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Autore: Soul of Paper    14/11/2021    4 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi


Capitolo 66 - Il Peccato Originale


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

Dopo avergli aggiustato meglio la copertina, non riuscì a resistere e sfiorò con un dito la guanciotta del bimbo, che gli sorrise, e con il resto della mano il collo di Imma che era così assurdamente bella, nella sua emozione, che altro che la madonna gli sembrava.

 

Avrebbe tanto voluto baciarla di nuovo, come avrebbe già voluto fare poco prima, all’ingresso.

 

Ma non erano soli e non era né il momento né il luogo adatto.

 

Gli fece un cenno ed un sorriso un po’ malinconico e la vide voltarsi e, piano piano, incamminarsi, sempre con il bimbo in braccio, verso la stanza da letto.

 

La seguì e riemerse dalla stanza segreta giusto in tempo per sentirla dire, rivolta alla signora De Angelis, “se continua a sostenere che sia figlio suo e di suo marito siete morti, letteralmente, e non per colpa nostra ma degli uomini che ci stanno ancora là fuori, oltre al commando di oggi. Collabori, le conviene.”

 

E poi si girò verso Mariani ed ordinò, “Mariani, predisponga subito tutto per la comparazione del DNA tra questo bimbo e Melita.”

 

Gli venne da sorridere, ancora di più quando Imma stessa si bloccò e proclamò verso Irene e Mancini, “scusate… abitudine.”

 

Risero tutti, in un momento liberatorio nel quale, assurdamente, si sentì davvero parte di una squadra, provando gratitudine e rispetto verso tutti, perfino nei confronti del beccamorto.

 

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“Che cosa facciamo con il bambino? Dovrebbe essere affidato ad una struttura apposita ma… potrebbe essere ancora in pericolo e poi… mi sa che da qualcuno non si vuole proprio staccare.”

 

Era stata Irene a parlare, dando il colpo di grazia alla commozione che già provava e dovette abbassare il viso per cercare di nascondere una lacrima, trovando il faccino adorabile di Francesco e, di nuovo, quel sorriso, le manine che le si stringevano di più nel maglione.

 

Aveva provato a lasciarlo a Mariani e ad Irene per poter rientrare in procura, dove stavano in quel momento, ma il bimbo aveva iniziato a piangere ed ululare da far concorrenza a Noemi dei tempi d’oro - e pure un poco a Valentina, anche se sua figlia c’aveva dei polmoni da primato - e quindi alla fine era dovuta tornare in auto, insieme a Mariani e Ranieri. Calogiuri li aveva seguiti in moto.

 

“Per quanto il bambino si sia evidentemente attaccato tantissimo, e letteralmente, alla dottoressa, al momento affidarlo temporaneamente a loro risulterebbe troppo in conflitto di interessi e non possiamo rischiare di compromettere le indagini ed il processo.”

 

Era stato Mancini a parlare, e la guardava in un modo dispiaciuto e che pareva quasi in imbarazzo.


Bloccò con un cenno del capo Calogiuri, che lo vedeva che voleva protestare, ed intervenne con un, “Calogiuri, in questo momento la priorità assoluta è quella di scagionarti. E ci siamo quasi. Ma tenere noi il bimbo di Melita, prima che sia accertata sia la tua non paternità, che soprattutto il fatto che non siete stati amanti e che non l’hai aggredita tu, darebbe adito a troppe speculazioni. Il dottore ha ragione, purtroppo.”

 

Lo vide annuire, rassegnato.

 

“Lo terrei con me ma… temo che con Bianca… non so come la prenderebbe.”

 

“Io vivo in caserma ed ovviamente non mi pare il caso,” intervenne Mariani, dando una piccola carezza ai piedini di Francesco.

 

“Potrei tenerlo io… tanto coi bimbi ho esperienza, fin troppa.”

 

Era stato Ranieri a parlare, a sorpresa.

 

“Ma devi anche lavorare. E che fai? Lo lasci in hotel? Non mi pare sicuro,” ribatté Irene, con un sospiro.

 

“E allora perché non lo tieni tu? Secondo me a Bianca stare con un bimbo così piccolo non farebbe male. E poi hai anche la babysitter, no? Se vuoi ti posso accompagnare a casa, così vediamo come va e, se non funziona, lo riporto con me in hotel, in attesa di una soluzione migliore. Tanto si spera sarà solo per qualche giorno.”

 

Vide Irene sospirare e poi i loro sguardi si incrociarono.

 

Da un lato, non avrebbe mai voluto lasciarle il piccolo, anzi, lasciarlo a chiunque che non fosse Melita qualora si fosse ripresa. Dall’altro, alla fine Irene forse non era la madre dell’anno - non che lei lo fosse mai stata - ma con Bianca aveva fatto un ottimo lavoro.

 

Quindi annuì e provò a passarle Francesco, delicatamente, ma il bimbo cominciò a strillare così forte che quasi c’era da rivalutare il confronto con Valentì.

 

“Pure lui preferisce te a me… come tutti gli uomini ultimamente,” ironizzò Irene, tenendolo in braccio a fatica, perché lui si divincolava tantissimo.

 

“Ma se hai la fila! E poi vedrai che piano piano lo conquisterem- cioè lo conquisterai,” si corresse Ranieri, in un modo che le fece sempre più pensare che quei due non la contavano giusta.

 

“Sei sempre stato troppo ottimista!” proclamò Irene, mentre provava disperatamente a cullare il bimbo, che non pareva affatto pronto ad essere conquistato, anzi.

 

E poi Francesco si voltò verso di lei e la guardò, dritta negli occhi, come a dire perché mi abbandoni anche tu? e sentì una fitta tremenda di senso di colpa e poi una mano di Calogiuri sulla schiena, come a cercare silenziosamente di farle forza.

 

“Francé, fai il bravo,” si raccomandò, il bimbo smise per un attimo di piangere e la osservò, confuso, ma poi la sirena antiaerea accompagnò Irene e Ranieri finché uscirono dalla stanza.

 

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“Tutto bene, Mariani?”

 

Avevano appena lasciato Calogiuri e la dottoressa che se ne stavano tornando a casa, ed erano rimasti da soli lei ed il dottore.

 

Lo guardò, confusa.

 

“Sicura di stare bene? Ha comunque subito un’aggressione. Le fa male da qualche parte?”

 

Con tutto il casino che era successo, quasi si era scordata del ginecologo e di quanto avevano rischiato.

 

“Sì, dottore, tutto bene, anche grazie a lei. Anche se… per un attimo ho temuto che lo ammazzasse Gasparini.”

 

Mancini fece un’espressione strana e si chiese se si fosse presa troppa confidenza.

 

“Diciamo che… un paio di pugni se li sarebbe proprio meritati. Ha fatto bene a fermarmi, perché avrei fatto il suo gioco ma… non sopportano quelli che toccano-”

 

“Le donne?” gli domandò, un po’ delusa, perché non ne poteva più di essere trattata dagli uomini come una specie protetta, ma solo in certe circostanze, solitamente quando conveniva a loro.

 

Mancini spalancò gli occhi e deglutì, forse aveva capito: il procuratore capo rispetto al maschio medio era più percettivo, non che ci volesse molto.

 

“Anche ma, in generale, non sopporto chi tocca le persone che stimo e a cui tengo. E lei ha una grande carriera davanti a sé, Mariani, e sarebbe stato doppiamente un crimine se avesse dovuto finirla così.”

 

Si sentì avvampare, senza capire bene perché, ma ai complimenti non c’era molto abituata.


“Grazie a lei per avermi dato fiducia, dottore.”

 

“No, sono io che devo ringraziarla, Mariani, per avermi supportato e soprattutto sopportato in questo periodo: non ero proprio dell’umore migliore. E per avermi restituito un po’ di fiducia nei miei collaboratori.”

 

Il viso ormai era un forno.

 

“Beh… per quello non è merito mio… dopo quello che è successo oggi, si sarà reso conto che siamo un team fortissimo, no?”

 

Mancini annuì e le sorrise e lei ricambiò, pur nell’imbarazzo.

 

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Dire che fosse rimasto impressionato da Mariani sarebbe stato riduttivo.

 

Non solo per la sua bravura ma per il suo carattere: non capiva come riuscisse ad essere così timida e dolce, ma poi, quando c’era una situazione di pericolo o quando si arrabbiava, così feroce al tempo stesso.

 

Menomale che c’era lei! Anche se li attendeva ancora una serata ed una nottata lunghissime.

 

“Ci aspetteranno un sacco di interrogatori, Mariani. E dovremo rafforzare la sicurezza sulla Russo, all’ospedale.”

 

“Già fatto, dottore. Ora è piantonata da tre agenti, costantemente.”

 

Le sorrise: che efficienza!

 

“Grazie, Mariani. Senta, che ne direbbe se, prima di infilarci nella sala interrogatori - che non so quando ne usciremo - ci mettessimo qualcosa sotto i denti?”

 

“Sì, ma una cosa veloce, dottore, che ho ancora l’adrenalina in corpo e, finché c’è, sento poco la fame e pure la stanchezza, per fortuna.”

 

“Conosco un buon bar qua vicino, che ne dice?”

 

“Dico che, se si fida di me, ho in mente qualcosa di meglio. Più semplice e veloce.”

 

Non capiva cosa ci potesse essere più veloce di un bar, ma annuì e seguì Mariani fuori dalla procura - dall’uscita sul retro per evitare eventuali giornalisti - e fino al parco lì vicino, dove Mariani si fermò, davanti ad uno di quei camioncini che vendevano panini dal dubbio rispetto delle norme igienico sanitarie.

 

“Ma vuole mangiare qua?”

 

“Questo è uno dei migliori zozzoni della città, fa dei panini buonissimi. E che si aspettava, dottore, col mio stipendio? Ostriche e champagne? Che nemmeno mi piacciono poi. E con tutto il moto di oggi ci vuole proprio.”

 

“Temo che il mio stomaco sia un po’ fuori età per questo tipo di cibo, Mariani. Ma va bene, proviamo, tanto difficilmente avrò il problema di dover dormire stanotte,” accettò, temendo di pentirsene ma non volendo sembrarle ancora più vecchio e snob di quanto probabilmente lo considerava già.

 

Prese un semplice hot dog, che era la cosa più tranquilla, e si sedette sulla panchina vicina, dove dopo poco si accomodò anche Mariani, addentando il panino alla porchetta con un gusto che lo fece sorridere.

 

In quello somigliava ad una certa dottoressa, ed un poco pure nel caratterino, ma al contrario - Imma era un caterpillar dall’inattesa dolcezza e sensibilità, in certi momenti, Mariani era una principessa che, all’occorrenza, diventava una guerriera. Per il resto erano diversissime, come il giorno e la notte. Ma capiva finalmente perché andassero così d’accordo.

 

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Il tonfo della borsa di Imma che cadeva a terra e poi degli stivali, gettati molto poco cerimoniosamente subito accanto, segnalarono il ritorno a casa, insieme ad una fitta al cuore.

 

Per alcuni momenti aveva veramente creduto che non ci avrebbe mai più messo piede, né lì né in nessun altro luogo.

 

Incrociò gli occhi stanchi ma soddisfatti di lei e, non riuscendo più a resistere, se la strinse al petto in un abbraccio liberatorio, sentendola aggrapparsi a lui con altrettanta foga, tanto che la sollevò da terra, anche se faceva ancora un po’ di fatica a farlo. Ma aveva soltanto bisogno di sentirla vicina, il più possibile, ed il bruciore ai muscoli poteva andarsene pure al diavolo.

 

“Quasi ci siamo, Calogiù! Tra poco sarai libero veramente!” si sentì sussurrare all’orecchio e, preso dalla commozione, la rimise a terra e le diede un bacio sulla fronte.

 

E poi la guardò di nuovo negli occhi e ci lesse un velo di tristezza che non capì.

 

“A che stai pensando, dottoressa?”

 

“A che… sai già che cosa farai, una volta libero? Ci stai pensando?”

 

“E tu, ci stai pensando?” le chiese di rimando, sperando che ammettesse anche con lui quello che aveva detto ad Ottavia o, ancor meglio, che gli eventi di quella giornata le avessero fatto cambiare idea.

 

“Così non vale, Calogiuri!” fu invece la sua risposta e sapeva di non poter insistere oltre.

 

E quindi la abbracciò di nuovo e le disse, “al momento vorrei solo stare qua così con te, andarci a fare una bella dormita, insieme, e poi… e poi so solamente che non riesco ad immaginarmi il mio futuro senza di te.”

 

La sentì sciogliersi un poco nelle sue braccia, ma poi le mani di lei lo spinsero leggermente indietro, sul petto, e la trovò di nuovo a guardarlo dritto negli occhi.

 

“Neanche io riesco a immaginarmi una vita senza di te, Calogiuri, ma… ma non mi accontento solo del bene. Io voglio tutto, come disse una volta qualcuno,” proclamò, decisissima, e gli venne un’altra fitta al petto - mentre gli occhi erano ormai del tutto appannati - che lei si ricordasse ancora di quel momento di ormai così tanti anni prima.

 

“Ed io vorrei dartelo Imma, vorrei darti tutto quello che meriti e pure di più. E non sai quanto… quanto vorrei baciarti in questo momento e fare l’amore con te per tutta la notte. Ma non voglio più sbagliare con te,” le rispose ed Imma gli sorrise, malinconica, “però almeno un bacio posso-?”

 

Per tutta risposta, si trovò con le labbra stampate sulle sue, in un bacio così carico di disperazione e di amore che quello di quel pomeriggio in confronto non era stato niente. E poi Imma si staccò e gli sorrise, chiedendogli, “allora, apriamo di nuovo il divano?”

 

Ma lui scosse il capo, se la riprese tra le braccia e, anche se gli tremavano ancora un poco, così come le gambe, se la portò fino in camera da letto, pure se soltanto per dormire.

 

Forse.

 

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“Irene! Ma perché sei tornata così tardi?”

 

La domanda di Bianca la colse di sorpresa: tra una cosa e l’altra lei e Ranieri avevano fatto soste in farmacia per procurarsi il necessario per il bimbo, oltre ad un rapido stop per prendersi una pinsa d’asporto per loro, quindi ormai era oltre l’orario della nanna di Bianca.

 

“Mi scusi, dottoressa, ma non sono riuscita a metterla a letto: continuava ad alzarsi,” disse Maria, ma le fece un cenno del capo che era tutto ok.

 

E poi la porta alle sue spalle si richiuse ed anche Bianca notò Ranieri, con il bimbo in braccio che ancora si lamentava. Aveva pianto talmente tante volte in macchina che aveva le orecchie che le facevano male.

 

“Ma… ma chi è questo bimbo? E chi sei tu? Il suo papà?” 

 

Bianca si era fatta avanti, incuriosita, cosa che l’aveva colta di sorpresa: di solito davanti agli sconosciuti al massimo indietreggiava e se la dava a gambe.

 

“No. Ranieri, cioè Lorenzo è un collega. Ed il bimbo non è suo ma… è figlio di una donna che al momento sta tanto male e non se ne può occupare. E, siccome lui e la sua mamma sono coinvolti in un’indagine che stiamo facendo, rimarrà qua con noi per qualche giorno, se non ti dispiace, in attesa di capire a chi possiamo lasciarlo.”

 

Per tutta risposta, il bimbo riprese a piangere tipo sirena e, sapendo quanto Bianca odiasse i rumori forti, le pigliò un mezzo colpo.

 

Ma Bianca, inaspettatamente, non fece una piega e guardò il bimbo con ancora più curiosità, mentre Ranieri si prodigava per calmarlo - le toccava ammettere che con i bimbi era davvero bravissimo.

 

“Ma perché piange? Gli manca la sua mamma?” domandò Bianca, in un modo che la fece sciogliere come solo lei sapeva fare.

 

“La mamma non la vede da un po’, perché sta male, ma… forse avrebbe preferito stare con altre persone, ma non si poteva.”

 

“Ma la sua mamma… è come la mia mamma che è volata in cielo?”

 

La voce le si strozzò in gola e tossì, perché Bianca la sorprendeva sempre e… e quando si entrava in argomento di sua madre e di quello che le era successo, era così tremendamente difficile per lei.

 

Ma Bianca la guardava con tanto di occhioni curiosi, quindi le toccava rispondere.

 

“No, no, la sua mamma… è tipo la Bella Addormentata: dorme, dorme e non sappiamo se si sveglierà e quando, speriamo presto.”

 

“Ma con un bacio?”

 

Le venne da sorridere: ah, che bella l’ingenuità dei bambini!

 

“No, nel mondo reale è un po’ più complicato di così.”

 

Bianca annuì e poi, per il suo stupore, si avvicinò piano piano a Ranieri ed al bimbo e gli mise una mano sulla schiena. Piano piano, si mise ad accarezzarlo, fino alla testa.

 

“Com’è morbido!” 

 

“Vero. Però stai attenta a non toccare troppo qua,” si raccomandò Ranieri, indicando verso la zona della fontanella, ma con un tono così dolce che Bianca gli sorrise, “che qua per qualche mese è ancora molto delicato, va bene?”

 

Bianca fece sì con la testa e poi gli chiese, a bruciapelo, “ma sei un papà? Perché sei proprio bravo con i bambini.”

 

Eh già… se ne era accorta pure lei.

 

“Sì, ho figli, alcuni già grandi.”

 

“Ma… ma come mai non ti ho mai visto prima?” gli chiese, rivolgendosi però poi anche a lei, con sguardo curioso e quasi di rimostranza.

 

“Perché Ran- Lorenzo vive lontano, con la sua famiglia,” rispose, perché quella era la realtà ed avrebbe fatto sempre bene a ricordarsene anche lei.

 

Lui parve in imbarazzo, ma si inserì con un, “i miei figli stanno lontani, sì, ma… ma io in realtà ti ho già vista, anche se non te lo puoi ricordare, perché eri piccola piccola.”

 

“Quando… quando c’era ancora la mia mamma?” domandò Bianca, con due occhi spalancati che erano una pugnalata.

 

“Sì.”

 

Ci fu un attimo di silenzio, in cui si chiese come l’avrebbe presa, ma Bianca sorrise ed esclamò, “che bello! Non ci sono tanti che si ricordano della mia mamma!”

 

Un nodo alla gola, gli occhi le bruciarono e vide che pure lui era commosso.

 

Ma Bianca continuò ad accarezzare Francesco, ignara forse di tutto, e dopo un po’ Irene si rese conto che, straordinariamente, quelle carezze lo tranquillizzavano un po’.

 

“Adesso però devi andare a dormire, signorina,” si decise infine a dire, quando la voce le ritornò.

