Anime & Manga > Lupin III
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Autore: Fiore del deserto    25/10/2021    2 recensioni
Lupin e la sua banda si imbattono in un villaggio sperduto della Svizzera chiamato Villaggio Silmes, luogo in cui è custodito il ‘Cuore d’Argento’, storica reliquia che Lupin ha in mente di rubare. Qui, il ladro gentiluomo conosce una ragazza che soffre una situazione di disagio causata dal maschilismo e dalla mentalità prettamente patriarcale dell’ambiente in cui vive. In seguito, Lupin verrà a conoscenza di altre circostanze legate alla reliquia e al villaggio, racchiuse sotto un profilo oscuro e sinistro.
Genere: Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chiunque abbia imparato a conoscere il ladro gentiluomo, sa perfettamente che non si sia mai tirato indietro di fronte ad una sfida. È sufficiente che la sua attenzione venga stimolata da qualcosa che emetta un luccichio, che emani tutta la rarità del proprio valore, oppure – per non far mancare nulla – la sola presenza di una damigella in pericolo perché la situazione prenda il nome di ‘sfida’.
Proprio per questo motivo Jigen teme qualche ‘brillante idea’ del suo amico, pronta a balenargli in testa con una velocità superiore a qualsiasi proiettile. Sta sperando – e, forse, pregando – in tutti i modi perché Lupin intenda unicamente andare via, alzarsi e allontanarsi dalla chiesa, nonostante anche lui ritenga che quanto ha appena assistito sia da ritenere un’ingiustizia. Gli tocca, tuttavia, riconoscere che sia troppo tardi.
Lupin e Jigen escono dalla chiesa non appena la messa giunge al termine e sono i primi ad aver raggiunto l’uscita, in quanto intenzionati fermamente ad evitare qualsiasi forma di contatto con quella gente di poco cuore. Inoltre, finché non comprendono fino in fondo come si svolgano le circostanze del luogo, i due pensano sia saggio non compromettere nessuno, né esprimere nessun giudizio.
Piuttosto difficile quando le loro orecchie riescono a captare i commenti di sussurranti chiacchiericci: uno tra i primi, ‘Che incivili, presentarsi in chiesa con addosso quegli abiti informali...’, è chiaramente riferito al ladro gentiluomo e al suo amico e socio. ‘Lo sapevo che quella ragazza era una poco di buono...’, invece, è dedicato a quella poveretta che era stata gratuitamente umiliata in pubblico. ‘Quell’anima pia della signorina Erika sa come aiutare quella screanzata di Bianca...’ è l’ultimo pettegolezzo che Lupin ritiene più che sufficiente per la propria pazienza e per accettare ulteriormente la ‘sfida’.      
«Ma dico...» si lamenta Lupin, assicuratosi di essere sufficientemente lontano da occhi e orecchie indiscrete, sotto lo sguardo di un ormai rassegnato Jigen «Stiamo scherzando o cosa? Davvero questa gente rimane indifferente di fronte a quella povera creatura?» nonostante non la conosca ancora, il ladro gentiluomo non se la sente di dimostrare disinteresse di fronte a quella povera ragazza che ha subito ingiustamente una simile mortificazione.
«Datti una calmata, Lupin.» bofonchia Jigen «Sempre la stessa storia! Possibile che ogni volta che ci sia di mezzo una donna, tu non capisca più nulla?»
Lupin si lascia scivolare di dosso quel brontolamento, non tanto per il poco interesse nei riguardi della ramanzina di Jigen, quanto al fatto che abbia già in mente qualcosa.
Il pistolero lo lascia sbollire, non intende immischiarsi. Non per il momento. La sua preoccupazione, infatti, ruota al dover iniziare a cercare un luogo dove poter passare la notte.
Tutto considerato, sono entrambi stanchi dato il lungo viaggio ed è meglio trovare al più presto una locando, una pensione o un piccolo alberghetto dove poter prendere alloggio.
Il problema si fa più arduo del previsto, dato che nessuno degli abitanti del Villaggio Silmes sembra voler offrire ai due stranieri un alloggio, ma Lupin incoraggia Jigen a non perdersi d’animo. Davanti a loro, poco oltre la strada di campagna, c’è una grande e bella villetta con un’elegante insegna che richiama la loro attenzione e che lascia comprendere che si tratti di uno chalet adibito a pensione: ‘L’Oasi di Pace’.
