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Autore: _Lightning_    13/11/2021    2 recensioni
Dopo aver lasciato Nevarro, Din Djarin ha ormai poche certezze: è ancora un Mandaloriano, deve trovare il pianeta natale del Bambino, e i compagni sfuggiti al massacro di Gideon sono vivi, da qualche parte nella Galassia. Quest'ultima è più una speranza, e lui non ha idea di come si viva di speranza. Soprattutto quando tutte le altre certezze, quelle che ha sempre custodito tra cuore e beskar, sembrano sgretolarsi con ogni passo che compie.
Non tutti i suoi fantasmi sono marciati via.
Dall'ultimo capitolo: Il Moff lo conosceva – sapeva il suo nome, da dove veniva, chi fosse la sua famiglia.
Anche Din lo conosceva. Ricordava il suo nome sussurrato di elmo in elmo come quello di un demone durante le serate attorno al fuoco della sala comune, l’unica luce che potessero concedersi in quegli anni di persecuzione. Ricordava il Mandaloriano mutilato e con la corazza deforme che narrava singhiozzando della Notte delle Mille Lacrime, quando interi squadroni d’assalto erano stati vaporizzati a Keldabe dalle truppe imperiali.

[The Mandalorian // Missing Moments // Avventura&Azione // Din&Grogu // Post-S1 alternativo]
Genere: Avventura, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Baby Yoda/Il Bambino, Carasynthia Dune, Din Djarin, Jango e Boba Fett, Yoda
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Episodio 5
LA VIA

Parte II



 


“Se stai leggendo questo ololibro, è perché sei stato scelto come Reclutatore con l’incarico di addestrare le nuove leve,
preparare i futuri guerrieri della Ronda per la loro missione, 
e per guidarli in battaglia.
Devi istruire e ispirare i nostri guerrieri, cosicché comprendano la loro eredità 
e siano pronti a sacrificare la vita per la causa.”

– Dal Ba’jurne Kyr’tsad Mando’ad di Tor Vizsla,
il Manifesto della Ronda della Morte


 

Adesso, Nevarro, Rifugio della Tribù, 9 ABY
 

Il Rifugio non era cambiato.

La stessa arenaria friabile rifletteva la fioca luce esterna, donandole un alone rossastro. Lo stesso pavimento di terra battuta accoglieva un sottile strato di polvere, che si avvitava in mulinelli improvvisi a seconda delle correnti d’aria. La stessa eco soffusa accompagnava ogni rumore, amplificandolo attraverso la rete fognaria in disuso assieme al flebile ululato del vento.

Quella fu la prima impressione che ebbe Ruusaan, quando discese nel Rifugio dopo più di vent’anni. Bastarono però pochi passi per capire che non era affatto il luogo che ricordava.

Era ciò di intangibile che era venuto a mancare, a fare la differenza. Non captò immediatamente il miscuglio di odori inconfondibile che di solito permeava ogni ambiente: un misto di falò estinti, ferro e spezie piccanti. Era cambiato anche il timbro del silenzio che lo caratterizzava. 

Non era mai stato rumoroso, quel luogo, ma orecchie attente sapevano cogliere tutto ciò che lo aveva reso casa per un Mandaloriano: il cicalio di armature in movimento e il chiacchiericcio pacato dei guerrieri a riposo, accompagnato dal lontano tintinnio di un martello sull’incudine.

Adesso era rimasto solo il sibilo stantio del vento, che passava pigro attraverso la galleria smuovendo aria che, forse, non aveva mai neanche visto la luce del sole e vagava intrappolata da anni in quel dedalo di cunicoli.

«Bes’buir dovrebbe essere qui.»

La voce bassa di Paz la raggiunse alle spalle, mentre il guerriero la superava con falcate esitanti. La sovrastava anche senza armatura completa, ma camminava leggermente incurvato, come nel timore che il soffitto potesse cedere da un momento all’altro. O, forse, l’assenza dell’elmo lo faceva sentire vulnerabile, spingendolo a muoversi più cautamente di quanto avesse mai fatto in vita sua.

«Il segnale è ancora attivo?» chiese Ruusaan, abbassando di colpo la voce nel vedere dei frammenti di metallo sparpagliati per terra.

Un puntatore da elmo, la giuntura di uno spallaccio, la fondina di un caricatore: i segni del passaggio Imperiale sporcavano ancora quel luogo sacro. Ebbe l’impressione di essere entrata in una cripta.

«Forte e chiaro» replicò Paz, voltandosi verso di lei.

