One
more time and I’ll kill you
Mature
Cazzo…
Il
non avere il controllo su se stesso lo stava portando a un’inutile quanto
pressante esasperazione: le mani tremavano, non era in grado di fermarle
nemmeno impegnandosi, così si arrese e si pulì col dorso dolorante il sangue
che fuoriusciva dal labbro spaccato.
Sputò sul pavimento in un gesto di stizza, mascherando il malessere con un’aria
torva e uno sguardo pronto ad uccidere.
A ucciderlo.
Azzardati a cercarlo ancora una volta, e giuro che ti ammazzo.
Lee Minhyuk non era certo famoso per il carattere equilibrato e l’empatia:
solitamente vagava per le strade grigie di periferia, un po’ per cancellare i
brutti pensieri e un po’ per sfogare la frustrazione che si portava dentro sulle
sigarette e sugli edifici tutti uguali di quella parte affollata della città.
Camminare solo sotto a un cielo tardo autunnale atipico, grigio, quasi lo
specchio di quell’asfalto rovinato che veniva calpestato fin troppe volte,
restava uno dei pochi modi che aveva per staccare la spina dalla vita che si
trascinava dentro e sotto le scarpe.
Anche quella volta aveva litigato con sua madre, maledetto suo padre e mandato
a fare in culo la casa che lo stava soffocando. La pressione da parte dei
genitori – trovati un lavoro, sei solo un approfittatore, ti conviene
portare soldi a casa prima di finire fuori di qui a calci in culo – si
faceva ogni volta più schiacciante, fino a rendere l’inadeguatezza con cui si
era rivestito un’arma capace di ferirlo e farlo esplodere.
Quando si sentiva scoppiare raccattava la propria roba in un borsone da
palestra, correva giù per le scale di un appartamento cupo nonostante le
finestre luminose, si precipitava in strada e prendeva sempre la stessa
identica direzione.
Quella della casa di Kihyun.
Driiiin, drin drin.
Il suono del campanello aveva scosso il silenzio del salone di casa Yoo. Kihyun si scosse dal torpore in cui aveva trovato un
minimo di conforto dopo quella serata decisamente andata storta, si alzò malfermo
sulle gambe rese molli da un pericolo che ormai era uscito dalla porta dell’appartamentino,
tentò in qualche modo di risistemarsi i corti capelli scuri che sapeva essere
in disordine e infilò il maglione azzurro all’interno dei pantaloni blu ancora
sbottonati e stropicciati. Sospirò affranto, e dipinse sul volto pallido il
miglior sorriso possibile, ignorando il dolore allo zigomo sinistro: sapeva già
chi fosse, senza aver bisogno di controllare dallo spioncino della porta. L’ipocrisia
sul suo viso svanì lasciando spazio al più caro dei sorrisi.
Il più grato.
Aveva bisogno di Minhyuk più di ogni altra cosa in quel momento.
Minhyuk non sapeva nascondere nulla di sé: la mancata accettazione di ogni cosa
che fosse andata contro ciò in cui credeva lo irritava in una maniera tale da
portarlo a esternare ciò che lo stava distruggendo, anche solo con un semplice
sguardo. Il colore cupo dei suoi occhi si accese di ira nel momento in cui li
posò sulla figura di Kihyun, stretto in vestiti troppo larghi per poter constatare
di che costituzione fosse, o cosa fosse rimasto della sua figura dopo tanti,
troppi mesi di quelle che Minhyuk avrebbe definito vere e proprie sevizie.
Ancora…
Il ragazzo lasciò cadere sulle piastrelle dell’ingresso il bagaglio leggero
che s’era portato appresso, coprendo la distanza che lo separava dall’amico con
poche, decise falcate. Sapeva di essere impulsivo, glielo leggeva dentro,
eppure Kihyun non fiatò quando venne catturato dalla morsa di quelle dita affusolate
e da due profondi pozzi neri su cui sentiva sarebbe precipitato.
Ancora!
Sì, avrebbe voluto rispondere Kihyun, dal basso di una statura non importante
che lo faceva sembrare molto più giovane dei suoi ventisette anni.
Sì, l’avrebbe urlato forse, ma in quel momento non aveva abbastanza forza per
poterlo fare, la gola ancora dolorante per le suppliche.
Sì. Poteva sussurrarlo? Chissà, non ne avrebbe avuto il coraggio.