«Sei sicuro?» domanda Jigen, chiaramente sconfortato di fronte ai precedenti rifiuti di ospitalità da parte degli altri abitanti.
«Scherzi?» ridacchia beffardamente Lupin «Apparterrà di certo ad un uomo ricco e non gli recheremo alcun disturbo: questo ‘castello’ avrà sicuramente tante stanze.»
Così, si dirigono verso ‘L’Oasi di Pace’ e Lupin bussa discretamente alla porta. Il proprietario, udendo bussare, apre la finestra e non sembra essere lieto di vedere davanti casa sua due stranieri.
«Cosa volete?» domanda grezzamente, come se lo avessero disturbato da un impegno molto importante. È un uomo sulla quarantina d’anni, vestito elegantemente e leggermente in sovrappeso.
«Salve, buonuomo.» saluta gentilmente Lupin «Io e il mio amico abbiamo visto l’insegna e cerchiamo un alloggio per un paio di...»
Il proprietario, infischiandosene delle buone maniere, non lo lascia nemmeno finire di parlare.
«Non posso accogliervi.» dice «Le mie stanze sono tutte piene. Se dovessi ospitare tutti gli stranieri che bussano alla mia porta, perderei la mia clientela e potrei fare l’accattone a mia volta. Cercate di sistemarvi altrove.»
Detto questo, l’uomo sbatacchia le imposte della finestra e pianta in asso Lupin e Jigen.
«Ma che razza di modi sono questi?» gracchia Jigen «Ehi, amico!» il pistolero richiama a gran voce l’uomo, il quale se ne sta chiuso nella sua villetta e continua maleducatamente ad ignorarlo, facendo innervosire maggiormente Jigen e portandolo a lanciargli un malaugurio «Spero che tu abbia un frontale con un tir e che ti sia scaduta il giorno prima l’assicurazione!»
«Andiamo, Jigen.» lo calma Lupin, asserendo che non valga la pena sprecare il fiato.
Sbuffando, gli tocca allontanarsi e ad accontentarsi di trovare un posto adatto dove poter installare la loro tenda – immancabile durante i loro lunghi viaggi – così da potersi accampare.
Addio letti comodi, pensano entrambi, per almeno tutto il tempo della permanenza.
Jigen sta combattendo duramente contro gli attrezzi per sistemare il loro ‘accampamento’ e sta per chiedere a Lupin di dargli una mano, ma non appena si volta... non vede nessuno.
«Ci risiamo...» trattiene a stento delle brutte parole, portandosi una mano sul volto. Gli conviene, comunque, cercare di fare in fretta: le nuvole grigie hanno appena oscurato il sole e due goccioline di pioggia gli hanno appena bagnato il palmo di una mano. Meglio affrettarsi, prima che la pioggia possa sorprenderlo.
 
Percorrendo le vie secondarie del villaggio, Lupin è riuscito a rintracciare il reverendo e le sue due figlie, giungendo alla loro abitazione. La prima cosa che non può sfuggire all’occhio verte la notevole dimensione e cura della costruzione della casa, indubbiamente la più bella e la più ‘maestosa’ di tutte le altre dell’intero villaggio, ‘in barba di chi predica il nome del divino’, come starà pensando Lupin e lo stesso lettore.
La proprietà a due piani del reverendo si accede da un lungo viale sterrato costeggiato in entrambi i lati da piccoli cespugli di rose di diverso colore, ben allineati in modo da rendere gradevole le tonalità che passano da quelle più chiare a quelle più intense.
Tutto intorno alla casa, come per completare un gradevole capolavoro pittorico, si estende il verde giardino con alberi da frutto, composto da peschi e ciliegi, insieme a svariate piante aromatiche.
La costruzione della casa è prettamente in pietra, richiamando apertamente uno stile nordico e rustico, ma senza mancare di eleganza. Le pareti sono rivestite in mattoni ricomposti in pietra verniciata in bianco che sfuma verso il grigio, mentre gli angoli esterni sono ricoperte da una tonalità che richiama una tinta più oscura. 
