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Autore: holls    23/09/2021    13 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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2. Eterna pioggia

 

 

 

Grigio.

Era quello il colore della mia vita, da ormai otto mesi. Un’eterna giornata di pioggia, una tavolozza monocolore e una serie di pennellate che tentavano di sfumare quell’unica tonalità, inutilmente.

Grigio era l’unione tra il bianco e il nero, tra gli alti e bassi della mia esistenza, fusi, poi, in un encefalogramma piatto. Un’unica, lunga linea che non conosceva avvallamenti, ma che continuava a scorrere con quel suo monotono rumore, talmente insopportabile da diventare presto il sottofondo di una vita.

Il grigio, però, mi faceva buona compagnia. Nessun eccesso, nessuna sorpresa, nessuna delusione. Tutto sommato non era male.

Sprofondare nell’inerzia della mia vita mi aveva cambiato. L’entusiasmo di un ragazzo era diventato quello di una gioventù bruciata, che avrebbe dovuto godersi l’amore, privo di preoccupazioni reali.

Amore.

Una parola che avevo imparato a dimenticare.

Dalla finestra, mi sembrava di sentire il fruscio del vento far vibrare i vetri, mentre un picchiettare sempre più intenso e regolare cominciava a rigare il muro tra me e il mondo.

Pioggia.

Sempre pioggia.

E cielo grigio.

Eppure era estate.

           

Risfogliai gli appunti presi il giorno prima. Scorsi le pagine saltando le intestazioni formali per arrivare alle dichiarazioni dei testimoni. Eravamo riusciti a ottenere informazioni importanti solo da tre persone: l’addetta delle poste, Mirtha Jones, il capoufficio, James McCain, e un passante, Nathan Hayworth. Il resto dei testimoni aveva pensato perlopiù a mettersi al riparo e non aveva fornito informazioni rilevanti, benché avessimo preso nota di tutto. Le loro testimonianze riportavano solo di due uomini armati, delle grida e uno sparo, ma non avevano saputo dire nient’altro. Quantomeno, la loro versione dei fatti aveva contribuito a darci una visione più chiara e certa dell’accaduto.

Provai a riordinare le idee e cominciai a rileggere quanto scritto.

 

            “Mirtha Jones.

             Nata il 29/06/1967 (anni 34) a Manhattan.

             Capelli: castano scuro, lunghezza media (spalla).

             Occhi: nocciola.

             Statura: circa 1,60 m.

             Dipendente dell’ufficio postale di Lexington Avenue dal 28/03/1999.

           

Ha dichiarato quanto segue: ‘Erano da poco passate le due, o forse le due e un quarto (dubbiosa) e stavo riordinando alcuni moduli per l’invio di posta, quando all’improvviso sono entrati due uomini (descrizione spontanea): uno aveva un cappuccio scuro e gli occhiali da sole, abbastanza alto (indica con la mano la testa di Scottfield - confermato da HAYWORTH), moro, capelli lunghi (li vede sbucare da dietro le orecchie, ma non dal cappuccio); l’altro, invece, aveva un passamontagna.

L’uomo col cappuccio ha estratto una pistola e ha gridato qualcosa (non ricorda con precisione; accento newyorkese confermato da MCCAIN). L’ha puntata contro di me e ho cominciato a gridare. Mi sono rannicchiata a terra, voleva i soldi. James ha provato ad aggredirlo lanciandogli un fermacarte (sembra pesante, forse ha lasciato un livido?) che l’ha colpito al braccio destro (non totalmente sicura). Uno dei due rapinatori ha sparato un colpo di pistola verso l’alto (evidenti segni di shock; trema mentre parla). Mi sono spaventata ancora di più, così è intervenuto James, che ha aperto la cassa e glieli ha dati. Il ladro si è guardato intorno prima di prenderli, temevo volesse sparare ancora. Invece sono usciti entrambi e sono scappati via (in generale, ricordi confusi, ordine temporale incerto).’

 

Passai poi alle dichiarazioni di McCain, per certi versi più interessanti.

           

            “James McCain.

             Nato il 14/05/1968 (anni 33) a Manhattan.

             Capelli: castano chiaro, lunghezza corta (circa cinque millimetri).

             Occhi: verdi.

             Statura: circa 1,75 m.

             Dipendente dell’ufficio postale di Lexington Avenue dal 17/10/1996 - Capoufficio.

           

Ha dichiarato quanto segue: ‘Ero nel mio ufficio, al telefono, quando ho sentito le grida di Mirtha. Sono uscito dalla stanza per vedere cosa stesse accadendo, poi ho visto l’uomo con la pistola puntata verso di lei. Il rapinatore continuava a gridare “Dov’è?” e pensavo che si riferisse a me o ai contanti in cassa. Continuava a guardarsi intorno e a tenere la pistola puntata, poi si è accorto della mia presenza e ha chiesto l’incasso. Ho provato ad aggredirlo con un fermacarte e speravo di colpirlo in testa, ma ho preso solo un braccio. Come reazione, ha sparato un colpo di pistola verso l’alto e ci siamo spaventati, così gli ho consegnato l’incasso della giornata, perché Mirtha era troppo scioccata per farlo.’ (tono freddo e distaccato, quasi calmo; nessun tentennamento nella ricostruzione).

 

Nota su ‘pensavo che si riferisse a me o ai contanti in cassa’: MCCAIN ha dichiarato che, sia dopo essere entrato nella stanza dove erano i ladri, sia dopo aver consegnato l’incasso, l’uomo ha continuato a chiedere “Dov’è?”, sottovoce. Da qui il sospetto che si stesse riferendo ad altro.

 

Importante: a chi o cosa si riferiva?

 

Nota2: nell’ufficio lavorano altri due dipendenti: Michael COSSNER e Samantha MILLER. COSSNER è malato da due settimane (lavora lì dal 10/01/2001), non risponde ai messaggi dei colleghi. MILLER alterna i turni con JONES e MCCAIN.”

