One
day
Kidfic
Cosa devo fare adesso…
Il
capo chino penzolava stancamente incassato tra le spalle e il corpo esile di un
dodicenne incastrato in una scomoda sedia di plastica grigia, ambigua e neutra
come la copertura del cielo di quel giorno d’autunno inoltrato che Kihyun
avrebbe imparato a odiare con tutto se stesso; strattonò con cattiveria una
folta ciocca dei propri capelli castani, rigirandosela tra i polpastrelli con
fare esasperato.
Da quanto stava aspettando in quel maledetto corridoio, da solo?
L’odore di disinfettante misto ad aria ferma stava gravando sulla sua nausea
persistente, portandolo a maledirsi di aver mangiato un paio di ore prima: s’era
ripromesso di non rimettere il contenuto mal digerito dello stomaco
direttamente lì, sul pavimento di quell’ospedale di cui fino a un paio di ore
prima non conosceva altro se non l’ingresso ai padiglioni e il reparto pediatrico,
dove era solito recarsi per semplici controlli di routine.
Solitamente percorreva quei corridoi tutti uguali senza troppi pensieri,
concentrato su cose meno insormontabili, accompagnato dalla famiglia.
Famiglia. Lui e sua madre, e basta. Un nucleo tanto piccolo quanto
fondamentale, il centro del suo mondo, l’unica certezza.
Fino a che la signora Yoo non cedette allo stress e
all’abbandono di un marito che di affidabile non aveva avuto mai nulla.
La presa solida di una mano
sottile perse forza facendo cozzare il cellulare sul pavimento del salotto, un
sonoro toc a mostrare come probabilmente lo schermo dello smartphone s’era
incrinato a fine caduta. Minhyuk non poteva credere a ciò che aveva appena sentito
dal compagno di classe Kihyun, che l’aveva contattato poco prima pronunciando parole
terrorizzanti: aiutami, mia madre è ricoverata in ospedale, non so cosa fare…
Minhyuk, ti prego, aiutami…
Il ragazzino deglutì un paio di volte, ma quel nodo stretto nella gola non
ne voleva sapere di sciogliersi. Perché era stata ricoverata? Poteva
immaginarlo, non era un adulto fatto e finito ma Kihyun gli aveva raccontato
tante cose, forse troppe per poco più di un decennio appena di vita vissuta: le
liti in casa tra i genitori, bicchieri scagliati sul pavimento o contro le mura
bianche di casa, le urla isteriche accompagnate da pianti irrefrenabili, e Kihyun
chiuso in camera a tapparsi inutilmente le orecchie nella speranza di zittire
quella vocina flebile che diceva perché a me, perché non va via… un
giorno quella voce disperata venne accolta da un cenno di magnanimità da parte
di una qualche entità superiore – una qualsiasi – esaudendo una supplica ormai
diventata muta.
E l’uomo sparì, trascinandosi dietro un paio di borsoni pieni di vestiti e
vuoti di dignità.
Il benessere emotivo di Kihyun scemò giorno dopo giorno: veder andarsene una
figura paterna inesistente e negativa fu uno dei motivi di maggior sollievo
solo nei primi giorni, quando chiamò al telefono Minhyuk per esprimere una consapevolezza
troppo grande per lui. Ho paura mamma non possa farcela, non smette di
piangere. Non dovrebbe essere felice? Perché non è felice? Rispondimi, perché
non lo è se lui se n’è andato via, che l’ha sempre trattata di merda…?
Con queste ultime parole a rimbombare nella testa, ricordi di stralci di
conversazioni in loop raccolti negli ultimi due anni, Minhyuk nascose la chioma
chiara sotto al cappuccio della giacca verde per poi correre giù dalle scale e
salutare di fretta la madre, precipitarsi a recuperare la bicicletta e pedalare
fino a perdere il fiato. Incurante delle prime gocce di pioggia gelide sempre
più frenetiche a picchiettargli il capo e il volto, raggiunse il parcheggio del
Pronto Soccorso abbandonando il mezzo nel posto adibito, legandolo alla bene e
meglio e precipitandosi al piano inferiore dell’enorme struttura ospedaliera,
alta e austera, un color cotto ingrigito dal diluvio accompagnato da un
temporale che non avrebbe avuto pietà dei bronchi di Minhyuk.