Il tetto spiovente a due falde è composto da tegole che alternano al rossastro e al grigio, e sulla cima si erge un comignolo con mattoni in vista, con la mitra realizzata con copertura a capanna a falde molto inclinate, sorretta da sostegni verticali in cotto.
Il pianterreno è usato per la zona giorno, mentre il piano superiore per la notte. Per non confondere il lettore, tuttavia, per il momento ritorniamo alle azioni del ladro gentiluomo.
Una volta sicuro di non essere visto da nessuno, Lupin si avvicina ad una finestra che lo porta ad intravedere il salotto. Osserva.
La scena che si ritrova davanti non è quella che si sarebbe mai aspettato. Il reverendo Vogelheron, che purtroppo non è famoso per possedere una voce dal tono basso, sta ferocemente urlando contro quella poveretta che poco prima aveva osato salutare il ladro gentiluomo. Prima di riuscire ad udire bene quanto dica – anzi, quanto ‘ululi’ – e prima di avere il tempo di sentirsi in colpa per quella povera ragazza, Lupin assiste alla mano del reverendo che si alza fin sopra la sua testa, per poi finire ad incontrare violentemente il volto della figlia, così forte da farle sbattere la schiena contro il muro. Lupin inorridisce, sente il colpo e allo stesso modo sente il dolore sulla propria guancia, come se quel ceffone fosse arrivato anche sul suo viso.
«Ti rendi conto della figura che mi hai fatto fare?» esclama il reverendo contro la ragazza «Mi hai deluso, come sempre!»
«M-ma, padre...» balbetta Bianca «Ho solo guardato quei due nuovi signori all’interno della comunità...»
«Stai zitta, se non vuoi peggiorare la tua situazione.» tuona il reverendo, mentre Bianca continua a tremare per la paura e cercare di evitare il suo sguardo.
Purtroppo per lei, il reverendo se ne accorge.
«Guardami in faccia, sciagurata!» le comanda «Come faccio a parlare con te, se continui a fissare il pavimento?»
Nonostante sia spaventata, Bianca è costretta ad obbedirgli e lo guarda negli occhi. Riesce a vederlo a malapena, poiché i suoi occhi castani sono compromessi dalle lacrime e da quanto sta vedendo si accorge che il reverendo stia digrignando i denti.
«Sei un vero disonore.» l’uomo ha le braccia incrociate, la sta fissando e ha il respiro pesante «La maggior parte del tempo, non so nemmeno se sia corretto considerarti una... ‘figlia’.»
Se Lupin è a dir poco sconcertato di fronte a quelle incommentabili parole, Bianca non sembra nutrire lo stesso sentimento. Sembra che non la scalfiscano più di tanto, come se le avesse sentite chissà quante volte al punto da aver come creato intorno a sé una specie di corazza invisibile.
«Provi un sadico piacere nel farmi passare per un padre snaturato di fronte a tutto il villaggio?» continua il reverendo «Adori lasciare intendere che io non sia in grado di darti un’educazione esemplare? Mi fai vergognare del fatto che tu abbia il mio stesso sangue.»
Lupin non si capacita di quanto stia sentendo, non può essere vero che un padre si rivolga in questo modo ad una figlia, soprattutto perché quella poverina non ha fatto niente di male.
Per quale motivo dovrebbe trattarla così, solo perché si è accorto della sua presenza e lo ha semplicemente guardato e offerto un sorriso di cortesia?
Di fronte a tutto questo, Lupin non ha smesso di notare che ci sia anche Erika. Quella stessa Erika che ha accusato pubblicamente Bianca, garantendole l’umiliazione pubblica e una seconda ingiustizia all’interno delle mura domestiche. Non ha mosso nemmeno un dito in difesa della sorella: al contrario, ha osservato e continua ad osservare tutta la scena in silenzio, mal nascondendo la maligna gioia di vedere Bianca soffrire in modo immeritato.
«Chiedo il vostro perdono, padre.» si scusa, infine, Bianca a testa bassa «Vi prometto che non capiterà più una cosa del genere.»
Il reverendo resta per un po’ in silenzio, mentre Erika si acciglia come per dire ‘Ma come? Lo spettacolo è già finito?’.