 

“Posso dormire con il bimbo? Anzi, come si chiama?”

 

“Francesco,” rispose, ancora più sorpresa che addirittura ci volesse dividere il letto, lei che aveva paura di quasi tutti, “ma no, non è il caso: è ancora molto piccolo e delicato e rischiamo di fargli male dormendo con lui. Vai nel tuo lettino, tranquilla, che lo rivedi domattina.”

 

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“Spengo la luce?”

 

Sorrise di rimando al volto stanco di Imma e con un clic ci fu il buio.

 

La sentì rimettersi distesa e, con mani un po’ tremanti, le cinse i fianchi e la strinse a sé, la schiena di lei contro il suo petto, i capelli che gli facevano il solletico.

 

Li baciò, godendosi l’aroma dello shampoo e quel profumo che era solo di Imma, e che gli era tanto mancato.

 

Imma non solo non si ritrasse, ma gli prese le mani tra le sue, intrecciando le loro dita, forte forte.

 

Era tentato, tremendamente tentato, di baciarle pure il collo e poi… e poi non fermarsi solo lì.

 

Ma aveva paura, una paura tremenda di bloccarsi di nuovo e di rovinare tutto quel riavvicinamento che avevano avuto. Di farla stare di nuovo male e….

 

Che uomo sei se ti fai bloccare dalla paura?

 

La voce che gli stava parlando suonava tantissimo come Imma. Soprattutto la Imma dei primi tempi.

 

Già… doveva essere uomo per lei, non poteva perderla per colpa delle sue paure.

 

E quindi cedette all’impulso e le baciò il collo. Imma emise un suono, come un piccolo gemito, e stava per baciarla di nuovo, magari sulla spalla, e-

 

“Meeeeow!”

 

Invece che baciare Imma, si trovò con le labbra piantate nel pelo, tanto che gli venne da tossire.

 

Ottavia! Tanto per cambiare si era infilata tra loro.

 

“E dai, Ottà, vai sui piedi!” udì Imma esclamare, divertita, e la belva obbedì.

 

“Tutto bene, Calogiuri?”

 

Gli occhi di Imma erano nei suoi e lui fece cenno di sì, e poi si beccò un bacio sulla guancia e lei disse, “bene, allora dormiamo mo, che la Regina è sul suo trono.”

 

Sospirò ma assentì, chiudendo gli occhi e tornando a stringerla forte, la stanchezza ed il sonno arretrato che presto ebbero il sopravvento.

 

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“E su, dai, tranquillo, sei al sicuro ora.”

 

“Almeno lui!” ironizzò, perché ormai aveva i timpani distrutti e Francesco continuava a piangere e a disperarsi, con solo qualche attimo di pausa.

 

Ed erano già le due del mattino.

 

La cosa ironica era che erano nella sua camera, seduti sul letto, ma le urla avevano eliminato in partenza qualunque imbarazzo in tal senso.

 

Anche perché Francesco sarebbe stato un ottimo spot per gli anticoncezionali, se continuava così!

 

“Se chiamassimo Imma?” chiese infine, perché nemmeno con Bianca aveva avuto tutti quei problemi.

 

“Dai, con la giornata che hanno avuto lei e il maresciallo. Lasciamoli dormire.”

 

Sospirò: Ranieri aveva ragione e non è che manco lei avesse tutta quella voglia di rinunciare all’orgoglio e di chiedere aiuto ad altri.

 

Ma era preoccupata anche per Bianca, con tutto quel casino.

 

“Irene, perché il bimbo continua a piangere?”

 

Ecco, appunto!

 

“Eh… è tutto nuovo per lui… deve abituarsi a stare qua,” rispose Ranieri, facendo un sorriso a Bianca che aveva fatto capolino dalla porta.

 

Bianca entrò del tutto e si avvicinò al letto, piano piano, “Francesco, perché piangi? Guarda che Irene è brava: ha curato sempre anche me, da quando la mamma non c’è più.”

 

Un altro groppo in gola e pure Ranieri sembrava star trattenendo il pianto.

 

“Bianca…” sussurrò, accarezzandole la schiena ed il viso.

 

Bianca le fece uno di quei sorrisi rarissimi, ma proprio per quello preziosi, e poi lei, a sua volta, fece lo stesso al piccolo Francesco.

 

Che, finalmente, smise di piangere, almeno finché Bianca lo accarezzava.

 

“Forse è il caso di farli dormire insieme: almeno dormiremmo. Bianca tanto è molto attenta a non fargli male, vero Bianca?”

 

“Sì, sì… posso dormire con Francesco, Irene?”

 

E che poteva dire? Non solo lo sguardo ed il tono di Bianca erano irresistibili ma, soprattutto, per il miraggio di un po’ di sonno e silenzio avrebbe fatto quasi di tutto.

 

“Va bene, mettetevi qua in centro al letto, che almeno non rischia di cadere,” acconsentì, infilando prima Bianca e poi il piccolo nel letto, in una posizione che minimizzasse il rischio di soffocamento.

 

La tenerezza e la cura con le quali Bianca gli stava accanto, toccandogli solo una manina, erano indescrivibili ed incredibili.

 

Aspettarono un po’ di minuti, per accertarsi che dormissero tranquilli, e poi si voltò verso Ranieri che sorrideva, tra il commosso e il sollevato.

 

“Allora… visto che qua è risolto… io andrei…” sussurrò lui, e ci sentì pure un poco di imbarazzo.

 

In effetti, una volta che la sirena era stata azzittita, l’atmosfera era nettamente mutata e l’essere insieme, di notte, in un contesto così intimo….

 

Agli occhi degli estranei sarebbero potuti sembrare una famiglia, e invece….

 

“Irene?”

 

Si rese conto di essersi persa via nei suoi pensieri e che pure lui lo aveva capito, a giudicare dal sorrisetto che gli era spuntato.

 

E non se lo poteva proprio permettere.

 

Si alzò, ricomponendosi, e propose, con un tono neutro che non corrispondeva affatto a quello che sentiva, “è tardi, c’è il divano letto. Anche tu hai avuto una giornata pesante. Vieni.”

 

Si avviò verso il corridoio ma non udì passi e quindi si voltò, temendo che lui stesse tramando chissà che, conoscendolo dai vecchi tempi, ma no, anzi: era diventato rosso come un peperone e pareva molto a disagio.

 

“Che c’è? Prima fai tutti gli inviti e adesso ti imbarazzi per un divano letto - sul quale dormirai da solo, per inciso?”

 

Lui si morse le labbra in un modo da omicidio e sussurrò un “va bene, grazie per l’ospitalità…” che però le parve sempre imbarazzato.

 

“Si può sapere che cos’hai?” gli domandò, mentre andavano verso il salotto.

 

“No, è che… è che mi viene in mente l’ultima volta che abbiamo dormito insieme nello stesso posto. Non me lo scorderò mai e… non pensavo che sarebbe mai ricapitato, anche se in circostanze molto diverse.”

 

Sospirò: il maledetto ci andava giù pesante, pesantissimo, a rivangare certe cose che anche lei - era inutile negarlo a se stessa, a lui lo avrebbe negato fino alla morte - non si sarebbe mai dimenticata.

 

“Almeno tu lo sapevi che sarebbe stata l’ultima volta. Io no,” gli buttò quindi addosso, dura, forse troppo, ma era meglio che farsi vedere vulnerabile.

 

“In realtà non lo sapevo nemmeno io,” la sorprese, soprattutto perché non le sembrò che stesse mentendo.

 

“In che senso?” domandò, prima di potersi trattenere.

 

“È… è un discorso lungo e… questo non è il momento adatto ma… quando finiscono queste indagini dobbiamo parlare, assolutamente.”

 

“Non ti devo proprio niente,” ribatté, secca.

 

“Già, è vero, ma….”

 

“Va beh…” sospirò, perché era esausta e no, quello non era il momento buono proprio per niente, e lui le sembrava già abbastanza mortificato così, “diciamo che… se mi dai una mano con Francesco, tutto sommato posso pensarci. Ma comunque i vecchi tempi non possono tornare, Lorenzo, e non voglio assolutamente tornare alla persona che ero allora.”

 

“E nemmeno io, te lo garantisco.”

 

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“Vale!”

 

Senza neanche rendersene conto, finì tra le braccia di Penelope, stretta stretta.

 

“Mi sei mancata!” si sentì poi sussurrare nell’orecchio e, nel giro di un secondo, fu travolta da un bacio da rimescolarle tutto dentro.

 

Una fitta di senso di colpa, se verso Penelope, verso Carlo o entrambi non avrebbe saputo dirlo.

 

Un altro secondo ed il bacio finì e Penelope la guardava, preoccupata, “che c’è, Vale? Sei strana.”

 

La conosceva veramente alla perfezione.

 

Sospirò, perché era lì anche per quello, per affrontare l’argomento, ma non era facile.

 

“S- sì, è che… ti devo parlare.”

 

Lo sguardo di Penelope le fece capire che aveva capito o, quantomeno, aveva compreso che non sarebbe stata una conversazione facile.

 

“Questa frase di solito non promette niente di buono. Comunque va bene. Avevo organizzato aperitivo e cena per noi, ma chiamo e annullo, così stiamo qua a parlare.”

 

Un’altra fitta di sensi di colpa, ma ormai doveva andare fino in fondo.

 

Ascoltò Penelope cancellare aperitivo e cena nei suoi locali preferiti. Forse voleva farsi perdonare per l’ultima volta?

 

Si sedette sul divano e Penelope la raggiunse, mettendosi di fianco a lei, ma non vicina come al solito.

 

“Allora?” le chiese, guardandola in un modo tra il preoccupato ed il rassegnato che la fece sentire ancora di più una merda.

 

“Allora… non reggo più la distanza, Penelope, il fatto che ci sentiamo sempre di meno e non ci vediamo quasi mai, non ce la faccio più.”

 

Penelope sospirò ma parve anche un poco sollevata, “se è solo per quello… tra poco mi laureo, Vale, e poi… potremmo capire come fare, se venire io a vivere a Roma, magari, o tu a Milano e-”
 

“E non è solo quello,” la interruppe, perché non ce la faceva più a tenersi tutto dentro, “è che… è che ho scoperto di essere attratta da Carlo. Carlo Vitali. Non è colpa sua, eh, non ha fatto niente ma… è successo.”

 

Penelope abbasso occhi e capo e la vide stringere le labbra fortissimo.

 

Ma poi rialzò la testa e furono di nuovo occhi negli occhi.

 

“Ti sei innamorata di lui?” le chiese, in un tono strano ma decisissimo.


“No, cioè… non lo so. So solo che… tu non ci sei mai e Carlo fisicamente mi piace… ed è gentile e… non so più cosa fare, perché non voglio prendere in giro nessuno, ma così non ce la faccio più e per questo ti dovevo parlare e dirti tutto.”

 

Un altro sospiro ed un attimo di silenzio, Penelope che si sfregava gli occhi e la fronte, non sapeva se per cercare di calmarsi o per quale altro motivo.

 

E poi di nuovo quello sguardo, che la trafisse al divano.

 

“Ascolta, Vale, lo so che… che non ci sono stata abbastanza ultimamente, e che forse tra la distanza e tutto il resto ci siamo un po’ perse ma… io sono ancora innamorata di te, anche se forse non te l’ho dimostrato abbastanza.”

 

“Penelope…” provò a dire, ma le fece segno di lasciarla parlare.

 

“Però se hai dei dubbi è giusto che tu te li risolva, anche perché… essendo bi, a maggior ragione lo sapevo che c’era il rischio che questo momento sarebbe arrivato prima o poi e-”

 

“Ma non è che voglio stare con te e con lui insieme, ma che non capisco più cosa provo.”

 

“E proprio per questo, anche se mi fa molto male, forse è meglio che… esplori la situazione con Carlo, visto quanto siamo distanti io e te, e poi… una volta che ti sei chiarita le idee, mi fai sapere che hai deciso.”

 

Fu una specie di schiaffo, perché non si aspettava minimamente una reazione del genere.

 

“Ma non è giusto nei tuoi confronti! E poi… ma allora te ne frega così poco di me, di noi due, che non vedi l’ora di buttarmi tra le braccia di Carlo? Se è una scusa per liberarti di me-”

 

“Vale!”

 

Il tono e gli occhi di Penelope erano seri, serissimi, e la mano che stringeva la sua tremava un po’, mentre quasi gliela accartocciava.

 

“Vale, non capisci che è proprio perché ci tengo tantissimo alla nostra relazione e… e al fatto che possiamo avere un futuro vero, che…? E poi… e poi io voglio che tu stai bene. Al momento, non è che mi vado a cercare altro, che non ho neanche il tempo, anche se non è che posso aspettarti per sempre, ovviamente. Ma ti dò il tempo fino a dopo la mia laurea per pensarci e capire cosa vuoi fare. Che poi… come ti ho già detto magari ci potremmo pure avvicinare ma… a questo punto, se tu non sei sicura, non ha senso ed è meglio che ti levi ogni dubbio adesso, che rimani con me non convinta.”

 

“Io… io non so se ti capisco, Penelope. Non so se al posto tuo io… riuscirei a fare lo stesso,” ammise, sentendosi ancora più confusa di prima.

 

“Ma siamo diverse da sempre, Vale, ed è anche per questo che abbiamo sempre funzionato, no? Ma Carlo forse è più simile a te e… devi capire cosa vuoi e chi vuoi.”

 

Annuì, perché Penelope aveva ragione.

 

“Allora… allora forse è meglio che vado adesso,” propose, perché stare due giorni lì così… le sembrava terribilmente imbarazzante.

 

“Se… se vuoi stare fino a domani, puoi dormire nell’altra stanza e… e magari se passiamo qualche ora insieme ti cominci a chiarire un po’ le idee, no?”

 

Si sentiva tremendamente a disagio, ma forse Penelope aveva ragione: alla fine da qualche parte per capire doveva pur cominciare.

 

E quindi acconsentì.

 

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“Portatelo via!”

 

Come la porta fu richiusa, si accasciò sulla sedia, le spalle che gli facevano malissimo, un principio di mal di testa all’attaccatura dei capelli.

 

Stavano proseguendo con gli interrogatori, senza quasi mai fermarsi, ormai dal giorno prima, ma si stavano rivelando abbastanza inutili. Aveva proceduto coi fermi, naturalmente, ma quasi tutti tacevano e se ne stavano zitti e muti. Coraini e Mazzocca in primis.

 

Il rumore di nocche sulla porta del suo ufficio fu così amplificato che gli parve perforargli il cranio.

 

“Chi è?”

 

“Sono Mariani, dottore, posso?”

 

“Prego,” la invitò, e la porta si aprì e pure Mariani sembrava distrutta.

 

Ma c’era anche una specie di eccitazione nel suo sguardo che prometteva bene, molto bene.

 

“Ha buone notizie? Mi dica di sì!”

 

Gli sorrise.

 

“Sì, dottore. Sono arrivati i risultati dell’analisi del DNA, richiesta con urgenza, e… confermano che il bambino è il figlio di Melita.”

 

Sospirò, levandosi gli occhiali per massaggiarsi un attimo occhi e tempie: finalmente una buona notizia!

 

“E per quanto riguarda la paternità? Avete confermato se il DNA è compatibile con altri?”

 

“Su quello ci stanno ancora lavorando, dottore. Sa, è il fine settimana e… ci sono meno persone nei laboratori. Ma speriamo di avere presto i risultati.”

 

“Va bene. L’importante è avere finalmente le prove del traffico di minori, così possiamo confermare i fermi di tutti, in attesa si spera di avere ancora più elementi.”

 

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“Va bene che nei film dell’orrore sono sempre tutti imbecilli, ma questi vincono il primato!”

 

Rise, prendendo con le mani un altro pezzo di sushi - buonissimo, quanto le era mancato il sushi di Milano! - e poi bevendo un sorso di birra.

 

In effetti Penelope aveva ragione, i personaggi di The Mist sembravano fare proprio di tutto per farsi ammazzare, tutti quanti.

 

Anche i suoi commenti ai film le erano mancati, come il guardarli insieme, sedute sul divano.

 

Tanto che, se ad inizio serata erano a distanza di sicurezza, in quel momento, verso la fine del film, Penelope le teneva un braccio intorno alle spalle ed erano appoggiate comodamente, testa contro testa, come ai vecchi tempi.

 

Provava così tante emozioni dentro, che però non sapeva definire bene, nella confusione che ormai c’era nella sua mente e nel suo cuore.

 

Nel frattempo, il film finì, confermando l’idiozia totale dei personaggi, e Penelope, dopo averlo stoppato, la guardò e le chiese, “vuoi vederne un altro?”

 

Solo che erano vicine, così vicine: il viso di Penelope e, soprattutto, le sue labbra, a due centimetri dalle sue, a dire tanto.

 

“Posso baciarti?” le uscì, prima quasi di rendersene conto, tanto che si affrettò ad aggiungere, allo sguardo sorpreso di Penelope, “cioè… per capire cosa provo. Ma se non te la senti lo capisco e-”

 

Non riuscì mai a terminare la frase, perché si trovò avvolta in un bacio che le fece perdere completamente l’uso della parola e pure del cervello. Il cuore che le andava all’impazzata e le mani che parevano muoversi per conto loro, così come quelle di Penelope, che sapevano sempre farla diventare matta, quanto e forse più di prima.

 

Senza quasi capire come, erano nude, completamente, a fare l’amore tra il divano, il tappeto ed il tavolino, in un modo così intenso, folle e struggente che si ritrovò a cercare disperatamente di riprendere aria, la testa sul tappeto e le gambe sul divano, Penelope accanto a lei, che sembrava malinconica ma soddisfatta insieme.

 

“Se deve essere un addio… anche se spero di no… che sia il migliore possibile, no?” la sentì proclamare poi, col fiato ancora corto, e pure a lei venne da ridere ma anche un magone tremendo, tutto insieme.

 

Si sentiva travolta da sensazioni che non riusciva a spiegare.

 

E poi riprese a baciarla: se era l’ultima volta insieme, se la sarebbe vissuta in pieno, fino all’ultimo minuto.

 

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“Può portarlo via.”

 

Il mal di testa ormai era diventato una vera e propria emicrania: non ce la faceva più, aveva bisogno di riposare, ma doveva portare a termine tutti gli interrogatori, per confermare gli ultimi fermi.

 

Anche se nessuno parlava, nemmeno con la prova del DNA, che era schiacciante.

 

“Dottore.”

 

Fece un salto: la voce di Mariani gli sembrò amplificata mille volte, colpa del mal di testa, sicuramente.

 

“Dottore, non è forse il caso che… si prenda una pausa? Non ha una bella cera, se mi posso permettere.”

