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Autore: Clementine84    15/09/2021    0 recensioni
Quando Becky viene mandata a intervistare Craig, musicista di una band sulla cresta dell'onda, sa esattamente che le dichiarazioni rilasciate verranno usate per spargere calunnie sul suo conto. Ha due possibilità: mettere a tacere la sua coscienza e consegnare la registrazione al suo capo, oppure rifiutarsi e perdere il lavoro. Non esita nemmeno un istante. E, forse, quella decisione presa d'impulso farà capire a Craig che, di persone così, se ne trova una su un milione e porterà a Becky molti più benefici che danni.
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Il titolo è preso da una canzone dei Backstreet Boys e sarà anche il titolo del secondo capitolo, dove si capirà il fulcro della storia.
Come avrete intuito, anche i titoli dei capitoli sono nomi di canzoni. Ho segnalato gli artisti tra parentesi, così, se a qualcuno dovesse venire la curiosità, può andare a sentirsele.

Nulla di quanto narrato è reale o ha la pretesa di esserlo. I personaggi sono originali e appartengono alla sottoscritta e ogni riferimento a persone reali è da considerarsi puramente casuale.
 

“No, no! Romeo, scendi immediatamente da lì!” sbraitai, correndo a staccare il mio gatto dalle tende e cercando di non rovesciare sulla moquette tutto il contenuto della tazza di caffè che avevo in mano.

“Ti prego, sono già in ritardo, non ti ci mettere anche tu, eh?” lo implorai, appoggiandolo sul divano.

Per tutta risposta mi arrivò un miagolio seccato e lo considerai sufficiente. Non avevo tempo di stare a contrattare, in ogni caso. Afferrai il cappotto, la borsa e corsi fuori, salutando il mio gatto. Una volta sul pianerottolo, bussai ripetutamente alla porta di fronte alla mia, urlando “Joey, sono le otto! Svegliati!”

Una voce assonnata proveniente dall’interno, rispose “Sì, sì…sono sveglio. Buon lavoro!”

Sorrisi, soddisfatta, e corsi giù per le scale, fuori di casa, nel traffico caotico di un normale lunedì mattina nell’East End londinese.

Mentre sgusciavo tra le auto bloccate all’ora di punta con il mio motorino e mi godevo il timido sole che mi riscaldava il viso, mi chiedevo cosa aveva in serbo per me quell’insolita giornata di sole. Lavoravo in un giornale di gossip come giornalista, il che era sempre stato un mio grande sogno, fin da quando ero bambina, infatti amavo il mio lavoro anche se non andavo d’accordo con il mio capo che mi riteneva un’incapace e continuava ad affidarmi servizietti di poco conto quando io, invece, aspiravo a ben altro. Il mio sogno era quello di occuparmi di servizi di attualità, magari come inviata. Già mi vedevo a scrivere da luoghi colpiti da guerre, inondazioni, terremoti, crisi politiche…. Purtroppo, invece, dovevo accontentarmi di piccoli tradimenti nel mondo delle soap opere. Sempre meglio che niente, anche perché quegli stupidi scandali mi davano da vivere e, dato che potevo contare solo su me stessa per tirare avanti, non potevo permettermi di fare troppo la schizzinosa. Molte volte, infatti, ero stata costretta a occuparmi di servizi che io stessa, come lettrice del giornale, non avrei degnato di uno sguardo e proprio in questo consisteva il maggior motivo di disputa con il mio capo, John. E quella mattina, a quanto pareva, non sembrava essere diversa dalle altre.

“Susie ha chiamato stamattina presto dicendo che si è presa l’influenza,” mi annunciò, non appena arrivata in redazione “quindi mi vedo costretto ad affidare a te la sua parte di lavoro”.

“Non dimostrare troppo entusiasmo, mi raccomando!” commentai, risentita.

John mi ignorò completamente e, puntandomi un dito contro da sopra la scrivania, proseguì “Ma guai a te se mi combini qualche casino, chiaro? Giuro che stavolta ti licenzio in tronco!”