«Avrai il mio perdono il giorno in cui Dio mi dirà di offrirtelo.» ringhia il reverendo «Resterai chiusa nella tua stanza fino alla fine del digiuno. Uscirai solo per compiere i tuoi doveri.» Bianca sta annuendo a testa bassa, ma il reverendo ha in serbo per lei un’altra brutta sorpresa «Per amplificare la tua penitenza e per permettere che la tua anima possa essere purificata al meglio, da domani ti alzerai un’ora prima dell’alba e svolgerai anche i doveri di Erika al suo posto.» calmatosi dopo aver pronunciato il nome dell’altra ragazza, il reverendo appoggia una mano sulla spalla di Erika «Dovresti esserle grata. È grazie ad Erika se la tua anima lercia potrà avere la possibilità di redimersi dal peccato.» A quelle parole, Erika si gonfia il petto di soddisfazione e increspa le labbra in una smorfia di compiacimento e superiorità, con tanto di lieve sbuffo di acida approvazione.
Bianca annuisce, trattenendo a stento un sospiro per trattenere eventuali lacrime. Sempre a testa bassa, sale le scale e si dirige verso la propria stanza come le è stato ordinato.
«Sei stato troppo indulgente, papà.» commenta Erika «Avrebbe meritato di peggio.»
«Sono d’accordo.» conferma il reverendo «Ma seguo sempre la volontà di Dio. Andare oltre, equivale ad una disobbedienza.»
Erika sbuffa chiaramente dispiaciuta, ma ritrova il buonumore quando vede avvicinarsi la sua gatta. Ha il pelo lungo e marrone scuro, tendente al nero e perfettamente curato e sempre ben toelettato, gli occhi grandi e verdi, luminosi come gemme, scrutano l’ambiente con fare schizzinoso, mentre la folta coda si agita lentamente. La corporatura grassa e l’andatura pigra denotano che si tratti di una gatta viziata e sempre abituata a ricevere attenzioni. E a chi potrebbe appartenere, se non ad Erika?
Si chiama Elisabeth, ma Erika preferisce chiamarla con uno smielato diminutivo, ‘Elis’. Nonostante possa sembrare una persiana a tutti gli effetti, il muso leggermente appuntito ne tradisce di poco le origini, poiché sembra richiamare delle radici un po’ meticce. Tuttavia, Erika ha sempre asserito che si tratti di una persiana di razza purissima York Chocolate, ‘la quintessenza delle più pure razze felini’, come ama definire Erika. Per lei, Elis è molto di più di una semplice gatta: la tratta, infatti, come una figlia da dovere viziare e coccolare sopra ogni cosa, adorarla come se fosse la sua bambina e di questo Elis se n’è ‘accorta’. Non passa giorno, infatti, in cui il suo ego non venga enfatizzato in maniera sempre più snaturata ed esagerata: si aggira sempre per le stanze della casa come una principessa, snobbando qualsiasi estraneo e chiunque non sia alla portata delle grazie di Erika. Tra questi, vi è anche Bianca. Erika, per non essere da meno, aveva insegnato ad Elis come e quando disprezzare quella poveretta, permettendole di soffiarle contro o, addirittura, di dedicarle un bel graffio. Guai a Bianca se osava anche solo alzare la voce contro quella pomposa gatta, perché Erika gliel’avrebbe fatta pagare molto salata.
Elis, diceva sempre il reverendo, è un dono aveva fatto ad Erika con tanto amore per cercare di colmare il suo dolore dopo la perdita della madre e rimproverava sempre aspramente Bianca per la sua insensibilità ed egoismo a riguardo, oltre alla sua incurabile incapacità di comprendere la situazione. Con questa scusa triviale, Elis era diventata pressocché intoccabile.
«Elis, amore della mamma.» Erika prende la gatta in braccio, mangiandola di baci e chiede il consenso del reverendo per tornare nella propria stanza.
Con un cenno del capo dell’uomo, Erika si ritira nella sua camera, seguita dal miagolio di Elis.
 
Il cuscino di Bianca è inondato dalle lacrime di lei. La poverina non sa definire se quanto accaduto sia corretto o no, sta di fatto che tutto è delineato dalla volontà di Dio e che il reverendo stia solo cercando di mettere in atto la Sua parola.
Bianca lancia un lieve sguardo verso una fotografia adagiata sul suo comodino e un’altra lacrima le solca il viso quando incontra la figura che ritrae la sua defunta madre.