 

Quel “Dov’è?”, ripetuto dal ladro, aveva stuzzicato la mia curiosità più di una volta nell’arco di quella giornata. Avevo la sensazione che quel colpo fosse studiato, che i ladri stessero cercando qualcosa in particolare, ma non avevo ancora indizi sufficienti per dire cosa fosse. Mi venne quasi il sospetto che la richiesta dell’incasso fosse una copertura, ma era presto per fare ipotesi.

Rilessi infine la testimonianza di Hayworth e per un attimo la mente tornò a un ricordo spiacevole, subito soppiantato dal pensiero per le indagini.

 

            “Nathan Hayworth.

             Nato il 15/03/1980 (anni 21) a Manhattan.

             Capelli: biondi, lunghezza corta (circa cinque millimetri).

             Occhi: verdi.

             Statura: circa 1,77 m (da lui indicato con precisione).

             Dipendente del mini-market ‘Best Deals’ sulla E49th Street dal 5/01/1999.
           
 Studente di Architettura alla New York University, iscritto al secondo anno.

           

Ha dichiarato quanto segue: ‘Avevo appena finito il turno al Best Deals ed erano le due spaccate (informazione precisa: attendeva con ansia la fine del turno). Dovevo andare all’ufficio postale a ritirare un pacco, ma quando ho fatto per entrare nell’edificio, mi sono scontrato con un uomo (uno dei due rapinatori). Ho capito che era in corso una rapina, così ho chiamato la polizia. Poco prima, i ladri sono usciti e sono saliti su un motorino. Era nero e grosso, ha fatto molto rumore andando via (motore truccato? Grossa cilindrata?). La targa era sfumata, sopra azzurra, sotto bianca (probabilmente di un altro Stato). Prima di arrivare all’ufficio postale, ho sentito un boato e ho pensato che fosse un petardo, ma sono abbastanza sicuro che in realtà sia stato uno sparo.(spaventato, ma voce ferma)

 

Gli unici elementi interessanti riguardavano il motorino e il complice, che avremmo potuto presto verificare con l’ausilio di qualche telecamera. Se ne stava occupando Ashton e sperai che facesse in fretta.

Io, intanto, tornai a guardare fuori dalla finestra.

Della pioggia, neanche l’ombra.

 

Chiamai Ashton per avere notizie in merito alle registrazioni delle telecamere di sorveglianza, ma non seppe dirmi niente di preciso. Doveva ancora visionare le immagini e ci avrebbe impiegato un po’ di tempo. Gli affidai il compito di interrogare, il più presto possibile, Samantha Miller, mentre io mi sarei occupato di Michael Cossner, la cui malattia mi incuriosiva parecchio. Lavorava lì da poco ed era plausibile che non rispondesse ai messaggi dei colleghi, ma due settimane di silenzio erano notevoli. Forse poteva aver captato qualche indizio che potesse aiutarci a capire chi o cosa stesse cercando il rapinatore, sempre che non fosse in stato confusionale; ma non potevamo escludere nessuna opzione e vagliare ogni possibilità era il mio lavoro.

In ogni caso, ottenni l’indirizzo di Cossner senza troppe difficoltà.

Era tempo di fargli una visita.

 

I Cossner abitavano nel cuore di Soho, nei pressi del Drawing Centre. Il loro appartamento era situato in una palazzina di stampo neoclassico, priva di quelle antiestetiche scale frontali e adornata di capitelli dorici tra una finestra e l’altra.

Suonai il campanello e attesi una risposta che non tardò ad arrivare. Era una voce di donna.

«Buongiorno, polizia. Vorrei parlare con i signori Cossner, sono in casa?»

Un camion della “Frank’s Organic” sfrecciò dietro di me, facendo un rumore incredibile e riempiendo l’aria di una nuvola nera. Poco dopo si dissolse, ma preferii non chiedermi dove fosse finito tutto quello smog. Istintivamente, mi portai una mano al naso.

Non ottenni risposta dal citofono e pensai di averla persa a causa del rumore infernale del camion. Poi udii la voce di un uomo che farfugliava qualcosa alla donna, ma lei non gli rispose.

«Siamo in casa, salga pure.»

L’uomo grugnì qualche altra parola, ma non riuscii a captarla. La serratura scattò poco dopo e salii verso l’appartamento.

 

La casa era ampia e luminosa. L’ingresso dava su un vasto soggiorno, dove a farla da padrone era un divano in pelle grigio, dal quale si poteva facilmente osservare la strada sottostante e su cui mi avevano fatto accomodare. Le finestre avevano ciascuna una tendina ricamata, chiusa al centro con un elastico invisibile. Tutto intorno c’erano librerie occupate da ninnoli di vario tipo; quello che mi colpì maggiormente fu una fila di bocce tonde, nelle quali il classico pesciolino rosso era stato sostituito da una collezione di conchiglie di vario genere.

«Le abbiamo prese durante il nostro soggiorno in California. Vuole vederle da vicino?»

Scossi il capo.

«No, grazie.»

I coniugi Cossner si rivelarono benestanti, ma piuttosto semplici. Scoprii che amavano viaggiare – oltre alle conchiglie della California, avevano anche due copricuscini del Perù e una statuetta Inca, ma quello era l’unico indizio sulla loro condizione economica. Non ostentavano la loro ricchezza, né mi accolsero con superficialità.

Accanto a me, su un piccolo mobiletto, notai una foto incorniciata della signora Cossner, abbracciata sulle spalle da quello che doveva essere il figlio Michael. Non potei fare a meno di notare una voglia sul dorso della mano destra del ragazzo.

La signora Cossner seguiva il mio sguardo come un segugio, pronta a rispondere a ogni mio interrogativo prima ancora che lo ponessi.

Alla fine, si alzò in piedi e si strusciò le mani sui pantaloni, pur essendo pulite.

«Posso portarle qualcosa da bere? Acqua, caffè?»

La invitai a risedersi con un cenno della mano.

«No, non si preoccupi. Piuttosto, vorrei farvi alcune domande su vostro figlio. Stiamo indagando sulla rapina avvenuta il 30 luglio scorso.»