 

Sospirò, e perfino quel suono gli sembrò quasi un boato.

 

Aveva ragione, ma dovevano terminare, non poteva lasciare nessuno in libertà per vizi di procedura.

 

“Sono quasi in fondo, Mariani, poi mi prenderò un po’ di ore di riposo. Lei piuttosto, non si è mai fermata… va bene che, beata lei, ha la forza tipica della sua età, ma-”

 

“Ma ho fatto un paio di pisolini, quando potevo. Funzionano abbastanza bene. L’ho imparato quando dovevo lavorare e studiare per il concorso da sottufficiali. Perché non prova anche lei?”

 

“Perché se mi fermo, altro che pisolino, mi sveglio lunedì.”

 

“Posso almeno portarle qualcosa? Un antidolorifico per il mal di testa?”

 

“Ma come…? Si nota così tanto?”

 

Mariani annuì e gli toccò cedere le armi: “va bene, Mariani, mi porti pure un cachet.”

 

La risata di Mariani fu tipo un’esplosione nel cranio e lei si tappò la bocca e disse, “scusi, mi scusi, ma… cachet… era dai tempi della scuola, quando studiavo letteratura, che non lo sento.”

 

“Se vuole farmi sentire vecchio, Mariani, ci sta riuscendo benissimo,” scherzò, anche se, in effetti… Mariani tutti i torti non li aveva.

 

“Ma no, dottore, non è vecchio, anzi, diciamo vecchio stile, più che altro. Ma se no non sarebbe lei. Vado a prenderle il cachet. Poi faccio entrare la signora De Angelis?”

 

Annuì: se l’era tenuta per ultima, sperando che, almeno lei, di fronte a quello che era successo al marito - che stava in coma in prognosi riservata ed in condizioni gravissime - e la prova del DNA che confermava che non erano i genitori naturali di Francesco, avrebbe collaborato.

 

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“Allora… allora aspetto tue notizie. Fai buon viaggio.”

 

Il magone che l’aveva accompagnata da quando si erano svegliate quella mattina, fino lì in stazione centrale, era ormai quasi insopportabile.

 

Lo sguardo triste di Penelope era una coltellata e c’era una parte di lei che avrebbe voluto restare lì per sempre, mentre un’altra parte si chiedeva se l’avrebbe mai più rivista.

 

Le stampò un ultimo bacio, incurante degli sguardi della gente intorno e poi si costrinse a fare l’ultimo gradino, salire sul vagone ed entrarci, senza guardarsi indietro.

 

Non erano in un film, e si era già fatta abbastanza male così.

 

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“Dottore, buongiorno!”

 

“Buongiorno, Mariani, come sta? La trovo meglio.”

 

Avevano finito alle tre di notte, con la confessione della De Angelis e, dopo sei ore di sonno scarse, alle undici di domenica mattina erano di nuovo lì.

 

“Grazie, anche io lei, dottore, si vede che il cachet ha fatto effetto.”

 

Rise: non era da tutti i suoi sottoposti azzardarsi a fare umorismo con lui e di lui, per fortuna, da un lato.

 

Ma Mariani non lo faceva con cattiveria, anzi, e gli faceva piacere che si sentisse ormai così a suo agio con lui da poterlo fare.

 

Anche perché l’unica altra persona con la quale aveva quella confidenza era Irene, ma in quei giorni con il piccolo Francesco di cui occuparsi era sempre impegnatissima.

 

“Visto che è di buonumore, Mariani, mi auguro che lo sia perché ci sono altre buone notizie, magari?”

 

Mariani sorrise ed annuì, mentre raggiungevano insieme il suo ufficio e chiudeva la porta alle loro spalle.

 

“Riguardo alla paternità del bimbo di Melita-”

 

“Sappiamo chi è il padre?” la interruppe, perché quella sarebbe stata la svolta.

 

“No, purtroppo no, ma… nessuno degli arrestati è il padre, e per fortuna nemmeno Calogiuri, ma non c’è nemmeno una parentela con il campione di DNA.”

 

“Quindi è improbabile che sia qualcuno del clan.”

 

“Già… a meno che sia qualche affiliato… però… forse dovremmo fare un altro incontro con tutti, per scambiarci un po’ di idee. Che ne pensa?”

 

“Mi sembra una buona idea, Mariani. Convochi tutti per una videochiamata tra… facciamo alle quattordici, che è pur sempre domenica. E noi intanto cerchiamo di smaltire tutti i documenti degli interrogatori di ieri. Va bene?”

 

“Va bene, dottore, procedo subito.”

 

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“Quali saranno le novità? Speriamo siano buone, almeno!”

 

“Dai, dottoressa, cerca di stare tranquilla, che già non hai mangiato niente!”

 

Buttò fuori l’aria e si massaggiò le tempie: Calogiuri aveva ragione, ma… se la giornata precedente, il sabato, era trascorsa quasi interamente in un letargo per recuperare gli strapazzi del giorno precedente e cercare di far riprendere i muscoli che ancora protestavano, dopo i momenti d’azione - purtroppo non il tipo di azione con Calogiuri per il quale di solito aveva i muscoli doloranti - quella mattina era iniziata con un vago senso di attesa, che sfiorava l’ansia.

 

Sapeva che stavano lavorando in procura e che erano vicini alla risoluzione del caso ed a scagionare Calogiuri. Ma mancavano ancora degli elementi e non vedeva l’ora di sapere se li avessero acquisiti dagli interrogatori o se avrebbero dovuto, un’altra volta, cercarseli da soli.

 

“Eccoli!”

 

Guardò lo schermo dove, piano piano, apparvero tutti i quadratini, anzi, meno quadratini del solito, visto che Mancini e Mariani erano insieme nell’ufficio del procuratore capo e Ranieri ed Irene erano entrambi a casa di lei. Tra tutti era difficile dire chi avesse un’aria più stravolta, forse Ranieri ed Irene, ed era tutto dire.

 

“Francesco non vi fa dormire?” non resistè a chiedere, perché o era quello o quei due si erano dati a quel tipo di azione che a lei mancava terribilmente per due giorni di fila, senza pause.

 

“Fosse solo quello. Continua a piangere, tranne quando sta con Bianca,” rispose Irene e, infatti, puntuale come il mal di denti, sentirono tutti un pianto talmente forte da far sfarfallare le casse del computer.

 

“Ora potete godervelo pure voi,” ironizzò Irene, e la vide piegarsi e Francesco apparve sullo schermo, bello come il sole, anche se era una fontana.

 

“Ammazza, che polmoni! Quasi batte il record di mia figlia Valentina e-”

 

Si fermò, perché anche il pianto si era interrotto e Francesco si era voltato verso la telecamera, incuriosito.

 

“Che c’ha?” chiese e, per tutta risposta, Francesco iniziò a picchiare sulla telecamera e, presumibilmente, sullo schermo.

 

“Cerca di toccare la tua faccia,” commentò Irene e ad Imma prese una botta di malinconia e… e amore… che era indescrivibile. Anche quando Irene lo allontanò leggermente, lui iniziò a protestare ed Irene sospirò, “un giorno mi dovrai spiegare il tuo segreto con i maschi.”

 

“E allora... dottoressa magari provi a tenerlo distratto, anche se da distanza, così almeno possiamo fare il nostro meeting,” intervenne Mancini, con un’aria strana.

 

“E che devo fare mo?” domandò, ma bastò quello e Francesco, di nuovo, fece un risolino.

 

Sentì dita stringere le sue, sotto al tavolo, e guardò Calogiuri, che aveva due occhi talmente lucidi che parevano fatti d’acqua.

 

“A quanto pare basta che parli, dottoressa.”

 

“E allora parlo, dottore, molto volentieri. Che novità ci sono?”

 

Mancini fece un breve riassunto di quanto avvenuto da quando si erano lasciati due giorni prima.


“Però tutto sommato… ha senso, se ci pensiamo, che il bimbo di Melita non sia figlio di nessuno di quei galantuomini,” ragionò ad alta voce, e non solo per tenere zitta la sirena, “alla fine… se fosse stato figlio di uno del clan, non lo avrebbero mai dato via, una volta nato. Quelli sono criminali spietati, ma hanno un senso dei legami di sangue e della famiglia assolutamente distorto ma anche radicale. E un figlio, maschio poi, è forse IL legame di sangue per eccellenza per loro. Almeno fino a che non cresce abbastanza da fare uno sgarro, naturalmente.”

 

“Già… non ha torto, dottoressa. Ma questo ci lascia con il dubbio di chi possa essere il padre. Magari, visto anche l’aspetto del bambino, qualcuno conosciuto in Spagna?”

 

“Sì, dottore, ritengo che sia la cosa più probabile. Probabilmente quando l’abbiamo conosciuta io e Calogiuri, Melita era già incinta, da pochissimo, e quasi sicuramente non lo sapeva. Credo abbia scoperto della gravidanza soltanto dopo il rientro in Italia ma, a quel punto, bisogna capire perché non abbia mai avvertito il padre biologico. O, se l'abbia fatto ma lui se ne sia fregato. Ma, soprattutto, il perché abbia poi tenuto tutto nascosto. Dobbiamo risalire ai messaggi di Melita, nei primi mesi dal suo rientro in Italia. Anche perché ad un certo punto devono essere entrati in gioco i Mazzocca. Forse la tenevano d’occhio, insieme a Coraini e ai suoi uomini, da quando l’abbiamo aiutata a Maiorca, e… e una volta scoperto che era incinta l’hanno contattata e l’hanno ricattata.”

 

“Sì, Imma, mi sembra uno scenario molto probabile,” confermò Irene, mentre il piccolo tra le braccia continuava a sporgersi verso lo schermo.


“Però… però una cosa è strana…” proclamò Calogiuri, col tono di quando aveva appena fatto un lungo ragionamento, “perché Melita a quel punto non ha nemmeno provato ad andarsene, ma è rimasta qua a Roma a farsi ricattare? Va bene che i Mazzocca sono potenti ma… lei è giovane, abituata a viaggiare, poteva almeno provare ad andare in un posto dove loro sono meno presenti. Tanto non è che abbia una famiglia qua a Roma. E invece… e invece è rimasta. Cos’avevano in mano su di lei?”

 

Sorrise, perché le intuizioni di Calogiuri miglioravano sempre, come il vino buono.

 

“Dobbiamo scoprirlo. Mariani, si occupa lei di coordinare queste ricerche?” domandò Mancini e lei annuì.

 

“Vorrei darvi di più una mano ma… tenere Francesco è già un lavoro a tempo pieno,” commentò Irene e provò un moto di solidarietà femminile verso tanta disperazione.


“Anche io controllerò, dalle mie fonti,” si offrì Ranieri.

 

“E anche io naturalmente farò la mia parte di lavoro,” concluse Mancini, in quella che fu anche, in un certo senso, la conclusione del meeting.

 

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“E certo! Come no!”

 

Era appena uscito dal bagno, dove si era fatto una bella doccia, prima di dormire - che poi, la notte prima, a stare accanto ad Imma senza trovare il coraggio di fare niente, mica aveva dormito molto - quando sentì la sua voce inconfondibile dalla camera da letto.

 

Magari sta parlando di nuovo con Ottavia! - pensò, e quindi si avvicinò il più silenziosamente possibile, perché voleva capire se fosse ancora dell’idea di andarsene o-

 

“A Matera? Tra due giorni? Beh, sì, è possibile, certo.”

 

Gli venne da vomitare.

 

Altro che cambiare idea! E non stava parlando con Ottavia ma era al telefono. Con Vitali, presumibilmente, visto che parlavano di vedersi direttamente in procura.

 

Era finito… era tutto finito! Imma si era stancata della sua indecisione e… ma come aveva potuto decidere tutto così, senza dirgli niente?!

 

Nemmeno quello si meritava, dopo tutto quel tempo insieme?!

 

Mentre la delusione ed il dolore lo sommergevano, piano piano, cercò di allontanarsi dalla porta, per raggiungere il divano letto e buttarcisi, fino a riprendere un minimo di lucidità.

 

Ma, forse per gli occhi appannati, toccò dentro alla maledetta statua del leopardo che presidiava il corridoio.


“Calogiuri? Sei tu? Tutto bene?”

 

E no che non va tutto bene! - al dolore si aggiunse la furia e, forse per quello, fece inversione di marcia ed entrò in camera, pronto ad affrontare Imma.

 

“Calogiuri, tutto bene? Vieni a letto, dai, che è tardi!”

 

Ma lui di dividere il letto con lei non ne aveva alcuna voglia, zero, proprio.

 

“Ma che tieni?” gli chiese, con sguardo e tono preoccupati.

 

“Niente…” abbozzò, perché no, non era pronto ad affrontarla, non ancora, rischiava di dire delle cose terribili in quel momento e non voleva farlo.

 

“Come niente?! Calogiuri, ma che ricominci coi silenzi, con i non detti, con il tenerti tutto dentro? Se devi fare così, puoi pure andartene sul divano!”


“Con molto piacere!” esclamò, perché non riusciva a tenersi dentro la delusione e, per sottolineare la sua decisione, si prese il suo cuscino, pure se il divano letto ne aveva già un altro.

 

Fece due passi verso la porta ma poi no, dire solo quello non gli bastava e si voltò verso Imma, che lo guardava in un modo così ferito che gli parve ancora di più una presa per il culo e sbottò, “e comunque non sono l’unico che non dice le cose qua, anzi.”

 

“Che vuoi dire?”

 

Niente, sempre quel tono da finta tonta. Voleva proprio farlo uscire di testa.


“Chi era al telefono mo, eh?”

 

Imma rise. Rise!

 

“Vitali, Calogiù, Vitali. Non mi dirai che mo sei geloso pure di lui?” gli domandò, con una nota divertita nella voce che lo mandò ancora di più in bestia.

 

“Il problema non è Vitali, ma quello che vi siete detti.”
 

“Ah, allora hai sentito?” domandò lei, sembrando per un attimo colpita, “cioè… per carità, lo so che non ti ho detto niente prima, e che forse mi sarei dovuta consultare con te-”

 

“Forse?!”

 

“Cioè… di sicuro ma… non pensavo che per te fosse tutto sto problema venire a Matera con me.”

 

Fu come se gli fossero piovuti addosso tre secchi d’acqua, tutti insieme.

 

La furia se ne era andata, sostituita dalla confusione e pure da un po’ di imbarazzo.

 

Si trovò seduto sul letto: le gambe gli avevano ceduto, tra il sollievo e tutto il resto.


“A… a Matera con te?” ripeté, non capendoci più niente.

 

“Sì, Calogiuri. C’è da andare a interrogare Lolita e Mancini ed Irene ritengono che, se la interroghiamo noi due, avremo più risultati.”

 

“Io e te insieme?” gli uscì, non perché non avesse capito ma perché-

 

“Ma che sei diventato sordo, Calogiuri? O sei tornato ai vecchi tempi? Di sicuro non ci dobbiamo andare io ed Ottavia - con tutto il rispetto, Ottà, che lo so che faresti un gran lavoro con quella gattamorta! - ma-”

 

Il viso di Imma mutò improvvisamente, si guardarono negli occhi e capì che aveva capito.

 

“Ma… ma Calogiuri…” sospirò lei, con tono amareggiato, amareggiatissimo, “ma non dirmi che pensavi veramente che io volessi tornarmene a Matera definitivamente senza di te. E senza nemmeno avvertirti?”

 

“Lo so… ma è che… è che lo so che… che stai ragionando sul tuo futuro e… e che tra le opzioni possibili c’è Matera e… e mi avevi detto che volevi lasciarmi libero e quindi-”

 

“Ma ovviamente ne parlerei prima con te, Calogiuri, anzi, ne parlerò con te. E di sicuro non ti mollerei mai qua da solo finché non verrà accertata del tutto la tua innocenza. Ma per chi mi hai presa?! E, in ogni caso, dovremo parlarne insieme e decidere insieme cosa vogliamo fare. Chiaro?!”

 

Era così decisa, così fiera che… che non potè resistere e l’abbracciò e poi le riempì le guance di baci, mentre non riusciva più a controllare neanche le parole, che gli uscivano così, tra un “scusami, scusami!” e un “è che ho tanta paura di perderti! Non sai quanta!”

 

“Calogiuri…” un soffio nell’orecchio, che lo calmò, “qua il problema non è perdermi, ma se vuoi avermi davvero. Al cento percento.”

 

Nascose il viso nel petto di lei, per nascondere due lacrime che se ne volevano uscire a tradimento, e la strinse ancora più forte.

 

Non l’aveva mai amata quanto in quel momento, più di così, mai ma… non sapeva come fare ad avvicinarsi a lei di più, a colmare quel cento percento, senza che la mente gli giocasse altri brutti scherzi.

 

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Per rilassarsi c’era chi andava alla SPA, chi si faceva fare i massaggi, chi praticava lo yoga.

 

Ma lei non si era mai sentita tanto rilassata come in quel preciso istante, dopo quasi cinque ore attaccata alla schiena di Calogiuri, mentre la moto sfrecciava veloce nel buio, prima sull'autostrada e poi nelle stradine semideserte che li avevano riportati a Matera.

 

Avrebbero dovuto fare più viaggi lunghi in moto e si ripromise di proporglielo, una volta che sarebbe stato scagionato del tutto, sperando di essere ancora insieme.

 

C’era da dire che gli avvicinamenti degli ultimi giorni facevano molto ben sperare in tal senso, anche se lui sembrava ancora un poco bloccato e intimorito. Ma almeno erano sempre più vicini e a loro agio, quasi perfino di più che ai tempi migliori, e pure durante quel viaggio aveva sentito Calogiuri completamente rilassato, anche se concentrato sulla strada. Aveva beccato la sua espressione qualche volta con i retrovisori e teneva sempre un sorriso bellissimo.

 

Per non parlare della sosta alla stazione di servizio, per rifornire la moto ed andare in bagno. Le aveva comprato, a sorpresa, oltre al suo amato bombolone alla crema e al cappuccino, anche una scatola di cioccolatini. Al peperoncino.

 

E al suo “di buon auspicio, Calogiuri?”, tutto rosso, le aveva risposto con un “eh… l’aria di Matera…” da mangiarsi lui a morsi, altro che i cioccolatini.

 

Ma purtroppo, prima che potesse mantenere il proposito, erano sopraggiunti anche Mancini e Mariani che, essendo in auto, erano decisamente più lenti. E va bene che il procuratore capo sembrava stare cercando di andare avanti e non essere più rancoroso, ma il dito nella piaga era meglio evitare di girarlo.

 

E quindi i cioccolatini erano rimasti nella loro scatoletta ed il bacio nella bocca, insieme con l’amaro.

