Night Train
Express
Wake up late honey put your clothes
Take your credit card to the liquor store
That’s one for you and two for me tonight
I’ll be
Loaded like a freight train
Fryin’ like a space brain
One more tonight
Guns N’ Roses, Nightrain
«Hai freddo?».
Una domanda buttata lì quasi per caso.
«Non saprei, in effetti fa un po’ fresco stasera».
Non v’era stata altra replica perché chi avesse posto il quesito uscisse per
andare a recuperare una coperta.
Una coperta, giusto?
«Ma quelle non sono coperte»
«Non ho mai detto che sarei andato a prendere delle coperte».
Era successo che quella notte a Jotaro, in preda
all’insonnia e alla noia, che messe assieme riuscivano a rendere pericoloso
qualsiasi diciassettenne, era venuta l’idea di procacciarsi dell’alcol in quel di
Abu Dhabi, mentre lui e Kakyoin condividevano la camera di uno degli hotel più
rinomati della città. Ed era anche successo che, per farsi compagnia, era sceso
in reception e aveva preso non una ma ben due bottiglie di Night Train Express tanto
per assicurarsi che il compagno di stanza partecipasse alla sbronza notturna, e
così era stato. Dopo poche e prevedibili remore Kakyoin aveva bevuto il
corrispettivo in canna del primo bicchiere, al quale era sopraggiunto il
secondo, e poi il terzo, e poi il resto, fino a quando Jotaro non aveva
ottenuto la soddisfazione di vederlo in pigiama a ridere per qualsiasi
stronzata si dicessero o notassero. Certo era che se Polnareff lo avesse visto
in quello stato non ci avrebbe pensato due volte a prenderlo in giro finché
fosse campato, quindi, in mezzo all’obnubilamento nel quale stava facendo
annegare i neuroni, aveva deciso saggiamente di non macchiargli la reputazione godendosi
da solo – e in segreto – le sue spettacolari quanto idiote affermazioni da
adolescente quasi astemio. Per quanto riguardava il post ubriacata, ci avrebbe
pensato del paracetamolo provvidenzialmente conservato in valigia a risolvere
l’impaccio, e tutti sarebbero stati felici e contenti, fegati a parte.
«Io… adesso… no aspetta!» Kakyoin si sventolava il volto con una mano, mentre
con l’altra reggeva il collo della bottiglia del vino più scadente che avesse
mai bevuto, impresa non da poco visto che quel pazzo di Jotaro gliene aveva
fatto tracannare metà «Tu adesso mi spieghi che ci fa questa brodaglia in un
albergo cinque stelle di Abu Dhabi».
Jotaro, da seduto, aveva finito per sdraiarsi di traverso sul letto di Kakyoin
dopo aver abbandonato la giacca su una poltrona e adesso guardava il coetaneo
con gli occhi lucidi per gli effetti dell’etanolo. Si puntellò sui gomiti e,
afferrata la sua bottiglia, mandò giù un generoso sorso di alcol.
«Forse piace agli americani che di vino non capiscono un cazzo… O forse
vogliono attentare alla nostra vita perché non siamo musulmani»
«Quindi per noi niente settantadue vergini…!» disse Kakyoin facendosi il
calcolo con le dita.
«Ma che te ne fai di settantadue vergini?» chiese Jotaro guardandolo male.
«Non vuoi le settantadue vergini?»
«No, cioè, sì, ma sono troppe! Poi ti stressano tutto il tempo… meglio di no,
dai»
«Però sommate assieme farebbero centoquarantaquattro… Centoquarantaquattro,
vero? E dove le metteremmo?»
«Segnatelo su un taccuino, che quando Abdul morirà veramente lo chiederemo a
lui»
«Vero, non ci avevo pensato» Kakyoin porse la mano a Jotaro, che la strinse per
sancire la stipulazione dell’accordo «sei un genio, certe idee brillanti
vengono in mente solo a te».
Jotaro, se possibile, lo guardò con espressione ancora più truce.
«Mi prendi in giro?»
«Io? Prenderti in giro?» Kakyoin prese la sua bottiglia e bevve ancora «Non
potrei – hic! – mai! Sei mio amico. Vero che sei mio amico?».
