Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: FrancescaPenna    20/10/2021    0 recensioni
Possono cinque ragazzi non ordinari sperare di trovare il loro posto in una società dove l'essenza viene spesso sottomessa all'apparenza, dove le persone rincorrono una perfezione che non esiste per sottrarsi ai pregiudizi?
Casey e Satèle Johns sono due gemelli albini.
Markus Lancaster ama la lettura e odia le persone.
Johnnie Bailey è silenzioso.
Angel Hassler è un maschiaccio.
Cinque ragazzini diversi con cinque vissuti diversi, che si affacciano al contesto delle scuole medie diventando i protagonisti del primo atto di una storia che parla di diversità, accettazione, amicizie e primi amori, ma anche di bullismo, famiglie disfunzionali, autolesionismo e disturbi mentali.
Una storia in cui impareranno a conoscersi per come appaiono agli occhi di tutti, ma anche e soprattutto per come loro stessi si sentono dentro: strani.
Genere: Drammatico, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: De-Aging, Kidfic | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 6 – Casey e Johnnie

 

Johnnie odiava da sempre i pranzi in famiglia e probabilmente non avrebbe mai smesso di farlo, anche se non lo dava a vedere.

“Abbi pazienza, tesoro”, era stata la prima cosa che sua madre gli aveva detto quando era passata a prenderlo da scuola.

Johnnie, di pazienza, ne aveva sempre avuta fin troppa, e forse era questo il motivo per cui non si ribellava mai davanti all’invadenza dei suoi zii e dei suoi nonni.

“Questa uniforme ti dona, sai? Ti fa sembrare più grande”, commentò sua nonna materna. “Ah, mi ricorda di quando i ragazzi andavano a scuola ai miei tempi…”

Iniziò a raccontare un aneddoto che Johnnie non ascoltò, preferiva gustarsi in santa pace la cheesecake al limone che aveva preparato sua madre – che lavorava in pasticceria – sperando che quello strazio finisse al più presto.

“Mi raccomando, giovanotto, studia tanto. Stai avendo bei voti?”, gli chiese suo zio Alan.

Johnnie annuì.

“Bene, che media hai?”

“Andiamo, caro, non lo stressare!”, lo rimproverò sua zia Jasmin, la sorella maggiore di sua madre. “Non ascoltarlo, Johnnie, tuo zio da giovane era un secchione”, rise. “Parliamo di cose più piacevoli: hai già la fidanzatina?”

“Ma sì, sicuramente!”, rispose al suo posto sua nonna paterna. “Questo nipote mio merita una fila di corteggiatrici per quanto è bello!”

“È vero”, concordò zia Jasmin per poi uscirsene con il suo solito commento: “Saresti perfetto, se solo ti facessi aggiustare i denti.”

Johnnie lo detestava, soprattutto perché l’unico “problema” – sempre se si fosse potuto definire tale – che lui aveva ai denti era un accenno di diastema fra i due incisivi centrali superiori.

Anche tu saresti perfetta, se solo ti facessi i fatti tuoi, pensava ogni volta.

Era sempre la stessa storia, lo stesso copione che si ripeteva. A quel punto sua zia diceva che era cresciuto tanto dall’ultima volta che l’aveva visto e da lì seguiva una sfilza di altre insopportabili domande, del tipo quanto sei alto, quanto pesi, perché non provi un nuovo taglio di capelli, perché non inizi a vestirti in modo diverso; insomma le domande che Johnnie odiava di più in assoluto e alle quali, pur volendo, non riusciva neanche a rispondere visto che gli venivano poste a raffica, una dietro l’altra.

“Vacci piano, mamma, dagli almeno il tempo di aprir bocca!”, intervenne stavolta sua cugina Mackenzie.

Insieme a suo nonno paterno – il quale non arrecava il minimo fastidio in quanto la sua attenzione era rivolta perennemente al giornale, che col passare degli anni era diventato quasi un prolungamento del suo braccio –, lei era l’unica persona di famiglia che gli andava a genio, semplicemente perché non s’immischiava nei fatti suoi e non lo costringeva a parlare, a differenza di tutti gli altri. Essendo più grande di lui di tre anni, Kenzie era alle prese con il suo primo fidanzatino e preferiva messaggiare tutto il giorno con lui piuttosto che interagire con il “cuginetto muto”, un appellativo che tutto sommato a Johnnie non dispiaceva.

