potenza, raggiungendo per primo lo stadio di leggendario super saiyan. Kaharot, anzi no, Goku, era sempre un passo avanti a lui. SEMPRE. Tranne quella volta: in quella dannata occasione, quando aveva realmente bisogno di lui – dei, gli veniva il voltastomaco solo a pensarlo – la stupida terza classe aveva pensato bene di mantenere le distanze. Per gli dei, avrebbe preferito farsi assorbire da lui piuttosto che diventare nuovamente il passatempo di quel verme schifoso di Leon.
Leon… Già. Era impossibile che fosse guarito in così poco tempo e che il suo fisico avesse subito un così grande cambiamento. Non era una cosa visibile a occhio nudo, ma lui l’aveva avvertita comunque. Quando gli si era avvicinato, quando gli aveva sfiorato i capelli con le dita, aveva avvertito come una scossa, seguita da una sensazione di gelo e di forte disagio. Per un brevissimo istante aveva creduto di aver recuperato la facoltà di percepire le auree altrui, ma si era reso conto ben presto che quella era solo una sciocca illusione. Forse, lo era tanto quanto l’idea di poter, prima o poi, uscire da lì e tornare a essere l’uomo che era o, magari, una persona migliore.
 
La stanchezza stava prendendo il sopravvento, per quanto si stesse sforzando di restare sveglio. La mente era sempre più annebbiata, il respiro sempre più regolare. Presto si sarebbe addormentato. E chissà quale strano sogno avrebbe fatto, adesso che l’incubo era la realtà che viveva ogni giorno.
 
*
 
Un vento impetuoso.
Un dolore lancinante.
Un odore indefinito di carne putrefatta e sangue.
Un lampo accecante.
Una sensazione di vertigine.
Un boato spaventoso.
Poi, improvvisamente, il nulla.
 
Continua…

 
Ragazze/i,
Eccomi qui!
Pensavate che non sarei più tornata, vero?
E invece no! Scusate se ho impiegato tanto tempo per pubblicare, ma ho preferito prendermi una lunga pausa e terminare (o quasi) tutta la storia prima di pubblicarne un capitolo a settimana!
Proprio così: vin informo che ho quasi terminato di scrivere questo papiro che, tra alti e bassi, tra puntualità e ritardi, va avanti da quasi due anni.
L’intreccio, da questo momento in poi, diventerà ancora più complicato prima di districarsi definitivamente.
Mi auguro che, arrivati a questo punto, rimaniate con me fino alla fine!
A presto!
Un bacino,
 
Cleo

 
   
 
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