Lo domandò ridacchiando, forse per nascondere la serietà recondita che aveva
impiegato per pronunciare quelle parole impastate.
«Certo» Jotaro sollevò la bottiglia prima di tracannare altro veleno «gli amici
servono a farti venire le sbornie, non lo sapevi?».
Kakyoin scosse piano la testa e a un tratto smise di sorridere.
«Ti ho concesso l’onore di farmi avere la mia prima sbornia, complimenti»
singhiozzò ancora, ma le pieghe della bocca restavano incurvate verso il basso
«se potessi ti darei una medaglia ma non le ho con me… Devo averle lasciate a
casa… Ah, no, un attimo! Dov’è?» come mosso da una molla invisibile, scattò
carponi sopra il materasso e frugò tra le lenzuola e sotto il cuscino finché
non trovò il tappo di una delle bottiglie «L’ho trovata! Eccola, tieni»
«Onoratissimo» Jotaro chinò il capo per simulare un inchino e infilò il tappo
in tasca «la esibirò alla cerimonia di diploma se sopravvivo»
«Ammesso che ci facciano diplomare, abbiamo un sacco di studio arretrato da
recuperare… Aaah!» Kakyoin nascose il volto dietro la bottiglia «e tu mi aiuterai
con lo studio, vero che lo farai?»
«Fino a ora ero convinto che il secchione fossi tu» Jotaro si mise seduto di
fronte a lui e gli fece perdere l’equilibrio premendogli l’indice teso sulla
fronte «e poi chi ti ha detto che non ce la farai senza di me?»
«Non me l’ha detto nessuno, ma magari sarebbe carino studiare assieme qualche
volta, che dici?» Kakyoin si raddrizzò e, tirando su col naso, si passò una
manica sul collo umido di sudore «Così almeno condivideremo assieme anche
l’angoscia di rischiare la bocciatura»
«Mi sembra una bella prospettiva» disse Jotaro «noi che ci disperiamo e mia
madre che non la smette di ripetere che finalmente ho portato a casa qualcuno
senza prima averlo massacrato di botte»
«Ehi!» Kakyoin gli diede un pugno sul braccio «credevo di essere stato il
primo!»
«Infatti lo sei, e sei anche l’ultimo se ci tieni a saperlo» Jotaro ricambiò il
pugno «non sei mica l’unico a non avere avuto amici finora».
A quella confessione Kakyoin non parlò. A esprimersi per lui fu la testa
piegata di lato e lo sguardo vacuo di chi processa un’informazione confidenziale
coi fumi dell’alcol in circolo. Quando parve svegliarsi dalla trance lo fece
soltanto per bere altro vino.
«Avere uno stand non è il solo motivo per il quale si può restare da soli…
cioè» Jotaro riprese a parlare, o, per meglio dire, a impiastricciare parole,
indicando sé stesso come per evidenziare la propria stazza «anche essere un hāfu
fa abbastanza schifo, la gente ti guarda strano per tutto il tempo»
«Ah… non ci avevo pensato» Kakyoin gli si avvicinò con un colpo di reni «se può
servirti a me non fai schifo» aggiunse, prima di sussultare con un altro
singhiozzo.
Le abat-jour sui comodini erano spente e l’unica fonte di luce proveniva dai
grattacieli intravedibili dal balcone spalancato, ma anche non fosse stato così
Kakyoin non sarebbe stato in grado di capire se il rossore sul volto di Jotaro
fosse dovuto alla sbronza o a quello che gli era appena uscito dalle labbra.
Comunque fosse non fece capire di sentirsi in imbarazzo per quella
dichiarazione disinteressata ribattendo così:
«Non posso farti schifo perché mi hai dato una medaglia»
«Ti ho dato una medaglia» ripeté Kakyoin che, nel frattempo, aveva dimenticato
di avergli conferito tale onorificenza «e per cosa te l’ho data?»