Il signor Cossner emise un sospiro rumoroso. Spostava il suo sguardo tra me e la moglie. La donna si sedette, con fare meno frenetico rispetto al solito, e si schiarì la voce.

«Certo, immagino sia più importante.»

La signora Cossner continuò a pulirsi le mani sui pantaloni con movimenti che tentavano di passare inosservati, ma sapevo come leggere i segnali del corpo.

«Posso parlare con lui?»

Intervenne suo marito.

«In questo momento non è in casa.»

Captai uno sguardo che i due si scambiarono con sospetta rapidità. Perché il ragazzo era uscito? Sapevo che aveva rinnovato il certificato di malattia per un’altra settimana, quindi era improbabile che stesse bene.

«Posso allora avere un suo recapito?»

Ancora una volta, il marito non diede tempo alla moglie di rispondere.

«Certo, ma il suo cellulare è in riparazione. Se prova a chiamare, non risponderà.»

Mi feci dare il numero dall’uomo e provai a comporlo; effettivamente rispose la voce dell’operatore.

Sua moglie sembrò nuovamente leggermi nella mente.

«Gli è caduto nel gabinetto e non si accendeva più. Speriamo che non debba cambiare numero.»

La assecondai.

«Sì, è piuttosto noioso dover ricercare tutti i contatti, per non parlare dei messaggi persi.»

La conversazione cadde nel vuoto, almeno da un punto di vista verbale. La signora Cossner strusciava ancora le mani sulle cosce e cominciò a darmi sui nervi. Ogni tanto guardava timidamente il marito, ma poi tornava a dedicarsi al suo tic; lui invece mi sorrideva con quel suo sguardo fermo, quasi statuario. Aveva capelli brizzolati e il volto segnato dal tempo, ma i suoi occhi erano severi e autorevoli; non mi avrebbe sorpreso un passato da militare.

«Quando potrò trovare vostro figlio a casa?»

I due coniugi si scambiarono un’occhiata.

Intervenne di nuovo il marito.

«Sa, ha ereditato da noi la passione per i viaggi. È partito per l’Europa due settimane fa e non abbiamo idea di quando farà ritorno.»

«È partito per un lungo viaggio con il telefono rotto?»

In realtà, la domanda era un’altra: perché Michael avrebbe deciso di partire per l’Europa in stato di malattia? Era già strano che fosse uscito per qualche commissione, ma la scusa del viaggio non era credibile. Nessuno dei due coniugi, però, sembrò notare la contraddizione e io mangiai la foglia.

La moglie schiuse le labbra per dire qualcosa, ma le parole le morirono in bocca. Poi si riprese.

«Lui è fatto così. Gli piace isolarsi durante i suoi viaggi, quindi non ci ha sorpreso il fatto che sia andato via senza telefono.»

Annuii. Quella storia puzzava di marcio da oltre un miglio, ma volevo aspettare a mostrare le mie carte.

«Vorrei dare un’occhiata alla sua camera, se non vi dispiace.»

La moglie si alzò e mi indicò la direzione.

«Certo. Da questa parte.»

I due coniugi si scambiarono un’altra occhiata.

 

La camera di Michael era quella di un adolescente un po’ troppo cresciuto: fuori dalla porta c’era un classico cartello di avvertimento (“Vietato entrare in questa camera!”) e, come entrai, la prima cosa che mi balzò agli occhi fu la quantità di poster dei Take That e di Madonna sopra il letto. Ogni anta di armadio era tappezzata di foto di concerti, amici, fidanzate e qualche cimelio di chissà quali avventure.

Il modo caotico con cui aveva appeso quei ricordi mi suggerì che fosse una persona disordinata, ma in realtà non intravidi nessun vestito buttato all’aria e sulla scrivania ogni cosa era al suo posto: penne e matite nel portapenne, quaderni e cartelle ad anelli ben impilati l’uno sull’altro e accanto una luce da lettura che sul mio dito non lasciò alcuna traccia di polvere.

La camera era pulita regolarmente e non mi parve strano, nonostante l’invito appeso sulla porta. Michael era un giovane adulto e aveva ormai perso quella patina di segretezza tipica di ogni adolescente.

Esaminai meglio la pila di quaderni che aveva sulla scrivania. I primi contenevano semplicemente appunti universitari – mi ricordai che studiava economia; quelli poco più sotto erano invece quaderni personali. Presi quello ad anelli e lo aprii: sulla prima pagina c’era scritto il nome di una ragazza, circondato da qualche cuore trafitto dalla freccia di Cupido; nelle pagine successive trovai qualche dedica da parte dei suoi amici, che parlavano di una gita al lago e di una serie di tuffi temerari. C’erano testi di canzoni e accordi di chitarra, foto di attori e cantanti; niente di strano.

Passai in rassegna anche il secondo quaderno e il terzo e il quarto, ma non trovai niente di sospetto. Michael era un ragazzo come tutti gli altri, che era andato a farsi una gita in Europa.

Sarebbe stata un’immagine perfetta, se non avesse inviato un certificato per malattia di due settimane. Era l’unica nota stonata in quel quadretto.

Spostai lo sguardo sulla libreria, anch’essa colma di quaderni dalle costole strappate. Ne presi uno a caso e diedi un’occhiata alle sue pagine.

Trovai le solite cose, tra cui il biglietto di un concerto dei Take That, mentre, nella seconda metà, incappai in una pagina infarcita da disegni di una specie di animale cornuto. Insieme, vi era anche una foto, rappresentante una versione stilizzata di quell’animale, che sembrava incisa sulla carrozzeria di un’auto. Notai poi che un angolo della pagina era strappato.

La signora Cossner era in piedi sulla soglia, a seguire ogni mio movimento. Non aveva detto una parola e se ne stava con le mani congiunte ad aspettare che le dessi un responso, come quando si aspettano i risultati delle analisi dopo la lettura del medico.

«Suo figlio segue qualche squadra sportiva? Calcio, baseball…?»

Mi venne in mente che forse quel toro poteva essere il simbolo di qualche squadra. Io non ero un appassionato, ma avevo una buona infarinatura di base, anche se quel disegno non mi diceva niente.