“Hai ragione, anche se sono certa che tuo cugino non avrebbe risposto comunque”, convenne zia Jasmin, chiedendo poi alla sorella se si fosse mai accorta di quella specie di mutismo selettivo del figlio. “Spero non abbia qualche problema o ritardo,” aggiunse infine.

Jessie lanciò una rapida occhiata a Johnnie per assicurarsi che non si fosse offeso, ma per fortuna il suo giovanotto sapeva essere molto tollerante, soprattutto verso gli accadimenti dell’ultimo periodo. Soprattutto verso il terribile incidente che aveva coinvolto suo padre.

Già non doveva essere facile per lui affrontare quella situazione dai risvolti incerti, non poteva permettere che sua sorella gli mettesse in testa altre paranoie.

Jasmin era fatta così: non era cattiva, semplicemente non sapeva dosare le parole.

“Johnnie non ha alcun problema, semplicemente non gli piace parlare a vanvera. È uno di poche parole, lui, ma tutte quelle che pronuncia hanno sempre un significato profondo, perché le pensa con attenzione. È un ragazzino molto intelligente, anzi, forse anche troppo rispetto a molti suoi coetanei”, rispose Jessie guardando con orgoglio suo figlio, che finalmente abbozzò un sorriso.

“Non lo metto in dubbio”, rispose Jasmin, “l’importante è che non si dimentichi il suono della sua stessa voce”, rise dopo, anche se non c’era nulla di poi così divertente in quella battuta.

A Johnnie, veramente, diede piuttosto fastidio e sapeva che non sarebbe riuscito a fingersi imperturbabile ancora a lungo. Per fortuna, sua madre se ne accorse e lo mandò in cucina a prendere la brocca di limonata che aveva lasciato in frigo.

“Ti accompagno”, decise improvvisamente Kenzie, poggiando il cellulare sul tavolo sotto lo sguardo perplesso di tutti, Johnnie compreso.

Il ragazzo tirò dritto senza commentare né chiedere perché, prese la brocca dal frigo e si accinse a ritornare in sala da pranzo. Fu allora che sua cugina gli chiese scusa.

Per cosa? Le chiese la sola espressione interrogativa di Johnnie.

“Per mia madre, per mio padre, perché so che ti fanno sentire a disagio. Tranquillo, fanno così anche con me, certe volte nemmeno io li sopporto.”

Johnnie emise un verso simile a un risolino e si ricompose senza proferire parola.

Kenzie, però, ricevette un segno da lui: uno schiudersi di labbra.

“Perché non parli, Johnnie? Eppure una ragione dovrebbe esserci. Cos’è che ti frena, cos’è che ti fa pensare che reprimere un tuo pensiero sia la soluzione giusta?”

Johnnie piegò delicatamente la testa di lato, come faceva ogni volta che gli veniva posta quella domanda.

“Tutto questo deve per forza significare qualcosa”, sentenziò Kenzie. “Credi che a nessuno importi, vero? Se parli o meno, intendo. Mi dispiace, Johnnie, mi dispiace sul serio. Dev’essere frustante non avere nessuno con cui confidarsi, specie dopo quello che è successo a zio Jordan… ma il punto è che non ti fa bene tenere tutto dentro solo perché sei convinto di essere circondato da persone a cui non importa niente di te. Non sei solo, Johnnie, hai chi ti vuole bene. Anche se adesso non ci credi, io te lo garantisco lo stesso. Inoltre, penso che dovresti trovarti un amico. Almeno uno. Pensaci su: non c’è proprio nessuno in quel collegio che ti ispira fiducia?”

Johnnie ci pensò su, per davvero, e giunse a conclusione che l’unica persona ad ispirargli un senso di fiducia e – perché no – di amicizia fosse Casey Johns, il ragazzo albino, solo che non conosceva alcun modo per approcciarlo che non implicasse l’uso della voce.

A parer suo esistevano così tanti mezzi per comunicare, proprio non capiva perché molte persone si ostinassero a utilizzare solo quello.