«Me l’hai data perché… un attimo»
Jotaro assottigliò gli occhi e guardò intensamente
l’altro nel tentativo di ricordare il motivo per il quale avesse
messo in tasca
un tappo «credo avesse a che fare con lo stato pietoso in cui ti
ho ridotto»
«Non dire così, in realtà mi sento bene» Kakyoin non riuscì a trattenere un
sorriso «dico sul serio, sto molto bene adesso»
«Ne riparliamo domani mattina» Jotaro gli sfilò la bottiglia dal grembo e la
agitò per capire quanto vino fosse rimasto «wow, ho fatto un bel casino e te ne
accorgerai tra qualche ora quando ti verrà il mal di testa»
«Sarà un ricordo in più che mi porterò quando torneremo a casa… “ciao mamma,
questo è Jotaro, l’aspirante criminale che mi sta facendo perdere un anno di
scuola, sono sicuro che ti farà piacere conoscerlo”»
«Ma vaffanculo, sei un traditore!» Jotaro gli saltò addosso per avvinghiarlo alla
vita e sollevarlo dal materasso «Se vomiti col cazzo che ti porto al cesso».
Invece di prendersela Kakyoin rise ancora più forte.
«Se continui così ti vomito addosso e col cazzo che ci arrivo, al cesso!».
Jotaro lo lasciò andare e lui cadde di peso sui cuscini facendo sobbalzare le
molle del letto. Quando riuscì a mettersi di nuovo seduto l’aggressore lo
fissava con le braccia conserte simulando un’espressione burbera, e ciò non
sortì altro effetto se non prolungare la risata di Kakyoin.
«Grazie, grazie di cuore perché non ho mai riso così in vita mia!»
«Ah, no?»
«Lo giuro… oh» Kakyoin si tenne la testa con entrambe le mani «mi gira la
stanza, ed è tutta colpa tua».
Jotaro inarcò un sopracciglio.
«Poco fa non dicevi di sentirti bene?»
«Mi sento ancora bene, ma mi gira pur sempre la stanza. Le due affermazioni non
vanno in contraddizione» Kakyoin lasciò andare la testa e guardò colui che gli
occupava il letto sfatto, mentre quello sul quale avrebbe dovuto dormire
rimaneva immacolato «Jotaro?»
«Eh?»
«Ce ne saranno altri di momenti così?»
«Sì… non lo so. Dipende da quanto impari a reggere l’alcol»
«Non parlo del vino orribile che abbiamo bevuto, mi riferisco a noi che
facciamo i cretini come delle persone normali»
«Con sommo dispiacere di tua madre, credo di sì» Jotaro avvicinò il volto a
quello di Kakyoin e gli annusò il pigiama «puzzi da fare schifo, non so se
sentirmi in colpa o essere fiero del mio operato»
«Visto che anche tu odori di vino del konbini e di tabacco sono in buona
compagnia» invece di allontanarsi, Kakyoin si era avvicinato a sua volta fin
quasi a far sfiorare le punte dei nasi «facciamo che la prossima volta ci
ubriachiamo con qualcosa di meglio».
L’illuminazione notturna che si irradiava fioca nella camera costituiva l’unica
spettatrice di un quadretto che non si sarebbe mai composto se i due
protagonisti non avessero detto arrivederci ai freni inibitori con l’assunzione
di liquido psicotropo; e soprattutto, un Kakyoin sobrio non si sarebbe mai
permesso di stringere la mandibola di Jotaro e di salirgli a cavalcioni, così
come un Jotaro sobrio non avrebbe mai permesso a nessuno di farsi fare una cosa
del genere, e infatti l’unica cosa che fece fu biascicare un «Ma che…?»
arrochito e appena udibile.
Kakyoin aveva smesso di parlare. Jotaro lo guardava con gli occhi sbarrati e le
orecchie tese ad ascoltare il suo respiro pesante che a ogni rilassamento del
torace rilasciava una scia odorosa di vino. Intontito com’era e troppo sorpreso
dalla situazione per poter reagire, lasciò che gli incisivi di Kakyoin
affondassero nel labbro inferiore e che le ginocchia si serrassero attorno al
bacino. Non oppose resistenza nemmeno quando i denti mollarono la presa e avvertì
il posarsi morbido e umido delle labbra sulle sue, un contatto dal penetrante
sapore dolciastro che si fece più insistente con il primo guizzo della lingua in
bocca.