«Non che io sappia. Lo sport non gli interessa granché.»

Continuai a scorrere le pagine, molte delle quali bianche, altre riempite da una calligrafia fitta.

Una domanda mi sfrecciò per la testa.

«Suo figlio non ha un computer?»

Pensai che il computer avrebbe potuto far comodo alle indagini, ma sentivo di sapere già la risposta.

«No, in genere usa quello del campus.»

Arrivai in fondo al quaderno e mi fermai. C’era un bigliettino malamente piegato in due, dal quale si leggeva solo una cosa: “Michael”.

«Agente Scottfield.»

Trasalii; non mi ero accorto che la signora Cossner si era avvicinata così tanto a me. Non l’avevo nemmeno sentita camminare.

«Mi dica.»

I suoi occhi parlarono più di qualsiasi parola. Era sull’orlo del pianto, lo sguardo di chi ha custodito un segreto per troppo tempo e non vede l’ora di liberarsene. Capii che non avevo trovato quel quaderno per caso e non mi sembrò più così strano il fatto che sporgesse più degli altri.

Intanto, anche il signor Cossner fece il suo ingresso nella camera del figlio. Se ne stava a braccia conserte, gambe ben piantate a terra, e questo confermò la mia ipotesi sui suoi trascorsi militari.

Aprii il bigliettino e cominciai a leggere, quando intervenne il marito.

«Ma lei è autorizzato a frugare così tra le cose di nostro figlio? Ha un mandato?»

«Sono autorizzato e ho un mandato. La rapina ha coinvolto anche vostro figlio, seppur indirettamente, e questa è la prassi. Ho il dovere di interrogare tutte le persone coinvolte.»

L’uomo batté un pugno sulla scrivania.

«Ma nostro figlio non era là! È in vacanza!»

«Vostro figlio non è in vacanza, signor Cossner, e lo sa anche lei!»

Il suo volto si impietrì. Non capii se fosse per il tono della mia risposta o per la risposta stessa. Forse non lo sapeva davvero? Che cosa aveva raccontato Michael ai suoi genitori?

«Lei sa dov’è, agente Scottfield?»

La signora Cossner mi rivolse un’occhiata implorante. Cominciai a capire molte cose.

Tornai al bigliettino e lo aprii.

 

Non cercatemi. Tornerò presto. E non chiamate la polizia.

Michael

 

«Ufficialmente è in malattia da due settimane e ha chiesto un certificato medico per un’altra settimana. Lo sapevate?»

I due coniugi scossero la testa. Non sembravano sorpresi dal bigliettino e avevano solo fatto ciò che il figlio aveva chiesto. A sua madre doveva essere costato moltissimo, quindi perché non fare in modo che fosse la polizia a scoprire della sua scomparsa? La rapina era stato un caso fortuito o i due coniugi erano coinvolti? Rimisi a posto il bigliettino e sequestrai il quaderno.

Mi confidò che Michael era scomparso effettivamente da due settimane. Avevano provato a chiamarlo, ma non avevano ricevuto risposta. Era sparito lasciando solo quel biglietto, che avevano trovato subito, mentre la ricerca del quaderno era stata più difficoltosa. Sua madre aveva perlustrato da capo a piedi la camera e l’unica cosa che aveva trovato era quel quaderno, che Michael aveva nascosto sotto al materasso. La donna confermò poi la mia ipotesi: voleva rispettare la volontà del figlio, ma si era preparata nel caso di una possibile perquisizione, che sperava fosse avviata a causa della sua assenza dal lavoro.

Della rapina aveva appreso tramite la televisione e aveva sperato con tutto il cuore che qualcuno venisse.  

«Avete notato qualcosa di strano in vostro figlio, nell’ultimo periodo?»

La donna incrociò le mani sul grembo e sospirò.

«Sì, in realtà. Quella vacanza l’ha cambiato.»

«Quale vacanza?»

«Venga, ne parliamo di là.»

La signora Cossner mi fece cenno di seguirla in salotto, forse bisognosa di riposo. Ci sedemmo e rispose alla mia domanda.

«Circa sei mesi fa è stato in vacanza nel Vermont, a Stowe. Una settimana bianca con gli amici, almeno così ci ha detto. Solo che da allora...»

Il marito inveì.

«Per favore, non dire sciocchezze! Stai solo cercando una spiegazione!»

«Sei tu che sei completamente cieco! Come hai potuto non vedere? E la macchina? È stato un caso pure quello?»

L’uomo era già pronto ad abbaiare ancora, ma io lo interruppi.

«Macchina?»

Sua moglie prese parola prima di lui, che si morse la lingua per trattenere l’istinto di parlare.

«Sì, la macchina. Ci hanno rovinato la carrozzeria più volte, e ogni volta Michael sembrava molto preoccupato. Diventava irrequieto e spesso rispondeva male.»

«Posso vederla?»

La moglie fece un segno di assenso con il capo, mentre il marito si rifiutò di interagire.

La faccenda si faceva interessante.

 

I Cossner avevano un pick-up Ford piuttosto massiccio e tipicamente sporco, segno che lo usavano per diverse escursioni. Feci un giro intorno all’auto e notai i segni sulla carrozzeria di cui aveva parlato la moglie.

Non appena li vidi, capii subito che erano gli stessi che avevo visto in quella fotografia, ritrovata nel quaderno di Michael. Probabilmente, il ragazzo li aveva fotografati su richiesta della compagnia assicurativa, per ottenere un risarcimento contro atti vandalici.

Mi bastò una semplice occhiata per capire che le rigature non erano fatte in modo casuale. Su diversi punti della carrozzeria, c’erano delle linee rette e, come si vedeva anche nella foto, erano intersecate tra loro in modo da formare una versione piuttosto stilizzata dell’animale con le corna; ma ciò che mi lasciò perplesso fu quello che doveva essere il muso dell’animale, senz’altro più impegnativo da fare rispetto alle righe dritte. Benché autorizzato, chiesi il permesso di scattare delle fotografie, in modo da poter osservare i freghi con Ashton ed Edmond.

