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Autore: Kodama_    22/11/2021    4 recensioni
[OsaHina | AtsuHina]
Prima lezione:
il mare - il mare - come ogni verità inesorabile e disumana, accade e basta.
TW: morte
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Osamu Miya, Shouyou Hinata
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Scenderemo nel gorgo muti.
(Cesare Pavese)



Esiste uno strano paese, da qualche parte vicino al mare, dove le case perdono colore.
Non accade sempre e non accade a tutte le case, ma solo a quelle che smarriscono la volontà di vivere. Alcune diventano tristi, dimenticano la loro funzione, il pigmento delle tegole sbiadisce, sulle pareti si schiudono ragnatele di crepe. Infine piomba il silenzio, un silenzio opprimente e impetuoso come se un oceano intero si riversasse dalle finestre saturando le stanze fino al soffitto. È un silenzio gocciolante, che ha lo stesso colore verdastro delle cose annegate, umide e ammuffite.
La casa, si dice a quel punto, diventa una casa fantasma. E dopo una prima fase di squilibrio iniziale, inizia a gonfiarsi e sgonfiarsi amorfa come un anemone, come una larva, si richiude su se stessa come un riccio e si dilata. Gorgoglia, si lamenta, appassisce e infine muore, crolla.
Strappate il cuore a qualcuno e fatelo a pezzi. Le case fantasma hanno la stessa consistenza della poltiglia vermiglia che vi rimarrà appiccicata alle dita, e lo stesso odore metallico, dolciastro, nauseabondo. Grumi di terra putrefatta.
C'è una casa in cima a una scogliera. Una casa che dieci anni prima era splendida, né troppo grande, né troppo piccola, dal tetto rosso come se le tegole fossero state dipinte dal tramonto e le pareti dalla schiuma del mare. Era una casa piena, piena di vita.
Poi all’improvviso, a notte inoltrata, sulla casa era calata una coltre di nebbia soffocante e densa. Si era infiltrata nelle tubature come un topolino silenzioso che zampetta al buio verso la dispensa, poi il topolino si era trasformato in un cappio allacciato intorno al collo.
E nonostante la caparbietà del sole, che si ostinava a innaffiare quella casa ogni giorno di luce, le mura che un tempo avevano scintillato insieme al mare ora rimanevano spente, mute.
Dentro questa casa ci abita una persona. O forse sarebbe più corretto dire che ce ne abita mezza, dato che la sua altra metà è andata perduta.
Questa è la sua storia: la storia di come una metà torna a essere intera. Più propriamente, è la storia di un porcospino che, in mezzo all’oceano, trascinandosi dietro tutti i suoi aculei, deve imparare come si nuota.




Sette brevi lezioni d’Oltremare (e di come un porcospino imparò a nuotare)


*
Prima lezione:
il mare - il mare - come ogni verità inesorabile e disumana, accade e basta.

*

Shouyou cammina sulla spiaggia. È scalzo, l'acqua di mare s'infrange sulle caviglie, la schiuma sfrigola sulla pelle, dolce e gentile. I gabbiani volano bassi, stranamente quieti, è pomeriggio inoltrato e il sole sta per scomparire oltre l'orizzonte. C’è calma piatta.
Shouyou solleva il viso. Punta gli occhi sulla casa grigia che si erge sulla scogliera. Gli fa pensare a un gatto morto investito in un giorno di pioggia. Suscita un dolore immenso, una tristezza violenta. È repellente, l'istinto è quello di distogliere lo sguardo. Però Shouyou si rifiuta, rimane immobile, vigile, i meccanismi dentro la mente che ticchettano febbrili mentre rimugina e pensa a come possa aggiustarla, curarla. Nonostante tutto c'è bellezza, Shouyou l’avverte, la vede. Bisogna solo grattare via quella coltre abissale che l’avvolge, e tornerà a splendere.
Non è una casa perduta. Ha solo bisogno di qualcuno che le tenda la mano.

*

Tre giorni dopo, Shouyou preme il dito sul campanello grigio. Non emette un suono, è muto, o forse si rifiuta di parlare per protesta, arresa. Perciò bussa alla porta.
Ad aprire è un ragazzo. Ha gli occhi tristi  e silenziosi come il campanello. Shouyou dentro ci vede il mare.
‘’Ciao,’’ gli dice con un sorriso. ‘’Sono Hinata Shouyou. Il Curacase.’’
‘’Osamu,’’ si presenta l'altro. ‘’Ma non ho chiamato nessun Curacase.’’
La sua voce brucia. Gli fa pensare a una tenda che si strappa, a qualcosa che non si rimargina.
‘’Sì, lo so. Ma ti crollerà addosso a breve se non facciamo qualcosa.’’
‘’Grazie per la preoccupazione, ma sinceramente non me ne frega. Ciao.’’
Osamu gli sbatte la porta in faccia. Shouyou inarca le sopracciglia sorpreso, poi bussa un’altra volta. Osamu riapre, senza sforzarsi di mascherare il fastidio.
‘’Senti,’’ ringhia. ‘’Io non-’’
‘’Mi ha chiamato il comune,’’ lo interrompe Shouyou, con un tono duro e inflessibile che ha imparato a esercitare negli anni. ‘’Neanche io voglio costringerti, però una casa del genere è illegale. Se ti rifiuti ci saranno delle multe. E dopo le multe arriveranno i servizi sociali, che ti porteranno in qualche centro di recupero. E dopo ancora ti butteranno giù la casa e dovrai trovarti un’altra sistemazione. Ti sta davvero bene così?’’
Osamu assottiglia le palpebre. Lo fissa come se volesse scovare la bugia dietro le sue parole. Ma non c’è nessuna fregatura, Shouyou ha davvero un mandato del comune piegato nella tasca, e non può permettersi di ignorarlo.
‘’D’accordo,’’ dice infine. ‘’Fa' quello che devi fare.’’
Shouyou estrae un secondo modulo dalla tasca e glielo porge. ‘’Devi firmare questo.’’
‘’Cos’è?’’
‘’L’autorizzazione. Per farmi entrare dentro casa tua.’’
Osamu legge il modulo con la fronte corrugata, Shouyou nel frattempo getta uno sguardo fugace allo spiraglio lasciato dalla porta socchiusa. Non riesce a distinguere nulla, solo un grigio denso che non promette bene.
‘’D’accordo,’’ risponde l’altro, restituendogli il modulo. ‘’Firmerò. Dimmi solo cosa devo da fare.’’
‘’Beh, prima dovrei dare un’occhiata all’interno, per organizzare un piano di lavoro. Quando saresti disponibile?’’
‘’Anche adesso,’’ ribatte Osamu, secco. ‘’Prima iniziamo, prima finiamo.’’
Quindi indietreggia e gli permette di entrare.
La prima sensazione è quella di immergersi in un banco di nebbia. Una nebbia scura e densa, come fanghiglia. Claustrofobica. Tutto è appassito, lì dentro: il divano, il televisore, le mensole sulla parete. Alcune tavole del parquet sono sollevate, gonfie di umidità. Ci sono delle perdite di acqua che gocciolano dal soffitto, Osamu ha tentato di rimediare con delle bacinelle di alluminio. Il freddo è lancinante, brividi serpeggiano lungo la sua schiena: non è solo a causa del gelo, ma tutto di quel luogo è straziante e avvilente, lo spinge a fuggire, a inspirare profonde boccate d'aria osservando il mare. È entrato dentro quello che rimane di un’anima dilaniata dal dolore più feroce, sanguinante e tumefatta. Shouyou irrigidisce la mente, innalza le barriere per controllare l’agitazione.
‘’Non so se si possa effettivamente fare qualcosa,’’ dice allora Osamu porgendogli il modulo compilato. Poi si osserva intorno un po’ imbarazzato, lasciando trapelare per la prima un’emozione diversa dall’astio. ‘’È così da un bel po’.’’
‘’Si può sempre fare qualcosa,’’ replica Shouyou con convinzione, infilandosi il foglio in tasca. Al suono della sua voce la casa reagisce: trema, sussulta, si piega su se stessa, si irrigidisce infastidita. Ti odio, sembra volergli dire. Vattene via. Ti odio, ti odio, ti odio.
Non è più abituata al rumore. Non è più abituata ad accogliere persone. Quel silenzio totalizzante che ha pervaso le mura è diventato l’unico suono che la casa è disposta ad accettare. Un silenzio che schiaccia, che annichilisce, che flagella, che ricorda ciò che non c'è più. Coltellate perenni, infinite. Shouyou si domanda come diamine faccia Osamu a vivere lì dentro. Poi pensa che dev’essersi abituato. E non va bene, non va bene affatto. Accettare passivamente il dolore, soccombere a esso e lasciarsi trascinare, è il primo passo verso il gorgo. E più vai giù, più la speranza sfuma, si sfoca, annega. Non è l’ossigeno che inizia a mancare, ma la voglia di respirare.
‘’Ci vorrà un po’ di lavoro,’’ si limita a dire. ‘’Però la casa è piccola. Un paio di settimane al massimo. Forse anche una, facendo mattina e pomeriggio. Di solito si inizia dalle camere da letto. Quante sono?’’
‘’Una,’’ risponde Osamu. ‘’Una camera da letto. Poi c’è la cucina che è di là. E poi un bagno. Devi vedere tutto ora?’’
Shouyou scuote la testa. ‘’No, non serve. Era giusto per farmi un’idea.’’
Osamu annuisce. Ha lo sguardo puntato sul pavimento. Non c'è niente di cui vergognarsi, vorrebbe dirgli Shouyou. E anche, mi dispiace, qualunque cosa sia accaduta.
‘’Da quanto tempo la casa è così?’’
L’altro non risponde. Shouyou detesta insistere, ma deve. È lì per fare il suo lavoro.
‘’Non sei obbligato a dirmi nulla,’’ gli dice. ‘’Però mi aiuterebbe.’’
‘’Dieci anni,’’ risponde Osamu. 
Shouyou lo ringrazia impassibile, teme che lasciando trapelare compassione Osamu possa sentirsi umiliato, quindi si avvicina alla parete. La scruta con attenzione, lascia scorrere le dita lungo qualche centimetro come se la stesse accarezzando, percependo, e nel frattempo valuta, pensa, studia.
Il problema è che le case non guariscono, se prima non guarisce il proprietario. E Shouyou è abbastanza sicuro che Osamu non sia affatto guarito e che non riesca a liberarsi del peso che lo schiaccia, come se non volesse lasciarlo andare. Ma deve, devono, tentare, le persone tirano fuori il coraggio nei momenti più inaspettati. Perciò sorride.
‘’D'accordo, facciamo così. Provo a imbiancare una piccola parte di parete. È inutile iniziare con i lavori grossi se la casa non è ancora disposta a farsi aggiustare.’’
‘’E se non funzionasse?’’
Shouyou scrolla le spalle. ‘’Qualcosa ci inventeremo. Qualcosa che funziona c’è sempre. E io sono il migliore a fare questo lavoro.’’
Osamu sbuffa scettico, ma poi annuisce. Shouyou, che ha gli attrezzi per verniciare in macchina, inizia a trattare qualche centimetro di parete vicino allo stipite della porta di ingresso. Raschia lo strato rovinato, ci passa sopra una mano di antimuffa e poi una di vernice fresca. Sotto le setole morbide del pennello, la parete emana disperazione, diffidenza e odio, perciò Shouyou è quasi certo che il suo sarà un tentativo vano. Ma curare le case significa anche questo, imboccare le vie bendato e ritrovarsi in vicoli ciechi, finché non trovi quella giusta che ti conduce al centro, al cuore.
‘’Okay,’’ dice, dopo un decina di minuti. ‘’Se la vernice non viene assorbita e non si ingrigisce, allora significa che possiamo iniziare con i lavori grossi. Puoi farmelo sapere? Ti do il mio numero.’’
Osamu annuisce. Tira fuori il cellulare dalla tasca e si segna il numero che Shouyou gli detta. Poi gli fa uno squillo, e Shouyou memorizza quello di Osamu nella rubrica.
‘’Grazie. Tieni la finestra aperta per qualche ora e cerca di non stare in salone, per non respirare l’aria. A domani, Osamu-san.’’
‘’A domani,’’ risponde Osamu. Poi gli apre la porta. Shouyou afferra il pennello e il secchio di vernice, e finalmente sbuca all'aperto con più sollievo di quanto ci tenga ad ammettere. Respira profondamente, l’aria profumata di salsedine è dolce, zucchero a velo sulla punta della lingua. Quella casa è claustrofobica, un groviglio di spine nel petto che brulica come un ammasso di piccoli insetti.
Ripone gli attrezzi nel cofano dell’auto, senza staccare gli occhi dal mare. Il mare senza una fine e senza un inizio, il mare che c’è e basta, che riesce a eludere persino lo scorrere del tempo. Fa paura, il mare, ed è bellissimo.
La farò tornare come prima, si dice Shouyou, pensando alla casa. Sicuramente.
Gli pare di scorgere un ombra sulla spiaggia. Un luccichio lattiginoso che ricorda una sagoma umana. Shouyou strizza gli occhi, ma non vede nulla.
Scrolla le spalle, sale in macchina, parte.