Annuii.
“Okay, stai calmo” lo tranquillizzai, sbuffando.

Non mi aveva ancora perdonato il fatto di aver rovesciato un bicchiere di vino sul vestito di un’attricetta da quattro soldi che mi aveva fatto perdere le staffe durante un’intervista, qualche settimana prima.

“Che devo fare?” chiesi, curiosa. Hai visto mai che fosse la volta buona e mi venisse affidato un servizio serio.

“Conosci i Drummers?” mi domandò, mostrandomi la foto di una rock band.

Annuii. “Certo, chi non li conosce?”

“Bene, devi intervistare Craig MacLuis” annunciò, indicandomi con un dito un ragazzo moro. “D’accordo” dissi, tranquilla. Non vedevo proprio cosa ci fosse di così complicato da voler riservare la cosa a Susie, la sua pupilla.

“Aspetta, non è tutto” proseguì il mio capo. “Gira voce che sia gay”

“E lo è?” domandai.

“Non lo so e nemmeno mi interessa” mi liquidò lui. “Ma è quello che dobbiamo fargli dire”.

“Scusa?” farfugliai “Temo di non aver capito”.

Lanciandomi uno sguardo di superiorità, John mi spiegò “Ti ho preparato una serie di domande speciali da fargli e ti assicuro che le risposte ci permetteranno di sostenere la tesi della sua omosessualità”.

“Fammi capire…vuoi fargli dire che è gay anche se non lo è?” chiesi.

Il mio capo annuì con un sorrisetto ebete stampato in faccia. “Esattamente”.

“Ma la calunnia non è un reato?” insistetti.

“Ma noi faremo in modo che non possa citarci perché sarà stato lui stesso a fornirci gli indizi dando quelle risposte!” concluse.

Gli rivolsi uno sguardo scettico, che lo infastidì notevolmente.

“Ma cosa ne vuoi capire tu!” sbottò. “Comunque, devi solo andare là, intervistarlo e portarmi la cassetta con la registrazione, il pezzo lo scriverà qualcun altro”.

Restai a fissarlo per un attimo, perplessa. Quella storia non mi piaceva. Odiavo mentire e ingannare la gente, proprio non lo sopportavo. Purtroppo, però, in quel genere di giornali pareva andare molto di moda.

“Allora?” insistette John.

Annuii. “Okay. Dimmi dove e quando” acconsentii.

 

Craig, devi scendere per quell’intervista!” mi chiamò Patrick, la nostra guardia del corpo. Sbuffando, mi alzai dal letto e aprii la porta della mia stanza d’albergo.

Okay. sono pronto” annunciai.

Patrick mi sorrise. “Bene. Buona fortuna!” mi augurò.

Alzai le spalle. “E per che cosa? È solo un’intervista! Spero solo di non tirarla troppo per le lunghe”.

 

Ero seduta su di uno dei divanetti nella hall del Conrad Hotel, un lussuoso 5 stelle nel cuore di Londra, aspettando l’intervistato e, intanto, mi guardavo intorno. Non avevo mai visto tutto quel lusso e mi sentivo tragicamente fuori luogo lì dentro, nonostante il portiere e i ragazzi alla reception fossero stati tutti gentilissimi con me. Mi sistemai una ciocca di capelli dietro l’orecchio mentre davo un ultimo sguardo al foglietto con le domande, che John mi aveva consegnato prima di uscire. Che rapporto hai con i tuoi compagni della band, hai un amico del cuore, credi nell’amicizia tra uomo e donna…. Erano tutte domande piuttosto normali, ma capivo che erano state studiate a tavolino per far rilasciare a quel poverino qualche dichiarazione avventata che potesse far supporre una sua eventuale omosessualità. Desiderando con tutte le mie forze di non trovarmi lì, pregai che questo Craig fosse un tipo scaltro e non si lasciasse abbindolare.