Abbassò gli occhi chiari e sottili sul datapad da polso, e un paio di ciocche bionde troppo lunghe gli ricaddero sulla fronte. Ruusaan non si era ancora abituata a vederlo a volto scoperto.

Gli zigomi alti richiamavano quelli di Pre Vizsla, con una stilla della sua stessa, fredda ferocia; ma il ventaglio di lentiggini che li punteggiava vi aggiungeva un’aria scanzonata in contrasto con quella prima impressione ostile. Sotto il velo di sofferenza, Ruusaan scorgeva ancora il ragazzino chiassoso e dalla risata assordante in perenne competizione con Din.

«L’emettitore è nella Forgia. Può averlo attivato solo la Naur’alor» annunciò Paz, dopo aver osservato per qualche secondo lo schermo.

Ruusaan annuì e riprese ad avanzare, sollevata da quella conferma. Il rischio di ritrovarsi in una trappola era ancora molto alto, ma non più imminente.

Così lasciava sperare quel segnale in didita che veniva trasmesso senza sosta dal Rifugio, comprensibile solo ai Mandaloriani: piccole scariche statiche che seguivano un ritmo e degli intervalli precisi sulla frequenza radio. Nulla più che interferenze a un normale orecchio, ma un vero e proprio codice per un Mandaloriano addestrato a riconoscerlo.

Questa è la Via. Questa è la Via. Questa è la Via.

Il segnale che il Rifugio era sicuro e abitato. Trovarono ulteriore conferma nel teschio di mitosauro in beskar appeso sopra l’ingresso della Forgia. Una decorazione rituale, sacra. Nessun Mandaloriano l’avrebbe mai abbandonata e nessun auretii avrebbe mai perso occasione di impossessarsene.

Attorno alla fucina erano disposti martelli e pinze da fabbro, oltre a saldatori, morse e stampi per armi e armature. In un angolo spiccavano tre cataste di elmi e armature, divisi con zelo in beskar puro, durasteel e leghe miste. La prova definitiva che Bes era viva e sarebbe di certo tornata.

Ruusaan deglutì piano quando realizzò di riconoscere alcuni elmi, sebbene vagamente. Si diresse svelta fuori dalla sala, avvertendo un peso nei piedi.

«In molti sono marciati via, quel giorno» commentò Paz, notando il suo sguardo e seguendola senza tentare di fermarla.

La sua voce risuonò colma di quieto dolore, attentamente arginato per evitare che traboccasse. Parlava pur sempre dei compagni di una vita.

«Non tutti. Ma nessuno è ancora tornato» Ruusaan inclinò un poco l’elmo, a sottolineare la lieve sfumatura interrogativa di quell’affermazione.

Paz non reagì subito, lasciando che il silenzio portasse con sé la risposta. Lei non distolse il visore dai suoi occhi, costringendolo a scansare per primo le pupille, prive della familiare protezione del beskar.

«Posso parlare solo per me stesso e per il vecchio Tal’kyc. E Haarar è morto su Zygerria» nel dirlo, si sfregò d’istinto il collo, dove s’intravedeva ancora il segno nero-violaceo del collare-shock. «Noi tre siamo fuggiti insieme dopo l’assalto di Gideon. Ci hanno catturati nel settore zygerriano e il resto lo sai già da Bo-Katan. Degli altri non so nulla.»

Ruusaan dovette quasi trattenere un sorrisetto, a dispetto della situazione: iniziava a capire come si fosse sentito Fenn, quando aveva tentato di farla parlare su Coruscant, ottenendo nient’altro che giri di parole e depistaggi almeno finché non era stata lei, a concedergli una spiegazione.

«Sono giorni che eviti la mia unica domanda.»

Paz ruotò di scatto il capo verso di lei, un lampo di stizza negli occhi che sfumò repentinamente in ira contenuta.

«Non so dove sia Djarin. So solo che è vivo, probabilmente. Cos’altro vuoi che ti dica, Ba’vodu?»

Ruusaan non capì se quell’appellativo, "zia", fosse inteso in modo sincero o con lieve scherno. Non sapeva nemmeno cosa si aspettasse davvero da lui, in realtà, se non sentirgli ripetere quella stessa, identica frase ogni volta che tentava di approfondire la questione. Avrebbe voluto pressarlo, estorcergli tutto ciò che sapeva... ma si frenò, conscia che Paz stesse ancora venendo a patti con tutto ciò che era accaduto a lui e alla Tribù. Col fatto di aver infranto il suo Credo e di non essere più un Mandaloriano.

Ritirò l’attacco:

«Niente, Paz’ika. È già abbastanza.»