Decisi di non incalzare la donna con domande supponenti un coinvolgimento dei due coniugi: era un’idea troppo azzardata e avrei rischiato di compromettere la loro collaborazione. Mi limitai invece ad annuire e prendere appunti, mentre osservavo i pezzi della vicenda incastrarsi l’uno con l’altro.

Solo quando finii di scrivere tutto, mi accorsi che quello era solo l’angolo di un puzzle molto, molto più complicato.

 

Tornai in centrale con una strana sensazione di euforia addosso. Posai appunti e quaderno sulla mia scrivania, pronto a fare ricerche sul logo e su quel biglietto misterioso.

Ma qualcuno bussò alla porta. Non aspettò nemmeno una risposta ed entrò – tipico di Ashton. Difatti mi bastò alzare gli occhi per scoprire che avevo indovinato, per l’ennesima volta. Si richiuse la porta alle spalle e mi guardò con un sorriso, e presagii che non portava buone notizie.

«Non indovinerai mai chi ho fatto accomodare di là.»

Alzai lo sguardo verso di lui per una fugace occhiata, poi tornai a dedicarmi ai documenti che avevo sottomano. Lui, però, poggiò entrambi i palmi delle mani sulla mia scrivania per attirare la mia attenzione, che non potevo più evitare di dargli.

«Sentiamo.»

Ashton ridacchiò un pochino.

«Il ragazzino irritante dice di avere nuovi indizi per noi. Pare che si sia ricordato qualcosa.»

Come sentii quel nomignolo, un istinto omicida mi salì su per la gola – mi frenò il mio innato senso della giustizia.

Avevo dato quel soprannome a uno dei testimoni della rapina il giorno prima, Nathan Hayworth. Oltre al suo nome, mi tornò alla mente quella sfrontatezza che, se fosse stato un mio sottoposto, avrebbe sicuramente pagato.

«Non puoi occupartene tu?»

Un altro sorriso malizioso uscì dalle labbra di Ashton e per un momento mi ricordò quello del ragazzino irritante. Da quando l’aveva nominato, i ricordi cominciavano a venire a galla, così come la vena sulla mia tempia che pulsava al solo pensiero.

«Vorrebbe parlare con te. Sai, gli hai dato il tuo biglietto da visita, non il mio.»

Questa volta fui io a sorridere, ma per l’assurdità di quella situazione.

«Da che parte stai, si può sapere?»

Scoppiò a ridere, poi si allontanò dalla mia scrivania e fece per uscire dal mio studio.

«Ti aspetto di là.»

Non ebbi nemmeno il tempo di ribattere, che era già uscito.

Mentre mi preparavo psicologicamente ad affrontare quel tipetto, sbuffai e alzai gli occhi al cielo.

Non conoscevo Ashton da molto, ma mi trovavo bene con lui, tranne i rari casi in cui voleva a tutti i costi impormi le sue decisioni. Erano mesi, infatti, che criticava la mia passività nei confronti della vita, consigliandomi di uscire con qualcuno e combinando chiacchierate più o meno casuali. Non avevo mai approfittato di nessuna delle sue trovate, né lo avevo mai rimproverato per quanto faceva, ma quella volta non capivo perché volesse rifilarmi un ragazzino. D’accordo, rispolverando gli appunti del mio taccuino avevo scoperto che di anni ne aveva ben ventuno, ma all’atto pratico ne dimostrava davvero molti meno.

Raggiunsi Ashton in ufficio e, come entrai, non potei fare a meno di confermare la mia ipotesi. Indossava jeans e una maglia non troppo attillata, sul cui scollo aveva ripiegato gli occhiali da sole. Se ne stava seduto in modo scomposto, con una gamba poggiata sull’altra, ma ciò che davvero mi colpì fu il suo immancabile sorrisetto malizioso.

Come mi vide cominciò a fissarmi nuovamente, e già maledii il momento in cui non avevo detto ad Ashton di andarsene a quel paese e di occuparsi personalmente di questo grattacapo. Mi sedetti all’altro lato della scrivania e me lo ritrovai di fronte: teneva il mento sul palmo della mano, con il gomito appoggiato sul bracciolo della sedia.

Sebbene non potessi vederlo direttamente, sentivo che non mi stava staccando gli occhi di dosso, tranne qualche rara volta in cui guardava Ashton.

Il mio collega non aveva aperto bocca, ma prese posto accanto a me dopo poco. Cercai di rimandare quel momento all’infinito, ma alla fine dovetti cedere al mio dovere.

«Il mio collega mi ha detto che sei qui perché ti sei ricordato nuovi dettagli sulla rapina.»

Vidi le sue labbra aprirsi in un sorriso che, per un volta, non sembrò impregnato di malizia. Ma io non avevo tempo da perdere, tantomeno con quel tipo che già mi stava facendo saltare i nervi.

«C’è qualche problema?», chiesi.

Era odioso. Detestavo le persone che mi guardavano e poi sorridevano, dandomi l’impressione di avere qualcosa di sbagliato.

«No, mi scusi. Ascoltavo l’accento.»

Non mi stupì che un ventunenne americano rimanesse sorpreso dal mio accento inglese.

Mi voltai verso Ashton e lo beccai a sorridere come il ragazzino. Sembrava che fossero diventati un’associazione a delinquere – in senso figurato, ovviamente.

Intanto, quel Nathan continuava a fissarmi con sguardo languido, al che, stufo, lo guardai anch’io. Ma cosa voleva da me?

«Va bene, mi dica che cosa ha visto.»

Emise un gemito pensieroso e, per un momento, mi sembrò quasi degno di sbandierare i suoi ventun anni. Le mie convinzioni caddero quando si passò una mano tra i capelli in quello che voleva essere un gesto sensuale, col chiaro intento di attirare l’attenzione con scopi meno nobili. Pensai che sembrava davvero uno stupido.

«Guarda che ti si consumano.»

Non mi ero neanche accorto di avergli dato del tu, ma pensai che una forma meno rispettosa fosse ciò che si meritava. Lui, chiaramente preso in contropiede, abbandonò quell’aria da homme fatal e si rimise dritto sulla sedia, togliendosi quella mano dai capelli.