Scesi le scale fino alla hall e mi guardai intorno alla ricerca della classica giornalista in tailleur e tacchi a spillo, ma non vidi nessuno che rientrasse in questa categoria. Improvvisamente, una ragazza castana si alzò da un divanetto e mi venne incontro, sorridente.

Piacere, Rebecca Abbot” si presentò, tendendomi la mano. “Di Planet Gossip”.

Piacere mio” farfugliai.

Mentre le stringevo la mano, la squadrai da capo a piedi. Me ne erano capitate di giornaliste strambe, ma questa le batteva decisamente tutte. Jeans scoloriti e maglia con stampo etnico, sembrava si trovasse lì per puro caso e non per lavoro. Inoltre, i lunghi capelli castani, fermati dietro la nuca da una penna biro, che di solito si usava per scrivere, e il viso pulito la facevano sembrare giovanissima mentre, con tutta probabilità, doveva avere almeno la mia età. Le feci cenno di accomodarsi al bar e, dopo aver ordinato da bere, iniziammo con l’intervista.

Bene. Ho portato con me un registratore così evito di scrivere. Non ti dispiace, vero?” domandò. Scossi la testa.
“Nessun problema” la rassicurai.

Allora, Craig, dimmi. Che rapporto hai con i tuoi colleghi della band?” chiese.

Sorrisi. Era una domanda comune e anche piuttosto facile.

Sono come fratelli, per me. Siamo molto uniti”.

E con i tuoi fratelli veri, invece? Mi risulta che tu ne abbia due”.

Annuii. “Sì, James e Larry. Beh, che devo dire? Sono i miei fratelli, la mia famiglia. È ovvio che gli voglia bene”.

 

Ascoltavo Craig raccontarmi alcuni episodi condivisi con il suo amico del cuore, un tale Simon, e facevo del mio meglio per non mettermi a urlargli in faccia di smettere. Non appena i nostri sguardi si erano incrociati, avevo letto nei suoi occhi una gentilezza e una sincerità disarmanti e avevo capito che il poverino non aveva speranze. Sarebbe caduto nella trappola con tutte le scarpe. Mi dispiaceva da morire, ancora più di prima, perché Craig mi piaceva. Era un ragazzo allegro e disponibile e parlare con lui era veramente piacevole, infatti mi trattenni parecchio con lui al bar, molto oltre il tempo limite concessomi per l’intervista. Mi parlò della sua terra, la Scozia, consigliandomi di visitarla appena ne avessi avuta l’occasione, e mi raccontò una serie di aneddoti divertenti che erano successi a lui e agli altri ragazzi del gruppo.

La cassetta era finita da un pezzo quando un ragazzo biondo, che mi fu presentato con il nome di Sean, venne a chiamarlo per la cena e io mi alzai dallo sgabello, raccogliendo le mie cose.

“Dio, come si è fatto tardi!” esclamai, guardando l’orologio. “Mi dispiace averti trattenuto così a lungo, Craig” mi scusai.

Il ragazzo scosse la testa.
“Tranquilla, nessun problema. Mi sono talmente divertito che non mi sono reso conto dell’ora nemmeno io. Più che un’intervista si è trasformata in una chiacchierata tra amici” commentò.

Sorrisi.
“Già, vale lo stesso per me” confessai, stringendogli la mano. “In ogni caso, mi ha fatto piacere intervistarti”.

“E a me ha fatto piacere essere intervistato da te” scherzò lui, facendomi ridere.

Restò a salutarmi con la mano mentre mi allontanavo e, poco prima di uscire, mi gridò dietro “Comprerò il giornale per leggere l’intervista!”.

Io sorrisi e annuii, ma dentro mi sentivo un verme perché sapevo che stavo per tradire la fiducia di quella persona così per bene.

 

Ehi, chi era quella tipa seduta con te al bar, oggi?” mi chiese Sean, a cena.

Una giornalista, tale Rebecca Abbot” risposi, posando il bicchiere.