 

“Come va? Sei stanca? Quasi ci siamo!”

 

Il grido di Calogiuri la riportò al presente.

 

“E che non lo so, Calogiuri? Ti ricordo che conosco Matera e le sue meravigliose infrastrutture stradali da un po’ più di tempo di te,” lo sfottè, facendogli l’occhiolino quando lui si girò per due secondi per guardarla, con quell’aria adorabilmente esasperata che amava tanto, “e comunque no, non sono stanca. Tu, piuttosto, che ti sei fatto più di quattrocento chilometri?”

 

“Con te che mi abbracci così… è impossibile sentire la stanchezza.”

 

Eccallà!

 

Una delle micidiali dichiarazioni di Calogiuri, che ti buttava lì con quel tono tra l’esitante e l’ovvio e che ti riducevano in poltiglia, fin da quella primissima dichiarazione nel suo ufficio.

 

Ma doveva rimanere in stato solido per non cadere dalla moto e Calogiuri dovette subito tornare a guardare avanti, per non schiantarli entrambi.

 

“Dovremmo farlo più spesso… qualche bel viaggio lungo in moto,” aggiunse poi, il petto che gli vibrava sotto le sue dita, “mi sento… quasi rinato… non so… non so come spiegarlo, ma è così.”

 

“Anche per me è lo stesso, Calogiuri. E quando vuoi. Ma prima il dovere e poi il piacere!”

 

“Agli ordini, dottoressa!”

 

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Sentì bussare alla porta. Si era appena fatta una doccia, che ne aveva proprio bisogno, anche se il relax in quella stanza era fuori discussione. Magari era qualcuno dell’hotel che aveva dimenticato qualcosa, tipo di averla infilata in uno sgabuzzino.


“Chi è?” domandò, stringendosi di più nell’accappatoio.

 

“Mancini. Mi scusi il disturbo, Mariani, ma… volevo accertarmi sulle condizioni della sua camera.”

 

Ok, forse non era stata l’unica ad essere stata infilata in uno sgabuzzino.

 

Aprì la porta e Mancini divenne rosso come uno di quei peperoni che c’erano appesi vicino alla hall.

 

“Scusi ma… ho appena finito la doccia…” abbozzò, imbarazzata: dai tempi dell’accademia era abituata a farsi vedere in costume o accappatoio dai colleghi maschi, ma Mancini era così vecchio stampo.

 

Su quello era simile a Calogiuri, ma solo in quello - oltre che nella passione per la dottoressa Tataranni.

 

“No, scusi lei… di solito non è mia abitudine fare un’improvvisata nelle stanze delle colleghe…” chiarì, che quasi balbettava, “ma… ma volevo chiederle se anche la sua stanza, come la mia, è un po’...”

 

Sorrise e spalancò la porta, in modo che verificasse di persona. E poi fu il suo turno di imbarazzarsi.

 

“Come vede… immagino di sì. Mi dispiace, dottore: quando ho fatto le prenotazioni avevo visto che era un vecchio monastero ma… non pensavo che… che le stanze sembrassero uscite da Il Nome della Rosa.”

 

Mancini rise.

 

“In effetti più che Chiara, sembra Santa Chiara in cella,” ironizzò Mancini, guardandosi intorno.

 

“Le dovrei dire che allora lei sembrerà San Francesco ma… lei il voto di povertà non si può proprio dire che l’abbia fatto, dottore, con tutto il rispetto.”

 

Lui si grattò la nuca e parve un poco mortificato.

 

“Spero di… spero che la mia situazione economica non la metta troppo a disagio, Mariani.”
 

“Non più di tanto, dottore. Ed è divertente guidare la sua auto di lusso ma… ma se non vuole mettermi a disagio, che ne dice se andiamo a mangiarci qualcosa in un locale alla mia portata, sempre se c’è ancora qualcosa di aperto? Anche perché se sto troppo in questa stanza, a furia di stare piegata, mi anchiloso qualcosa. Lei non so come fa, alto com’è!”

 

“Mi allenerò molto con gli squat in questi giorni,” ironizzò lui, sembrando però sollevato, “e va bene, andiamo a vedere se c’è ancora qualcosa di aperto. Tra dieci minuti nella hall?”

 

“Va bene.”

 

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“Mi sembra una vita che non ci venivo qua.”

 

“In un certo senso lo è…”

 

Le toccò assentire: dopo l’outing a Valentina e da quando sua figlia e la sua ex suocera non facevano più le feste insieme, non aveva più avuto motivi di tornarci, se non per le indagini.

 

Certo, l’ultima volta che erano stati a Matera insieme… era stata assolutamente indimenticabile, con quella proposta di matrimonio che le venivano ancora i brividi ed il groppo in gola solo a pensarci.

 

Ma erano capitate talmente tante cose che, anche se non era passato nemmeno un anno, le pareva realmente una vita precedente.

 

E pure la casa della buonanima di sua madre era diversa: c’erano ancora alcune tracce della permanenza di Rosa e di quell’uragano di Noemi.

 

“Che dici, Calogiù, proviamo a dormire? Che domani sarà una giornata lunga.”

 

“Agli ordini, dottoressa, vediamo se ricordo ancora dove tieni le lenzuola.”

 

“Più che altro se Rosa non le ha spostate,” ironizzò lei, seguendolo fino alla camera da letto rifatta ai tempi in cui ci aveva vissuto nel suo periodo da single post separazione, e che era stata usata prevalentemente anche da Rosa e Noemi, “ma ti dò una mano, ci mancherebbe.”

 

Ci si misero di buona lena e si chinò per infilare sotto al materasso le lenzuola ed il copriletto col piumone - che a Matera ancora freddo faceva - quando vide qualcosa di bianco e piatto sotto al letto.

 

Lo estrasse, curiosa, e la prese un altro nodo di emozione.

 

“Che cos’è?” le chiese Calogiuri, avvicinandosi, e lei gli mostrò un disegno di Noemi, appena ritrovato, in cui la piccola artista, aveva ritratto, seppur in modo molto astratto, se stessa, Rosa, lo cio e pure lei ed Ottavia.

 

“Ti manca la peste, eh?” lo sentì sussurrare e di nuovo non servirono parole, perché era una domanda retorica.

 

“Quando tutto questo casino sarà finito… in ogni caso la devi rivedere, dottoressa, assolutamente, perché ormai sei di famiglia, lo sai.”

 

La commozione fu inevitabile - mannaggia a lui! - ma lei con Calogiuri voleva non solo essere famiglia, ma coppia, nel senso pieno del termine e-

 

Quel pensiero si dissolse, insieme a tutti gli altri, perché si trovò con la schiena al muro, Calogiuri che la baciava con una passione tale da levarle il fiato, bloccarle i neuroni e far correre troppo veloce tutto il resto.

 

Altro che il cioccolato al peperoncino, che manco avevano mangiato!

 

Gli si aggrappò alle spalle, istintivamente, spalmandosi su di lui, sempre più vicino, e poi… e poi sentì le mani di Calogiuri sotto il maglione, sopra al reggiseno e-

 

“Aspetta!” esclamò, spingendolo leggermente indietro per riprendere fiato.

 

“Che… che succede?”

 

Lo sguardo di Calogiuri era spaventato e quasi addolorato, ma soprattutto impaurito. Forse temeva che in quel momento ad essere in blocco fosse lei? O a pensare ad altri?

 

“Succede che… tra poche ore dobbiamo essere a interrogare Lolita e… e per quanti arretrati c’abbiamo da recuperare, sempre se… ti sei sbloccato, Calogiuri, rischiamo di arrivarci senza nemmeno un minuto di sonno e distrutti completamente. Dobbiamo essere lucidi, Calogiuri: ne va della tua vita, ed è quella la priorità mo. Manca così poco! Anche se l’aria di Matera ti fa proprio bene!” proclamò, facendogli l’occhiolino, anche per rassicurarlo.

 

Lui sospirò e pure lei, perché lo sentì staccarsi del tutto e dire che fosse frustrata in quel momento sarebbe stato come dire che la Moliterni era un po’ poco attaccata al lavoro.

 

Ma prima il dovere, poi… il piacere. O almeno si sperava.

 

“Va bene… allora… allora però forse è meglio che vado a dormire nell’altra stanza: niente tentazioni almeno.”

 

“Eddai, Calogiuri, è tradizione che dormiamo insieme, prima di momenti chiave come questo, o no? Magari ognuno nella sua metà del letto.”

 

“E allora mi andrò a fare una lunga doccia fredda, lunghissima,” decise lui, iniziando già a levarsi i vestiti. Vederlo così era una tortura, un crimine contro l’umanità, soprattutto perché piano piano ricominciava a prendere un po’ di massa e qualche muscolo cominciava a fare capolino sotto la pelle.

 

Forse il disgraziato notò lo sguardo di lei, perché, prima di andare in bagno, le si avvicinò e le sussurrò, in un modo che le causò un brivido lungo la schiena, “e comunque l’aria di Matera fa bene pure a te, dottoressa, molto. E poi Matera è tutta un’altra cosa.”

 

E la lasciò lì, scombussolata e commossa, a cercare di cambiarsi in qualcosa di non troppo tentatore, e a dubitare seriamente di riuscire a dormire, con tutta quell’elettricità nell’aria, che sembrava di stare in una sauna.

 

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“Come temevo è quasi tutto chiuso, nonostante al sud si mangi più tardi.”

 

“Ma… ma forse quel locale è aperto?”

 

Guardò dove indicava Mariani ed effettivamente c’era un ristorantino, anzi un bistrot, come proclamava l’insegna, con ancora le luci accese ed un paio di avventori ai tavoli.

 

E però, davanti c’era pure una volante dei carabinieri, con tanto di lampeggianti che andavano, per fortuna niente sirena.

 

“Aperto sembra aperto… basta non sia per una retata…” commentò quindi, ma a quel punto la sua curiosità e la deformazione professionale erano state sollecitate.

 

Quindi fece segno a Mariani e si avvicinò.

 

Aveva appena raggiunto la volante quando dal locale uscì un uomo in divisa - un maresciallo, se non vedeva male nel buio - con le braccia cariche di una cesta piena di prodotti caseari.

 

“Ci sono problemi?” chiese quindi al maresciallo e, al suo sguardo interrogativo, estrasse il tesserino e disse, “procuratore capo Mancini. Procura di Roma.”

 

“Ma quindi voi siete il capo della Tataranni! O ex capo!” esclamò il maresciallo, aprendosi in un sorriso quasi comico, mentre mollava le mozzarelle nel bagagliaio e poi tornava a rivolgersi a lui, porgendogli la mano, “maresciallo capo Antonio LaMacchia, di stazione qua a Matera. Modestamente parlando, dottore, io e la dottoressa Tataranni eravamo una squadra fortissima! Pensate che abbiamo risolto insieme l’omicidio di Nunzio Festa, che è stato il primo caso in cui abbiamo scoperto dei rifiuti tossici interrati e che poi ha portato al maxiprocesso che ora tenete voi. Modestamente, anche per merito delle mie intuizioni e della mia capacità di mettere i criminali sotto torchio.”

 

Si morse le labbra per non ridere e, con la coda dell’occhio, vide che pure Mariani faceva lo stesso: sia perché che quel maresciallo riuscisse a mettere sotto torchio qualcosa - che non fossero le olive - gli pareva assai improbabile, ma anche perché sembrava esattamente il prototipo di persona che Imma detestava. Oltre al fatto che non glielo aveva sentito nominare nemmeno una volta e non era mai comparso neanche negli atti processuali del maxiprocesso.

 

“Bene, bene. Ma come mai è qua, maresciallo? Ci sono problemi in questo locale?”

 

LaMacchia fece uno sguardo quasi scandalizzato, “problemi?! In questo locale?! Ma si figuri, dottore, anzi! Questo è il miglior ristorante di tutta Matera: cibo buono, genuino, in una chiave moderna. Se volete cenare, dovete provarlo assolutamente.”

 

“In realtà sì ma è tardi e-”

 

“E qua noi siamo gran lavoratori, che mica solo quelli del nord tengono l’esclusiva! We, frate’, vien’!”

 

Dal locale uscì un quasi sosia del maresciallo, solo più giovane, ed il carabiniere li introdusse con un, “questo è il procuratore capo di Roma, il dottor Mancini e… come si chiama la sua signora?”

 

Si sentì arrossire e notò che pure Mariani era in imbarazzo.

 

“No, no, sono una collega, una collega sua ed una sottoposta del dottore. Maresciallo Chiara Mariani.”

 

LaMacchia la squadrò per un attimo dalla testa ai piedi, in un modo che gli diede un po’ fastidio, “eh… magari avessimo pure qua colleghe belle come lei! Che sembra un’attrice! Non è che magari vorrebbe trasferirsi qua a Matera, prima o poi? Si troverebbe bene, glielo garantisco personalmente.”

 

“Non ne dubito, ma-”
 

“E comunque, frate’, te li lascio che vogliono cenare. Mi raccomando, trattamento speciale, eh.”

 

“No, no, nessun trattamento speciale, che siamo comunque ufficiali pubblici e-”

 

“E lo sono pure io. Ma siamo tutti una grande, bella, anzi, bellissima famiglia, no? E mi saluti tanto la dottoressa Tataranni, se ancora la vede. Ma certo che la vede, per il processo, no? E poi dopo tutti i casini degli ultimi giorni! Certo… chissà se quel Culugiuri è davvero innocente! Che quello, zitto zitto, bello bello, è sempre stato un furbone! Chissà che ci ha trovato la dottoressa!”

 

“Calogiuri. E comunque sono certo che proveremo pienamente l’innocenza del maresciallo, che è un uomo di gran valore.”

 

LaMacchia sembrò mordersi letteralmente la lingua e vide lo sguardo sconvolto di Mariani. In effetti ne era quasi sconvolto lui stesso, di aver pronunciato quelle parole. Ma toccava dare al maresciallo quello che era del maresciallo e tra l’investigazione e l’azione a casa dei De Angelis, nell’ultimo periodo era stato assolutamente impeccabile, ben oltre quello che ci si poteva aspettare da un carabiniere del suo grado.

 

“Va beh, e indand’ che si prova la sua innocenza, io vi lascio in buone mani. I miei ossequi!”

 

E, dopo aver fatto il saluto militare e chiuso il bagagliaio, il maresciallo partì, sempre con i lampeggianti in funzione, che ci sarebbe stato da fargli una multa solo per quello.

 

Ma non ebbe tanto il tempo di ragionarci su, perché si trovò senza capire come seduto ad un tavolo insieme a Mariani e, nel giro di un altro minuto, davanti a loro c’era un antipasto freddo di salumi, formaggi, quelli che forse si chiamavano lampascioni più quei peperoni essiccati, che ci sarebbe voluta una maratona per smaltire tutto, anche se effettivamente pareva tutto di ottima qualità.

 

E poi due calici di vino rosso, un primitivo a giudicare dall’etichetta.

 

Mariani lo guardò e poi scoppiò a ridere, proclamando, “non mi era mai capitato niente di simile!”

 

“A me sì, ad Atene, all’Acropoli, ma… ma pure qua si difendono bene. Anche se l’Arma non mi pare così incorruttibile.”

 

“Mi sembra di sentire la dottoressa Tataranni,” lo prese in giro Mariani, bonariamente.

 

“Diciamo che capisco un po’ di più la sua inflessibilità, visto l’ambiente con il quale ha dovuto avere a che fare. Ma ora non pensiamo alla dottoressa e concentriamoci sulla cena e sulla digestione.”

 

“Mi sembra una buonissima idea, dottore,” sorrise Mariani, alzando il calice, e lui fece lo stesso, toccandolo col suo, anche se per galateo non avrebbe dovuto.

 

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“Menomale che sei venuto! Io non ce la faccio più. Neanche con Bianca smette di piangere stasera e mi spiace pure per lei.”

 

Era accorso dall’hotel, pure se era mezzanotte. Irene era stravolta, in camicia da notte e vestaglia bianchissime.

 

Si chiedeva come facesse ad essere così bella pure così distrutta.

 

Si levò il giaccone ed andò verso la camera da letto, dove c’era Bianca che si tappava le orecchie mentre chiedeva al bimbo di non piangere.

 

Quando lo vide, gli fece un sorriso bellissimo e disse a Francesco, “hai visto che c’è anche Lorenzo? Dai che siamo tutti qua, non devi avere paura.”

 

Quella bambina era una meraviglia: avrebbe fatto venire l’istinto paterno pure ad Erode. Guardò di sbieco Irene e pure lei era commossa.

 

Prese Francesco in braccio e ci provò a calmarlo, sincerandosi con Irene che avesse già mangiato, fatto il ruttino e tutti gli altri bisogni. E non sembrava nemmeno avere le coliche.

 

Le tentò tutte: cullarlo, farlo giocare, tenerlo attaccato a sé, ma niente, piangeva, piangeva piangeva.

 

“Ci vorrebbe Imma qua!” sospirò Irene, sfregandosi gli occhi, “e proprio mo che sta a Matera.”

 

“Ma esistono i telefoni, no?” le ricordò e guardarono insieme l’ora, “lo so che domani ha un’udienza importante, ma dubito stiano già dormendo. Magari puoi mandarle un messaggio?”

 

“Sei un genio!” esclamò Irene, sorridendogli in quel modo che… avrebbe fatto qualsiasi cosa, qualsiasi, per vederla sempre sorridere così.

 

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“Dottoressa, ti è arrivato un messaggio mentre eri sotto la doccia.”

 

Era appena uscita dal bagno, con su il pigiama leopardato e la vestagliona a stelle, che erano la cosa meno tentatrice che possedesse, e Calogiuri era a letto, seduto praticamente su una delle sponde, che la guardava a mo di interrogatorio.

 

Le venne da ridere ma si trattenne e si mise pure lei dal suo lato del letto, ma bella bella, comoda comoda, in mezzo. E poi recuperò il cellulare ed effettivamente c’era un messaggio.

 

Francesco non ne vuole sapere di dormire. Non è che possiamo fare una breve videochiamata? Anche solo un vocale. Magari con la tua voce si calma di nuovo.

 

Sorrise, immaginando Irene che ancora un po’ si strappava i timpani per non sentire i pianti. Anche se, dall’altro lato, provava pure una certa solidarietà.

 

“Chi è che ti scrive a quest’ora?”

 

Lanciò un’occhiata a Calogiuri, che era con le braccia incrociate ed un’espressione quasi offesa tenerissima. Probabilmente averla vista sorridere aveva peggiorato la situazione, gelosone che era!

 

Gli passò il cellulare, che leggesse lui.