“Allora?”, insistette Kenzie, che era una delle tante. “Perché non parli?”

Di nuovo quella domanda. Voleva una risposta? Bene, Johnnie gliela diede: “Parlare, parlare, parlare… A cosa serve parlare se ormai nessuno più sa ascoltare, se ormai nessuno più si sforza di capire? Assolutamente a niente. Spesso, le persone che tengono la bocca sempre aperta hanno una mente molto chiusa.”

Non ebbe modo di verificare se sua cugina avesse colto il messaggio, non si curò minimamente di osservare che espressione avesse assunto perché riuscì a visualizzarla in anticipo nella propria testa: labbra schiuse, guance lievemente arrossate, sopracciglia sollevate.

Stavolta fu lei a tacere e Johnnie pensò che non sarebbe potuta andare diversamente.

 

Casey non ce la faceva più, era stremato. Lavare i pavimenti di tutte le aule del piano era snervante, specie se fatto per due giorni consecutivi.

“Uff!”, sbuffò mentre strizzò il panno per l’ennesima volta. Rovesciando il secchio, udì il rumore di un oggetto metallico che cadde a terra e non ci impiegò molto a capire che si trattasse del suo portafortuna: un portachiavi a forma di chitarra in miniatura, una Gibson SG Special, come quella che suonava lui.

Mise da parte lo spazzolone e il secchio e si chinò per raccoglierlo, ma era già finito in altre mani.

Casey non si era neanche lontanamente accorto che il ragazzo dai capelli corvini si trovasse lì con lui e che fino a poco prima stesse spolverando la cattedra.

Non fece in tempo a chiedersi come facesse quel tipo a essere così silenzioso persino nelle azioni che subito gli venne spontaneo indicarlo.

“Tu!”, esclamò con un tono di voce che, accompagnato da un indice a un palmo dal viso, dovette suonare un po' ostile alle orecchie del ragazzo, che arretrò sconcertato, rigirandosi il portachiavi tra le mani. “I tuoi capelli… sì, li riconoscerei ovunque!”, aggiunse dopo averli osservati con attenzione, stavolta con un tono più calmo. “Io e te siamo in classe insieme. Tu sei quello che…”

“Ha rotto l’orologio di Russell? Sissignore!”, lo precedette il corvino, elargendo un sorriso.

Casey, allora, si protese in avanti per riprendersi il portachiavi, invece fu il ragazzo a riporglielo nelle mani.

“Non preoccuparti di ciò che perdi”, gli disse, “preoccupati piuttosto delle mani in cui finisce. Le mie sono sicure. Bel portachiavi, Casey.”

Casey indugiò prima di rispondere: “Ti ringrazio...”

Non ricordava proprio il suo nome e pensava che se l’avesse chiamato Bailey, per cognome, avrebbe fatto ugualmente una brutta figura, perciò lasciò la frase in sospeso.

“Johnnie”, terminò l’altro al suo posto. “Johnnie Bailey.”

Casey gli strinse la mano con riluttanza, non sapeva cosa aggiungere se non: “Finalmente so come ti chiami.”

“Non ricordavi davvero?”

“È difficile ricordare il nome di uno che non parla e non si fa parlare.”

“Hai ragione”, ammise Johnnie, fingendo di ritornare a spolverare la cattedra mentre Casey finse di ritornare a lavare il pavimento, sebbene entrambi avessero già finito di svolgere le mansioni che gli erano state assegnate.

Mantennero il silenzio per qualche minuto, poi Johnnie iniziò a guardare Casey di sottecchi e attese che lui lo notasse per chiedergli: “Hai impegni adesso?”

“No. E tu?”

“No.”

“Quindi… cosa possiamo fare?”                                         

“Amicizia”, rispose risolutamente Johnnie. Depose il flacone di detersivo e lo strofinaccio e si sedette a terra a gambe incrociate, la schiena contro la parete, esortando Casey ad avvicinarglisi con un gesto della mano. “Perfetto”, disse quando l’altro ebbe preso posto. “Parla, sono tutt’orecchi.”

“Ma non so cosa dire.” Non ottenne alcuna risposta, pertanto decise di focalizzarsi nuovamente sui suoi capelli, commentando: “Mi piacciono.”