Per che giornale scrive?” si informò Michael, l’altro nostro amico.

Planet Gossip” riferii.

Hm…mai sentito” disse Paul, il nostro tastierista.

Nemmeno io,” concordai “ma ho intenzione di comprare la prossima copia per leggere l’intervista. Mi è piaciuta molto” annunciai.

Ti è piaciuto farti intervistare? Sei sicuro di stare bene, Craig?” mi prese in giro Michael, che sapeva quanto odiassi le interviste.

Sorrisi. “Già, lo so che è strano, ma non ci posso fare niente” mi difesi.

Non è che, più che l’intervista, ti sia piaciuta la giornalista?” scherzò Sean.

Scossi la testa. “Sei sempre il solito, Finley!” lo rimproverai e scoppiai a ridere quando lui commentò “Sarà, ma era veramente carina”.

 

Tornando a casa, non feci altro che pensare al pomeriggio appena trascorso, rigirandomi tra le mani la cassetta con la registrazione dell’intervista. Non potevo darla a John e far sì che infangasse in quel modo il nome di una persona per bene come Craig. Perché, se c’era una cosa di cui ero certa, era che Craig fosse una brava persona. Non potevo dire di conoscerlo, ma per quel genere di cose avevo un certo intuito e poi semplicemente si vedeva. Eppure, se non gli avessi consegnato la cassetta, avrei perso il lavoro. Lo sapevo, John era stato molto chiaro a riguardo. Dio, che casino! Non sarei mai arrivata a nessuna conclusione in quel modo. Parcheggiai il motorino sotto casa ma, invece di salire, entrai nel pub di Joey. Ero certa di trovarlo lì.

“Joey, sono io!” lo chiamai.

“Ehi, piccola!” mi salutò lui, emergendo dal retro con una cassa di birra tra le braccia. “Com’è andata oggi?” mi chiese, gentile.

Mi sedetti al bancone e sospirai. “Hm…così così. Ho paura di essermi cacciata in un mare di guai” annunciai.

Il mio amico posò la cassa e venne a sedersi accanto a me, con sguardo preoccupato.

“Che è successo?” indagò e io gli raccontai tutta la storia dell’intervista a Craig e delle intenzioni di John, senza esitazioni. Joey era il mio migliore amico, il fratello maggiore che non avevo mai avuto e sapevo che se c’era qualcuno in grado di consigliarmi, quello era lui.

“Quindi, se do la cassetta a John e gli permetto di scrivere quell’articolo, pugnalo alle spalle una brava persona come Craig e, se mi invento una qualche scusa per non consegnargliela, perdo il lavoro” conclusi, sull’orlo delle lacrime.

Joey, che aveva ascoltato attentamente tutta la storia, strinse le labbra e mormorò “Hm…capisco”. “Oh, Joey! Non so cosa fare!” piagnucolai, appoggiando la testa sulla sua spalla.

Il mio amico mi accarezzò dolcemente i capelli per un istante, dopodiché disse “E’ una scelta difficile, piccola, ma temo di non poterti aiutare. Devi decidere tu se preferisci tenerti il lavoro e pugnalare alle spalle una persona che ti sta a cuore, portandoti dentro il rimorso per tutta la vita, oppure compiere una buona azione rinunciando, però, a qualcosa di importante e serio come il tuo lavoro”.

“In ogni caso ci perdo qualcosa” osservai, triste.

Joey annuì. “Già. Ma, se posso permettermi, un lavoro è qualcosa che pratichi per un certo periodo, mentre con la tua coscienza avrai a che fare per tutta la vita” mi fece notare.

Annuii, per fargli intendere che avevo capito, e lui mi sorrise, benevolo.

“Su, adesso, vai di sopra da Romeo. Ti starà aspettando con una fame da lupi!” scherzò, strappandomi un sorriso.

“Okay, vado. Ci vediamo più tardi, Joey. Grazie” lo salutai.