Lui aprì la bocca per dire qualcosa, ma sembrava non aver niente da dire. Non che la cosa mi stupisse, perché non avevo mai creduto fino in fondo che fosse venuto qui per dirci realmente qualcosa.

«Grazie per il consiglio. Comunque, nel momento in cui mi sono scontrato con uno dei rapinatori, sono riuscito a vederlo in faccia e ho notato che aveva gli occhi verdi. Erano simili ai miei, ma più chiari e più glaciali, se capite cosa intendo.»

Incrociai le braccia, mentre Ashton stava mettendo tutto a verbale, come da procedura.

«Nient’altro?»

Stavolta fu Ashton a intervenire, ma Nathan, per tutta risposta, si limitò a scuotere il capo.

«Va bene, se non c’è altro, puoi andare. Una firma qui, per favore.»

Nathan firmò, dopodiché i due si alzarono e si strinsero la mano con un sorriso, e io mi chiesi dove avevano trovato il tempo per diventare così cordiali l’uno con l’altro. Alla fine, per mera educazione, mi alzai anch’io e gli porsi la mano. Lui la strinse con la stessa intensità del suo sguardo, ma non riuscii a interpretare quello che voleva dirmi, probabilmente perché finsi di non vedere la malizia che mi aveva rivolto.

«Arrivederci.»

 

Emisi un sospiro di sollievo non appena lo vidi uscire insieme ad Ashton.

Quel Nathan si divertiva chiaramente a punzecchiarmi e a farmi gli occhi languidi, ma mi sfuggiva la ragione del suo comportamento.

Ashton, però, aveva l’aria di sapere qualcosa. Non mi aveva mai accennato a Nathan da quando lo avevamo interrogato, ma ero rimasto davvero stupito da quella sorta di intesa che si era creata tra quei due.

Mi alzai da quella sedia e uscii fuori dall’ufficio, in cerca di Ashton.

Lo trovai, con mia somma sorpresa, fuori dall’edificio, in compagnia di quel ragazzino che avrei volentieri rimandato a scuola a suon di calci nel sedere. Li osservai da lontano e li vidi ridere e scherzare come se si conoscessero da tempo, ma ero quasi certo che quel Nathan non rientrasse nelle amicizie di Ashton, almeno da prima della mattina precedente.

Evidentemente avevano trovato una passione in comune, qualcosa da condividere, perché altrimenti non mi spiegavo un simile comportamento. Per un attimo credetti di aver avuto un’illuminazione e cominciai a sospettare che ad Ashton potessero interessare anche i ragazzi, ma dai commenti che gli avevo sentito fare la ritenni subito un’idea fuori dal mondo.

La verità è che ero curioso. Mi sorprese provare un’emozione che, per certi versi, aveva una connotazione positiva. Ero talmente abituato al grigiore della mia vita che vedere quel raggio di sole dopo tutta quella tempesta mi sembrò quasi irreale. Una piccola, minuscola vocina mi gridava che voleva sapere a tutti i costi cosa stavano confabulando quei due, sebbene il resto del coro stesse lanciando insulti e maledizioni a quell’idea così stupida.

Ma diedi retta al mio istinto e uscii.

Come mi videro, si immobilizzarono entrambi, sorpresi dal trovarmi lì. L’unica cosa che si mosse, oltre al vento, fu la nuvola grigia che uscì dalla bocca di Nathan.

Fumava.

«Be’, ti unisci a noi?»

Ashton spezzò quel silenzio surreale, ma io scossi il capo.

«No, grazie. Non fumo.»

Ashton scoppiò a ridere, ma non potei fare a meno di notare il gesto di Nathan, che mise la mano libera come in segno di resa, che sembrava prendermi in giro con un Figuriamoci se fumo!

«Intendevo alla chiacchierata.»

«Oh, con piacere. Avete l’aria di divertirvi molto.»

Avevo accettato davvero volentieri, ma non appena fui incluso nel gruppo mi sentii fuori posto. Nathan e Ashton continuavano a lanciarsi occhiatine d’intesa dalle quali mi sentivo escluso, non riuscendo a capire quale fosse l’argomento che li teneva tanto legati e perché non potevano comunicare a parole, come tutti.

«Mi sono perso qualcosa?»

Ashton cercò aiuto in Nathan, il quale lo guardò interrogativo, poi si grattò la fronte.

«Tipo?»

«Non so, ridete e scherzate come se vi conosceste da una vita.»

Nathan espirò altro fumo, che, per colpa del vento, mi finì proprio addosso, facendomi tossire.

«Sai, tra persone normali può capitare di andare d’accordo e di fare amicizia.»

Avevo ufficialmente voglia di macchiarmi di omicidio, pur di tappargli quella bocca. Non capivo perché ce l’avesse tanto con me, né perché si ostinasse a parlarmi così, e il fatto di non riuscire a comprendere a pieno le sue ragioni mi faceva innervosire.

«Da quand’è che ti prendi tutta questa confidenza

«Da quando lo fai tu.»

Ne avevo incontrati di individui odiosi, nella mia vita, ma questo li batteva tutti, senza ombra di dubbio.

All’improvviso, Ashton esordì dal nulla.

«Va bene, io tolgo il disturbo. Mi sono ricordato di una cosa importante da fare.»

«Ovvero?»

Una leggera sensazione di panico mi assalì. Non poteva realmente lasciarmi in quella situazione!

Cominciai a elaborare strategie per sbarazzarmi di Nathan il prima possibile, ma non mi venne in mente niente che non suonasse come una scusa. Non feci in tempo a pensare a un piano decente, che Ashton se n’era già andato.

E fu così che rimasi solo con Nathan, per la prima volta.

 

Lui continuava a fumare la sua sigaretta, incurante della situazione. Non sembrava per niente imbarazzato, né tantomeno irritato. Cominciai a pensare di aver immaginato tutto e di aver preso la questione troppo sul personale, finché, all’improvviso, mi porse la sigaretta.