Sì, mi ha picchiato ancora.
Minhyuk trattenne il fiato giusto il tempo di evitare di rovesciare il
mobiletto porta televisore che stava affiancando. L’avrebbe volentieri caricato
di peso e scaraventato contro il muro, elettrodomestico compreso.
Oltretutto un pezzo particolarmente costoso, constatò. Nuovo di zecca, un
acquisto recente.
È così che ti chiede scusa, dopo averti messo le mani addosso?!
Evitò di esprimere il proprio commento velenoso, per poi strattonare Kihyun e
stringerlo a sé con possessività, una possessività genuina, profonda, un sentimento
che avrebbe volentieri sbattuto in faccia a quella testa di cazzo dell’attuale
fidanzato dell’amico – che tra l’altro non aveva mai sopportato.
Ti fa male? Non aprì la bocca per pronunciarle quelle parole, bastavano
le sue braccia avvolte a quelle spalle ricurve e alla schiena piegata in un
sussurro di pietà.
Lo accompagnò sul divano, non più vecchio di tre o quattro mesi, un sofà di
pelle chiara perfettamente intonato al resto dell’arredo di classe di un’abitazione
di periferia; dall’esterno non sembrava affatto, ma il bastardo sapeva farsi perdonare
a modo suo, certo.
Ti ha toccato ancora, cazzo…
Senza troppe cerimonie Minhyuk sovrastò l’amico dopo averlo fatto sedere,
sospingendolo verso lo schienale e inginocchiandovisi di fronte, alzando lentamente
tutto quel caldo tessuto che ricopriva la pelle pallida.
Arrossata, graffiata, un ematoma si stava formando sul fianco.
Ti ha picchiato.
Ha osato metterti ancora le mani addosso.
Kihyun non disse nulla, non si nascose.
Pianse in silenzio, riusciva a fare soltanto questo sentendosi una vera nullità
alla mercè di un ragazzo violento e iper possessivo.
Non guardarmi…
Glielo avrebbe detto, se ne avesse avuto la forza.
Viveva passivamente Kihyun, coccolato dalla paura, accarezzato da dita troppo aggressive,
amato da chi non era in grado di farlo se non coi i soldi e la mancanza di un
minimo di umanità.
Scappa, se lo ripeteva così spesso da averne la nausea, ma dove sarebbe potuto
andare? Non poteva tornare dai suoi, non avrebbe mai voluto coinvolgerli in
tutto questo. Anzi, sorrideva durante le chiamate e si proclamava felice.
Certo, in una gabbia.
Felice, mentre una piccola parte di sé veniva strappata ogni singolo giorno, e
lui rimpiccioliva sempre di più sotto a quel tocco pesante come il muro che aveva
sollevato tra sé e chiunque facesse parte della sua sfera affettiva. L’unico
capace di abbattere quella difesa perfetta era stato Minhyuk, incapace di
credere alle lacrime ricacciate indietro, ai lievi tremori di quelle labbra, alle
occhiaie che decoravano un viso stanco e pallido. Minhyuk scavava senza
chiedere, scavava con lo sguardo e trovava da solo risposte che Kihyun stesso
non avrebbe mai dato, troppo stanco per tentare di combattere, incapace di
venirne fuori.
Scappa, glielo aveva detto più di una volta, ma non l’aveva fatto.
Scappa, fallo.
Peccato che lui viveva ancora lì, era la sua casa, il
suo angolo di mondo dove esistere, respirare, tentare di vivere.
Va’ via, adesso.
Quelle tre parole pronunciate da Minhyuk uscirono naturali, accompagnate da una
alzata di spalle; si spostò dal salone alla camera da letto, appallottolando in
un angolo del borsone i propri averi e recuperando la prima biancheria dall’armadio
a muro di quella stanza perfettamente tirata a lucido. Kihyun sgranò gli occhi,
immobile sull’uscio, mentre l’altro raccattava vestiti pesanti lanciandoli sul
letto. Lo vide scavare sull’ultimo ripiano alla ricerca della valigia che aveva
adocchiato a un paio di metri di distanza, strappandola dal suo posto e
riempiendola a sua volta. Stava facendo un po’ tutto alla rinfusa, senza un
senso logico.
Aspetta, avrebbe voluto dirgli. Eppure non lo fermò
nemmeno quando sentì la zip scorrere.