“Non c’è di che, bellezza” minimizzò lui. “Ah, e pensaci bene prima di prendere una decisione, okay?”

Annuii “Tranquillo”.

“E ricordati sempre che, qualsiasi cosa tu decida, non sei sola. Hai degli amici che non ti abbandoneranno”.

Sorrisi e, mentre salivo al mio appartamento, mi ritrovai a pensare a quanto avesse ragione. Fin da bambina, ero sempre stata abituata a cavarmela da sola perché sapevo che potevo contare solo sulle mie forze. Ero cresciuta in un piccolo orfanotrofio di suore nello Yorkshire, sulla cui soglia ero stata abbandonata ancora in fasce, quindi non avevo mai conosciuto i miei genitori. Le suore mi avevano accolta, vestita, nutrita e mi avevano anche dato un nome: Rebecca, come un personaggio della Bibbia. Il cognome Abbot derivava dal fatto che fosse stato il primo nome sull’elenco telefonico del paese. Si erano prese cura di me e mi avevano istruita, insieme a un’altra ventina di bambini e bambine di tutte le età, tutto questo fino all’età di 18 anni quando, ormai maggiorenne, mi avevano ritenuta pronta ad affrontare da sola il mondo. Grazie alla mia innata intelligenza e a una buona dose di duro lavoro, ero riuscita a ottenere una serie borse di studio che mi avevano permesso di frequentare l’università, dove avevo scelto la facoltà di giornalismo. Avevo vissuto nel campus del college fino alla laurea, dopodiché ero stata assunta al giornale e mi ero messa alla ricerca di un appartamento. Dopo settimane di inutili visite in giro per tutta Londra, avevo quasi perso le speranze quando era arrivato Joey. Ci eravamo conosciuti per caso in un ristornate indiano nell’East End dove io mi ero fermata per pranzo durante una delle mie tante peregrinazioni. Cercavamo entrambi un tavolo, ma ne era rimasto soltanto uno così il proprietario, il signor Bedi, ci aveva proposto di dividerlo. L’idea non ci era sembrata male e avevamo accettato, finendo con il fare conoscenza. Gli avevo detto che ero alla ricerca di un appartamento e lui, quasi per caso, aveva accennato al fatto che ne aveva appena messo in affitto uno in un palazzo poco distante e mi aveva proposto di dargli un’occhiata. Mi era piaciuto e, pochi giorni dopo, mi ci ero già trasferita, trovando non solo una casa ma anche una famiglia, la prima che avessi mai avuto. Oltre a Joey, proprietario del pub al piano terra, c’era Lizzie, parrucchiera pasticciona che lavorava in un salone alla fine della strada, Arthur, squattrinato attore in cerca di fortuna che, per il momento, si accontentava di girare qualche sporadico spot pubblicitario, la sua ragazza Bridget, segretaria, che, pur non vivendo nel palazzo, passava talmente tanto tempo a casa del suo ragazzo, che era come se abitasse lì, e William, dotato di un genio innato per gli affari di borsa ma, a parte questo, piuttosto sfigato in tutto il resto, che lavorava nella city e divideva con Arthur l’appartamento all’ultimo piano. Eravamo diventati tutti una grande famiglia e ci aiutavamo a vicenda ogni volta che qualcuno era nei guai. Potevo contare su di loro, sapevo che non mi avrebbero mai abbandonata.

Non appena aprii la porta del mio appartamento, fui accolta da un coro di miagolii di protesta del mio gatto.

“Ehi, ho capito. Scusa!” mi giustificai, accarezzandogli il lucente mantello nero.