*

- Sono Osamu. La parete è di nuovo grigia. -
Shouyou è a lavoro. Si sfila un guanto imbrattato di vernice e apre il messaggio. Non è un buon segno, non sono trascorse neanche due ore da quando è andato via da casa sua. Se la vernice speciale che utilizza si è sbiadita tanto in fretta, allora non può sperare di risolvere la situazione semplicemente raschiando via l’umidità.
- Ciao, Osamu-san. Non preoccuparti, proveremo con qualcos'altro. A che ora posso passare da te domani? -
- Quando ti pare. -
- Allora vengo in mattinata. Otto e mezza? :) -
- Okay -

*

Shouyou questa volta decide di andare a piedi. Indossa una camicia bianca che sfarfalla sotto la brezza. Non porta con sé nessun tipo di attrezzo per verniciare.
Inspira profondamente la salsedine, lascia che dondolio delle onde gli entri nel cuore, uno scroscio salato che ritma i suoi passi. Si placa, si concentra: quello è il momento della verità. Il momento in cui deve parlare con Osamu di Osamu, e non della casa. È abituato a farlo, solitamente accade con buona parte delle persone con cui lavora, tuttavia sono pochi coloro disposti ad accettare con mitezza che, prima di aggiustare la propria casa, bisogna aggiustare la propria anima.
I gabbiani smettono di gridare quando Shouyou solleva la mano per bussare alla porta grigia, esausta, arrabbiata, inviperita. Osamu gli apre dopo qualche istante. È attento, nota subito che non ha attrezzi con sé, e probabilmente immagina anche cosa stia per accadere.
‘’Ciao,’’ gli dice Shouyou, un sorriso un po' impacciato ma sincero.
‘’Ciao,’’ risponde l'altro. Suona restio, pungente, come se avesse innalzato una barriera di acciaio per rendersi inaccessibile.
‘’Ti va di fare un giro in spiaggia?’’
‘’Ho scelta?’’ Risponde Osamu, inarcando le sopracciglia.
‘’Certo che hai scelta. Non sei mica obbligato, Osamu-san.’’
Osamu lo guarda, diffidente. Poi sbuffa e scrolla le spalle, seguendolo all'aperto.
Nonostante sia più alto, Osamu fa meno rumore di Shouyou quando cammina, come se i suoi passi sussurrassero. Dalla scogliera scendono sulla spiaggia, Shouyou si sfila le scarpe e le porta a mano, preferendo camminare scalzo sulla riva. Osamu invece lascia che le sue si sporchino di sabbia umida. Shouyou nota che non guarda mai il mare ma dritto davanti a sé.
Alla fine del lungomare, c’è una piccola salita scoscesa che conduce sulla cima di un’altura rocciosa.
‘’Soffri di vertigini?’’ gli domanda Shouyou, voltandosi a guardarlo.
‘’No,’’ risponde Osamu. ‘’Mi piacciono i posti alti.’’
Anche a me, pensa. Quindi percorrono la salita, la sabbia si trasforma prima in terra rossastra e poi in brecciolina. Shouyou, scalzo, scivola. Osamu lo afferra circondandogli la schiena con il braccio.
‘’Grazie,’’ dice Shouyou.
‘’Di niente,’’ risponde l'altro, riprendendo a camminare.
Shouyou si sente le orecchie rosse. Giunti in cima, si siedono sul ciglio che si affaccia a strapiombo sulla riva. La pietra è calda sotto le cosce, imbevuta dei raggi del sole che ci ha battuto sopra tutto il giorno. È piacevole, e la brezza fa fremere i vestiti.
Il mare si mischia al cielo, pennellate celesti e azzurre che sfumano in un verde acquatico, poi in un blu profondo, indaco, più i ghirigori bianchi delle nuvole, le striature arancioni del cielo. Il mare riflette, ingloba, nasconde, mostra. Il mare è senza colori, pensa Shouyou. Il che significa che ce li ha tutti.
Ma se il cielo è color pastello e il mare è placido e piatto, gli occhi di Osamu riflettono una tempesta torbida, tonante di fulmini, e un mare bucherellato da vortici che risucchiano persino gli scogli. Osamu lo osserva in silenzio come se ci volesse annegare dentro. Poi scuote la testa e gli scocca un'occhiata torva.
‘’Porti qui tutte le persone a cui devi dire cose che non vogliono sentirsi dire?’’
‘’Solo quelle carine,’’ replica Shouyou con un occhiolino. Osamu sbuffa, all'apparenza poco impressionato, tuttavia Shouyou percepisce l’ombra di un sorriso.
‘’Senti,’’ comincia. La tempesta nello sguardo di Osamu trabocca, un rigurgito che vuole mangiargli le orbite. Shouyou però continua, deve andare avanti senza lasciarsi intimorire. ‘’Io sono bravo in quello che faccio. Molto bravo. Però ci sono certe case, certe anime, che non possono essere rimesse a nuovo semplicemente pitturando le pareti. Non basta riparare le finestre, o le porte, o le tubature. Se una casa ha deciso di morire, lo farà a prescindere dal mio impegno. Quello che voglio dire è che, se tu prima non aggiusti te stesso, non potrai mai aggiustare la casa.’’
Osamu non risponde. Shouyou in quel mutismo scorge testardaggine, ira, protesta. È appuntito come migliaia di spilli, un porcospino ispido che ferisce la pelle e buca l'aria salmastra che li circonda. Shouyou però rimane immobile, quieto, affabile. Non si impone, si lascia pungere.
Osamu si è trasformato in una statua di marmo. Assomiglia alla polena di una barca. Shouyou indisturbato continua a fissarlo, ricalca con gli occhi il profilo del naso, delle labbra, del mento. S'immagina di prendere una forbice e di ritagliare nel cielo la sua sagoma.
La schiuma delle onde s'infrange e dopo sfrigola sui fianchi della scogliera, il crepitio di un caminetto. Quando il sole è nascosto per metà oltre l’orizzonte, Osamu sospira, smette di essere polena e torna a essere persona.
‘’Grazie per essere stato onesto,’’ gli dice. ‘’Ma non sono capace di sistemare… beh, tutto questo.’’
Disegna un cerchietto con la mano. Come se tutto il dolore che lo annichilisce si trovasse lì dentro, in quel cerchietto invisibile sospeso nel vuoto. Il cuore di Shouyou si stringe, si rannicchia su se stesso, poi si dilata e si allunga verso quello dell'altro, un filo di gomma morbida. Gli tende la mano, prova a percepire il suo battito, a entrarci in sintonia come fa con le case, ma Osamu è troppo distante e gli impedisce di avvicinarsi.
Tornano indietro. Scorgono la scia di orme che hanno lasciato all'andata sulla sabbia asciutta, linee tratteggiate, passi che toccano terra alternati a piccoli balzi di vuoto. Presto il  mare le cancellerà via. Shouyou ha le labbra cucite, bruciano insieme alla gola, la bocca piena di salsedine.
Davanti alla porta scolorita della sua casa, Osamu gli rivolge un’occhiata gelida.
‘’Beh, ci vediamo,’’ gli dice Osamu. Shouyou sa che lo dice tanto per dire. C’è una consapevolezza macabra, nel suo tono di voce. Il riconoscimento di una disfatta. Osamu ha perso, e crede di aver perso per sempre. Shouyou scuote la testa.
‘’Possiamo vederci domani.’’
‘’Perché dovremmo? Te l’ho detto, non credo di-’’
‘’Non è per la casa,’’ lo interrompe Shouyou, sentendo le guance avvampare. ‘’Solo che mi piacerebbe uscire. Andiamo a prendere un caffè, o quello che ti pare. Se ti va.’’
Osamu serra le labbra, ancora rabbia che zampilla, il furore e la vergogna per la sua sofferenza visibile agli occhi degli altri. ‘’Mi stai invitando a uscire perché ti faccio pena? Perché davvero, non ho bisogno di-’’
Shouyou scuote di nuovo la testa, con più foga. ‘’Non invito a uscire tutte le persone a cui aggiusto le case, sai? E sono tante.’’
‘’E allora perché stai invitando me?’’
Shouyou scrolla le spalle. ‘’Sei carino. Perché no?’’
Osamu rimane spiazzato.
‘’E poi sei interessante.’’
‘’Sono stato praticamente sempre zitto.’’
‘’A me il silenzio piace,’’ ribatte. ‘’E in fondo ci siamo visti due volte, solo per parlare di lavoro. Possiamo parlare di altro.’’
‘’Io non ho altro.’’
‘’Beh, io sì. E chiacchiero un sacco. Perciò… Insomma, solo se ti va.’’
Osamu non risponde, lo fissa come se non credesse a una sola parola. Infine scuote la testa, a metà fra l’allibito e l’infastidito. Quindi sbuffa.
‘’Sei proprio strano, Shouyou-kun.’’
Shouyou sorride. È la prima volta che lo chiama per nome. Lo interpreta come un segnale positivo.
‘’Va bene,’’ dice infine. ‘’A che ora?’’
‘’Dopo le quattro? Appena stacco da lavoro.’’
Osamu annuisce. Shouyou lo saluta entusiasta. Poi volta le spalle e si avvia verso casa, un tepore speranzoso che si diffonde sotto la pelle misto a paura. Shouyou aggiusta le case, ma non è uno psicologo. Ha invitato Osamu perché voleva davvero invitarlo, spera solo che non abbia fatto nulla di sbagliato.