Prendi il portafogli, le medicine, il cellulare, che cazzo ne so. Ce ne
andiamo.
E Kihyun capì che stava facendo sul serio. Minhyuk stava raccogliendo l’attuale
vita del ragazzo in un paio di bagagli soltanto cercando malamente di farci
stare più cose possibile. L’amico si avvicinò, barcollò poggiandosi al comò
accanto alla porta prima di riprendere l’equilibrio: il colpo che aveva
ricevuto alla schiena urlava sulle vertebre e verso le gambe. Sapeva che quel
maledetto mostro che lo stringeva in pugno con un sorriso e uno stipendio considerevole
sarebbe potuto tornare da un momento all’altro, aveva promesso di venire a
trovarlo dopo lavoro e restare con lui per la notte.
A torturarlo ancora una volta, come altre. Molte altre.
Strattonò il braccio di Minhyuk che stava correndo in direzione del bagno per
recuperare i suoi effetti personali, fermandolo giusto il tempo per notare la determinazione
con cui stava organizzando una fuga in piena regola. Forse voleva ringraziarlo,
forse doveva, ma la realtà era un’altra. Aveva una paura fottuta, e il
campanello suonò palesando quella stessa paura portandolo ad annaspare e
accasciarsi sul pavimento lindo di un bagno che aveva visto sangue e
disperazione.
Buonasera bellezza, mi spiace, ma Kihyun stasera è impegnato con me.
Lo sguardo di Minhyuk si spostò su quell’uomo di bell’aspetto, curato,
sorridente, un Adone dal sangue orientale che avrebbe fatto invidia a un
modello. Lo squadrò dal basso all’alto constatando che lo superasse di una
quindicina di centimetri buoni.
Bene ma non benissimo, però si può fare. Minhyuk, per quanto strampalato
e dal carattere non certo docile, detestava due cose: le teste di cazzo e la
violenza. Quel personaggio incarnava il suo doppio odio in un solo colpo. Una
fortuna. La sfortuna era che pesava come minimo un terzo più di lui, in muscoli
naturalmente.
E Minhyuk non era certo famoso per il proprio fisico.
Inspirò costruendosi la miglior faccia da stronzo che potesse dipingersi in
volto e temporeggiò occupando l’uscio con la propria figura, sperando Kihyun
non stesse assistendo a quello che si sarebbe trasformato in uno spettacolo non
proprio appetibile.
Testa di cazzo, ti farò capire quello che si prova.
Assestò un colpo rapido al fianco, caricando il braccio con quanta forza
possedeva, con scarsi risultati.
Il primo colpo allo stomaco lo avvertì con una nitidezza tale da levargli il
fiato, ma rimase in piedi, fermo in posizione: non avrebbe arretrato di un solo
centimetro ma allo stesso tempo non riusciva a riflettere con granché lucidità,
il dolore gli stava già offuscando i pensieri. Era distratto, ma non stupido,
quindi riprese l’ospite indesiderato con un paio di battute di pessimo gusto
sugli omoni palestrati, stupidi e senza spina dorsale.
Il secondo colpo arrivò dritto in volto, e lo sentì il labbro spaccarsi, avvertì
il sangue fuoriuscire. L’aveva colpito, e aveva sorriso nel farlo.
Bastardo.
Kihyun giaceva raggomitolato in un angolo, le mani tremanti a coprirsi
convulsamente le orecchie nel tentativo di estraniarsi da tutto ciò che stava
accadendo. La posizione scomoda accentuava il dolore intenso al corpo, ma non
gli importava.
Voleva sparire, andarsene via.
E per la prima volta, grazie al tentativo sgraziato e goffo di Minhyuk, era
convinto di quella sensazione così pressante da bruciargli nel petto e dentro
le vene, martellando all’interno della scatola cranica senza alcuna tregua.
Minhyuk…
Li sentiva chiaramente urlare nonostante le orecchie coperte.
Minhyuk…!
Si alzò terrorizzato all’idea di vedere il ragazzo ridotto in condizioni
pietose – come le sue, del resto – e trovò il coraggio di muovere le gambe
verso l’uscita.
L’ingresso era ormai vuoto.
Cazzo, Minhyuk!