“Grazie. Nel caso te lo stessi chiedendo: no, non sono tinti. Mia madre dice che il loro colore è dipeso da una specie di mutazione genetica che c’è nella mia famiglia, infatti anche una mia bisnonna li aveva così”, spiegò Johnnie. “E comunque anche i tuoi sono molto belli”, aggiunse, spettinandogli un po' il ciuffo.

Casey si sentì quasi commosso: nessuno gli aveva mai fatto i complimenti per il suo colore di capelli. Tutte le persone che in passato lo avevano definito un bel bambino, di lui avevano apprezzato sempre e solo il viso, mai il colore o quantomeno il taglio dei capelli. Il primo a scagliarsi contro il suo ciuffo scalato era suo padre, che spesso gli ordinava di tagliarlo sostenendo che gli conferisse un aspetto “da frocio”, come se sapesse quali fossero le capigliature più in voga fra gli omosessuali, ma Casey continuava a portarlo con orgoglio.

“Grazie, sei gentile.”

“Sono sincero”, rettificò Johnnie. “Sono particolari, e a me le cose particolari piacciono.”

Casey sorrise. Era stato l’istinto a dirgli che quel ragazzino era diverso da tutti gli altri, così falsi e manipolatori, e seguirlo si era rivelata la scelta giusta.

Il modo in cui aveva rotto l’orologio di Russell solo per difenderlo dalle sue prevaricazioni e quel complimento sui capelli bastavano a dimostrargli che l’immagine di Johnnie che aveva elaborato nella propria testa coincidesse perfettamente con la realtà, tuttavia voleva scoprire di più su di lui, voleva scoprire quale motivo ci fosse alla base del suo silenzio.

“Vorrei farti un’altra domanda”, disse.

“Puoi chiedermi ciò che vuoi”, rispose Johnnie.

“Perché non parli? Sono quasi certo di essere il primo a cui rivolgi la parola, qui.”

“Perché dovrei farlo?”, eluse la domanda Johnnie. “Le parole non sono l’unico mezzo per comunicare, Casey. Se hai un pensiero, alla gente arriverà anche se non aprirai bocca, perché ci sono tanti altri modi per esternarlo. Con uno sguardo puoi farlo, con il silenzio altrettanto. Tacendo, fai automaticamente tacere tutti quelli che ti puntano il dito contro. È degnandoli della tua più totale indifferenza che gli farai capire che essere diverso da loro ti rende superiore e fiero. Vedi? Non serve parlare.”

Casey annotò mentalmente quel suo piccolo monologo e decise che avrebbe riflettuto su.

Quel ragazzino taciturno e apparentemente imperturbabile era in realtà molto saggio e profondo.

“Capito”, convenne, “anche se io penso che tu abbia molto da offrire a parole. Servendoti esclusivamente di silenzio e sguardi rischi di più di essere frainteso, perché entrambi possono essere interpretati in più modi diversi da chi hai intorno, mentre se esprimi il tuo pensiero a parole no.”

“Anche le parole possono essere fraintese”, obiettò Johnnie.

Casey alzò le mani. “Okay, è vero, ma così è difficile farti capire dalle persone.”

“Non m’interessa farmi capire dalle persone. M’interessa capire loro.” Il corvino volse il capo altrove. “Sai, ho un metodo per riuscirci”, ricominciò. “Lo chiamo metodo in tre mosse.”

“Metodo in tre mosse?”, ripeté Casey.

Johnnie annuì. “La prima consiste nell’osservare tutti; la seconda, invece, la chiamo selezione, perché mi aiuta a distinguere fra tante persone quella che mi colpisce particolarmente; l’ultima è lo studio dei suoi comportamenti”, spiegò all’altro che intanto lo guardava ammirato. “È così che mi sono convinto ad avvicinarmi a te. Forse non te ne sei mai accorto, ma io non ti ho mai perso di vista, ti ho studiato con cura. Ho capito che io e te siamo molto simili. Ho capito che io e te siamo destinati a diventare ottimi amici.”

E fu così che, quando Johnnie ruotò nuovamente la testa verso di lui, gli occhi di Casey brillarono come non accadeva ormai da tempo.