*

Si incontrano alle quattro e qualcosa davanti a un qualche tipo di bar poco lontano da casa sua. Osamu non sente nulla. Non vede nulla. Il dolore stronca sul nascere qualunque sensazione, emozione, impulso visivo uditivo fisico. Solo cose e cose e cose e cose che si susseguono in una fila interminabile e continua, cose e cose e cose e cose e cose che non lo toccano, non lo sfiorano, proseguono lontane e ordinate come formichine (tantissime, lontane, lontane, lontanissime). Osamu cammina senza sentirsi davvero Osamu, il suo è un corpo che prima aveva un nome e che adesso manovra come un burattino sotto anestesia, disconosciuto, ripudiato, disincarnato dal tempo e dalla vita, fra la fila di cose e la nebbia che invece non è in fila ma che semplicemente copre uniforme, soffoca, strangola. Shouyou - Shouyou, Shouyou che ha un nome, Shouyou che non è una cosa - lo attende vicino a (l’ingresso), mentre (parla al telefono). Non appena lo vede, gli rivolge (un sorriso) che Osamu non ricambia. O perché non ci riesce, o perché non ha voglia. Osamu non lo sa, non sa nulla. Le labbra non si muovono come dovrebbero, il cervello non si muove come dovrebbe, non reagisce agli stimoli reali, appesantito da quella tristezza d’amianto che oramai s’è sedimentata ovunque, dentro e fuori dal corpo. Rigido, intorpidito, anchilosato. Osamu si trascina in mezzo alla cenere che non è cenere bensì mare - si trascina o si lascia trascinare?
Mentre Shouyou continua (a parlare al telefono) Osamu si concede di (guardarlo). Prova a stare attento, prova a ricordarsi cosa farebbe se tutto fosse normale, se fosse ancora una persona. Penserebbe che è carino, lo inviterebbe a cena. O forse quelle sono cose che avrebbe fatto Atsumu. Osamu si è dimenticato, non ricorda se stesso, non ricorda cos’era prima del giorno in cui tutto è finito. Non ricorda cosa significhi desiderare, non ricorda quel bagliore tiepido che ti avvolge il cuore quando trovi una cosa bella, quel nodo doloroso che te lo stringe quando succede una cosa brutta. Non ricorda cosa significhi essere in vita.
Osamu vuole andare a casa. Vuole tornare nel silenzio assordante della sua stanza. Perché quando è solo, in quella casa che, fedele, muore con lui - è morta quel giorno, tutti loro sono morti quel giorno - può permettersi di serrare ogni spiraglio che si affaccia all’esterno, può sbattere ogni finestra della sua anima e chiudersi completamente - non in se stesso, non c’è più un se stesso. Quando è con Shouyou, per quanto gli sembri sempre di fluttuare nel vuoto, c’è una parte della propria coscienza che deve restare vigile, deve mantenersi attenta e concentrata sugli impulsi generati da una conversazione, altrimenti Osamu sarebbe incapace di ascoltare le sue parole e di rispondere. E quella finestra che deve rimanere aperta per permettere un’interazione, è dolorosa. Immensamente dolorosa, come se entrasse una bufera di ghiaccio e i cristalli di neve si conficcassero nella carne dall’interno, porcospini nella gola.
Osamu lo sapeva. E allora, allora, perché diamine ha accettato l’invito? È stata quella passività in cui si rifugia, a spingerlo a dire di sì? Perché un rifiuto sarebbe stato più difficile da pronunciare? Forse, ma si sarebbe trattato di un attimo, poi Osamu sarebbe tornato dentro la sua casa e chiudendosi la porta alle spalle avrebbe lasciato fuori Shouyou insieme a tutto il resto del mondo. E poi avrebbe aspettato che la casa gli crollasse addosso. L’avrebbe lasciata crollare sulla sua testa. Quindi no, sotto ogni punto di vista la sua era stata una scelta illogica, controproducente, sfiancante.
Shouyou chiude (la chiamata). Gli occhi di Osamu registrano l’immagine, e non appena la processano, a malincuore, Osamu si costringe a schiudere quella fessura che gli permette di collegarsi con quello che c’è fuori. Niente più parentesi buie, adesso deve trovare la concentrazione.
L’espressione di Shouyou si rabbuia. No, non si rabbuia, si intristisce.  Lui capisce, è sveglio, è normale che sia portato a comprendere lo stato d’animo altrui considerando la sua professione.
‘’Se vuoi facciamo un altro giorno,’’ gli dice. ‘’Davvero, non voglio obbligarti a uscire con me.’’
Obbligato. Obbligato, è quello il termine giusto? È così che si è sentito? Obbligato a manifestare gentilezza nei confronti di una persona che per prima l’ha manifestata nei suoi confronti?
Sì, pensa. È così che mi sono sentito. Obbligato. Incatenato. Perché io qui non ci voglio stare. Io devo andare a casa.
Perciò è facile. Basta annuire. Compiere l’ultimo, estenuante sforzo per biascicare una frase di senso compiuto, dire ‘oggi non me la sento, facciamo un altro giorno’.
Osamu apre la bocca. Riordina quelle parole che gli svolazzano nella testa, costringe la laringe a schiudersi, le corde vocali a risuonare. Muovere la lingua fa male. Pensare fa male. Parlare fa male. Fa tutto male, eppure Osamu non sente niente.
‘’Non mi hai obbligato,’’ risponde. ‘’Se sono qui è perché mi andava.’’
Shouyou sorride. La luce torna a brillargli negli occhi. Quelle non sono le sue parole, quelle parole lui non le ha neanche pensate. Eppure sta entrando in un bar, e adesso la sua voce - voce comandata da qualcun altro, perché Osamu è altrove nel silenzio, non nel suo corpo - ordina un caffè a un tizio con un tablet in mano. Intorno a lui, un brusio di sottofondo che gli fa pensare alle cicale. Si domanda quando esattamente abbia sentito le cicale cantare, l’ultima volta.
Osamu è esterrefatto. È troppo abituato a (non) vivere in un silenzio impenetrabile. Shouyou parla, lui fa del suo meglio per ascoltarlo. No, non è vero, bugiardo, Osamu non fa del suo meglio, ascoltarlo è facile, naturale, come se qualcosa dentro di lui si protendesse verso le sue parole concitate e acute. Shouyou gesticola e sgrana gli occhi grandi come se fossero nati per inglobare la luce, due lampadine scintillanti nella notte, e Osamu pensa che quella sia la cosa più vicina alla gioia, al tepore, che abbia provato in dieci anni.
Le persone per lui sono tutte uguali. Formiche, macchie indefinite che scivolano insieme alle cose (cose, cose, cose), prive di nome e di espressione. Shouyou invece un nome ce l’ha. Osamu sta iniziando a disegnare i suoi contorni, a renderli netti, sta iniziando a ritagliare la sua sagoma dentro la testa, ad attribuirgli un’ombra e di conseguenza una dimensione, esistenza. Accade, quando ripudi il contatto umano per un decennio e poi ti ritrovi al bar con qualcuno. Il problema è che definire i contorni di Shouyou lo sta costringendo a ridefinire anche i propri. Osamu sta tornando a percepirsi, quella parte di lui, l’interezza di ciò che era - e la metà che è adesso - sta pulsando come se volesse tornare a respirare aria pulita. No, non respirare, semplicemente esistere. Riprendere l’insulso spazio che occupa nel mondo, perchè si tratta pur sempre di uno spazio suo, per quanto insulso. 
‘’Qual è il tuo animale preferito?’’ gli domanda Shouyou, con la schiuma del cappuccino sulle labbra.
Ma che domanda di merda è? si domanda Osamu, poi lo copia. Sorseggia il suo caffè dalla tazzina. È alienante, la sensazione della ceramica sotto le labbra, l’espressione incuriosita di Shouyou che lo fissa di fronte, il tavolino in legno scuro su cui poggiano i loro gomiti, le grandi finestre dalle tende arancioni. È terrificante. Da quanto tempo non usciva, da quanto tempo non entrava dentro un bar? Quand’è stata l’ultima volta che ha permesso a qualcuno di sedersi di fronte a lui?
‘’La volpe,’’ risponde Osamu, pensando ad Atsumu. Il problema è quello, è sempre quello, vivere nella realtà significa pensare ad Atsumu e pensare ad Atsumu significa ricordarsi che non c’è più - Osamu invece sì. E quindi il dolore scaturisce a fiotti, il dolore che lo brucia da dentro, quel fiume in piena che trabocca d’ira e disperazione e Osamu che è troppo piccolo per contenerlo, troppo debole per ricacciarlo indietro, per domarlo, per sopprimerlo. E allora arrivano le parentesi, le parentesi di buio che gli permettono di non vedere, di non sentire, (la parentesi di mutismo e sedativo in cui galleggia da dieci anni). Eppure nonostante il mare di dolore eccolo lì con un caffè in mano a parlare di animali.
‘’A me piacciono i corvi,’’ risponde Shouyou. ‘’Hanno un bel colore. E poi sanno volare. Che è tipo la cosa più vicina che ci sia alla libertà.’’
Libertà. Qualcosa scocca, qualcosa risuona come un pianoforte in una stanza vuota. La libertà è la chiave, la soluzione.
Osamu si sigilla dentro casa sua, dentro la forma di se stesso, sottovuoto, perché è schiavo della paura e non vuole lasciare neanche uno spiraglio che le permetterebbe di entrare.
Il problema è che senza paura non si vive.