Ma Romeo non era tipo da perdersi in simili smancerie e mi fece chiaramente capire che quello che più gli premeva era riempire lo stomaco mordicchiandomi la mano. Mi affrettai a riempirgli la ciotola, dopodiché mi misi ai fornelli cercando di cavarne qualcosa di buono. Non ero una grande cuoca e la metà delle volte che tentavo di cucinarmi qualcosa, combinavo pasticci. Presto mi fu chiaro che quella sera non avrebbe costituito un’eccezione. Ero in salotto e mi stavo rigirando fra le mani la cassetta con l’intervista, riflettendo sul da farsi, quando un inconfondibile odore di bruciato proveniente dalla cucina mi avvertì che avevo dimenticato le lasagne nel forno. Purtroppo era troppo tardi e, dando un’occhiata al contenuto bruciacchiato della vaschetta, mi resi conto che l’ennesimo tentativo era fallito. Mi tolsi il grembiulino e, sospirando, presi la giacca e uscii di casa. Salii al piano di sopra e bussai alla porta di Lizzie.

“Becky! Che ci fai qui?” chiese la mia amica, stupita di vedermi.

“Sto andando a cena al Cochin, mi fai compagnia?” proposi.

Lei sorrise a annuì “Certo! Prendo il cappotto”.

Ordinammo vada e coca cola e per dolce degli splendidi jilebies e passai la serata ad ascoltare Lizzie che mi descriveva le signore più bizzarre a cui aveva fatto i capelli quel giorno, mentre Ameet e Shaneen, i figli del signor Bedi, venivano a farci visita di tanto in tanto. Con mia grande sorpresa, riuscii a dimenticare completamente i miei problemi ma, una volta tornata a casa e messami a letto, con Romeo che dormiva beatamente vicino ai miei piedi, il pensiero di quello che stavo per fare a Craig non mi faceva prendere sonno. Mi preparai una bella tazza di camomilla e mi imposi di dormire. Un vecchio proverbio diceva che la notte porta consiglio e io lo speravo con tutto il cuore.

 

“Sì, sì. Okay. Sono sveglia” brontolai, spostando Romeo in modo da impedirgli di leccarmi ulteriormente i capelli.
“Ma tu devi piantarla con questo brutto vizio di leccare i capelli, sai? Mi costringi a lavarli tutti i giorni!” lo rimproverai, andando in bagno e lasciandolo sul letto a leccarsi.
Come ogni mattina, mi preparai per andare a lavoro e, prima di uscire, chiamai Joey, riflettendo su quanto fosse buffo quel modo di svegliarlo. Risaliva tutto a qualche mese prima, quando la sveglia del mio amico aveva dato forfait e lui mi aveva pregato di chiamarlo quando uscivo per andare a lavoro. Il sistema sembrava funzionare così bene che non aveva mai comprato una sveglia nuova. Dato che quel simpaticone del mio gatto mi aveva svegliata piuttosto presto, decisi di lasciare a riposo il motorino e farmi una passeggiata fino al giornale così avrei avuto modo di riflettere sul da farsi. Ero ancora combattuta sulla decisione da prendere anche se una certa idea aveva iniziato a farsi strada in me.

Mi fermai al Cochin per un caffè e, uscendo, vidi il signor Bedi alle prese con un enorme bidone di spazzatura che si stava apprestando a svuotare.

Fu un attimo, una frazione di secondo e tutto mi divenne chiaro come il sole.

“Ehi, signor Bedi!” lo chiamai.

“Buongiorno Becky!” mi salutò allegramente lui.

“Stia fermo un secondo, per favore” lo pregai e, prendendo bene la mira, feci volare la cassetta dritta nel bidone dei rifiuti.

“Bel colpo!” si complimentò lui, ridendo.

“Grazie” risposi io, facendo un piccolo inchino, dopodiché infilai le mani in tasca per proteggerle dal freddo e mi incamminai verso la redazione fischiettando. Mi sentivo leggera come l’aria.