Il suo nuovo amico disse che amava osservare i tramonti, perciò lo prese per mano e insieme si diressero verso la finestra per assistere al momento in cui il sole spariva sotto l’orizzonte.

Le sfumature di rosso che campivano il cielo risvegliarono nei due ragazzi il desiderio di uscire da quelle mura in cui si sentivano ogni giorno oppressi da ordini e rimproveri per poter riavere la loro libertà, la loro vita, che pure se non era perfetta era comunque migliore di quella che erano costretti a vivere all’Hamilton.

Fu subito sera e la luna piano piano divenne trasparente, osservando il suo bagliore una lacrima salata bagnò la guancia di Casey mentre Johnnie con la sua mano gliel’asciugò dolcemente, sussurrandogli: “Va tutto bene.”

Casey scosse la testa e gli diede le spalle, non voleva assolutamente farsi vedere in quello stato, non voleva la compassione di Johnnie, non voleva la compassione di nessuno. Avrebbe preferito piuttosto sprofondare, sparire dalla faccia della terra per poter piangere a dirotto per tutto il tempo che voleva e riapparire solo dopo essersi calmato, come se nulla fosse successo.

Johnnie, intanto, gli aveva passato un fazzoletto e l’aveva esortato a spiegargli quale fosse il problema. Aveva aspettato pazientemente che lui si asciugasse le lacrime prima di chiedergli di nuovo: “Cosa c’è che non va?”

“Tutto”, rispose Casey dopo varie suppliche da parte del corvino. “Odio stare qui, voglio andare via. Voglio casa mia, voglio la mia stanza, i miei vestiti, mia sorella, il mio gatto e la mia chitarra, perché qui mi è stato tolto tutto e sono loro la ragione per cui sono qui: perché mi odiano!” gridò. Ancora una volta, il dolore aveva offuscato i suoi sensi, trasformandolo in ciò che lui odiava diventare. Eppure, nonostante tutto, Johnnie non cedette, neanche quando Casey provò a svincolarsi dalla sua presa, ma anzi lo accolse tra le proprie braccia e gli fece poggiare la testa sulla propria spalla, rimanendo immobile in quella posizione finché i suoi singhiozzi e i suoi tremori non cessarono.

“Su, non piangere più” gli disse. “Chi sono loro?”

“I miei genitori”, rispose Casey.

“E cosa ti fa pensare che i tuoi genitori ti odino?”

“È così e basta, altrimenti non cercherebbero sempre di correggermi per farmi diventare il “figlio perfetto” che vorrebbero, mi lascerebbero essere chi voglio.”

“E tu chi vorresti essere?”

Casey alzò gli occhi e ci pensò su. “Sai, la mia passione più grande è la musica e suono la chitarra da quando avevo circa sette anni. La mia sorella gemella, invece, canta e quando eravamo molto piccoli dicevamo che un giorno saremmo diventati delle rockstar.” Sorrise, per un attimo gli parve di riascoltare le loro vocine da bambini. “Era il nostro sogno e lo è ancora, infatti speriamo di riuscire prima o poi a trovare anche un bassista e un batterista così da poter fondare addirittura una band. Non riesco a immaginare il mio futuro senza la mia chitarra. Non diventerò mai il nuovo Jimi Hendrix, questo è sicuro, ma non voglio rinunciare al mio sogno. Non posso farlo: la musica è l’unica cosa in cui posso sperare di eccellere, perché sento di non essere bravo in nient’altro. O almeno, in nient’altro che possa andar bene ai miei genitori. Vorrei semplicemente che mi appoggiassero una volta tanto, ma mi rendo conto di chiedere troppo.” Tornò con lo sguardo a Johnnie e gli chiese: “Pensi sia stupido? Il mio sogno, intendo.”

“No, per niente”, negò il corvino. “Anzi, ti dirò di più: io suono proprio il basso, perciò, se vorrai, potrai contare su di me. Ma non solo come bassista.”

“Grazie.”

“E”, proseguì Johnnie, “dato che attualmente sei l’unico di cui mi fido, voglio confessarti un segreto, ma giura che non lo racconterai a nessuno.”

“Giuro!”, garantì Casey, la mano sinistra sul petto.