*

Seconda lezione:
il mare - il mare - è ingordo e onnisciente. Ti vede, e prima o poi, ti avrà.

*

È lunedì. Shouyou non lavora di lunedì. Il lunedì è il giorno delle focaccine alla marmellata.
Le compra al forno vicino casa, poi si incammina verso la spiaggia pregustando di mangiarle mentre guarda il mare. Il sole freme nel cielo terso, gli intiepidisce le guance e la fronte.
Si sfila le scarpe prima che i piedi tocchino la sabbia, insegue il garrito dei gabbiani sino alla riva e poi siede su un pedalò abbandonato, la vernice rossa sbiadita da un velo di sabbia portato dal vento. Quando addenta la prima focaccina, leccando la marmellata alla fragola, un fremito di piacere gli solletica la nuca. Ne mangia una seconda, una terza, e nel frattempo osserva due barche a vela in lontananza, triangoli di tela biancastri che sfumano con l'azzurro, che diventano azzurro, che diventano mare, oceano, oceano mare.
Un conato di vomito improvviso lo travolge. Shouyou piega il collo in avanti, tossisce saliva con le viscere che si arrotolano. Fitte brucianti si irradiano nelle ossa, Shouyou è zuppo di sudore e non riesce a muovere la lingua, a emettere un suono.
‘’Ciaaaao,’’ gli dice una voce.
Dopo qualche istante, la sofferenza atroce si quieta e infine svanisce senza lasciare traccia, come se non fosse mai esistita. Shouyou si domanda se sia stato male per davvero o se non si sia appisolato sul pedalò per qualche minuto, sognandosi tutto.
Quando raddrizza il busto, nota un ragazzo seduto vicino a lui. Shouyou sobbalza per la paura, e l’altro esala via una risata sguaiata. Per un attimo, lo scambia per Osamu. I lineamenti del viso sono identici, solo il colore dei capelli è differente. Magari si è tinto, pensa Shouyou.
‘’Osamu-san?’’ lo chiama, titubante. L'altro schiocca la lingua infastidito, rivolgendogli un'occhiata colma di sdegno.
‘’Ti sembro ‘Samu?’’
Shouyou lo guarda attentamente, frastornato. Sì, sembra decisamente Osamu. Però il viso è più infantile, immaturo. No, non si tratta del viso, è l’espressione che stride, che non combacia con quella che ricorda.
‘’Sono suo fratello,’’ spiega l'altro, interrompendo i suoi pensieri. ‘’Gemello,’’ aggiunge. ‘’Mi chiamo Atsumu.’’
Shouyou annuisce d’istinto. Non presta attenzione a quella notizia, è troppo preso dal suo volto. È perfetto. Troppo perfetto, come se avessero sostituito la pelle con un velo di marmo. C'è qualcosa di etereo, di inafferrabile, nella sua figura, qualcosa che non combacia con il resto del paesaggio e della realtà. Gli occhi di Shouyou non riescono a processare quello che vedono, a mettere a fuoco, come se avesse la testa sott’acqua. Atsumu è semi trasparente, sottile come carta crespa, privo di ombra.
‘’Shouyou?’’
Shouyou si accorge di avere la pelle d'oca, i capelli rizzati. Che cos'è quello che ha davanti?
Si sforza di riflettere mentre Atsumu lo osserva enigmatico. Insomma, lui è bravo a capire ciò che lo circonda, lo fa per mestiere. Perciò si addentra dentro quel garbuglio irrisolto che percepisce attraverso i sensi. Si sforza di disfarlo, di sentirlo dentro come fa con le case. Segue il filo come Teseo nel labirinto, scioglie i nodi, e finalmente scova la soluzione.
‘’Tu sei morto,’’ dice.
‘’E tu sei molto carino,’’ risponde Atsumu, gli occhi irrequieti che sfavillano.
Shouyou neanche lo sente. È per questo che Osamu-san sta così male. È per questo che la sua casa sta morendo. Gli manca suo fratello.
‘’Perché sei qui?’’
Atsumu scopre i denti, predatorio. ‘’Le conosci, no? Tutte le storie sui morti che non riescono a staccarsi dalla vita perché hanno lasciato delle cose in sospeso.’’
Shouyou annuisce piano.
‘’Beh,’’ prosegue Atsumu, ‘’non dirlo a ‘Samu, ma non credo di poter andare dove devo andare finché lui non starà meglio.’’
‘’Capisco,’’ risponde Shouyou. Quindi apre la bocca, poi la richiude perché non vuole sembrare scortese - insomma, ha pur sempre un morto davanti - ma poi la riapre perché deve sapere. ‘’E cosa vorresti da me?’’
‘’Tu aggiusti le case, Shouyou. Magari puoi riuscire ad aggiustare pure lui.’’