 

Lo vide sgonfiarsi, letteralmente, e grattarsi il collo, come faceva sempre quando era in imbarazzo, per poi chiederle, “che pensi di fare?”

 

“Diciamo che non voglio morti sulla coscienza, Calogiuri, e neanche TSO,” gli rispose, avviando una videochiamata con la ex gattamorta.

 

“Pronto? Imma? Finalmente! Scusami ma qua non ce la facciamo più!”

 

“E te credo!” rispose, perché di sottofondo alle parole di Irene, che sembrava una discendente dei panda per le occhiaie che teneva, c’era una sirena che manco durante i bombardamenti, “dove sta Francesco?”

 

“Aspetta!”

 

Irene fece segno verso il bordo dello schermo ed apparve Ranieri, con in braccio un Francesco tutto rosso in viso ed incazzosissimo.

 

“Capitano!” esclamò, avendo l’ennesima conferma che sì, quei due non la contavano proprio giusta.

 

“Sono venuto a dare una mano ad Irene ma… non è servito a niente.”

 

Excusatio non petita…

 

“Ma siete sicuri che non stia male?” domandò Calogiuri, con gli occhioni sbarrati, che le sarebbe venuto da dirgli - eh, bello mio! E manco hai visto niente! - non fosse stato che, se non avrebbe mai forse visto niente in vita sua, era anche colpa di lei.

 

“Non ha né febbre né nulla,” rispose Irene, cercando di fargli delle carezze sulla schiena, “Imma, non è che puoi dirgli qualcosa?”

 

“Francesco? Francè!” lo chiamò e, al secondo richiamo, la sirena cessò per un attimo e lo vide girarsi, con quegli occhi neri meravigliosi pieni di lacrime, la manina che andava verso il telefono.

 

Ma poi riprese a piangere.

 

“Prova a parlargli di più… magari gli puoi raccontare una storia?”

 

“E che storia gli racconto mo?” si chiese: l’esperto lì era Calogiuri e pure con Valentina di quelle cose solitamente si occupava Pietro. Si guardò in giro, cercando tra i suoi vecchi libri, che non erano stati buttati ma erano stati riposti in una piccola scaffalatura vicino al letto.

 

E si illuminò: sì che ce l’aveva lei la soluzione.

 

Afferrò il vecchio e polveroso tomo di diritto processuale penale e, sotto allo sguardo sbigottito di Calogiuri, lo aprì ed iniziò a leggere ad alta voce, dalla prima pagina, “la legge penale definisce “i tipi di fatto” che costituiscono reato e le sanzioni previste per coloro che li commettono. La legge processuale penale regola il procedimento mediante il quale si accerta se è stato commesso un fatto di reato, se l’imputato ne è l’autore e, in caso positivo, quale pena debba essergli applicata.”

 

Fece una breve pausa per riprendere il fiato e guardò verso lo schermo: il piccoletto aveva gli occhioni spalancati, incuriositi e, soprattutto, aveva smesso di ululare.

 

Continuò quindi a leggere, snocciolando definizioni sul sistema inquisitorio, il sistema misto, fino alle leggi di procedura penale secondo la costituzione e, mano a mano che proseguiva, gli occhioni si rimpicciolivano, sempre di più, finché, dopo un paio di sbadiglioni, Francesco si accasciò in braccio ad un sollevatissimo Ranieri.

 

“Proviamo a metterlo nel letto…” sussurrò Irene, facendo cenno verso di lei, “per sicurezza puoi rimanere in linea ancora un attimo?”

 

Fece cenno di sì di rimando, tenendo il tomo aperto per scaramanzia, ma il piccoletto fu accomodato accanto a Bianca, che pareva distrutta pure lei, povera creatura, tanto che chiuse gli occhi quasi subito.

 

“Grazie Imma… non so come hai fatto ma…” sussurrò Irene, con un’aria che dire che fosse grata era dire poco.

 

“Come ho fatto? Se non si addormentava con questo, ci voleva il gas!” ironizzò e Calogiuri al suo fianco rise.

 

Ma era commosso, si vedeva, e pure lei, sentiva quella specie di calore al cuore che di solito le provocava solo lui.

 

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“Credo che non mangerò più niente fino al ritorno a Roma!”

 

Gli venne da ridere e se ne pentì subito, perché lo stomaco, strapieno, protestò con una fitta tremenda.

 

Dopo gli antipasti era arrivato il primo di pasta con la salsiccia, poi costolette d’agnello con i lampascioni ed infine dolci ed un passito da rimanerci stesi.

 

Tutto buonissimo ma nemmeno a natale mangiava così tanto ed era pure tardissimo e… di sicuro lo attendeva una notte insonne nella cella monastica. Ed il giorno dopo era decisivo.

 

“Credo che neanche per il ritorno a Roma avrò finito la digestione, Mariani.”

 

“Eh… nemmeno io. Perché non ci facciamo due passi, dottore, prima di rientrare? Non dovrebbe essere ghiacciato e almeno magari un poco ci si libera lo stomaco, prima di rientrare in cella.”

 

“Va bene, mi sembra una buona idea, anche se è notte fonda e ormai non c’è in giro nessuno.”

 

“Meglio così, no? Almeno abbiamo la città tutta per noi.”

 

Sorrise, non riuscendo ad evitarlo: Mariani vedeva sempre il bicchiere mezzo pieno, una qualità rara. Specie per chi faceva il loro mestiere.

 

E così camminarono, lentamente perché appesantiti da tutto quel ben di dio, piano piano, faticando sulle salite e cercando di non scivolare per le discese, in quel panorama che sembrava uscito da un film d’epoca e poi quasi lunare, ai bordi della città.

 

Stavano risalendo, dopo aver ammirato la Gravina di notte, quando sentì un mezzo urlo e vide, come al rallentatore, Mariani, che era sul gradino appena sopra al suo, scivolare all’indietro.


D’istinto si sporse in avanti e la afferrò per la vita, prima che cadesse del tutto, e per fortuna riuscì poi a mantenere l’equilibrio per entrambi, appoggiandosi con la schiena alla parete di roccia lì di fianco.

 

Tirò un paio di sospiri di sollievo, e pure lei, finché si rese conto, di colpo, di stare tenendo ancora Mariani stretta a lui, petto contro schiena, e la lasciò andare, subito, travolto dall’imbarazzo e da una sensazione un poco strana ma che non avrebbe saputo definire.

 

Mariani si voltò e anche al buio notò che aveva le guance scurissime.

 

“Tutto bene, Mariani?” si sincerò e lei annuì, anche quando lui aggiunse, per levarsi dall’imbarazzo, “forse è meglio che rientriamo in cella?”

 

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Teneva gli occhi chiusi, sbarrati, cercando di rimanere in equilibrio sul bordo del letto, tutto pur di non toccare Imma e non farsi toccare da lei, perché se no… rischiava grosso. Già gli ci era voluta una doccia infinita per calmare la situazione ma poi ad avercela così vicina da sentire il suo respiro… gli istinti tenuti a bada così a lungo si erano risvegliati con una forza tale da rendere difficilissimo controllarli, figuriamoci riposare.

 

Un tocco sul fianco e per poco non fece un salto.

 

E poi, nel giro di pochi secondi, due braccia che gli cingevano la vita, le mani che gli davano tormento all’addome ed il seno di Imma attaccato alla sua schiena, il fiato sul collo, letteralmente.

 

Prendendo un forte respiro, che gli mancava l’aria gli mancava, torse il collo e la vide apparentemente addormentata, tranquilla - almeno lei! - e con un sorriso dolce sul viso.


Forse pensava di essere ancora in moto con lui, ma quella era una tortura, una vera tortura.

 

Altro che riposare prima dell’interrogatorio.

 

Questo è il karma, bello mio! - la voce della sua coscienza, che suonava sempre più come Imma, gli ricordò: chi di notti in bianco (in tutti i sensi) feriva… di notti in bianco periva.

 

Era tentato, tentatissimo, di voltarsi e… altro che bianco… ma Imma aveva il diritto di riposare, almeno lei.

 

E quindi, piano piano, per non svegliarla, sciolse l’abbraccio, rimettendole le mani sui fianchi, anche se lei si era attaccata che neanche Francesco con lei, e poi si affrettò a correre in bagno, definitivamente rassegnato all’insonnia ed a un’altra doccia fredda.

 

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Scendere al piano sotterraneo della procura, percepirne il freddo entrarle nelle ossa, l’odore di umido ed ammuffito, la svegliò di colpo, nonostante le poche ore di sonno.

 

Guardò Calogiuri che le aprì la porta e poi camminò accanto a lei e si chiese se stessero pensando la stessa cosa.

 

Quel luogo… era lì che aveva interrogato Melita per la prima volta e sempre lì, nella stessa identica stanza, l’aspettava ora, per quel faccia a faccia dal quale dipendeva la sorte di Calogiuri e del processo.

 

“Dottoressa, come vuole procedere?”

 

La vocetta di Vitali, alle sue spalle, la portò a guardare verso il suo ex capo, ancora più basso e dal baffetto tremante. Le parve un topo in quel sotterraneo.

 

Mancini e Mariani erano rimasti al piano di sopra, a guardare tramite la telecamera, e sarebbero intervenuti per raccogliere la deposizione formale di Melita, se fossero riusciti a convincerla a parlare.

 

“Vorrei… vorrei entrare prima solo io. Un faccia a faccia tra donne, come l’ultima volta. Poi, se serve, al mio cenno entri anche tu, Calogiuri, e… e che qualcuno ce la mandi buona, anche se con tutto quello che ci è capitato… altro che santi a cui votarci.”

 

“Eh… dottoressa… purtroppo in questo paese chi… pesta piedi sensibili… la paga cara. L’ho avvertita, mi pare, più di una volta,” le ricordò Vitali e lei sbuffò, anche se era vero, purtroppo, ma poi il procuratore capo si avvicinò leggermente e le sussurrò, “ma, detto tra noi, sono felice che non mi abbia dato retta, dottoressa. Nonostante tutto.”

 

Gli sorrise: Vitali era un brav’uomo. Un po’ Don Abbondio, ma un brav’uomo. Che era già tantissimo anche e soprattutto nel loro lavoro.

 

Con un ultimo sguardo a Calogiuri, che le fece un mezzo sorriso, di quelli di quando voleva farle forza, afferrò la maniglia ed entrò.

 

Vide subito un movimento, qualcuno che si tirava in piedi, e guardò dritto in faccia Lolita, anzi, Maddalena Bartoli, per la prima volta dopo tantissimo tempo.

 

L’espressione strafottente c’era ancora, o almeno ci provava a farla, a reggere il suo sguardo, ma della Lolita con i sogni da starlette e mangiauomini era rimasto forse solo quello. Il carcere non perdonava, e quella davanti a lei di una Lolita non aveva nulla. Era invecchiata di botto: qualche capello bianco, nonostante la giovane età, più curva, vestita in modo dignitoso per carità, ma banale. Una maglietta, un golfino ed un paio di jeans di almeno una taglia troppo stretti.

 

Il carcere faceva male, lo sapeva.

 

“Maddalena,” esordì, perché le venne naturale e forse anche un po’ per destabilizzarla, “lo sai perché stiamo qua, immagino.”

 

E fu lì che riemerse un poco della Lolita di un tempo, perché Maddalena alzò gli occhi al soffitto, che neanche Valentina in adolescenza, incrociò le braccia e si rimise a sedere, senza dire una parola, con quello sguardo di sfida.

 

“Maddalena, e dai,” insistette, sedendosi a sua volta, di fronte a lei, “sappiamo tutto. Tutto. Fai prima a parlare e collaborare, così, invece di aumentarti la pena, magari puoi pure avere una riduzione per la tua cooperazione. Ne terremo conto. Se no… ci saranno nuove imputazioni a tuo carico.”

 

Ma Lolita sbuffò e, se avesse potuto avere una cicca in bocca, probabilmente ci avrebbe pure fatto un palloncino, per restare ancora di più in personaggio.

 

Provò ancora per un po’, a cavarci qualcosa, ma niente, manco le aveva sentito la voce.

 

Era il momento.

 

Fece un cenno verso la porta e, come da intese, si aprì e Calogiuri fece il suo ingresso, con uno sguardo deciso di cui fu tremendamente orgogliosa.

 

Un rumore tremendo di metallo strisciato sul pavimento e Lolita balzò in piedi, caricando a testa bassa verso di lui, tanto che entrò Capozza a bloccarla, prima che lo potesse raggiungere, urlando “bastardo! Stronzo! è tutta colpa tua se sto qua, bastardo!”

 

“E calmati!” esclamò Capozza, cercando di tenerla ferma e di ammanettarla al tavolo, prima che sfuggisse di nuovo.

 

Calogiuri era molto colpito, si vedeva, da tutto quell’odio, anche se, come lei del resto, per certi versi già se lo aspettava.

 

Ma sembrava veramente che per Lolita, mentalmente, non fosse passato un solo giorno dall’arresto, da quando gli aveva sputato addosso, letteralmente, tutto il suo disprezzo.

 

“Maddalena,” provò ad inserirsi Imma, risiedendosi, mentre Capozza ancora trafficava per tenerla ferma, “quello che ti è successo… non è colpa del maresciallo Calogiuri. Innanzitutto, all’epoca ha solamente eseguito i miei ordini. Ed ho pure dovuto insistere, se proprio lo vuoi sapere, abbiamo pure litigato per un periodo, perché lui non era d’accordo sul… sul fatto di essere lui a procurare le prove della tua colpevolezza.”

 

Maddalena - perché per un istante, dallo sguardo, era di nuovo Maddalena - si bloccò di colpo ma Imma vide che non era affatto convinta e infatti sibilò, “e secondo lei io ci credo? Che ovviamente vi difendete a vicenda. E comunque alla fine la trappola me l’ha fatta lo stesso, il bastardo!”

 

“Maddalena,” ripeté, con un sospiro, allungando il suo nome di proposito, “in ogni caso, la colpa del fatto che tu stai in carcere, non è né mia, né del maresciallo, né di nessuno che ha contribuito al tuo arresto. La colpa, se così si può definire, è solo ed esclusivamente delle tue azioni e ti ritengo troppo intelligente per non capirlo. Noi stavamo facendo il nostro lavoro, Maddalè, tu una scelta ce l’avevi, ce l’hai avuta, se spingere giù Donata o meno. E lo hai fatto. Lo hai fatto tu, non noi.”

 

Fu come se ci fosse un crack visibile nella stanza.

 

La maschera sul viso di Maddalena crollò e la ragazza guardò in basso, con gli occhi lucidi.

 

“Ascolta, ci sta Melita in coma. Lo so che vi conoscevate. E ci sta pure un bambino, innocente, che rischia di finire in un orfanotrofio.”

 

“Come un bimbo?” domandò Maddalena, finalmente con la sua voce vera, sollevando lo sguardo e sembrando sinceramente stupita.

 

“Melita era incinta e ha partorito un bambino la scorsa estate. Non lo sapevi?”

 

“No… no…”

 

Maddalena sembrava davvero molto colpita.

 

“Pure noi lo abbiamo scoperto da poco, perché Melita la gravidanza l’ha tenuta nascosta. Gli unici che lo sapevano erano quei gentiluomini che… che l’hanno ridotta come l’hanno ridotta. E mo lei sta in coma ed il bambino rischia di crescere in un orfanotrofio, anche perché non si sa nemmeno chi sia il padre. Tu hai qualche idea in proposito?”

 

“No… no… io Melita è da prima di… di entrare in carcere che non la sento. Non vedo perché chiedete a me.”

 

“Perché sappiamo che i gentiluomini che l’hanno ridotta così,” esordì, tirando fuori le foto di Melita dopo il pestaggio e buttandole sul tavolo, una a una, “li conosci pure tu.”

 

Maddalena prese un respiro che parve quasi un rantolo.

 

“Maddalè, parliamoci chiaro, Questi non ci mettono niente a far fare la stessa fine pure a te, appena scoprono che siamo arrivati a te e che abbiamo capito tutto. Soprattutto in carcere qua a Matera, che c’hanno ancora molto potere. Ammetti quello che hai fatto e ti possiamo proteggere. O oltre a Donata e Melita, vuoi pure un bimbo sulla coscienza? Lo so che sei cresciuta senza un padre.”

 

Maddalena si morse le labbra, quasi da cavarci il sangue e due lacrime le scesero sul viso, mentre si sgonfiava del tutto. Era ancora così giovane, in fondo. Uno spreco tremendo.

 

“Mi hanno… mi hanno contattata qua in carcere. Giuseppina Mazzocca. Mi ha detto che… che se facevo quello che mi diceva, poteva procurarmi un ottimo avvocato che… che sarebbe riuscito a riaprire il mio caso e a farmi scarcerare. E che potevo pure vendicarmi… che… che dovevo soltanto fornire qualche indicazione su… su Calogiuri nell’intimità.”

 

Maddalena ora stava guardando dritta verso di lui e Calogiuri parve un po’ a disagio, forse perché c’era pure lei presente, ma resse lo sguardo in un modo ammirabile.

 

“Mi hanno mandato un avvocato, amico loro. Gli ho passato un disegno con la posizione dei nei di Calogiuri. Sei sfortunato, sai?” gli chiese, con tono amarissimo, “e invece sono stata fortunata io, o così credevo, che avevi quei nei così strani. Perché se no non me li sarei mai ricordati. Tu mi avevi distrutto la vita e… e volevo solamente vendicarmi.”

 

“Maddalena…” sussurrò lui, ed era la prima volta che parlava da quando era entrato, ed era dispiaciuto e dolce, ma pure deciso, “mi dispiace di… di averti presa in giro. Ma Imma aveva ragione e ha ragione: stavamo solamente facendo il nostro lavoro. Io ho… ho sbagliato allora ad avere un coinvolgimento con te, anche se non pensavo che… che potessi essere un’assassina, ma solo quello è stato il mio errore. Ho sperato fino all’ultimo che fossi innocente, che non avessi fatto quello che hai fatto. Ma sei giovane ancora e se tieni una buona condotta hai ancora tempo di uscire da qua e rifarti una vita. E ho capito in questi giorni che il rancore uccide solo chi lo cova.”

 

Deglutì il raspo in gola, chiedendosi se, a riguardo del rancore, stessero pensando entrambi alla stessa cosa.

 

“Predisporremo il trasferimento ad un’altra struttura penitenziaria, più sicura e lontana dai Mazzocca, va bene?” intervenne lei, dopo un silenzio che parve infinito.

 

Maddalena non disse più niente, ma annuì, sconfitta, ma forse anche in qualche modo pacificata.

 

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Uscire dalla sala interrogatori fu come respirare aria fresca, anche se sempre nei sotterranei stavano ed era viziata, viziatissima.