Johnnie sospirò e si morse il labbro inferiore prima di proferire, non senza provare alcun dispiacere, che suo padre era in coma da qualche mese.

Casey sgranò gli occhi, sperò che stesse scherzando anche se sapeva che non era così; d’altronde che motivo avrebbe avuto Johnnie per mentirgli su una questione così seria?

“Mi dispiace tanto”, disse, “com’è successo?”

“Incidente. Io e mia madre eravamo usciti dal supermercato e lui, che si trovava sul marciapiede di fronte, aveva deciso di attraversare la strada per raggiungerci. Era sera, pioveva, non c’era quasi nessuno in strada, nessuna macchina. Così sembrò a mio padre prima che un pazzo sbucato da un vicolo oltrepassando il limite di velocità lo investisse in pieno. La botta fu forte, lui perse i sensi e mia madre chiamò subito un’ambulanza. In ospedale ci dissero che aveva subìto un trauma cranico abbastanza grave e che era necessario indurgli un coma farmacologico per permettergli di guarire. Altrimenti… altrimenti non avrebbe superato la notte.” Johnnie fece una pausa e tirò su col naso, stavolta fu lui a farsi asciugare le lacrime da Casey, il quale gli ricordò che non era obbligato a terminare il racconto se non se la sentiva.

Ma, adesso che aveva trovato un amico disposto ad ascoltare la sua voce, Johnnie non voleva saperne di tornare al silenzio.

“Adesso sai anche perché sono qui. Dopo l’accaduto, mia madre disse che non avrebbe più potuto occuparsi di me regolarmente, sia a causa del lavoro che della situazione di mio padre, perché sarebbe dovuta passare da lui in ospedale ogni giorno. Vedi, io sono figlio unico e, se mia madre non mi avesse iscritto in questo collegio, sarei rimasto solo a casa dalla mattina alla sera, perché oltre a lei non ho nessuno che possa occuparsi di me. La verità è che non ho un buon rapporto con gli altri parenti, per me è come se non ci fossero e, quando ci sono, sanno solo urtarmi il sistema nervoso. Mia madre, quindi, si è vista costretta a rinchiudermi qui. Ci ha riflettuto a lungo, ha pensato a tutte le opzioni possibili per evitarmi il collegio, ma alla fine questa si è rivelata l’unica soluzione. Mio padre è ancora in condizioni critiche, ma i medici dicono che ci siano buone possibilità che si riprenda e che tutto torni come prima. E io spero tanto sia vero.”

Casey, commosso, gli accarezzò una spalla. “Cosa farai dopo?”

“Be’, mia madre mi ha promesso che, non appena lui si fosse risvegliato, mi avrebbe tirato fuori di qui e avrebbe chiesto il trasferimento in una normale scuola.”

Casey increspò le labbra in un sorriso. “Te lo auguro con tutto il cuore. Un ragazzo così dolce e gentile come te non merita di stare qui.”

“Penso lo stesso di te”, rispose Johnnie. Guardò la finestra, fuori era praticamente notte. “Secondo te che ore si saranno fatte?” chiese, ma prima ancora che Casey potesse azzardare un’ipotesi vennero entrambi storditi dal suono della campanella.

“Ora di cena”, costatò. “Ti siedi con me al tavolo?”

“Sicuro”, accettò Johnnie. “Ti avverto, però, che dovrai farmi assaggiare qualsiasi cosa avrai nel piatto. È vero che sono uno scricciolo, ma sono anche molto goloso.”

“E se non volessi?” domandò Casey con finta contrarietà.

Johnnie fece spallucce. “Pazienza, significa che sgraffignerò ciò che voglio con le mie mani.”

“E va bene”, sospirò Casey, “non mi lasci altra scelta, perciò mi toccherà condividere il mio cibo con te.”

Fece una smorfia e Johnnie ricambiò con un’altra. Venne a entrambi da ridere, ma si riguardarono bene dal farlo per non attirare sguardi indiscreti. Attraversarono il corridoio camminando fianco a fianco e scambiandosi di tanto in tanto qualche sguardo furtivo con la stessa complicità che s’instaura sempre in un rapporto di amicizia destinato a durare.

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: FrancescaPenna