«Vuoi fare un tiro?»

Sbuffai.

«Ti ho già detto che non fumo.»

Portò la sigaretta tra le labbra e la strinse con una lieve pressione, che la fece bruciare appena. Poco dopo, dalle narici e dalla bocca uscì il solito fumo grigio, che sembrò accarezzargli le labbra, prima di volare via.

«Ah, pensavo fosse solo una scusa, prima. Come non detto

Né io né Oliver avevamo mai sfiorato una sigaretta: lui per il suo innato istinto di salutista, io perché volevo essere uno studente modello. E, ai tempi della scuola, non c’era stato niente di più gratificante del poter guardare i miei compagni dall’alto al basso, perché loro erano diventati schiavi di quei sette centimetri e io no. Certo, era stata una scelta che mi aveva escluso da molte compagnie, ma l’idea di essere apparentemente superiore aveva saziato il mio ego di adolescente abbastanza a lungo per uscire indenne dagli anni peggiori della vita.

Guardando Nathan, però, non provavo superiorità – se non per il basso quoziente intellettivo che sembrava orgoglioso di ostentare.

Ero affascinato.

Mi imposi di abbandonare quei pensieri il prima possibile.

«Non ti hanno detto che fumare fa male?»

«Anche essere dei rompipalle.»

Mi lasciò senza parole, incapace di ribattere.

«Alle scuole superiori ero l’unico della classe a non fumare.»

«Anche io. Uno dei pochi.»

Rimasi sorpreso da quell’affermazione, perché già lo immaginavo come uno di quei ragazzini che fuma per sentirsi parte del gruppo; lui doveva averlo capito, perché si voltò subito verso di me, con un’espressione soddisfatta sul viso, che non sembrava la solita, arrogante espressione che mi aveva mostrato per tutto quel tempo.

«Mi dispiace deluderti, ma fumo da molto meno tempo di quello che pensi. E soprattutto, non per il motivo che credi tu.»

«Ah sì?»

Portò nuovamente la sigaretta alla bocca e, ancora una volta, rimasi imbambolato. Il modo in cui le sue labbra abbracciavano il filtro mi ipnotizzava e scatenava in me una reazione inconsulta, quasi una sorta di eccitazione.

Lui si girò verso di me, che ancora lo fissavo, costringendomi a spostare lo sguardo con uno scatto così repentino da non poter passare inosservato.

«Sicuro?»

Mi porse di nuovo la sigaretta, ma rifiutai fermamente, perché non c’era niente che mi attraesse in quell’ammasso di tabacco.

No, era il modo in cui aspirava il fumo che mi incantava senza un motivo, era quella sequenza di gesti che mi ammutoliva e affascinava come poche altre cose al mondo.

Sperai, dentro di me, che lo facesse ancora.

«Comunque, ho cominciato tre anni fa, dopo i diciott’anni. Era un brutto periodo.»

Quel sorriso che sembrava non abbandonarlo mai scomparve improvvisamente, lasciando spazio a un’emozione che il suo volto tradì senza troppa esitazione. C’era qualcosa di non detto dietro quella frase, qualcosa che mi lasciò supporre che, forse, quell’espressione che sempre metteva su era una sorta di maschera, una protezione contro il brutto periodo che, per qualche motivo, l’aveva segnato.

Mi si avvicinò all’improvviso, tanto che riuscivo a sentire quel terribile odore di fumo uscire dalla sua bocca.

«Sicuro che non ne vuoi? Mi sembri piuttosto interessato. O forse sei interessato a me?»

«Non sono interessato a nessuno dei due.»

«Oh. Che peccato.»

Ancora una volta la sigaretta bruciò dentro i suoi polmoni e già ero pronto nuovamente per quella sensazione di inaspettato piacere; ma il fumo, invece che inquinare l’aria circostante, inquinò le mie narici e la mia gola, provocandomi una tosse improvvisa.

Me lo aveva buttato addosso di proposito!

Scoppiò a ridere, poi si allontanò, mentre sentivo quell’odore attecchire dentro le narici, rendendomi odioso perfino il respirare.

Nathan aspirò la sigaretta ancora una volta, ma lo fece di fretta, senza quell’eleganza che aveva contraddistinto i tiri precedenti. La gettò a terra e la calpestò rapidamente, poi cancellò definitivamente dal suo viso quell’espressione malinconica che, per un attimo, aveva lasciato intravedere.

«Buttala nel cestino.»

Avvicinò i polsi l’uno all’altro e diede un paio di colpetti.

«Sennò che fai, mi arresti?»

Rise ancora. Era ritornato lo stesso ragazzo che si era presentato in centrale, solo con una sigaretta in meno.

«Vabbè, io scappo. Ah, questo è tuo.» E tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il mio biglietto da visita che gli avevo dato il giorno prima. «Ormai so dove trovarvi, in caso avessi bisogno.»

Me lo porse in fretta e furia, abbozzò un sorriso e scappò via.

Quell’uscita di scena mi sembrò stranamente rapida e fugace, e capii il perché solo quando girai il biglietto.

Mi aveva lasciato il suo numero.

 

Come rientrai nel mio ufficio, notai Ashton seduto sulla sedia davanti alla mia scrivania. Aveva probabilmente atteso con ansia il mio ritorno, assetato com’era di qualche novità sull’incontro appena avvenuto. Io posai il biglietto da visita sul tavolo, poi presi posto alla scrivania, ignorandolo.

«Be’? Allora? Com’è andata?»

«Bene, direi. Non ho ucciso nessuno.»

Avevo ancora, nel naso, l’odore di fumo. Mi inumidii le labbra e mi accorsi che non era solo l’odore a essere sgradevole, ma pure il sapore. Ero imbrattato da capo a piedi da quella puzza insostenibile, eppure il ricordo di quelle labbra che avvolgevano il filtro mi pizzicò ancora il basso ventre, oltre a farmi dimenticare che avevo sempre mal sopportato quell'odore.

Ashton afferrò il biglietto da visita e lo girò quasi senza pensarci. Alzò gli occhi verso di me e mi mostrò le cifre scribacchiate sul retro.