Né chi aveva iniziato né il ricevente ebbero preoccupazione di domandarsi cosa
stesse accadendo, semplicemente stava accadendo e basta, e d’altronde proprio
quello era l’evento meno assurdo al quale fossero stati coinvolti, per cui
andava bene anche così.
Kakyoin si era sistemato meglio sul ventre di Jotaro e con entrambi i palmi
piantati sulle spalle di lui cercava di spingerlo per farlo sdraiare in
posizione supina. Nonostante l’ebbrezza, però, e pur continuando a ricambiare
il bacio senza risparmiare a sua volta piccoli morsi alle labbra e intrecci
sempre più insistenti con le lingue, Jotaro era intenzionato a disobbedire a
quel comando impartito col corpo: con uno schiocco e un mugolio di voluttà
insoddisfatta si staccò da Kakyoin e tentò di rovesciare la situazione
prendendogli i polsi e facendo leva sulle ginocchia nel tentativo di prendere
il comando della situazione.
Peccato che entrambi avessero fatto i conti senza l’oste.
Avvertendo le intenzioni di Jotaro, Kakyoin aveva digrignato i denti in un
ringhio di disappunto: soffiando come un gatto cercava di rimanere seduto sulle
cosce del coetaneo irrigidendo le braccia per impedirgli di sottometterlo,
mentre l’altro non mollava la presa sui polsi e pur di vincere quella battaglia
si stava aiutando con colpi decisi delle reni. Per tutta risposta e in via
inaspettata, Kakyoin rispose con più fervore piantandogli i denti nel labbro
già arrossato da altri morsi e serrando la mucosa fino a fargli male.
«Stasera siamo aggressivi» sussurrò Jotaro a fior di labbra, mescolando un
sorriso sarcastico a una smorfia di dolore; ignorando il sapore ferroso del suo
stesso sangue gli lasciò stare i polsi e con una discreta quantità di forza gli
afferrò il cavallo dei pantaloni.
«Molto aggressivi» aggiunse, incattivendo lo sguardo mentre stringeva le dita
sull’asta «adesso che vuoi fare?».
A quella provocazione Kakyoin aveva soffiato ancora più forte, ma la mandibola
continuava a serrare dolorosamente il labbro di Jotaro. Arricciò la punta del
naso e dilatò le narici, mentre con la lingua assaggiava quel miscuglio sporco
di sudore, sangue, tabacco e alcol. Come per vendicarsi dello smacco, prima di
lasciare andare Jotaro affondò un’ultima volta il canino nella ferita da lui
inflitta facendolo gemere per il dolore e la sorpresa e poi, in sincrono, si
allontanarono l’uno dall’altro col fiato corto e la realizzazione di quello che
stavano per fare.
Jotaro si portò una mano al labbro, mentre Kakyoin si teneva l’inguine con le
gambe serrate. Per alcuni secondi non si udì altro suono all’infuori dei
respiri che tornavano ad alleggerirsi; poi, tanto per tagliare la tensione che
si era fatta insopportabilmente densa, Jotaro si azzardò a domandare:
«Si può sapere cosa volevi fare?».
Kakyoin lo guardò come se si stesse preparando a spiegare la proprietà
commutativa a un bambino delle elementari.
«No, tu cosa volevi fare» ricambiò insolente.
«Scoparti, magari».
Se fosse stato possibile, a Kakyoin sarebbe caduta la mascella a terra. Jotaro
si ricompose incrociando gambe e braccia all’estremità del letto e,
sistemandosi il cappello che nella foga si era spostato sulle ventitré, capì
finalmente perché non sarebbe stato possibile concludere alcunché.
«Aspetta» Kakyoin deglutì e indicò sia Jotaro che sé stesso, il pigiama
sgualcito, i capelli incollati alla fronte e qualsiasi traccia di malizia e
aggressività negli occhi evaporata come le loro erezioni «tu vuoi stare sopra,
io voglio stare sopra, quindi…»
«Quindi non ci piace essere presi per il culo»
«Quindi non ci piace stare sotto»
«Cristallino»
«Lapalissiano».