Paz si rilassò all’istante, anche se le scoccò un’ultima occhiata aguzza. Ripresero a camminare verso l’uscita, con un nuovo silenzio a premere loro addosso. Ruusaan quasi lo sentiva ronzare nelle orecchie, attraverso l’elmo.

Din era vivo, probabilmente. Non era una certezza, ma almeno sapeva che era sopravvissuto al massacro di Nevarro, riuscendo addirittura a infliggere una sconfitta a Gideon. Il suo intuito aveva avuto ragione, su quello. Sul resto, però, Paz rifiutava di pronunciarsi.

Din, dipinto dalle poche parole colme d’acredine che era riuscita a estorcergli, sembrava ricalcare in modo inquietante ciò che era stata lei molto tempo prima: isolato, solitario, dedito a un unico compito che gli permetteva di abnegare ogni altro pensiero – la Ronda per lei, il Credo per lui. Poi qualcosa era cambiato, per entrambi.

Per lei, quel cambiamento era stato un bambino con una tunica rossa sul fondo di uno scantinato, che l’aveva presa per mano e portata fuori dall’ombra. Per Din... non sapeva dirlo, né immaginarlo. Forse avrebbe dovuto scoprirlo da lui stesso, nonostante il pensiero di rivederlo la facesse sentire sul ciglio di un precipizio. Perché, probabilmente, Din la odiava. E non poteva dargli torto.

Ruusaan arrestò i propri passi nel corridoio d’ingresso, dove delle piccole alcove ricavate nelle pareti fungevano da sedili; alcuni tavolinetti da gioco erano rovesciati a terra, con le carte da sabacc, le pedine e le scacchiere sparpagliate. Un paio sopravvivevano ancora in piedi, con le loro partite ancora in corso, come se i giocatori avessero semplicemente lasciato in pausa il round.

Su una scacchiera, spiccava ancora intatto uno schieramento di akaan’kajir, gli scacchi mandaloriani. Ruusaan si avvicinò indolente, col solo intento di distogliere un poco la mente dai pensieri che la assillavano.

Pedine grigie e rosse in legno di veshok si fronteggiavano su un complesso campo da gioco ottagonale, con caselle componibili di svariati colori. A terra giacevano le schede coi punteggi dei due giocatori, calpestate durante l’assalto degli Imperiali. 

Il rosso era a un paio di mosse dalla vittoria: la figura di un guerriero armato di lancia era già in linea per l’assalto finale al Mand’alor avversario, e una ingente quantità di pedine grigie era accumulata dal suo lato della scacchiera.

Ruusaan riconobbe i pezzi tradizionali del gioco, con amarezza latente: dubitava che la maggior parte dei Mandaloriani cresciuti nella Tribù avrebbe saputo dare un nome ai personaggi raffigurati. Mand’alor del passato, grandi guerrieri, cacciatori di taglie leggendari, politici... semplici figurine di metallo prive di storia, per le mani di chi le aveva mosse sulla scacchiera.

Una mano guantata entrò nel suo campo visivo, muovendo una pedina grigia in modo quasi casuale – eppure decisivo, troncando l’assalto avversario verso il Mand’alor. Trovò ironico che Paz, ultimo superstite noto del proprio clan, si ritrovasse a muovere proprio Tarre Vizsla: suo antenato, creatore della Darksaber e primo Jedi Mandaloriano.

Ma Paz era ignaro di tutto ciò, cresciuto nel ristretto e recluso mondo della Tribù, dove i Jedi, la Ronda e il resto della Galassia erano favole al pari delle stelle del Ka’ra. La versione tradizionale prevedeva uno scontro tra la fazione dei Mandaloriani e quella dei Jedi, ma dubitava che qualcuno nella Tribù sapesse anche solo cosa fosse una spada laser. 

Ed era così assurdo che un Vizsla non sapesse cosa fosse la Darksaber, per loro orgoglio di innumerevoli generazioni. Quando le aveva raccontato del raid di Gideon, si era limitato a descrivere ingenuamente la sua arma come una "spada di luce buia".

Ruusaan strinse le labbra sotto l’elmo. Bes aveva distrutto un’intera generazione di Mandaloriani, tenendoli all’oscuro delle loro radici o troncandole di netto.

Tornò a fissare i pezzi sulla scacchiera, soffermandosi su due figure al margine estremo. Uno scontro secondario per la conquista di una singola casella apparentemente inutile che, a un occhio più attento, risultava essere la mossa chiave per chiudere la partita. 