*

Il mare è gonfio quando Shouyou giunge davanti casa di Osamu. Sembra un gatto dal pelo rizzato, con l'alta marea che lo scuote da dentro. Bussa, e mentre aspetta nota che il legno della porta sembra più consunto rispetto all'ultima volta. Shouyou lo sfiora con le dita, percepisce il battito della casa - il battito di Osamu - pulsare flebile sotto la pelle, come un passerotto appena nato che muore di fame. Si domanda se non abbia sbagliato qualcosa. Se non stia sbagliando qualcosa.
‘’Shouyou-kun.’’
La porta si apre. Osamu è sorpreso, forse infastidito, la voce però è monotona, non lascia trasparire nulla. ‘’Che ci fai qui?’’
Shouyou allunga una mano e gli porge la confezione di focaccine con la marmellata. ‘’Passavo per caso,’’ mente. Osamu inarca le sopracciglia scettico, non gli crede. ‘’Ti va di venire con me?’’
Osamu esita, poi annuisce e lo segue sulla spiaggia senza neanche chiudere a chiave. E a che servirebbe? Nessuno entra in una casa fantasma, non c’è niente che valga la pena rubare.
Shouyou si incammina verso la stessa scogliera dell'ultima volta. Osamu lo precede di qualche passo, come se avesse già capito la destinazione, e Shouyou ne approfitta per osservargli la schiena, il collo, l’andatura. L'atmosfera, almeno per lui, è più rilassata. C'è quella punta di intimità che mancava l’ultima volta. Shouyou sta cominciando ad abituarsi, il suo spazio nel mondo che si conforma, si adegua, a quello occupato da Osamu. Perché Osamu occupa spazio, esiste, è presente e vero tanto quanto il mare.
Quando iniziano la ripida salita, al termine del lungomare, Osamu rallenta e lo affianca.
‘’Che c'è?’’ Domanda Shouyou, incuriosito.
‘’Nulla,’’ risponde l'altro. ‘’È solo che l'ultima volta sei scivolato.’’
Shouyou, preso in contropiede, non sa come ribattere. Le orecchie scottano, e Osamu distoglie lo sguardo.
‘’Grazie,’’ risponde dopo qualche istante, sentendosi un po’ scemo. Valuta l'opzione di cadere per finta e farsi prendere al volo, ma la salita è quasi finita. Magari al ritorno può scivolargli direttamente addosso.
Si siedono sul bordo della scogliera e Shouyou gli porge una focaccina.
‘’Ti piacciono?’’
Osamu annuisce. ‘’Sono buone. Le hai fatte tu?’’
‘’Ma scherzi? Aggiusto le case, mica sono un cuoco.’’
‘’Guarda che non è una ricetta difficile. Potresti farcela da solo.’’
Shouyou solleva un sopracciglio.
‘’Ti intendi di cucina?’’
‘’Mi piace, sì,’’ ribatte Osamu. ‘’Sono bravo,’’ aggiunge infine.
Shouyou si sorprende. È la prima volta che Osamu parla di se stesso. È la prima volta che si fa un complimento.
‘’Io sono un disastro,’’ dice Shouyou, che vuole approfondire l’argomento. ‘’Brucio praticamente tutto, e la roba che non brucio è immangiabile comunque. Come hai imparato?’’
‘’Mi ha insegnato mia nonna quando ero piccolo. Poi alle superiori ho seguito dei corsi specifici, perché… perché beh, volevo aprirmi un ristorante.’’
Shouyou fischia ammirato. Non gli chiede perché poi non l'abbia più fatto, dopotutto lo sa già. ‘’Dovresti insegnarmi a preparare qualcosa.’’
Osamu rimane in silenzio. Shouyou disegna con gli occhi il contorno del suo profilo.
‘’Mi piacerebbe,’’ dice infine. ‘’Solo che hai visto com'è ridotta la mia cucina.’’
‘’Giusto,’’ risponde Shouyou. ‘’Ma non rimarrà così per sempre. E nel frattempo, anche a casa mia c’è una cucina. Potresti usare quella, qualche volta.’’
Osamu sgrana gli occhi e si volta a guardarlo sorpreso. ‘’Mi stai invitando da te?’’
Shouyou scrolla le spalle. ‘’Immagino di sì, dice. È un problema?’’
Osamu volta nuovamente la testa. A Shouyou i suoi silenzi non danno fastidio. È come se in quei momenti Osamu sprofondasse sotto l'acqua. Una campana di vetro piomba su di lui e lo esclude da ciò che lo circonda. Shouyou chiude gli occhi e respira il profumo di salsedine.
‘’Immagino vada bene,’’ dice infine Osamu. ‘’Ti insegnerò a cucinare qualcosa.’’
Shouyou scopre i denti in un sorriso grato e Osamu gli sorride di rimando per la prima volta.

*

‘’Shouyou.’’
Shouyou mugola, rigira le caviglie fra le lenzuola, tentando di sprofondare nuovamente nell'oblio del sonno, fuggendo da quel fastidioso bisbiglio.
‘’Shooouyou.’’
È troppo presto. Il corpo lo percepisce, la mente è intorpidita, le palpebre non si sollevano. Può ancora dormire qualche ora. Deve dormire ancora qualche ora.
‘’Shouyou!’’
Il cambiamento di tono spazza via la confusione. Shouyou sobbalza e grida, tirandosi a sedere di scatto. A tentoni, con il cuore che palpita, trova l’interruttore vicino al comodino e accende la luce.
‘’Stai tranquillo,’’ gli dice Atsumu. ‘’Sono solo io.’’
Shouyou rimane impietrito. Fissa il fantasma seduto sul suo letto vicino alle sue gambe, con gli occhi strabuzzati e la bocca socchiusa. Atsumu sembra particolarmente divertito, e gli rivolge un sorrisetto che gli fa venire voglia di strozzarlo.
‘’Non farlo mai più!’’ Biascica Shouyou, la lingua impastata dal sonno e dalla paura. ‘’Come sei entrato?’’
Atsumu inarca le sopracciglia. Shouyou si colpisce la fronte per l’idiozia della propria domanda. Certo, è un fantasma. Può fare quello che vuole, praticamente. Tranne tornare in vita.
‘’Perché sei qui? Vuoi qualcosa da me?’’ Shouyou cambia domanda, Atsumu scoppia a ridere e si avvicina. Si sdraia sopra di lui come fanno i gatti quando si acciambellano sulle gambe, incrocia le braccia sul suo petto e ci poggia sopra il mento, l’espressione provocante stampata in faccia. È leggero, pensa Shouyou. Sembra aria, però più densa. E calda.
‘’Tu vuoi che ti faccia qualcosa?’’ Domanda Atsumu, leccandosi le labbra. ‘’Perché sai, sono piuttosto bravo con la lingua.’’
Shouyou esita un istante, poi scoppia a ridere. ‘’Pensavo a roba più splatter, in verità. Tipo mangiarmi, farmi a pezzi, impossessarmi.’’
‘’Potrei mangiarti,’’ ribatte Atsumu. ‘’Ma non nel senso che pensi tu.’’
Ammicca insolente e Shouyou gli sorride tranquillo. Ha il viso vicino. Lo guarda dritto negli occhi, cercando di capire in cosa siano diversi da quelli dei vivi. Sono più brillanti, le iridi chiare screziate di oro lampeggiano come quelle dei felini, sembrano cerchietti di liquido incandescente che scorre come fuoco e acqua e aria messi insieme. Come stelle.
‘’Perché sei qui?’’ Gli domanda di nuovo.
Atsumu lo fissa a sua volta in silenzio. Shouyou si domanda se non stia cercando nei suoi occhi umani, vivi, qualcosa che gli manca. Si domanda se non voglia strapparglieli via dalla faccia.
‘’Non lo so.’’
È sincero. Un barlume di confusione e smarrimento si stampa sulla curvatura delle sue labbra. La spavalderia si affievolisce, spazzata via da una folata di ghiaccio e neve.
È piccolo, pensa Shouyou. Ha qualcosa di… infantile, nel viso e nelle guance.
‘’Quanti anni hai?’’
La domanda coglie Atsumu di sorpresa. ‘’Diciassette,’’ risponde. ‘’Perché?’’
Shouyou scuote la testa. Il cuore si attorciglia su se stesso, gonfio e pesante. È morto a diciassette anni. Shouyou ne ha ventisette. È troppo giovane. È pieno di gente che muore prima dei diciassette anni nel mondo, Shouyou lo sa, ma vederlo da vicino è devastante.
‘’Sei la prima persona che riesce a vedermi dopo dieci anni’’, continua Atsumu. ‘’È carino parlare con qualcuno. Cioè, mi fa sentire meno... morto, ecco.’’
Shouyou annuisce, il cuore sempre più straziato, lacerato. Prova a immaginare cosa significhi vagare nella più totale solitudine per dieci anni. Cosa significhi rimanere in silenzio per tutto quel tempo, essere uno spettro invisibile agli occhi di chiunque. Essere trapassato dalle voci, dalle pupille, dai corpi delle persone che proseguono la loro esistenza aggrappandosi all’incertezza del futuro, che è la cosa che poi ti rende vivo per davvero. Che significa essere circondato dal battito cardiaco altrui e avere un silenzio eterno dentro al petto?
Shouyou non può immaginarlo.
‘’Resta pure quanto vuoi,’’ gli dice, perché non può fare altro, per lui. Atsumu si sistema meglio sul suo corpo, sempre leggero come una piuma - e di nuovo, quella strana densità. Atsumu possiede la forma di un corpo, ma Shouyou non avverte né la forma delle sue gambe né quella delle sue braccia. Se i raggi di luce avessero una consistenza, pensa, probabilmente sarebbe quella.
‘’Dimmi solo come posso aiutarti.’’
‘’Aiuta ‘Samu.’’
‘’Oltre quello?’’
Atsumu ci riflette un po’ su. ‘’Parlami,’’ gli dice poi. ‘’Raccontami qualcosa. Quello che vuoi.’’
Shouyou lo asseconda. Gli parla della sua vita, della sua famiglia, si apre più di quanto non abbia mai fatto con nessuno. Ed è strano, perché Atsumu fondamentalmente è uno sconosciuto, ma Shouyou davanti ha lo spirito di un diciassettenne che non riesce a spezzare la catena che lo lega alla realtà dei vivi, ancora troppo coinvolto.
Gli accarezza la testa. O almeno, quella che visivamente è la sua testa. Sotto le dita sente un lieve pizzicore, come un mormorio di elettricità, zampette leggere di ragno. Atsumu chiude gli occhi.
‘’Neanche tuo fratello riesce a vederti?’’
Atsumu non risponde. Shouyou non insiste. Ha un'altra domanda che gli vortica impazzita nella testa. Come sei morto?
Però ovviamente non la pronuncia. La ricaccia indietro, la ingoia.
Continua ad accarezzargli la testa, gli sfiora la guancia e la fronte finché i timidi raggi della prima alba si intrufolano dentro la casa, attraverso le persiane. Shouyou solleva lo sguardo verso il muro, su cui la luce disegna ghirigori. Quando abbassa lo sguardo, Atsumu è svanito.
Fa freddo.