 

Sbirciò verso Calogiuri e lo trovò invece pensieroso, pensierosissimo, con quella piega adorabile che gli veniva sulla fronte, le labbra corrugate.

 

“A che pensi?” gli domandò, incuriosita, chiedendosi se le accuse di Lolita lo avessero destabilizzato più di quanto avesse fatto intravedere.

 

Le parve sorpreso e la guardò in un modo indefinibile, ma intensissimo, che le diede un brivido.

 

Notò che oltrepassò Vitali e che si allontanò leggermente, facendo segno di raggiungerlo.


“Che c’è?”

 

“C’è che… ti ricordi quando ci siamo guardati, proprio qui, dopo il tuo primo interrogatorio a Lolita? Ed io… ero arrabbiatissimo, delusissimo.”

 

Un colpo al cuore: e certo che se lo ricordava, ci aveva pensato proprio prima ed era da un lato felice che lo avesse fatto anche lui. Dall’altro… non capiva dove volesse andare a parare e questo la preoccupava, vista la situazione molto delicata tra loro.

 

“E come potrei non ricordarmene, Calogiù? Me lo ricordo sì, me lo ricordo: non ti avevo mai sentito così distante prima.”

 

“Ma alla fine… è stato solo l’inizio di una fase diversa del nostro rapporto, no? Una fase più profonda. E magari… magari potrebbe essere così pure mo, no?”

 

Non sapeva come potesse suonare così timido e così sicuro allo stesso tempo, così fanciullesco e così maturo.

 

Ma lo amava proprio per quello, perché in lui si conciliava l’impossibile e quindi ogni momento con lui non era mai scontato, banale, prevedibile.

 

“Magari…” mormorò, cercando di evitare che la voce le si spezzasse, e gli strinse forte la mano, augurandosi che sarebbe davvero stato così.

 

Si sorrisero, insieme, che non si capiva se fosse stato prima lui o prima lei, ma non importava. E quello, invece, era il loro bello, e le sembrava a volte di essere tornata ai primi tempi, ma con una maturità ed una consapevolezza diversa, per entrambi.

 

Senza bisogno di parole, salirono insieme le scale ed arrivarono al piano terra, procedendo verso l’ingresso e la scalinata principale, per raggiungere Vitali che, in un momento di discrezione, si era già avviato verso il suo ufficio.

 

Sentì dei passi ed alzò gli occhi verso la figura che stava scendendo verso di loro.

 

Si bloccò e percepì immediatamente la mano nella sua irrigidirsi. Stava per lasciargliela, per evitare casini, ma lui gliela strinse ancora più forte, sfidando con lo sguardo la persona davanti a loro a dire qualcosa.

 

“Tranquilli… non ho intenzione di fare scenate. Anzi, probabilmente vi devo delle scuse perché… so che in passato ho esagerato.”

 

Spalancò la bocca, senza poterlo evitare: Matarazzo non solo sembrava effettivamente non rabbiosa, anzi, un po’ mortificata, ma sembrava stare facendo un discorso maturo.

 

I miracoli potevano avvenire, evidentemente.

 

“Ma è che… mi ero sentita presa in giro per mesi. Anche se una parte di me lo ha sempre saputo che voi due…. Però… non era facile per me accettare che preferissi un’altra a me… anche perché c’ero così abituata, a conquistare sempre tutti. Ma mo ho capito che l’amore è un’altra cosa, rispetto alla cotta e all’ossessione che c’avevo nei tuoi confronti. Senza offesa, eh.”

 

Ahpperò! Capito Matarazzo, com’era cresciuta?

 

“Per quanto mi riguarda le scuse sono accettate, Matarazzo. Ma la parte più lesa è stata Calogiuri, quindi spetta a lui,” rispose, incrociandone gli occhi azzurri che le sorridevano.

 

“Per me va bene. Il passato è passato, Jessica. E sono felice che siamo tutti andati avanti.”

 

Jessica annuì e poi fece segno oltre a loro, dicendo, “ora, se mi volete scusare, devo andare in PG.”

 

Si misero di lato per lasciarla passare e poi, la mano di Calogiuri sempre nella sua, salirono le scale.

 

“Chissà se c’ha qualcuno la Matarazzo… che sembra così serena e soddisfatta, capisci a me.”

 

Calogiuri rise.

 

“Non lo so, lo spero per lei, ma l’unica cosa importante per me è che non ci dia più casini.”

 

“A proposito… meglio che ci affrettiamo a parlare con Vitali. Che qua altro che casini!”

 

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Erano in attesa di fronte all’ufficio di Vitali che, da quanto diceva la sua segretaria, era rimasto un attimo bloccato in una telefonata dell’ultimo minuto.

 

Spiava di tanto in tanto l’espressione di Imma, che pareva determinata ed un poco ansiosa. E la capiva benissimo.

 

Però, per fortuna, sembrava che l’incontro con Matarazzo non avesse peggiorato la situazione tra loro. Anzi, almeno nel suo caso, lo aveva fatto riflettere e molto.

 

Effettivamente… effettivamente pure lui aveva ceduto con Matarazzo, quando aveva pensato che con Imma non ci fosse più niente da fare. Che non lo amasse veramente, che non lo avesse mai amato e che non lo avrebbe mai amato. Che lo aveva soltanto preso in giro ed ammollato con una scusa.

 

La delusione era stata così forte che… che aveva fatto una cazzata, un po’ per l’alcol, un po’ per cercare stupidamente un modo per andare avanti e per non affondare, un po’ forse per ripicca, anche se inconsciamente.

 

E pure se per lui la loro storia non si era di fatto mai interrotta, da quando lei lo aveva raggiunto a Roma e, in un momento per lui indimenticabile ed indelebile, oltre che miracoloso, gli aveva detto per la prima volta che lo amava, e per quel motivo quanto successo tra Imma e Mancini era stato come un tradimento... per Imma invece….

 

Imma si era sentita tradita con Melita, mentre cercavano un figlio oltretutto, si era sentita altro che presa in giro e… e anche se gli faceva male che non gli avesse creduto subito… effettivamente tutte le prove erano state contro di lui e… e ci stava che Imma avesse dubitato, che avesse pensato che fosse tutto finito che, peggio ancora, fosse stata tutta solo un’illusione con lui. E che per disperazione avesse commesso uno sbaglio con Mancini. Ma, a differenza sua con Matarazzo, si era pure fermata in tempo.

 

“Come… come hai fatto a perdonarmi per… la cosa con Matarazzo?”

 

La domanda gli era uscita così, senza quasi pensarci. Imma lo guardò, confusa e un po’ stupita.

 

“A parte il fatto che… che tecnicamente non stavamo insieme e quindi non potevo recriminarti niente ma… ma questo non mi ha impedito di rimanerci male, molto male ovviamente, mi conosci,” gli sussurrò, per non farsi sentire dalla segretaria, in quel modo così schietto che aveva solo lei, “però… ho capito che avevi fatto del male prima di tutto a te stesso, a parte che io stavo ancora con Pietro, ufficialmente, pure se stavamo in crisi da mesi, quindi… c’avevo le mie colpe e sapevo cosa… cosa avevi dovuto mandare giù, Calogiuri, che io… non so se ne sarei stata capace al posto tuo. E poi… e poi ho capito che l'avevi fatto per disperazione e che non aveva significato niente per te. Ed alla fine eri stato sincero con me, nello spiegarmi quello che era successo, e per me quello contava. Più di tutto.”

 

Fu come un colpo al cuore.

 

Cosa contava davvero? Per lui, cosa contava veramente?

 

Imma… Imma aveva avuto quel momento con Mancini, era vero, per fortuna bloccandosi quando si era bloccata. Ma pure se fosse arrivata fino in fondo… era chiaro che non lo avrebbe certo fatto per Mancini, perché presa da chissà quale attrazione o sentimento o passione nei suoi confronti. Anzi. Era evidente che per Imma quel momento con Mancini non avesse significato nulla, se non che era stato uno sbaglio, in un momento di disperazione e di fragilità. In quelle settimane Imma di interesse per Mancini non ne aveva dimostrato per niente, proprio, anzi.

 

Non fare lo scemo, fratellì, non buttare via tutto per orgoglio! - la sua coscienza stavolta aveva la voce di Rosa.

 

E Rosa aveva ragione. Perché… perché Imma aveva dimostrato con i fatti, in tutti i modi, che cosa e chi contasse veramente per lei. Glielo stava dimostrando ogni giorno, in tutto quello che faceva per lui: aiutandolo a riprendersi, a riprendere in mano la sua vita, la sua dignità, credendo in lui e lottando con lui, fino in fondo. Per aiutarlo aveva accettato persino la sospensione dal lavoro, da quel lavoro che per lei era la vita. E… ed avrebbe dato la vita per lui, come lui per lei, letteralmente.

 

Quelle erano le cose importanti, e non erano mai cambiate, né per lui né per lei, da così tanto tempo, da…forse addirittura da prima del loro primo bacio.

 

Anzi, erano cambiate, ma in meglio: il legame tra loro si era sempre più rafforzato, era diventato più… più maturo, più consapevole, tanto da riuscire a resistere a tutto quello che gli altri avevano buttato loro addosso. In quanti, al posto loro, sarebbero stati ancora lì, in quel momento, a tenersi per mano? E-

 

“Dottoressa, maresciallo, se volete entrare, ho finito la telefonata. Scusate per l’attesa ma il prefetto voleva aggiornamenti e ho ritenuto più opportuno tranquillizzarlo subito, prima che ci potessero essere altri spiacevoli fraintendimenti.”

 

“Naturalmente, dottore, ha fatto bene,” confermò Imma, alzandosi in piedi ma non mollandogli affatto la mano.

 

E lui la imitò, come da sempre faceva, anche se ormai era difficile dire quanto fosse imitazione e quanto i gesti di lei fossero ormai i suoi e viceversa.

 

Ma anche quello, alla fine, non importava, non in confronto al sorriso di Imma nei suoi confronti, o al modo deciso in cui quelle dita piccole e forti stringevano le sue. Deciso, ma mai opprimente. Forte, ma sempre lasciandogli la possibilità di sciogliere il contatto in qualsiasi momento.

 

Ed era forse questa, più di tutto, la cosa che l’aveva fatto innamorare così tanto di lei.

 

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“Dottore, al di là di com’è andato l’interrogatorio con la Bartoli… c’è un’altra cosa che mi preoccupa e molto.”

 

“Uh maronn’... così mi fa spaventare. Che è successo mo?”

 

La reazione preoccupata e teatrale di Vitali quasi la fece ridere - quasi - in fondo in fondo le era mancato. Anche se… da ridere non c’era proprio niente, anzi.

 

“Dottore, quando… quando sono arrivate notizie da qua riguardo a Lolita e noi siamo andati a cercare Melita, subito, l’hanno trovata prima gli altri. Ora, è chiaro che il momento scelto per aggredirla, dopo mesi e mesi, non può essere casuale, quindi… qualcuno sapeva che stavamo arrivando a Lolita e a lei ed ha avvertito Coraini ed i Mazzocca. Chi ne era a conoscenza qua?”

 

Il viso di Vitali crollò. Sapeva anche lui cosa voleva poter dire e perché gliene avesse voluto parlare di persona e non al telefono.

 

“Dottoressa… qua… qua ufficialmente lo sapevamo solo io, la signora De Santis ed il Brigadiere Capozza. E non credo che possiamo dubitare di loro, no?”

 

“Spero proprio di no!” esclamò, perché su Diana ci metteva la mano sul fuoco. Su Capozza… in caso lo avrebbe ucciso, più per Diana che per tutto il resto.

 

“Ma è sicuro che… non ufficialmente magari, non lo sapesse pure qualcun altro?”

 

“Dottoressa… in quel carcere i Romaniello tengono più occhi e orecchie della mitologica Idra, lei lo sa bene. E magari pure qua. Abbiamo cercato di agire con la massima discrezione ma… magari qualcuno ha colto i nostri movimenti. Proverò ad indagare ma le garantisco che abbiamo fatto il massimo possibile per essere discreti, anche nel reperire la documentazione al RE.GE, senza coinvolgere nemmeno la Moliterni.”

 

Sospirò: quasi doveva sperare in una spia esterna anche se… anche se a quel punto pure l’interrogatorio di quel giorno a Lolita e quello che si stavano dicendo con Vitali poteva già essere di loro conoscenza.

 

Per fortuna Maddalena stava già venendo trasferita altrove e… e per il resto c’erano quasi, dovevano arrivare alla fine, anche non potendo contare sull’effetto sorpresa.

 

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“Arrivederci dottoressa, maresciallo. Spero tornerete presto!”

 

“Grazie!” si congedò, salutando con un raro sorriso le guardie appostate all’ingresso.

 

Era sempre surreale tornare a Matera: per certi versi come entrare in una vita precedente, per altri, le sembrava di non averla lasciata mai, come se non fosse passato nemmeno un giorno.

 

Avevano fatto giusto due passi quando vide, davanti a lei, di nuovo Matarazzo che però stavolta non guardava loro, anzi, presa com’era a salire sulla moto sportiva di un tipo tra i venti ed i trenta, capelli scuri, occhiali da sole e che poteva essere definito soltanto come figo. Molto figo.

 

Hai capito, Matarazzo, brava! - pensò, avendo la conferma definitiva di come mai fosse stata così zen con loro.

 

Stava per commentare con Calogiuri quando il figo si voltò verso dove stavano loro e, pure con gli occhiali da sole, lo vide illuminarsi.


“Dottoressa!” esclamò, tutto felice e, soprattutto, con un accento sardo che ancora si distingueva molto bene.

 

“Puddu?!” realizzò, in shock completo, perché il giovane carabiniere era praticamente irriconoscibile: pareva uno di quelli in quei programmi televisivi che ti prendono e ti trasformano che neanche i tuoi familiari ti distinguono più.

 

Cosa che a volte non sarebbe una disgrazia.

 

Puddu disse un paio di cose alla sua bella e poi mise la moto sul cavalletto e ne scese, seguito da Matarazzo, avvicinandosi a lei per stringerle la mano, in un modo molto meno umidiccio ed incerto che all’epoca. Anche se la stretta che aveva Calogiuri, pur nella sua timidezza, era un’altra cosa.

 

“Dottoressa, che bello vederla! Menomale che sono passato a prendere Jessica, che oggi non stavo di servizio, se no me la perdevo. Maresciallo, noi non ci siamo mai incrociati, penso. Sono stato il suo sostituto, quando è andato a Roma, quindi ho avuto l’onore di collaborare con la dottoressa solo per pochi mesi.”

 

“Bene, bene,” rispose Calogiuri, con un sorriso che però le parve un po’ tirato e che lo divenne ancora di più quando Puddu aggiunse, “però ho sentito molto parlare di lei, maresciallo!”

 

“Dubito cose belle, con tutto quello che si è detto su di me,” rispose Calogiuri, guardando anche Jessica, che parve un poco imbarazzata.

 

“Ma lo so che quelle sono tutte voci. La verità è che non è stato facile reggere il confronto con lei, maresciallo, anzi. Anche se mi ci sto molto impegnando.”

 

“Immagino…”

 

Il tono di Calogiuri, in apparenza gentile, era però tutto un programma.

 

“Ma Angelo è bravissimo! Non sei secondo proprio a nessuno tu, anzi!” replicò Jessica, facendogli una carezza sul petto, un po’ per rassicurarlo, un po’ forse come una frecciatina, ma meglio che per Matarazzo non lo fosse, anzi, che rimanesse primo per sempre e lei ne sarebbe stata più che felice.

 

“Quindi state insieme?”

 

“Sì, sì. Per fortuna Vitali è stato comprensivo e basta che siamo discreti in procura e non ci ha costretti a dividerci.”
 

“Ne sono felice per voi,” affermò, e lo era davvero.

 

“Allora, andiamo? Che se no facciamo tardi per l’aperitivo?” si inserì di nuovo Jessica e Puddu scattò quasi sull'attenti.

 

“Va bene. Dottoressa, noi andiamo: è stato un piacere rivederla. Maresciallo!”

 

E, nel giro di qualche secondo, erano risaliti in moto e ripartiti, con una sgasata da manuale.

 

“Quindi quello era il mio sostituto? Com’è che non mi hai mai parlato di lui?”

 

Si voltò verso Calogiuri che aveva quell’aria e quel tono un po’ gelosi che solitamente erano adorabili. Ma, visto il periodo che stavano già passando, lo erano assai meno, anzi la preoccupavano e basta.


Le cose finalmente stavano andando meglio e ci mancava solo la gelosia per Puddu mo.

 

“Perché non c’era molto da dire, Calogiuri, perché Puddu ti garantisco che era ben poco memorabile, anzi.”

 

“Eh, si vede proprio!” esclamò lui, il viso corrucciato e le braccia incrociate.


“Eh, va beh, perché tu lo vedi mo, che non so se sia stata Matarazzo a fare il miracolo ma… quando l’ho conosciuto io… sembrava un po’ uno di quei nerd, come li chiamerebbe Valentina.”

 

“Sapere che non ne eri attratta allora ma che potresti esserlo mo non mi rassicura molto, dottoressa. Specie se hai idea di tornare a Matera,” ribattè Calogiuri, sempre con le braccia incrociate, lo sguardo da sfinge.

 

“Eddai, Calogiù! Non dirmi che sei geloso pure di Puddu, mo? Ma veramente?”

 

Per tutta risposta, Calogiuri sorrise, in un modo che le fece tirare un sospiro di sollievo ed aggiunse, con lo sguardo da impunito che le era mancato da morire in quelle settimane, “chissà. Per intanto, per farti perdonare dell’omissione… visto che c’è ancora un po’ di tempo prima di dover rientrare… ci verresti in un posto con me?”

 

“E dove?” domandò, incuriosita, il cuore che prese a batterle forte perché, oltre allo sguardo, anche la proposta in sé era un ottimo segno.

 

“Se sali in moto con me lo scopri, dottoressa.”

 

Non se lo fece ripetere due volte: che manco lei era scema, anzi!

 

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“Mi ci voleva proprio un po’ di aria fresca.”

 

“Anche a me, Mariani. Non so lei ma… sto ancora digerendo la cena di ieri sera e la cella non ha aiutato.”

 

Mariani rise ed annuì, continuando a camminare affianco a lui.

 

Ma non era solo per evitare l’abbiocco che, finito di raccogliere la deposizione della famosa Lolita, le aveva proposto una passeggiata per la Gravina, alla luce del giorno.

 

No, aveva bisogno di parlarle e molto seriamente, senza orecchi indiscreti intorno.