L’orrore scorreva attraverso i nervi, si scaricava nel dolore pulsante alle
tempie. La paura lo stava ammazzando da dentro, ma corse comunque fuori,
sperando di non dover assistere a una scena che non sarebbe stato in grado di
sopportare. Incespicò sui suoi stessi passi prima di trovare i due, seguendo le
urla. Il parcheggio di fronte a casa sua era vuoto a quell’ora della notte,
soltanto le macchine dei condomini erano presenti. Nessuno in giro.
Il suo carnefice era poggiato contro il cofano della propria automobile,
sensibilmente sofferente: la mascella contratta manifestava dolore, fastidio, e
gli occhi ridotti a due fessure incontrarono le iridi terrorizzate di Kihyun
che si stava avvicinando incredulo. Stava sostenendosi un braccio con l’altro
sano, mormorando una serie di insulti rivolti a chi era stato in grado di
coglierlo di sorpresa tanto da ferirlo.
Era possibile, si disse Kihyun.
Era possibile colpirlo dunque, farlo soffrire.
Non provava nessuna emozione particolare, era assorto in quell’immagine
straordinaria agli occhi di chi aveva subìto tanto, troppo e per un tempo incalcolabile.
Si riscosse da una sorta di torpore paralizzante solo dopo essere stato avvolto
dalle braccia di Minhyuk, ancora sanguinante, pronto a difenderlo con gli
artigli spezzati ma sempre pericolosi.
Ti spezzo anche l’altro, se ti vedo di nuovo. Sappi che mi troverai ad
aspettarti, testa di cazzo.
Minhyuk strinse maggiormente a sé Kihyun, tremando per il freddo e l’adrenalina
che lo stava abbandonando: i muscoli dolevano, il labbro bruciava tremendamente,
la testa pulsava confusa. Il fiatone spezzò un paio di sillabe, ma il messaggio
risultò perfettamente chiaro:
Azzardati a cercarlo ancora una volta, e giuro che ti ammazzo.
Kihyun si accoccolò al corpo caldo di Minhyuk, rigenerato da una doccia doverosa
e una imprecazione sonora nell’essere stato medicato alla bene e meglio dall’amico.
I bagagli giacevano ancora mezzi sfatti per casa, compreso quello misero dell’ospite
che si era impossessato del divano avvicinando a sé l’altro e una coperta in
pile.
Senti, io resto qui qualche giorno, in caso torni quello stronzo. Dubito, ne
avrà per un po’, un qualche mesetto. Non so ancora come cazzo ho fatto, ma non
credo ti infastidirà più.
Non disse altro, anche perché sapeva benissimo che Kihyun stava celando malamente
l’immensa preoccupazione che stava vivendo in quel momento. Il torto era stato
fatto.
Sarebbe tornato.
Tornato ancora.
Tornato di nuovo.
Nonostante le parole di conforto di Minhyuk, non sarebbe riuscito a dormire
bene quella notte, e forse pure quelle a venire, ma avrebbe affrontato nuove
ansie con qualcuno disposto ad ascoltarlo. Minhyuk era strano, lo era sempre
stato: se ne andava e veniva spesso da casa sua senza un apparente motivo, ma
aveva promesso di fermarsi un po’ di più stavolta. Il perché non aveva
importanza, bastava non restare mai solo.
Perché più che la presenza fisica di quel mostro, era l’idea stessa di saperlo
lì fuori a spaventarlo maggiormente.
Minhyuk aprì gli occhi, la televisione trasmetteva un programma innocuo e
disinteressato a un orario assurdo, la notte inoltrata aveva annullato qualsiasi
azione sociale in quell’insolito lussuoso angolo di vita in una apatica periferia
anonima. Si girò verso l’amico profondamente addormentato, accucciato accanto a
lui.
Sembrava così indifeso.
Doveva averne passate tante, troppe, e lui purtroppo lo sapeva perché era stato
suo confidente nel bene e nel male – nel male, soprattutto nel male. Avrebbe dovuto
pensare a una probabile denuncia, forse un percorso terapeutico, magari
contattare un professionista sarebbe stato rinvigorente per Kihyun. Le cose da
fare erano tante, ci avrebbe pensato il giorno dopo a mente lucida. In quel
momento contava solamente vedere il petto di Kihyun muoversi a un ritmo lento e
confortante.
Avrebbe dato tutto per quel respiro rilassato. E perché no, per nuovi sorrisi,
per un caffè condiviso appena sveglio, per una cena in compagnia.
Chissà come avrebbe reagito Kihyun nel sentirsi proporre una convivenza provvisoria?