*

‘’BHU!!!’’
Shouyou starnazza e sobbalza. La tazzina del caffè gli sfugge di mano e s'infrange sul pavimento.
‘’Ma che cazzo!’’ Sbotta Shouyou, guardando torvo Atsumu che ride sguaiato.
Atsumu continua a ridere e dopo qualche istante Shouyou si scioglie e inizia a ridere con lui. Poi raccoglie i pezzi di ceramica, e con un panno asciuga il caffè rovesciato.
‘’Oggi lavori?’’ Domanda Atsumu.
‘’Oggi no,’’ risponde Shouyou. ‘’Oggi giornata libera.’’
''Figo.'' Atsumu scopre i denti in un ghigno. ‘’Significa che posso darti fastidio.’’
‘’Tu non mi dai fastidio, Atsumu,’’ gli dice Shouyou serio. ‘’E puoi venire qui quando vuoi. Possibilmente passando dalla porta.’’
Atsumu fischia. ‘’Parli come un vecchio.’’
Shouyou gonfia le guance. ‘’Non sono vecchio. Ma sono più grande di te.’’
‘’Mi piacciono quelli più grandi di me.’’
Atsumu scopre i denti, gli occhi brillanti che lo fissano insolenti. Shouyou scuote la testa e alza gli occhi al cielo. Deve ammettere però che può permettersi di essere sfacciato: è davvero bello.
Dopo poco escono e vanno in spiaggia. È ancora presto, perciò la riva è deserta.  Atsumu diventa silenzioso quando si avvicinano al mare. Shouyou non fa domande, si limita a riempirsi le tasche di conchiglie iridescenti.
‘’Perché le raccogli?’’ gli chiede Atsumu dopo un po'.
‘’Mi piacciono,’’ risponde Shouyou, scrollando le spalle. ‘’Le colleziono. Sono belle, e poi se te le metti vicino all'orecchio puoi sentire il rumore del mare. Lo so che non è sul serio il rumore del mare,’’ si affretta ad aggiungere in seguito allo sguardo scettico di Atsumu, ‘’però è un suono che mi piace.’’
‘’Va bene,’’ dice l'altro. ‘’Questa è carina.’’
Col piede ne indica una. È una tellina biancastra. Shouyou la prende, soffia via il velo di sabbia che la ricopre e se la infila piano in tasca.
Continuano a passeggiare e ne raccolgono altre. Atsumu pare aver preso quel passatempo con serietà, perché scruta la sabbia concentrato senza neanche sbattere le palpebre.
Ora che ci pensa, probabilmente i fantasmi non hanno bisogno di sbattere le palpebre.
Come sei morto?
No, pensa fermamente. No. Non glielo chiederò mai.
Però…
‘’Atsumu.’’
Atsumu solleva lo sguardo dalla sabbia. ‘’Che c'è?’’
‘’Perché non ti ho mai visto prima? Cioè, se tu sei sempre stato qui da quando…’’
‘’Da quando sono morto,’’ completa Atsumu per lui, e Shouyou annuisce.
‘’Sì. Cioè, se sei sempre stato qui su questa spiaggia perché non ti ho mai visto prima?’’
‘’Booooh,’’ risponde l'altro. ‘’Forse perché prima dovevi incontrare ‘Samu. Forse c'è qualche collegamento.’’
Shouyou annuisce. ‘’Sì, forse. Tu mi conoscevi?’’
‘’Sì. Cioè, non è che qui ci siano tante persone. Le facce sono sempre le stesse. Tu sei famoso, come Curacase. La gente parla di te. E poi sei carino. Un tizio molto carino che fa cose strane, come raccogliere conchiglie. È normale conoscerti.’’
Shouyou scoppia a ridere. ‘’Anche tu sei carino, Atsumu.’’
‘’No, no. Io non sono carino. Io sono proprio bello. Sono la cosa più meravigliosa che vedrai mai nella tua vita, perciò vedi di non dimenticarmi.’’
Shouyou annuisce, il cuore che si stringe. Le conchiglie gli tintinnano nelle tasche.

*

Terza lezione
il mare - il mare - è pieno di occhi e bocche. Il mare è il ventre di tutte le cose, non inizia e non finisce. Il mare è insondabile, incomprensibile, eppure se soltanto smettessi, per un momento, di parlare, riusciresti a sentire ciò che ci dice.