Calò di nuovo il silenzio. Durò molto meno rispetto a prima, perché si
guardarono in faccia sfatti, puzzolenti, sudati, appiccicaticci e con l’odore
dell’altro addosso, e proruppero in una risata che valeva più di mille
giustificazioni e scuse.
«Però ahia cazzo, mi hai strizzato le palle!» mentre rideva Kakyoin continuava
a massaggiarsi le parti intime «Non me l’aspettavo!»
«Te la sei cercata, guarda come mi hai ridotto il labbro razza di psicopatico!»
ricusò Jotaro «domani dovrò inventarmi di aver sbattuto contro uno spigolo!»
«Puoi sempre dire la verità eh» lo canzonò Kakyoin.
«Certo, così tanto per restare in tema i perculamenti di mio nonno e di
Polnareff ce li portiamo nella tomba! Ma pensa!».
Lasciando sfogare gli ultimi spasmi delle spalle smisero di ridere. Kakyoin trasse
un sospiro profondo per darsi una calmata e, sceso dal letto un po’
barcollante, prese i due Night Train Express e andò a svuotare nel lavandino
del bagno i loro avanzi. Con la coda dell’occhio lo specchio gli restituì
l’immagine di un ragazzo con il viso arrossato, le pupille dilatate e le labbra
gonfie non per gli strascichi dell’ennesimo scontro ma per qualcosa che si
sarebbe davvero portato nell’oltretomba. Scosse il capo, ancora ignaro del
destino che lo attendeva, e tornò in camera trovando Jotaro in piedi e a torso
nudo.
«Prima di andare a dormire vado a fare una doccia, non mi ci infilo così sotto
le coperte» si affrettò a spiegare per prevenire qualsiasi fraintendimento, che
però non riuscì a frenare il senso dell’umorismo di Kakyoin.
«Possiamo farla assieme se vuoi».
Jotaro gli lanciò la maglietta per soffocare un’altra risata.
«Bakayarou!» gli venne da dire mentre lo superava per andare in bagno.
Giunto alla soglia, tuttavia, si arrestò per voltarsi: Kakyoin si era tolto
l’impaccio di dosso e continuava a ridere, e siccome l’alcol non aveva smesso
di fare il suo dovere, dicendo tra sé e sé che tanto quello che era accaduto lì
dentro sarebbe rimasto lì dentro, tornò sui suoi passi e cinse le spalle di Kakyoin: prima che costui potesse dire o fare qualcosa piegò la testa di lato e
gli stampò un bacio sulla guancia.
Sciolto l’abbraccio si affrettò a occupare il bagno, senza nemmeno dare il
tempo a chi aveva ricevuto quella dimostrazione di tenerezza inaspettata di
commentare il gesto. E non lo avrebbe mai fatto, o almeno non in quella vita:
avrebbe custodito in segreto il privilegio di aver fatto breccia nell’armatura
di quel ragazzo dall’aria impassibile, come Jotaro avrebbe custodito il tappo
della bottiglia che gli era stato donato per scherzo.
***
Sul Night Train Express e altra roba: prendi un vino scadente, dallo in mano a una band esordiente che avrebbe inciso uno degli album più iconici degli anni Ottanta e infine fallo (ri)ascoltare a una fanwriter che si dedica al fanservice su una saga a fumetti in parte ambientata negli anni Ottanta. Il risultato è una storiella dai connotati trash che mai avrei pensato di dare in pasto al pubblico ludibrio se non fosse stato per la moltitudine di fanart a tema Jotakak che si vede in giro, e per la precisione fanart a tema Jotakak in cui Jotaro è il seme e Kakyoin l'uke. Ecco, per me sono entrambi seme e sì, nella mia testa Kakyoin è uno di quelli che ti porta a cena nel ristorante più in della città e poi una volta pagato il conto diventa una tigre.
Headcanon a parte, giusto per dare un'idea temporale della, boh, cosa che ho scritto, ho ambientato l'evento poco prima dell'incontro con lo stand del Sole, quando Abdul viene dato ancora per morto da Polnareff. Se volete sapere come la sottoscritta sia arrivata a partorire questa one shot, potete recuperare le storie precedenti spulciando la mia serie Jojo in Heaven.
Grazie per aver letto, alla prossima.