Per il momento, chiediamo al lettore di fare un piccolo passo indietro e lo invitiamo a soffermarsi su un dettaglio che – se è stato attento – avrà notato in precedenza. Se Bianca è obbligata a dare al reverendo del ‘voi’, come per mantenere una fredda e vincolata distanza, lo stesso non si può dire per Erika. Quest’ultima, non solo gli dà del ‘tu’, ma lo chiama addirittura ‘papà’, al contrario di Bianca che, a sua volta, si rivolge a lui chiamandolo ‘padre’, confermando pienamente la distanza accennata poco prima. Una distanza imposta dallo stesso reverendo.
Eppure, la situazione che il lettore immagina, non è affatto come sembra. Al contrario di quanto si possa pensare, Bianca è la figlia naturale del reverendo, al contrario di Erika.
L’assurdità della circostanza e il bizzarro modo del reverendo di creare dei favoritismi tra le due ragazze, è collegato dalle madri di ognuna di loro.
La madre di Bianca era splendida, la donna più amata e rispettata di tutto il villaggio, conosciuta per il suo buon cuore e per la sua incondizionata generosità. Angelina Kasten, questo il suo nome, era solita ad aggirarsi per il villaggio per portare da mangiare a chiunque, a volte offriva anche del latte fresco e non disdegnava a fare da doposcuola agli scolari che avessero delle lacune.
Una volta deceduta a causa di un’inguaribile malattia, lo stesso reverendo non aveva perduto tempo a sostituirla con un’altra donna che potesse rimpiazzare colei che ‘lo aveva abbandonato contro la volontà di Dio’, come era solito definire l’uomo con cinismo.  
La seconda moglie si chiamava Tanja Neid, vedova da poco tempo anche lei e con Erika a carico. Sin dal principio, Erika aveva lottato con tutte le sue forze per mantenere il cognome della madre e il reverendo – istigato dalla seconda moglie – non aveva fiatato.
Al contrario di Angelina, Tanja era una donna molto forte e sapeva perfettamente come farsi rispettare e non le era costata nessuna fatica a creare di Erika la sua copia precisa, fatta e finita.
Estremamente infastidite dalla presenza di Bianca - figlia di una precedente moglie del reverendo – Tanja aveva fiutato il fanatismo del reverendo e l’evidente fragilità di Bianca. Insieme ad Erika, la donna era riuscita poco per volta a manipolare la mente del reverendo, di per sé già discutibile, arrivando a fargli intendere che Bianca fosse perfida e crudele, frutto del cattivo sangue di Angelina e che meritasse un trattamento esemplare. Angelina, diceva, era una donna ribelle e dissoluta e Bianca era la sua ‘eredità’, per questo motivo Dio l’aveva fatta ammalare, per poterla destinare all’Inferno.
Inoltre, Tanja era riuscita a trasmettere al reverendo il concetto dell’innata immoralità di Angelina, di Bianca e di tutte le donne del villaggio – forse, anche dell’intero mondo – e che tutte e donne (esclusa lei ed Erika) fossero prostitute e strumenti del maligno.
A ‘conquistare il cuore’ del reverendo era il fatto che Tanja si autodefinisse una convintissima religiosa e lo dimostrava con le sue testimonianze durante le messe, leggendo anche la Bibbia e soffermandosi in particolar modo nei passi dell’Antico Testamento nei quali si parlava di morte e punizioni divine. In poco tempo, Tanja era riuscita anche ad effettuare un vero e proprio lavaggio del cervello anche al resto degli abitanti, riuscendo a persuaderli sulla crudele natura di Angelina e di Bianca.
Dopo qualche anno, ironia della sorte, anche Tanja era venuta a mancare per cause naturali, ma nel suo caso, dichiarava ossequiosamente il reverendo, era stata la volontà di Dio. A detta dell’uomo, Tanja era la migliore moglie che si potesse desiderare, perfetta e devota, così come Erika.
Per concludere la bizzarria, Tanja non si era dimostrata magnanima nemmeno sul letto di morte: si era fatta giurare solennemente dal reverendo che avrebbe continuato a lodare Erika, offrendole una vita agiata e dignitosa, mentre avrebbe dovuto continuare a ‘punire’ Bianca, obbedendo con costanza alla volontà di Dio.  
  
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