*

Dieci anni passano in un battito di ciglia, se sei un fantasma. Oppure non passano mai. Il tempo adesso funziona in modo diverso: ticchetta, ma non più per lui. La realtà cambia incessantemente, un processo lento ma implacabile, e le persone cambiano con essa. Le persone non sono altro che plastilina duttile in balia delle lancette, un po’ come lo era il corpo di Atsumu in balia del mare, quando si lasciava galleggiare dolcemente sospinto dalla corrente.  
Atsumu si è scordato il significato della felicità. Atsumu si è scordato il significato della tristezza. Semplicemente è lì, a esistere senza di fatto esistere davvero, un sassolino invisibile che contempla uno scenario di cui non fa più parte. .
Ha sempre saputo dove doveva andare. C’era, c’è, un richiamo che lo scuote da dentro, un nugolo salmastro che lo spinge dove l’odore del sale si intensifica, sale che sa di lacrime. Tuttavia Atsumu ha preferito sigillarsi in un luogo dove per lui non c’è più spazio. O meglio, dove non esiste più, lo spazio. E se all’inizio credeva che la sofferenza indicibile scaturisse dall’aver perso la vita, suo fratello, il futuro, adesso ha capito che la piaga vera è quella di aver perso lo spazio. A ferirlo nella maniera più struggente, è la consapevolezza che non c’è nessuna sagoma stampata nell’universo con la sua ombra, con i suoi occhi, con la sua bocca. Quando muori il tempo prosegue imperterrito senza la benché minima esitazione, e con il petto silenzioso ti domandi se il tuo cuore abbia mai battuto per davvero.
A Osamu, sebbene sia vivo, è toccata una sorte simile alla sua. Osamu ha scelto volontariamente di collocarsi in un segmento isolato che non appartiene al fluire della vita. Osamu è sfuggito al tempo. O meglio, il tempo ha smesso di influenzarlo. Osamu si lascia attraversare dai secondi come se fosse inconsistente, nebbia di dolore. Il problema è che lui vive, checché ne dicano le sue scelte, e il suo cuore batte, perciò il punto in cui si trova Osamu nell'esistenza (o non esistenza) non coincide con quello di Atsumu. La loro situazione è parallela, ma non uguale. C’è l’oceano, in mezzo a loro. Un oceano fatto di tutto il tempo che non hanno mai avuto e che non avranno mai. Entrambi sono infreddoliti, e fluttuano sospesi in un abisso che si espande eternamente come una macchia di petrolio. Soprattutto, entrambi si rifiutano di avanzare.
E adesso… beh, non è che adesso Atsumu sia esattamente il ritratto della felicità, è pur sempre uno spirito che non riesce (non vuole) trapassare. Però da quando Shouyou lo vede, una parvenza di gioia ha ripreso a sfarfallare febbrile dentro di lui. O forse è tristezza, o più che tristezza forse è rimpianto, angoscia, ma è comunque qualcosa. Atsumu continua a essere un sassolino invisibile agli occhi di chiunque, ma non a quelli di Shouyou. Lui lo sta influenzando. Sta lasciando tracce nella sua vita, come briciole di pane per poi ritrovare la strada.
Lo accompagna a lavoro ogni giorno. È affascinante osservarlo mentre cura le case, mentre restituisce luce alle pareti e soprattutto agli occhi dei proprietari. Ecco, quello che fa Shouyou è illuminare. Una strada, un angolo della casa, scaccia via la coltre di tenebre grigie e ti permette di trovare nuovamente qualcosa per cui valga la pena muovere le gambe, divincolarsi dal torpore. Shouyou è un bagliore di luce capace di far tremare la pietra, corrode le incrostazioni di dolore goccia dopo goccia.
È quello che sta accadendo a Osamu. Atsumu l’ha notato, il sorriso che accenna con quelle stesse labbra che per dieci anni non si sono mai mosse quando ci esce insieme. Insomma, non è che Atsumu si diverta a spiarli o cose simili, davvero, ma Osamu è l’unica persona per cui sarebbe disposta a morire un’altra volta, ed è bello vederlo così. È come se Shouyou l’abbia preso per mano e lo stia spingendo a riappacificarsi con il tempo, inducendolo a entrare nuovamente nel flusso contorto, frettoloso, sofferente, gioioso, imprevisto, inaspettato della vita.
Atsumu però è anche geloso. Perché Shouyou lo sta involontariamente avvicinando a quel flusso. Solo che Atsumu non può più farne parte, a prescindere da quanto lo desideri. Però è debole, cede a quello sprazzo di gioia che scaturisce dalla voce di Shouyou quando lo chiama per nome, quando lo guarda negli occhi, quando vedono film sul divano, quando gli fa i grattini sul braccio. È un’illusione, lo sa, ne è consapevole, ma è un’illusione troppo dolce e troppo intensa per riuscire a sfuggirle. Atsumu sente il tepore del suo tocco. Sente il tepore delle sue dita, il tepore del suo corpo, il tepore della vita. E dopo quell’infinità di gelo, in quell’infinità di oceano, Atsumu vorrebbe prendere Shouyou fra le mani, accartocciarlo come una pallina di carta e ficcarselo nel petto, per rimpiazzare il vuoto lasciato dal cuore.
Quando Shouyou e Osamu sono insieme, Atsumu è contento, lo giura. Però c’è sempre una tempesta amara a flagellarlo, perché non può fare a meno di immaginarsi con loro, di immaginarsi tangibile, visibile, vero, vivo. E allora un odio irrefrenabile scoppia violento come un petardo, contrastando, delle volte soffocando, la parte genuina della sua anima sinceramente grata.
Dilaniato da sensazioni tanto opposte, Atsumu si domanda quanto impiegherà prima di squarciarsi dall’interno e poi scomparire. Ma il problema è proprio questo. Il problema è che Atsumu non riesce a svanire. Il problema è che Atsumu non vuole svanire. Non vuole lasciare andare suo fratello, e adesso non vuole lasciare andare neanche Shouyou. Atsumu sta vivendo lungo i confini di una fiaba che non gli appartiene, in cui non può entrare, ma non potrà farlo per sempre.
Atsumu vuole la vita, ma non può averla.

*

I giorni scivolano come foglie. Atsumu ogni tanto lo accompagna a lavoro, ogni tanto lo accompagna a raccogliere le conchiglie, ogni tanto svanisce. Riappare nella sua vita spaventandolo alle spalle, senza un orario preciso. Shouyou è contento di vederlo perché non sa mai quando sarà l’ultima volta. Però vederlo lo rende anche triste, perché significa che non è riuscito a lasciar andare quello che lo tiene legato alla vita.
Osamu fa lo stesso. Svanisce nei suoi silenzi e riappare all’improvviso, come il fratello. Shouyou ovviamente gli dà tutto lo spazio di cui ha bisogno, ma non sa se sia giusto, o se inavvertitamente non lo stia ferendo.
‘’Credi che abbia fatto qualcosa di sbagliato?’’ Gli domanda una sera Shouyou, mentre sbocconcella un pezzo di pane. Atsumu lo osserva mangiare, poi inclina la testa.
‘’In che senso?’’
‘’Con Osamu,’’ risponde Shouyou. ‘’Insomma, è scomparso. Cioè, ha bisogno di spazio, lo so, lo capisco, ma non so… non so se faccio bene. Se faccio male. Non so niente.’’
‘’Lascia stare,’’ risponde Atsumu, scuotendo la testa. ‘’Gli serve solo tempo.’’
Atsumu prende il bicchiere e lo fa oscillare piano, fissando l'acqua che vortica al suo interno. Poi se lo porta al viso, ci guarda attraverso, e Shouyou vede il suo occhio deformato dal vetro.
‘’Hai mai sentito parlare della teoria del porcospino?’’
‘’No,’’ risponde Shouyou. ‘’Cos'è?’’
Atsumu poggia il bicchiere sul tavolo. ‘’Beh, i porcospini hanno gli aculei, no? Perciò non possono avvicinarsi troppo fra di loro perché altrimenti si feriscono, infatti sono animali solitari. Più o meno questo è quello che succede con le persone: se ti avvicini troppo a qualcuno, lui finirà per ferire te e tu finirai per ferire lui. O almeno, credo che ‘Samu la pensi così. Ha paura, Shouyou. Ha sofferto prima, e per dieci anni non ha fatto altro che fuggire dal dolore. Poi arrivi tu che glielo fai sentire di nuovo.’’
‘’Credevo che lo stessi aiutando.’’
‘’È così, infatti. Sentire va bene, che sia gioia o dolore. Sentire significa essere vivi. Se smetti di sentire, allora lì iniziano i problemi.’’
Shouyou rimane in silenzio per qualche istante, poi scuote la testa. ‘’Ma non può restare da solo per sempre. Non è così che si combatte la paura.’’
Atsumu scrolla le spalle. ‘’Non preoccuparti, andrà bene. Fidati. Deve solo fare pace con il mare.’’
‘’Il mare?’’
Atsumu annuisce. Shouyou è confuso, ma si fida. Certo che si fida, è suo fratello gemello, è tutta la sua famiglia. Quindi si ficca in bocca un altro pezzo di pane, pensieroso.
‘’Tu mi vedi come un porcospino?’’
Atsumu inarca le sopracciglia, poi scoppia a ridere. ‘’Come?’’
‘’Sono serio,’’ dice Shouyou. ‘’Tu mi vedi come un porcospino? Ti sto facendo male?’’
‘’No. Certo che no, Shouyou. Tu mi stai aiutando. Aiutare Samu significa aiutare me.’’
‘’È davvero l’unica cosa che posso fare?’’
‘’Beh, a meno che tu non sappia come farmi tornare in vita dubito che ci sia altro.’’
Shouyou abbassa lo sguardo. Non lo sopporta. Non Atsumu, ovviamente, ma la consapevolezza che non può davvero fare nulla per lui. E quell’impotenza, quell’impotenza è...
‘’E io?’’ Domanda Atsumu, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. ‘’Ti sto facendo del male?’’
Sì, pensa immediatamente Shouyou. Sì perché vorrebbe che fosse vivo. Vorrebbe essere in grado di fare qualcosa, cambiare il passato, restituirgli il respiro, il battito cardiaco.
‘’No,’’ risponde. ‘’Non mi stai facendo male, Atsumu. Sono felice di averti incontrato.’’
Atsumu sorride - un sorriso sincero, privo di malizia, gonfio di gratitudine e vita, non si addice a un fantasma. Shouyou, tornando a ingozzarsi di pane, soffoca quel lamento che gli gratta la gola e ingoia le spine - spine e porcospini interi.
Avrei solo voluto che accadesse prima.

*

Quarta lezione:
il mare - il mare - è vita e morte. L’onda è una curva (svogliata o impetuosa, fiacca o repentina) che prima crea e poi distrugge, in un ciclo perpetuo, intoccabile. Tu fai parte di esso. Sei creato e distrutto. Sei un istante nel mezzo. Sei luce e ombra, con in dono il tempo di un respiro. Poi torni schiuma.