«Ti ha lasciato il suo numero?»

«Così pare.»

L’odore di fumo dalle narici cominciava a scomparire, o forse ero io che ormai ero assuefatto da quell’aria. Insieme a lui, sembrò quasi dissiparsi anche il ricordo di quelle labbra sulla sigaretta, che per certi versi aveva un sapore quasi erotico.

«Perché non andate insieme da qualche parte?»

«Sei matto? Nemmeno per idea.»

Però dovetti ammettere che, se me lo avessero chiesto un quarto d’ora prima, l’idea non l’avrei nemmeno presa lontanamente in considerazione; ma quell’espressione malinconica, che lasciava presagire qualcosa di più di quello che mostrava, e quelle sigarette che senza ombra di dubbio avrebbe fumato mi fecero vacillare per un momento.

Ma rinsavii subito. Tentai di guardare la realtà nel modo più oggettivo possibile e vidi soltanto un ragazzino di ventuno anni, che nemmeno li dimostrava. Ero stato incantato da quel suo vizio, non potevo negarlo, ma per il resto rimaneva privo di qualsiasi interesse. Pensai che forse mi ero illuso, perché tutti si aspettavano qualcosa da me, un passo avanti che non volevo ancora fare, che non volevo fare proprio.

Non avevo mai fumato per non omologarmi al pensiero altrui e invece, per poco, mi ero quasi convinto che voltare pagina fosse una buona idea, non per me, ma per chi mi circondava.

Era troppo presto per rimpiazzare Oliver, per tradirlo, soprattutto per una sigaretta. Mi sentii in colpa per il solo fatto di aver pensato una cosa simile.

Ashton tirò fuori due biglietti dalla tasca dei pantaloni e me li porse.

«Potreste andare a vedere il concerto dei Wit Matrix, quella cover band che va di moda ora.»

«Nemmeno tra un milione di anni.»

Sperai e pregai perché Ashton si rassegnasse. Voleva a tutti i costi combinare un incontro con Nathan, era chiaro, e non ne voleva sapere di un rifiuto. Però, alla fine, sembrò arrendersi.

«Allora ci andiamo io e te, che ne dici?»

Alzai lo sguardo già pronto per un secco ‘no’, ma lui mi guardò con occhi imploranti.

«Dai, non fare storie. O non vuoi uscire nemmeno con me? Guarda che non ti faccio gli occhi dolci, eh.»

Sospirai in cerca della scusa per dirgli di no, quando, dentro di me, pensai che non sarebbe stato così male. Mi avrebbe distratto un po’ e mi avrebbe fatto solo bene. Accettai.

«Quand’è?»

«Tra tre giorni, alle 21. Non vedo l’ora!»

Notai che Ashton trasudava entusiasmo da ogni dove e questo mi rese un po’ più felice di aver accettato il suo invito. Non mi interessava granché la musica in quel periodo, né buttarmi in una gran folla di persone, ma la parte di me che più aveva a cuore la mia esistenza aveva sentenziato il suo verdetto.

Esaltato più del solito, Ashton si avvicinò alla mia scrivania e poi uscì, radioso.

In parte ero stupito dalla mia stessa reazione. Era stata una giornata particolare, quella, non c’era dubbio. Ebbi come l’impressione per un momento di aver fatto un passo verso la normalità, verso la vita che tutti mi dicevano di vivere; eppure al tempo stesso ebbi la sensazione che quel passo mi avesse allontanato un pochino da Oliver.

Ero abituato a pensarlo ogni minuto della giornata, che fosse il pensiero verso lui stesso o verso i sensi di colpa che mi accompagnavano; e invece, per cinque minuti buoni, la mia testa aveva mandato a ripetizione la scena di quelle labbra e del fumo che ne usciva, insieme a quella curiosa reazione che aveva tutta l’aria di un tradimento nei confronti di Oliver. Qualcosa era riuscito, anche se solo per poco, a distrarmi dal pensiero che da otto mesi mi attanagliava giorno e notte, senza tregua.

Il cuore prese a martellarmi e a farmi male, come fosse una penitenza, una punizione che meritavo per aver tradito la memoria di colui che mi aveva amato più della sua stessa vita. Avrei dovuto tornare sulla retta via o i sensi di colpa mi avrebbero dilaniato, lo sapevo. Talvolta avevo la sensazione che mi tenessero in catene, ma al contempo mi facevano sentire al sicuro, perché una nuova vita era un’incognita troppo grande per me, che ancora non mi sentivo pronto ad affrontare ciò che mi aveva riservato.

Tornai alle mie scartoffie e riordinai i fascicoli dei testimoni della rapina. Non appena trovai quello di Nathan, scrutai la foto per qualche secondo, ma me ne vergognai subito. Ancora una volta, mi stavo lasciando ingannare da quello sprazzo di maturità che aveva mostrato.

Ma perché mi interessava tanto?

Riunii i fascicoli in un’unica pila e mi accorsi che il biglietto da visita sulla scrivania era sparito, ma evitai di dare peso a un dettaglio così insignificante.

Col senno di poi, forse, avrei dovuto.



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Angolo autrice: Salve a tutti e complimenti per essere arrivati in fondo a questo capitolo chilometrico! Come avrete notato, qui siamo passati al POV Alan ^^ Vi rassicuro dicendovi che avremo solo questi due POV alternati per capitolo, quindi non dovrebbe venirvi troppo il mal di testa - spero!
Approfitto di queste note per inserire un dettaglio importante: la storia è ambientata nel 2001, più precisamente a fine estate, quindi in prossimità dell'11 settembre. Dato che ho scelto quest'anno solo per coerenza con Naughty Blu e che non me la sentivo di trattare un tema così delicato e importante in una storia tutto sommato leggera, vi chiedo di considerare questa storia come una specie di AU, ambientata in un universo alternativo in cui la tragedia non è mai accaduta.
Grazie a chi ha commentato e a chi ha messo tra le seguite, mi avete resa davvero felice!

Al prossimo giovedì <3
holls

   
 
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