Guardò meglio le pedine: Tor Vizsla contro Jaster Mereel – e Mereel avrebbe vinto, quando nella realtà, a Galidraan, aveva lasciato orfano un giovane Jango. C’era un qualcosa di intrinsecamente giusto, in quello scontro, un sapore di amara rivalsa della vittima verso il suo carnefice.

Contrasse i muscoli sotto al beskar. Prima di potersi frenare, urtò la pedina di Tor con la punta dell’indice, facendola precipitare dal campo da gioco sulla pila dei caduti.

«Non avanzi?» commentò Paz, additando Jaster e la casella cruciale ora vuota.

Ruusaan scrollò le spalle, lasciando la pedina vincente dov’era.

«A volte si perde anche con la mossa giusta.»

 

 

Venticinque anni prima, poche ore alla Battaglia di Coruscant,
Livello 3149 di Galactic City

Azi Sten’ka la fissa e, nelle iridi di un azzurro sporco, Ruusaan scorge la morte che già lo avvolge. Kyr’ad, là accanto, ringhia e uggiola nel vedere il suo padrone che viene sconfitto, a un passo da uno dei Pozzi senza fondo di Coruscant. Non interviene; rimane accucciato sul posto, stridendo impotente le zanne verso di lei, la sua nuova alpha. Il gocciolio umido delle fogne si mescola con il tonfo metallico dell’elmo di Azi che cade a terra, rotolando poi oltre il bordo della voragine.

«Quando?» gorgoglia il luogotenente della Ronda, col sangue che gli inonda il mento e la voce che rimane salda, forgiata dall’ira. «Quando l’hai deciso?»

Ruusaan trattiene l’impulso di torcere subito la vibrolama nel suo costato. Lo fa solo dopo aver esalato la risposta, cosicché possa udire quel sussurro carico di fiele che quasi si perde tra le folate del sottosuolo:

«Da quel giorno su Lothal.» Vede il lampo di consapevolezza illuminargli fievolmente gli occhi bigi, mentre la pupilla si contrae per il dolore. «Ma l’hai sempre saputo.»

Estrae di netto la vibrolama, spargendo sangue scuro sul suolo metallico. Azi si affloscia come un sacco vuoto. Basta una spinta del tallone e il corpo precipita nel Pozzo, inghiottito dall’oscurità. Ruusaan si scosta dal bordo, intrappolando un respiro in gola. Le tremano le mani, ma non è paura. È sollievo sporco di sangue.

Un uggiolio la fa sobbalzare, mentre lo strill le si avvicina con la coda tra le gambe. Oltre il velo di sottomissione, nei suoi occhi neri scorge un odio vivo. Ruusaan sfiora il calcio del blaster, per poi ritrarre le dita:

«
Usen’ye» ordina, nello stesso tono ringhiante che usava Azi nel rivolgersi alla bestia.

Lo strill obbedisce all’istante, ritraendosi e sporgendosi poi col muso nel Pozzo, nel punto in cui è scomparso il suo padrone. Ruusaan volta le spalle alla voragine e decolla, col jetpack che la solleva come se non vi fosse il peso del tradimento ad ancorarla a terra.

Dietro di lei, sente solo il latrato straziante di Kyr’ad, un’eco dolente persa nelle viscere di Coruscant.

 




 



Glossario:

akaan’kajir: lett. "tavolo da guerra", gioco mandaloriano di mia invenzione, simile agli scacchi ("dejarik" nell’universo di Star Wars; si vede in Una Nuova Speranza sul Millennium Falcon, giocato da Chewbecca e C3P0)
Ba’vodu: zio o zia.
didita: segnale in codice simile al Morse.
Ka’ra: nei miti mandaloriani, un consiglio dei re caduti del passato, visibili nelle stelle.
Usen’ye: vattene.
veshok: albero nativo di Mandalore


Note dell’Autrice:

Cari Lettori!
Alzi la mano chi voleva qualche chicca sul passato di Ruu *coro di grilli spaziali*
In ogni caso, ecco qualche retroscena leggermente significativo. Volutamente, vi sono ancora delle zone dombra nel mosaico di arrivi-partenze-ritorni di Ruu su Nevarro, ma ci arriveremo presto.

Nel frattempo, non posso che ringraziarvi per aver letto fin qui, e in particolare abbraccio le belle persone che hanno speso delle parole dincoraggiamento per la storia: non nego di averne bisogno, poiché sto attraversando un periodo di bassi che, spero, precede un periodo di alti ♥

Alla prossima, spero prestissimo,

-Light-

 

   
 
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