Dove cazzo si trova?
Si fermò dando tregua ai polmoni sfiancati, riparandosi sotto a una tettoia: il
suono del traffico era attutito dallo scrosciare prepotente sui tetti degli
innumerevoli padiglioni, tutti uguali e sparsi in un apparente caos a cui il
ragazzino non riusciva a dare ordine. Impossibile trovare a colpo d’occhio
quello giusto, non fosse stato per due infermieri in pausa che si erano offerti
gentilmente di accompagnarlo al primo snodo, dove si stagliavano chiare su un
cartellone le istruzioni per il raggiungimento del Centro di Salute Mentale.
Kihyun ringraziò il dottore di mezz’età che gli aveva dedicato il giusto tempo
e con cui aveva speso un buon quarto d’ora di conversazione quasi a senso unico.
La situazione era abbastanza chiara, sufficientemente comprensibile anche a un
semplice dodicenne: la madre aveva avuto un esaurimento causato da forte
stress, aveva ceduto dopo mesi di lotta interna con se stessa, si era lasciata
andare abbassando le barriere e lasciandosi travolgere da tutto il dolore che
un marito disgraziato, insapore e incapace di amare le aveva cucito addosso in
una convivenza forzata e tinta di rabbia e frustrazione.
Era caduta sotto al peso di un errore, innumerevoli errori, e Kihyun da solo
non era stato in grado di aiutarla a rialzarsi. Lui aveva paura, ne aveva sempre
avuta. Di suo padre, della situazione in cui viveva…
Di se stesso, e di ciò che non poteva fare.
Questo non lo aveva raccontato a Minhyuk, ma quest’ultimo era abbastanza sensibile
da esser riuscito a coglierlo negli innumerevoli messaggi, nelle nottate in videochat,
nelle lunghe chiamate con grida di sottofondo e vociare grondante esasperazione.
Avrebbe dovuto impegnarsi, si ripromise, impegnarsi ad aiutare una delle uniche
persone che contavano davvero per lui, e che in quel momento era stesa a letto,
sotto farmaci, quieta e avviluppata in un primo, ristoratore sonno senza sogni;
l’altra lo stava raggiungendo a grandi falcate, il giubbotto zuppo, il fiatone
a scuotere il petto umido sotto alla maglia fradicia di pioggia.
Non c’era mai stato bisogno di grandi parole tra i due ragazzini: si erano
sempre capiti al volo, grazie a un rapporto duraturo, una frequentazione assidua,
lo stesso istituto scolastico e innumerevoli merende in compagnia dopo la
scuola. Fin da piccoli Minhyuk e Kihyun avevano condiviso tanto, troppo, e ora
era giunto il momento per il secondo di responsabilizzarsi ancor di più; Minhyuk
sapeva che un onere simile non sarebbe stato facile da gestire per chi era poco
più che un bambino, occuparsi di una persona instabile e fragile non era
compito di un ragazzino, non avrebbe mai dovuto essere il suo compito. Avrebbe
fatto di tutto per aiutarlo, lo promise a se stesso nel momento in cui corse ad
abbracciare Kihyun, incurante dei vestiti pesanti d’acqua, dello sforzo, della
gola che bruciava come i polpacci, del disordine e dell’assenza di parole: si
sarebbe fatto carico di parte di quel dovere, lo avrebbe condiviso con lui
supportandolo in ogni modo.
Pianse, senza neppure accorgersene.
Pianse sulla spalla dell’altro, mescolando le lacrime con le gocce che
ricadevano dai capelli biondi.
Sentì i singhiozzi di Kihyun farsi più forti, rapidi.
Raccolse a coppa il volto dell’amico, avvicinò le labbra tremule alla sua
fronte e le posò sulla pelle pallida per lo sforzo e lo sconforto: il calore
che sentì contrastava con il freddo che percorreva ogni vertebra, se ne beò, lo
strinse ancor più a sé e sussurrò a fior di voce ciò che custodiva e che
premeva per uscire.
Ce la faremo, te lo prometto. Tornerai a sorridere, un giorno, e sarò ancora
lì con te.