“Dottore, c’è qualcosa che non va? E non parlo della digestione,” gli domandò infine Mariani, percettiva come sempre.

 

“Sì, Mariani, è… è complicato. In realtà è da un po’ che avevo intenzione di parlargliene ma… ma è un argomento delicato e che non ritenevo prudente discutere in procura.”

 

“E cioè?” gli domandò, con uno sguardo un po’ strano.

 

“Diciamo che… è una cosa che penso da un po’ ma… ma gli ultimi giorni me ne hanno dato conferma. Chi ha avvertito i Mazzocca? Sia quando è stata aggredita Melita che… che qualche giorno fa. All’inizio ho quasi sperato in una talpa qua a Matera ma… ma sono sempre più convinto che ci sia qualcuno a Roma che passa le informazioni.”

 

Mariani si fermò, bruscamente.

 

“Ma… ma dottore… quella sera di Melita… a parte la dottoressa Ferrari e la dottoressa Tataranni, a Ranieri e Calogiuri, lo sapevamo solo io e lei e…”

 

“Già.”

 

“Ma non può sospettare di Conti!” esclamò lei, indignata, così forte che ci fu un’eco per mezza Gravina, “non è possibile, dottore! Conti non è un traditore, non lo farebbe mai!”

 

“Mariani, neanche io ce lo vedo ma… ma se non avesse agito in malafede, ma pensando anzi, magari, di stare facendo per il meglio?”

 

“In che senso, dottore?”

 

Mariani era confusa e… e sapeva che per lei quello sarebbe stato un rospo più difficile da digerire ancora che l’idea di Conti ma… ma più ci pensava e più ne era convinto. Anche perché, come insegnava Sherlock Holmes, una volta che hai escluso l’impossibile, quello che resta, per quanto improbabile, quasi sicuramente è la verità.

 

“Che… che probabilmente era convinto della colpevolezza di Calogiuri. Come lo ero io all’epoca, anzi, forse anche di più. E magari… qualcuno lo ha convinto a collaborare per provarla, insieme.”

 

Gli occhi di Mariani si spalancarono e poi si fecero umidissimi.


“Sa- Santoro?” gli chiese, con il tono di chi sperava di non trovare affatto conferma della sua intuizione.

 

“Se Conti si è confidato con qualcuno, in buona fede, deve essere stato proprio con il dottor Santoro. Conti ad andare da Coraini, dai Mazzocca o dai Romaniello proprio non ce lo vedo. Ma lui e Santoro ultimamente hanno legato molto, collaborano spesso e Santoro si fida ormai quasi solo di lui.”

 

Non voleva girare il dito nella piaga, ma mano a mano che i suoi sospetti aumentavano e che si convinceva di potersi fidare di Mariani, voleva anche metterla in guardia, in prima persona.

 

“Mi… mi dispiace, Mariani.”

 

“In- in che senso?” gli chiese, imbarazzata.

 

“Nel senso che… che non è esattamente un mistero in procura che a lei il dottor Santoro… insomma…” balbettò, perché non era un argomento facile da affrontare.

 

Mariani divenne più rossa del primitivo della sera prima, ma poi risollevò gli occhi verso i suoi, decisa, “diciamo che… negli ultimi tempo purtroppo o per fortuna l’ho dovuto rivalutare, dottore. Soprattutto per come si è comportato con Calogiuri e con il processo, ma… pensare che potrebbe… che potrebbe addirittura stare collaborando con dei criminali….”

 

“Lo so, Mariani. Per questo anche io ho esitato molto a dirglielo ma… ma so che di lei mi posso fidare. Il dottor Santoro è un uomo intelligente ma molto ambizioso, troppo rispetto al suo talento che… che c’è ma… ma non è commisurato al suo ego, per essere proprio franchi, Mariani. E… e a volte l’ambizione disattesa porta a fare brutti scherzi. Ci rende vulnerabili a tentazioni pericolose.”

 

Mariani rimase ancora un po’ in silenzio, poi le chiese, “e allora che vuole fare, dottore? Perché, se me ne ha parlato, qualcosa vuole fare, giusto?”

 

Annuì, sollevato sia dal fatto che Mariani stesse considerando le sue ipotesi, sia del fatto che avesse capito senza bisogno di troppi preamboli.

 

“Per ora… per ora innanzitutto preferirei che non ne parlassimo con nessuno, Mariani. Non voglio reazioni di pancia, né da parte del maresciallo Calogiuri, né da parte di altri. Ma… se è disposta a darmi una mano per trovare la verità-”

 

“Ma certo, dottore! Mi dica cosa vuole fare. Per me è una questione di principio oramai.”

 

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“Ma… ma questa strada… è...!”

 

Non era riuscita a trattenersi dall’esclamare per l’emozione: aveva riconosciuto benissimo l’ultimo incrocio e stavano dirigendosi verso il maneggio di Sabrina.

 

Calogiuri non disse niente, ma si voltò velocemente, con un sorriso che avrebbe solo voluto riempirlo di baci, non avessero rischiato di spaccarsi l’osso del collo.

 

E dopo poco vide il maneggio, quel luogo quasi magico dove aveva scoperto - anzi, come aveva poi capito, riscoperto - quella grande passione, lei che un hobby vero non ce l’aveva mai avuto. Dove aveva capito definitivamente di amare Calogiuri e quanto lui la amasse, troppo, e… e dove aveva avuto il coraggio di sognare sempre di più una vita insieme, alla luce del sole, anche se era stato assai più complicato del previsto.

 

Ma stavano ancora lì, insieme, pure se le cose non si erano del tutto sistemate ma… ma Calogiuri non l’avrebbe mai portata lì se… se non fosse stato….

 

“Imma! Ippazio!”

 

La voce di Sabrina la raggiunse prima di poter finire quel pensiero, mentre Calogiuri spegneva il motore.

 

E la trovò, sempre bella come il sole, che non pareva invecchiata un giorno - beata lei! - proprio in mezzo all’ingresso, con un grande sorriso sul volto.

 

Si affrettò a passare il casco a Calogiuri, che pure lui sorrideva, come era tanto tempo che non riusciva più a fare. Ed era sicura che anche lei… che anche lei stesse sorridendo come le veniva solo con lui, da sempre.

 

Scesero dalla moto e si incamminò a passo rapido verso Sabrina, trovandosi, a sorpresa, stretta in un abbraccio a morsa.

 

E poi Sabrina la guardò, come a chiederle il permesso, ed alla sua risata abbracciò pure Calogiuri, esclamando poi un “vi trovo bene! Mi ha fatto piacere la tua telefonata. Se mi volete seguire… è tutto pronto.”

 

“Tutto pronto cosa? Ma quando hai organizzato questa cosa?” chiese a Calogiuri, perché erano stati giorni di fuoco ed anche per quello era ancora più sorpresa dalla sua iniziativa, oltre che per il periodo non semplice.

 

“Quando sono andato in bagno, dottoressa. Per fortuna Sabrina è più veloce di me,” ironizzò, facendole l’occhiolino e lei gli disse uno “scemo!” e gli piantò un bacio sulla guancia, sentendosi abbracciare di lato.

 

“Noto che siete sempre affiatatissimi, mi fa molto piacere. Vi sento un po’ come… come se vi avessi visti nascere, in un certo senso, e mi è molto spiaciuto quando ho sentito che vi eravate lasciati. Anche se non ho mai creduto alle voci dei giornalisti, che la carta stampata va bene giusto per tirare su quello che producono i cavalli.”

 

Rise di nuovo, perché Sabrina era coraggiosa nell’affrontare l’argomento, schietta, come lo era sempre stata. E sui giornalisti… concordava con lei al cento percento.

 

Le era mancata, più di quanto avesse pensato. Così come le era mancato tutto dell’equitazione, persino l’odore dei cavalli.

 

“Vi ho preparato un cambio adatto nello spogliatoio, appena siete pronti i cavalli vi aspettano, che sicuramente anche a loro farà piacere rivedervi.”

 

E così entrarono nello spogliatoio che, visto che c’erano solo loro due, era lo stesso. Calogiuri cominciò a levarsi i vestiti e si chiese se quell’impunito lo stesse facendo lentamente di proposito, o se fossero solo i suoi ormoni che le facevano sembrare tutto al rallentatore. Del resto pure quella notte… che lui si pensava che non l’aveva sentito, andarsene in bagno, ad un certo punto?

 

Ma nemmeno per lei era stato facile, per niente, ma c’erano delle priorità e per fortuna le avevano rispettate ed era andata pure molto bene. Ma mo, dopo il dovere….

 

E quindi si cambiò pure lei con voluta lentezza, vedendolo deglutire e poi voltarsi, un po’ imbarazzato, anche perché i pantaloni da equitazione avevano un enorme svantaggio e nascondevano ben poco, in tutti i sensi.

 

E se il buongiorno si vedeva dal mattino, anzi, dal pomeriggio ormai… la gita prometteva molto ma molto bene.

 

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“Minerva? Impeto?”

 

Rivedere i loro cavalli fu quasi più emozionante persino di rivedere Sabrina, soprattutto perché entrambi alzarono le orecchie al suo richiamo e si produssero in nitriti ed una specie di paio di saltelli - che le ricordavano un poco Noemi - prima di avvicinarsi a lei e a Calogiuri, per prendersi due carote e un po’ di grattatine al collo e sul muso.

 

“Si ricordano di voi!” esclamò Sabrina, con quel suo sorriso bellissimo che le prendeva tutto il viso.

 

“O vogliono solamente le carote?” rise Imma ma Sabrina scosse il capo.

 

“No, no, vi garantisco che vi riconoscono. Non fanno così con tutti e sapete che non lo dico tanto per.”

 

“E va beh… del resto con tutto quello che abbiamo combinato qua, dottoressa, saremo stati indimenticabili,” ironizzò Calogiuri, facendola ridere, anche se… anche se… al solo ripensarci mo….

 

Tipo quando Pietro quasi li aveva scoperti e per poco lei e lui non si erano rotti l’osso del collo, sulla povera Minerva.

 

Per certi versi le sembrava quasi fosse stata la vita di un’altra a volte, talmente era strano ripensarci mo che, per fortuna, con Pietro avevano pure ricostruito un bellissimo rapporto.

 

Ma in effetti… che i cavalli si ricordassero di loro come di tre poveri cretini umani… era assai probabile, ed avevano pure tutta la sua comprensione.

 

“Allora, Minè, che ce lo facciamo un giro?” chiese e Minerva fece un altro nitrito e poi si posizionò di traverso rispetto a lei, piazzandole la sella di fronte.

 

Trattenendo l’emozione, salì, anche se era un po’ arrugginita e quindi fece più fatica delle ultime volte, ma per fortuna Calogiuri era sempre pronto ad aiutarla. E poi anche lui montò su Impeto - dal cui nome il suo maresciallo aveva preso sempre più esempio, nel corso degli anni - e fecero un paio di giri di prova nel recinto, mentre Sabrina recuperò la sua cavalcatura usuale.

 

“Dato che finalmente siete venuti qua che è primavera… e che è ormai pomeriggio e quindi la terra ha avuto tempo di riscaldarsi… possiamo fare finalmente il famoso giro nel bosco. Anche se partiamo con qualche giro qua intorno, giusto per scaldare i cavalli e scaldarvi un po’, che mi sa che a cavallo è un po’ che non ci andate.”

 

“Se è per quello… con tutto quello è successo tra un po’ manco a piedi siamo andati ultimamente….”

 

“No, infatti… ma Imma sull’azione si è comunque tenuta allenata,” la prese in giro Calogiuri, facendole l’occhiolino, forse riferendosi alla sua irruzione a fucile spianato - che grazie al cielo che non l’aveva dovuto usare!

 

“Certi dettagli magari possono anche restare un mistero.”

 

La battutina di Sabrina, ed il tono con il quale era stata pronunciata, la fecero un po’ arrossire, mentre si guardava con Calogiuri, con un’espressione che era un eh, magari fosse!

 

Calogiuri però, dopo l’imbarazzo iniziale, ricambiò l’occhiolino e di nuovo c’aveva lo sguardo da impunito.

 

Il cuore le rimbalzò nel petto, tanto che Minerva forse lo notò ed emise un altro nitrito, ma la tranquillizzò subito.


Calma, Imma, calma, che devi tornarci viva da sta gita. E poi non ti devi fare troppe illusioni, lo sai! - si impose, cercando di richiamare la sua parte più razionale che però tra i cavalli e Calogiuri difficilmente riusciva a prevalere.

 

Ma la verità era che… era che tutto prometteva così bene che… che forse per quello da un lato le faceva più paura, perché se fosse andata male pure così….

 

Calogiuri non ci sarebbe mai venuto qui, se non si fosse sentito pronto! - ribattè alla Imma interiore, finché un “Imma, tutto bene?” di Sabrina la riportò alla realtà e, dopo un’altra grattatina a Minerva ed uno sguardo a Calogiuri per dirgli di non preoccuparsi, la seguirono fuori dal recinto.

 

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“Devo dire che, per essere due che non vanno a cavallo da un po’, non siete così tanto arrugginiti, bravi! Ma dovreste andarci più spesso!”

 

“Eh, se… se riusciamo a sistemare tutti i casini che c’abbiamo… magari!” sospirò, perché sì, la rilassava quasi quanto andare in moto con Calogiuri.

 

Si ripromise che, risolto il caso, se tutto fosse andato bene tra di loro, se le sarebbe concessa, anzi, se le sarebbero concesse più spesso, entrambe le cose.

 

“Visto che fino a qua siete andati bene… io vi lascerei proseguire da soli, tanto da qui basta seguire il sentiero, non si può sbagliare. Se avete problemi, ovviamente, chiamatemi.”

 

Aveva appena appena realizzato quanto detto da Sabrina, che la ragazza era già al galoppo e si stava allontanando da loro fino a sparire.

 

Lasciandoli soli.

 

Un altro colpo al cuore, tanto che stavolta prevenne subito, accarezzando Minerva prima che si agitasse.

 

Si guardò con Calogiuri che le sorrise, anche se pure lui sembrava quasi intimidito dalla situazione, per certi versi come il Calogiuri dei primi tempi.


“Andiamo? Segui me o vuoi condurre tu?”

 

E no, che non era il Calogiuri dei primi tempi. Il modo in cui glielo aveva chiesto era deciso, sicuro, sicurissimo.

 

“Vado avanti io. Ma solo perché sicuramente a cavallo sono ancora più lenta di te, Calogiù. E almeno se ho qualche problema mi vedi,” replicò e Calogiuri si lasciò scappare un, “allora dovremmo applicare lo stesso criterio quando stiamo a piedi!” che la fece molto ridere.

 

Ma, in effetti, già lo applicavano. Sapeva benissimo che Calogiuri le guardava le spalle, letteralmente, sempre.

 

Diede due colpetti ai fianchi di Minerva che ripartì e, ad un ritmo rilassato, proseguirono lungo il sentiero, in un silenzio bellissimo che, come quello sulla moto, era tornato ad essere il loro silenzio.

 

Quello che era meglio per lei di qualunque tecnica di rilassamento, sebbene, trattandosi comunque di cavalli, un poco all’erta bisognava sempre rimanere.

 

Continuarono a cavalcare, a volte lei davanti, a volte fianco a fianco, fino a che intravide un cascinale poco distante, collegato al sentiero da un viottolo più piccolo. Il cartello annunciava che si trattava di un’azienda agricola.

 

Calogiuri si fermò e lei lo imitò, guardandolo interrogativamente.

 

“Qua c’è la prima tappa, dottoressa,” spiegò, saltando giù da cavallo e legando Impeto alla staccionata lì vicino, per poi aiutarla a scendere e fare lo stesso con Minerva. E dopo estrasse da un borsone due ciotole per dare l’acqua ai cavalli.

 

“Non sapevo fosse tipo un tour, Calogiuri.”

 

“Eh, dottoressa, ma lo sai che la vita è piena di sorprese…”

 

“Quanto è vero!” esclamò, sorridendo e lasciandosi prendere per mano ed accompagnare, ma non all’azienda agricola, bensì ad una specie di grotta poco distante.

 

Provò una fitta di eccitazione ed anche di apprensione, che le grotte… non avevano mai osato, ma… temeva che la sua schiena non avrebbe retto tanto.

 

Ma, come ci entrò, quel genere di pensiero se ne andò, sostituito dalla meraviglia: erano in una specie di chiesetta rupestre, con le caratteristiche pitture.

 

Con tutti gli anni che viveva a Matera, se l’era persa.

 

“Ma… ma che cos’è?”

 

“La Cripta del Peccato Originale, dottoressa,” chiarì lui, serissimo e professionale, che manco veramente una guida turistica.

 

“Insomma… la prima occasione - ma non l’ultima - in cui voi uomini c’avete avuto la scusa buona per dare a noi donne la colpa di tutti i mali del mondo.”

 

“Imma…” lo sentì ridere, e poi fu stretta in un abbraccio così forte che altro che ridere… manco più il fiato teneva, “nessuno è perfetto, dottoressa. Ma chi è senza peccato….”

 

“Quello era giusto un qualche centinaio di migliaia di anni dopo, Calogiuri, e pure un po’ di libri dopo.”

 

“Lo so, ma… ma è per dire che… che dagli errori possono anche uscire cose bellissime, no?”

 

“Quindi per te questo mondo sarebbe bellissimo?” gli domandò, stupita e un po’ colpita da tanta fiducia nell’umanità dopo quello che gli era successo, staccandosi per guardarlo negli occhi.

 

“Il mondo in generale? No. Il mondo con te? Sempre.”

 

Per fortuna mo non stava su Minerva, perché se no… altro che imbizzarrirsi. Il cuore le pareva una grancassa, mannaggia a lui!

 

Che riusciva sempre, con così poche parole, a dire così tanto, a farla squagliare.

 

“E… se non avessimo mai fatto sbagli e… e casini… non saremmo nemmeno mai stati insieme, no? Anche se… anche se ho pure capito che devo farmi più furbo e certi casini li devo prevenire.”

 

Rimase per un attimo muta, la bocca che si chiudeva e riapriva, senza emettere un suono.

 

Ma la voce non ne voleva sapere di collaborare.


E così se lo riabbracciò, stretto stretto, e infine riuscì a sussurrargli, “lo sai quanto sono orgogliosa di te, vero? Sei… sei….”

 

“Aspetta a parlare, dottoressa, che siamo solamente all’inizio!” la interruppe, cosa che concedeva solo a lui, da sempre.

 

Se quello era solo l’inizio… no che non ci sarebbe tornata intera a Matera. Sicuramente non con la voce funzionante.

 

Uscirono infine e tornarono a recuperare i cavalli, passando però prima dal cascinale, dove trovarono un anziano ed un giovane che li aspettavano con un paio di ceste ed un fiasco in mano.