 

“E questo è quanto” conclusi, bevendo l’ultimo sorso di succo d’arancia e appoggiando il bicchiere sul bancone. Era l’una passata e il locale di Joey aveva chiuso da un pezzo, ma mi trovavo ancora lì con lui e i miei amici ai quali avevo appena finito di raccontare tutta la storia per filo e per segno. Come previsto, non appena mi ero presentata senza la registrazione, il mio capo aveva iniziato a dare in escandescenza e la subdola scusa che la cassetta fosse finita nelle grinfie di Romeo inventata per giustificarmi non lo aveva convinto, tanto che, come promesso, mi aveva licenziata senza troppi ripensamenti. Ovviamente, ero corsa a casa a raccontare tutto a Joey e lui aveva indetto un’assemblea d’emergenza, come chiamava scherzosamente quelle nostre riunioni serali, per mettere anche gli altri al corrente dei fatti.

“Hai fatto la cosa giusta, tesoro” mi rassicurò il mio amico, accarezzandomi la schiena.

Tutti gli altri annuirono, seri. Sapevo di avere il loro supporto.

Sospirai. “Ne sono convinta. Però adesso mi trovo disoccupata” osservai.

Non ero pentita. Avrei rifatto la stessa identica cosa mille altre volte. Ero solo un po’ preoccupata per il mio futuro.

“Ehi” Joey mi alzò il viso con un dito, costringendomi a guardarlo negli occhi “Non voglio vedere quel bel musetto triste, chiaro?”.

Sorrisi.

“Ricordati che hai degli amici”

“Diamine, Joey ha ragione!” sbottò Arthur. “Una soluzione la troviamo”.

Lizzie annuì. “Sì, non preoccuparti, Becky. Hai agito da vera eroina, sono fiera di te!” si congratulò. “Lo siamo tutti!” precisò Bridget, stringendomi una mano.

Sorrisi. Era stupendo avere degli amici fantastici come loro ma, in quel momento, anche se si sforzavano di essere solidali, non mi erano di grande aiuto.

“Temo che non potrò pagarti l’affitto per un po’, Joey” cercai di sdrammatizzare.

Il mio amico sorrise, benevolo.
“Come se me ne importasse qualcosa” commentò. “Lo sai che ormai quell’appartamento è tuo, indipendentemente dall’affitto. Continuo a prenderlo solo perché so che tu non vuoi dipendere da nessuno”.

Annuii. “Lo so. E ti ringrazio” sussurrai, lasciandomi abbracciare.

Restammo tutti in silenzio per un po’ finché William non si schiarì la voce.

“Ehm…io…ho avuto un’idea” annunciò.

Ci voltammo tutti a guardarlo tanto che lui, timido e impacciato di natura, sentendosi al centro dell’attenzione, iniziò a balbettare, in imbarazzo.

“Mi è venuta così…magari poi non se ne fa niente…ma si può sempre provare”.

“Avanti, Will, dicci di che si tratta” lo spronò gentilmente Lizzie, l’unica tra tutti noi a saperlo prendere per il verso giusto.

William prese un respiro profondo “Beh, uno dei miei clienti è un pezzo grosso del Daily Mirror e pensavo che, magari, potrei mettere una buona parola per te e vedere se riesco a farti assumere”. Il mio cuore mancò un battito sentendo il nome dell’importante giornale.

“Dici sul serio?” farfugliai, strabuzzando gli occhi.

William annuì. “Non ti prometto niente, è solo un tentativo, ma hai visto mai…”.

Gli buttai letteralmente le braccia al collo. “Oh, Will! Ti adoro! Te l’ho mai detto?”.

“Ehm…no. Non di recente” balbettò lui, rosso in viso.

“Digli che farò tutto quello che vuole, anche lavare i pavimenti, basta che mi assuma!” sentenziai. “Basta che non ti facciano cucinare!” commentò Joey, facendoci scoppiare tutti a ridere come pazzi.

Se siete arrivati fino a qui, vi prego, lasciatemi due righe per dirmi cosa ne pensate. Cos'avreste fatto al posto di Becky? Sareste rimasti fedeli ai vostri principi morali o la paura di perdere il lavoro vi avrebbe fatto vacillare? Come la prenderà Craig, quando non troverà l'intervista sul giornale? Lo scoprirete nel prossimo capitolo.

  
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