 

“Il vino… insomma… magari non è il caso…” gli disse, anche perché dopo quello che gli era successo era forzatamente astemio.

 

“Ma sto meglio mo, dottoressa, tranquilla. Se riesco pure ad andare a cavallo….”

 

“Appunto! Che poi con i cavalli ci dobbiamo pure tornare.”

 

“Al peggio chiamiamo Sabrina o lascio condurre te, dottoressa. Lo sai che mi piace, no?” le sussurrò in un modo che era da denuncia per attentato alla salute - non pubblica ma privata, privatissima, in questo caso.

 

I contadini, che si esprimevano in un dialetto ancora bello marcato, li guardarono comunque come se avessero capito tutto. Che per quello mica l’italiano ci voleva.

 

E, dopo un paio di raccomandazioni di lasciare i vuoti a “S’bbrì”, nella tipica abitudine tutta materana di rendere ogni nome un codice fiscale, ritornarono finalmente a Minerva e Impeto, che parvero loro un po’ annoiati, dopo essersi fatti fuori l’acqua.

 

Con l’aiuto di Calogiuri risalì a cavallo, si divisero le ceste e poi proseguirono la passeggiata, seguendo il corso del torrente Gravina.

 

Finché, il rumore d’acqua si fece diverso, più lento, dove il Gravina incrociava il Bradano e, poco più avanti, si estendeva il lago di San Giuliano con la diga.

 

Era una vita che non ci veniva da quelle parti.

 

E stavolta passò davanti Calogiuri e lei lo seguì, fino ad uno spiazzo tra gli alberi, dal quale si intravedeva il lago, ma che rimaneva comunque ben riparato.

 

“Ma Sabrina ha organizzato tutto questo mentre stavi in bagno?” gli domandò, stupita.

 

“Diciamo che… diciamo che è da un po’ che avevo l’idea di fare questa gita con te, dottoressa, da prima di… di tutto. Ma non ce n’è mai stata la possibilità, quindi Sabrina mi aveva già dato un po’ di dritte e… e non c’è voluto molto per metterci d’accordo. Però… però forse è stato meglio così, no? Che… che ce la siamo conservata per… per questa occasione.”

 

La voce ormai se n’era sparita e quindi riuscì solo a fare sì col capo, mollando il cesto a Calogiuri e scendendo da Minerva, che aveva già chiaramente percepito il suo stato d’animo, per come picchiava gli zoccoli.

 

Le sarebbe servita in procura come macchina della verità, altroché!

 

Aiutò Calogiuri a legare i cavalli ad un albero e a lasciare loro cibo ed acqua, che potessero riprendersi in tempo per il ritorno, e poi lo osservò mentre preparava la coperta e tutto il necessario per un picnic: formaggi e salumi locali, il buonissimo pane che ormai tutta l’Italia invidiava a Matera e, soprattutto, il vino.

 

Forse per lo sforzo fisico, l’aria frizzante, o forse perché venivano da un periodo di magra, in tutti i sensi, ma a lei sembrò il cibo più squisito mai mangiato ed il vino… il vino scorreva piacevolmente, fin troppo, tanto che dovette frenarsi. Per fortuna però Calogiuri si frenò da solo, dopo un paio di bicchieri, ed al suo sguardo di approvazione rispose, “voglio essere sobrio, dottoressa, per godermi questo momento fino in fondo, e per ricordarlo per sempre.”

 

Le dichiarazioni di Calogiuri erano pure più micidiali del vino, tanto che si trattenne a fatica dal gettarglisi addosso, buttarlo sulla coperta e baciarlo fino a perdere i sensi.

 

Ma voleva vedere dove voleva arrivare, l’impunito.

 

Calogiuri armeggiò per un po’ col cestino e poi ne estrasse una sfera rossa.


“Una mela?!” esclamò, incredula, mentre le venne di nuovo da ridere.

 

“Non solo perché è buona col formaggio, ma perché… così questa volta è l’uomo ad essere tentatore, almeno spero. E me la prendo io la colpa.”

 

Se lo sarebbe mangiato a morsi lui, mica la mela, ma l’afferrò e le diede la simbolica rosicchiata, prima di passarla a lui, che fece altrettanto.

 

E poi Calogiuri mollò la mela sul tovagliolo e si fece serio, serissimo, tutto di botto, tanto che quasi si preoccupò.

 

“Imma… se ti ho voluta portare qui è perché… è perché forse il cavallo è stata la prima cosa che ci ha uniti così tanto, fuori dal lavoro. Che… che mi ha fatto pensare che… che potessi avere qualche speranza di una vita con te, e non soltanto come amanti. Che… che mi ha fatto conoscere quella Imma bambina, capace ancora di meravigliarsi davanti alle cose, e che nascondi sempre a tutti. Anche a te stessa.”

 

Oltre che la voce, voleva levarle pure la vista, mannaggia a lui! Perché c’aveva gli occhi che le pizzicavano tremendamente e le toccò asciugarseli.

 

“In questi anni… abbiamo fatto così tante cose insieme, cose che mai e poi mai avrei immaginato di poter fare. Tanti casini ma anche così tante cose belle, bellissime, che non mi scorderò mai. E… e forse per questo… c’avevo questa idea in testa del nostro rapporto… questa perfezione che pretendevo da me, da te, da noi due. Ma mo ho capito che pretendevo troppo che… che la perfezione non esiste ma che… che tu per me sei sempre quello che più ci somiglia, dottoressa. E… e pure se tengo la capatost’, come mi dici sempre tu, io non voglio la perfezione o… o tenere ragione sempre… io voglio essere felice. E… e non ci riesco ad esserlo se nella mia vita non ci sei tu.”

 

Dire che si fosse liquefatta era dire poco. Buttò la prudenza al vento e bevve un’altra sorsata di vino, a canna, cercando di ritrovare il fiato e le parole.

 

“Pure… pure per me è lo stesso, Calogiuri. E lo sai. Ma… ma sei sicuro che sei riuscito ad andare avanti e a perdonarmi? Perché… perché qua in discussione non c’era e non ci sta l’amore, ma la fiducia.”

 

“Ma non c’è niente da perdonare, Imma. L’ho capito un po’ tardi, ma l’ho capito.”

 

Il modo in cui si sentì stringere la mano, il suo sguardo, così limpido e deciso, ancor più delle sue parole, le fecero tirare un enorme sospiro di sollievo, come se tutto il peso del mondo le si fosse alzato dalle spalle.

 

“Per me… per me praticamente la nostra storia è iniziata il giorno della Bruna e-”

 

“E pure per me, lo sai. Anche se… anche se ci ho messo un po’ a… a fare quello che era giusto.”

 

“Lo so, ma… ma quello che volevo dire è che… insomma… ho fatto le mie cavolate, con Matarazzo, soprattutto, perché mi sono sentito tradito e… e ferito e… e ho capito che pure tu puoi avere avuto un attimo di cedimento e di debolezza. Minore del mio perché… perché io rispetto a te sempre un poco ciuccio rimango.”


“Ma non è vero!” esclamò, sporgendosi per accarezzargli il viso, “però… però anch’io nella testa sono sempre stata con te, sempre, anche… anche se in certi momenti avrei così tanto voluto odiarti o… o dimenticarti. E… e quella sera ho sbagliato anche nei confronti di me stessa, Calogiuri, perché… perché forzandomi con Mancini ho tradito me stessa e quello che sentivo.”

 

“Lo so… lo so…” si sentì sussurrare sulle labbra, mentre lui ricambiava le carezze, “però mo non pensiamo più al beccamorto, va bene?”

 

Il tono di Calogiuri la fece scoppiare a ridere ma aggiunse, più seria, “veramente l’unico che ci pensava eri tu, Calogiuri, perché io… quella sera mi sono praticamente dovuta stordire con l’alcol per non pensarci. Non ci ho proprio mai pensato. Mentre con te… pure quando stavo ancora con Pietro… con te il problema è sempre stato riuscire a levarti dalla mia testa, almeno per qualche minuto. Ma temo proprio di non aver ancora capito come si fa.”

 

Calogiuri deglutì così forte che lo udì come se lo avesse fatto lei, e poi i suoi occhi diventarono due laghi, che altro che la diga ci voleva.

 

Del resto non era da lei fare dichiarazioni, ma le era uscita così, senza sapere come - certe volte le parole escono da sole, ma in quel caso… altro che sbagliate erano!

 

Rimasero così, a guardarsi per quanto potevano, con la vista appannata, a stringersi le mani fino a stritolarsele, per un tempo infinito e-

 

E dei nitriti, fortissimi, li fecero sobbalzare e guardare verso i cavalli, non che fosse successo loro qualcosa.

 

Ma i cavalli le parvero soltanto molto annoiati e Minerva si produsse in un altro richiamo.

 

“Mi sa che… mi sa che mi vogliono chiedere se mi decido a baciarti o no…” esclamò lui, facendola ridere, e si voltò e sì, aveva di nuovo la benedetta faccia da impunito.

 

Finalmente.

 

“E c’hanno ragione, c’hanno e-”

 

La frase le rimase in gola, insieme al cuore, perché altro che bacio!

 

Si trovò con la schiena sulla coperta, ad esclamare un “ahia!” quando si beccò la mela tra le costole, ma la buttò verso i cavalli di fronte allo sguardo prima preoccupato e poi divertito di Calogiuri.

 

Un altro di quei sorrisi sornioni da denuncia e stavolta era lei a baciarlo e a farlo finire di schiena sulla coperta, mentre le mani andavano da sole e gli slacciavano alla bell’e meglio i dannati pantaloni che erano troppo stretti erano, e le venne da ridere sulle labbra di lui, all’unisono, avvertendo dalle mani e dal ruggito frustrato di lui che pure lui stava avendo lo stesso problema.

 

Non fossero stati a noleggio e, soprattutto, non fossero stati in mezzo ad un nulla dal quale dovevano pure rientrare, li avrebbe strappati li avrebbe, ma alla fine con un grugnito di soddisfazione riuscì a sfilargliene una gamba e pure lui a lei e poi il mondo finì di nuovo a testa in giù, stordita da un altro bacio, la frenesia che non lasciava tempo e spazio al ragionamento, dopo tanta attesa. Si lasciò scappare un grido, uno solo, che fu insieme vittoria, liberazione, sollievo, lasciarsi andare a quell’amore immenso che per tanto tempo non aveva potuto esprimere del tutto, a quella passione che le bruciava dentro e fuori, consumandola, consumandoli.

 

Fino ad un altro grido, questa volta di lui o forse di entrambi, mentre tutto esplodeva e si ricomponeva allo stesso tempo, il fiato che non arrivava, mai abbastanza, mentre si lasciava andare del tutto, molle e quasi liquida, perdendosi insieme a lui.

 

La prima cosa che notò, quando il fischio nelle orecchie si zittì, lasciando posto ai rumori, quando gli occhi ripresero a vedere il cielo grigio e non soltanto uno sfarfallio indistinto, fu il nitrito fortissimo dei cavalli.

 

Si riebbe del tutto e incrociò lo sguardo preoccupato di Calogiuri, e poi si voltò verso gli animali, spaventata e-

 

E scoppiò a ridere.

 

Il riso di Calogiuri le vibrò dentro, e si guardarono di nuovo, un po’ imbarazzati, ma anche divertiti dalla loro stessa follia, osservando i cavalli che davano loro il sedere mo, con un atteggiamento che manco la buoncostume, lamentandosi scandalizzati.

 

“E perché chissà cosa farete mai voi, quando stai in calore, eh?!” esclamò, beccandosi un altro soffio risentito di Minerva.

 

Che probabilmente aveva preso più dalla professoressa di Harry Potter, che pareva la signorina Rottermeier, che dalla dea dalla quale derivava il suo nome. Anche se pure lei… ma perché poi la saggezza, l’intelligenza e la giustizia, non potevano conciliarsi pure con i sani piaceri della vita?

 

E che cavolo!

 

“A che pensi?”

 

Il bacio di Calogiuri sulla spalla e sul collo la portò alla realtà, e a due occhi azzurri che brillavano divertiti e maliziosi.


“Che dovremo pagare i danni a Sabrina per il trauma arrecato. Ma che non mi pento di niente, proprio!”

 

Il bacio che la travolse, pure mentre ridevano, cementò ancor di più il suo proclama e la sua convinzione.

 

“Senti…” lo udì poi sussurrare, con quel tono da impunito che non prometteva niente di buono, ma tanto di ottimo, “visto che tanto… che tanto ormai… traumatizzati per traumatizzati… che ne dici se…. Anche perché… insomma… è stato tutto così veloce e-”

 

“Per fortuna non troppo veloce, Calogiuri,” lo sfottè, facendogli l’occhiolino, “e comunque… approvo in pieno la mozione, maresciallo. Accolta! Ma stavolta stai ai miei ordini, eh!”

 

“Ah, sì?” le chiese e, prima che potesse aggiungere altro, si trovò di nuovo placcata sulla coperta, le labbra tappate in un bacio stavolta dolce, lento, tenero ed allo stesso tempo appassionato.

 

Come solo Calogiuri sapeva essere.

 

Ora che la fame arretrata era stata un minimo saziata, si prese il suo tempo quello sfrontato, a levarle piano piano i vestiti, che finalmente cooperavano i maledetti, facendoli volare ad uno ad uno per la radura.

 

E lei poteva forse farsi bagnare il naso?

 

Ma manco per idea! Quindi ricambiò, baciando ogni centimetro di pelle che scopriva, sopra quelle ossa che finalmente erano sempre meno pronunciate, i muscoli che si facevano sentire, sotto le labbra, in quello che era sia un sollievo, sia un modo di ricordarle quanto fosse stato vicina a perderlo per sempre.

 

Trattenendo la commozione, lo baciò sul cuore e poi nel giro di un secondo si trovò di nuovo con quelle labbra carnose sulle sue, ed erano umide, umide di lacrime, non avrebbe saputo dire di chi ormai.

 

Fu dolcissimo, in ogni istante, senza fretta, nonostante le circostanze, come gli incoscienti che forse erano sempre stati, perché l’amore è così. E Calogiuri ogni volta le insegnava cosa fosse fare l’amore davvero, senza filtri, senza limiti, lasciarsi andare completamente, corpo, mente e cuore.

 

Perché con lui poteva farlo, poteva essere se stessa, fino in fondo. Con lui e soltanto con lui. 

 

Sempre.

 

E dopo i baci, i sospiri, le carezze, dopo aver di nuovo perso e ritrovato i sensi, distesa tra quelle braccia che erano casa, un solletico all’orecchio e-

 

“Hai un’idea di quanto ti amo?”

 

Il cuore si stoppò per un attimo e poi prese a galoppare, più dei cavalli, un singhiozzo trattenuto, mentre gli si rifugiava nel petto e glielo riempiva di baci e lacrime.

 

“Imma… che… che cos’hai?”

 

La preoccupazione di lui, la tenerezza, sollevò il viso e lo baciò, dritto sulle labbra, pizzicandogli una guancia.

 

“No… è che… da… dopo Melita… non me lo avevi mai più detto.”

 

E forse solo in quel momento, mentre la faceva sentire così leggera, così grata, così viva, si rendeva conto di quanto quella mancanza le fosse pesata.

 

“Sono stato uno stupido, lo so…” fu la risposta di lui, con quegli occhi lucidi e sinceri e quella voce tremante che le chiese, “puoi perdonarmi?”

 

“Non c’è niente da perdonare, Calogiuri, come hai detto tu… forse… forse dobbiamo perdonare noi stessi per la nostra stupidità e per tutto il tempo perso…” ammise, accarezzandogli di nuovo il viso, per poi aggiungere, dritto negli occhi, “hai un’idea di quanto ti amo, io, almeno? Perché forse non sono brava ad esprimerlo, o a dimostrarlo ma-”

 

“Ma che dici? Se in questi giorni… in queste settimane… me ne hai date così tante di dimostrazioni, di conferme che… che forse manco me le meritavo e me le merito, ma-”

 

“No, Calogiuri. Ci meritiamo proprio a vicenda, perché siamo due testoni da primato, siamo,” lo interruppe, perché il cuore le stava veramente per scoppiare e lo baciò e se lo strinse più forte che poteva.

 

Ma poi… piano piano… il freddo cominciò a farsi sentire e le toccò sollevarsi leggermente, per guardarsi intorno, tra quel cielo sempre più grigio e scuro e l’azzurro dei suoi occhi.

 

“Si è fatto tardi, dobbiamo rientrare,” palesò lui per lei quella che era la realtà, il ritorno alla realtà, anche se sarebbe rimasta volentieri lì per sempre.

 

Ma la realtà che li attendeva dopo, forse, poteva essere pure meglio, come lo era sempre, inspiegabilmente, quando stava con lui.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qua alla fine di questo lunghissimo capitolo ma ho deciso che fosse giusto lasciarlo intero, anche per compensare un po’ la lunga attesa per le nuove puntate della fiction.

Imma e Calogiuri si sono finalmente riconciliati ma… non è mica finita qui. Hanno ancora parecchi casini da affrontare, sia lavorativi che personali, prima di poter cantare vittoria. Nei prossimi capitoli vedremo sia come proseguiranno il giallo e il maxiprocesso, cosa succederà con Melita e suo figlio, che capiterà con Valentina e Carlo, Rosa e Pietro e le altre “quasi coppie” che vanno delineandosi ma, soprattutto, cosa ne sarà di Imma e Calogiuri, perché ora hanno parecchie decisioni da prendere ma bisogna anche vedere se riusciranno a rispettarle poi e ad affrontare tutto quello che pioverà ancora loro addosso. Perché chi trama nell’ombra… mica si arrenderà tanto facilmente.

Spero la storia continui a piacervi e ad intrattenervi, siamo nella fase conclusiva ma ci sono ancora un po’ di capitoli, credo che arriveremo tranquillamente fino alla seconda parte della seconda stagione almeno. Nel frattempo, ispirazione permettendo, credo farò qualche one shot sulla seconda stagione,  quindi se vi fa piacere leggerle, vi consiglio di controllare il mio profilo autrice di tanto in tanto, se già non mi seguite.

Grazie mille a chi ha messo questa storia tra i preferiti e i seguiti e un grazie di cuore a chi mi lascia e mi lascerà una recensione. I vostri pareri mi sono sempre di enorme motivazione e preziosissimi per capire come va la scrittura e se la storia continua a piacervi o meno, oltre a cosa vi convince di più o di meno e ai vostri suggerimenti e ipotesi che sono sempre utilissimi per me.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 28 novembre.

Grazie ancora!

 
   
 
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