*

Osamu sospira. Ha appena chiamato Shouyou, che gli ha detto che fra venti minuti passerà a prenderlo.
Osamu ha capito che sfuggire a Shouyou è impossibile. O meglio, non è Shouyou, il problema, quanto piuttosto rinunciare nuovamente a quella boccata di vita.
Per qualche istante Shouyou gli ha permesso di respirare aria pulita, profumata di arancia. E dopo dieci anni in cui la sola cosa che respira è l’angoscia umida e malata della sua casa, è una sensazione dolcissima, piena, come se si fosse affacciato da uno strapiombo, ebbro della sensazione di potenza che l’altezza gli permette di percepire. Per quanto provi ad attorcigliarsi su se stesso, per quanto provi a sprofondare di nuovo verso l’abisso, a galleggiare lontano per nascondersi dal tempo e dal dolore, c’è una parte di se stesso che invece lo spinge a uscire fuori anche se fa male. Una parte che è sempre stato in grado di soffocare, fino a quel momento. Ma adesso l’istinto di combattere, di reagire, sta diventando irrefrenabile.
Shouyou alimenta la sua smania. Osamu è attratto dalla sua orbita, gli gira intorno e, un passo invisibile per volta, colma quella vicinanza.
Osamu non si riconosce più. Ha bisogno del freddo, del gelo per anestetizzare ogni parte del suo corpo. Eppure ha voglia del tepore. Anche se fa male, anche se stare con Shouyou significa inevitabilmente avvicinarsi alla consapevolezza della realtà, tornare a percepirla.
Una scossa elettrica gli fa formicolare lo stomaco. Quindi apre l’armadio grigio e cerca tra le stampelle qualcosa da indossare.
Non bada all'anta usurata, alle briciole di legno che formano un velo sul fondo dell'armadio come se tutto lì dentro si fosse trasformato in marzapane. Le maglie che possiede sono vecchie e scolorite, deve urgentemente andare in qualche negozio per rifarsi il guardaroba - se le vedesse 'Tsumu, pensa.
Si detesta, in quel momento, per essersi trascurato tanto.
Tira fuori una camicia bianca che non ricordava neanche di avere. Si chiede se possa andare bene, se non sia troppo elegante, con l’euforia (si tratta davvero di euforia?) che gli sgorga nelle vene.
Da quando non si faceva quella domanda? Da quanto non sceglieva vestiti per fare qualcosa con qualcuno?
Osamu se la infila, la abbottona fino al collo, le dita titubanti che litigano con le asole strette mentre continua a non crederci, sta davvero indossando una camicia, lui.
Infine si guarda allo specchio appannato e ha un sussulto.
Beh, dovrebbe decisamente guardarsi allo specchio più spesso. Ha il viso pallido e smunto, le occhiaie accentuate. Sembra malato, sembra esausto, sembra depresso. Probabilmente è davvero tutte e tre le cose. E quel luccichio di felicità negli occhi lo fa sembrare ancora più disperato.
L'entusiasmo lo abbandona. La frenesia che per qualche minuto gli aveva acceso il sangue svanisce. L’aria smette di essere elettrica e torna opprimente. Osamu si svuota e si accascia come un palloncino sgonfio. Non si piace. Non si piace affatto. Cioè, è brutto, ma proprio tanto,  verdognolo come i muri della casa.
Distoglie lo sguardo dal proprio riflesso. Non riesce a guardarsi negli occhi. Non vuole vedere quello che è diventato, i segni del dolore stampati addosso, indelebili.
Osamu comincia a sbottonarsi la camicia. D’improvviso tutto gli pare ridicolo. Ma esattamente cosa sta facendo? Si è davvero messo una camicia? Si è davvero azzardato a essere così felice per una cazzo di uscita, dopo quello che è successo?
Osamu non ha il diritto di sentirsi così, non ha il diritto di provare una spensieratezza tanto frivola e sciocca.
Osamu è un cadavere con un buco al posto del cuore, e perdere il cuore, per i vivi, significa solo un grande, grandissimo vuoto.
Qualcuno bussa.
‘’Sono io,’’ cinguetta Shouyou, dall’altra parte. Osamu si sta sbottonando il penultimo bottone. Esita un istante, grugnisce, quella parte di sé che non comanda si affretta ad abbottonargli la camicia da capo, quindi cammina verso l'ingresso.
Quando apre la porta, Shouyou gli rivolge un sorriso che indora l'aria. Osamu, ricordandosi del suo aspetto smunto, non riesce a ricambiare. Immagina come deve apparire ai suoi occhi. Come un cucciolo orfano pieno di pulci di cui prendersi cura.
Una campana di vetro gli rovina addosso.
Shouyou (fischia). ‘’Però,’’ dice, inarcando le sopracciglia in un'espressione di (apprezzamento). (Apprez)zamento. Apprezzamento. Apprezzamento? Possibile...?
‘’Stai molto bene, con la camicia.’’ 
È un piccolo bagliore di luce. La campana si scioglie come melassa, da un piccolo pertugio tornano a fluire i suoni e l’aria all’arancia.
‘’Grazie,’’ risponde Osamu, questa volta sorridendo. Non ci crede davvero, però si aggrappa a quel complimento, se lo stringe fra le braccia, è tiepido come una fiammella.
Osamu chiude la porta, poi segue Shouyou verso la macchina.
Nessuno dei due se ne accorge, ma il pomello della porta all’improvviso si illumina, come se ingoiasse la luce riflessa dal mare.
Torna di un dorato scintillante.

*

Quando Osamu stringe fra le dita i manici dei coltelli, sorridere diventa più facile. Erano anni che non cucinava qualcosa per qualcuno. Presta attenzione alla cottura del riso, sfiletta il salmone con eleganza, prepara la salsa agrodolce. Shouyou nel frattempo gli ronza attorno estasiato e si offre di aiutarlo come può.
Mentre aspettano che il riso cuocia, Shouyou lo obbliga a scrivere su un pezzo di carta la ricetta. Poi apparecchia, prepara la birra.
Ha una bella cucina, pensa Osamu. I mobili sono in legno caldo, la sensazione è quella di una carezza sulla guancia, o quella di soffiarsi sulle dita fredde durante l'inverno. Non è troppo grande ed è questo a renderla intima e confortevole. Se avesse un ristorante, Osamu vorrebbe che lo facesse sentire così: bene, al caldo, coccolato. Osamu si rende conto che cucinare gli è mancato più di quanto le parole riescano a descriverlo. E oltre a cucinare, gli mancava avere intorno pareti pulite e luminose, con una radio poggiata sul davanzale della finestra che diffonde musica allegra, tutti quei colori e le conchiglie sui mobili. É come se l'assenza del grigio lo facesse sentire leggero come una foglia, propositivo, speranzoso. Osamu si rende conto che lì riesce a respirare bene. A casa sua gli sembra di star risucchiando l'ossigeno da una fessura, quando non annega.
‘’È tutta un'altra cosa,’’ mormora tra sé. Shouyou lo sente, scopre i denti in un mezzo ghigno.
‘’Puoi venire qui quando vuoi. E possiamo fare taaante altre cose, oltre cucinare.’’
Osamu lo guarda e inarca le sopracciglia, poi soffia via una risata.
‘’Flirti un sacco per essere uno che non sa neanche tagliare una cipolla.’’
‘’Posso imparare,’’ ribatte lui, gonfiando le guance. ‘’O mi potresti insegnare, ancora meglio.’’
Quando il cibo è pronto, c'è un istante di sacralità prima di mettersi le bacchette in bocca.
Per la prima volta, Osamu ha l'ansia. E se non fosse buono? Se avesse perso anche la capacità di cucinare?  
‘’Oh mio dio,’’ biascica Shouyou, socchiudendo gli occhi beato. ''Oh mio dio,'' ripete. ‘’Mi si sta sciogliendo in bocca.’’
‘’È una cosa positiva?’’
‘’Ma scherzi? È la cosa più squisita che abbia mai mangiato. Dovresti davvero aprirti un ristorante, Osamu-san.’’
Osamu rimane qualche secondo interdetto. Poi comincia a mangiare anche lui. Okay, è buono sul serio. Okay, forse dovrebbe aprirsi un ristorante.
È un pensiero che affiora alla luce come una ninfea dalle acque cristalline di un lago, una folgorazione inaspettata che non riesce a soffocare.
All'improvviso ha di nuovo diciassette anni, e guarda la cucina della sua casa fantasticando sulla cucina di un ristorante, del suo ristorante. Dopo Atsumu, ha cancellato il sogno come se non fosse mai esistito, l'ha accartocciato come una pallina di alluminio rendendolo sempre più piccolo, invisibile, poi l'ha sepolto dentro se stesso insieme a tutte le cose belle.
Un po' per i colori, un po' per Shouyou che cinguetta, un po' per le lattine di birra che si accumulano, Osamu si sente meglio, bene, per la prima volta dopo anni.
‘’Ti va di restare ancora?’’ gli domanda Shouyou, dopo che hanno finito di sparecchiare. Osamu, che non ha proprio voglia di andarsene, annuisce.
Si siedono sul piccolo sofà davanti alla televisione. Shouyou prende il telecomando e apre Netflix. Elenca i titoli dei film e delle serie TV, e Osamu smette di ascoltarlo. Lo guarda, un po’ incantato: Shouyou è davvero bello.
Osamu ha voglia di accarezzarlo. E quel bisogno di avvicinarsi è sconvolgente, perché da quanto, da quanto tempo non sente quella voglia elettrizzante? Da quanto tempo non desidera il corpo di qualcuno? Non desidera la carne, il calore della pelle? L’intimità?
Shouyou distoglie lo sguardo dalla televisione e lo punta nel suo. Sorride, Osamu solleva il braccio e gli sfiora la guancia con due dita, poi si blocca. Si domanda se sia ancora capace di toccare qualcuno, dopo tutto quel tempo. Di lasciarsi toccare da qualcuno, soprattutto. Shouyou socchiude gli occhi e strofina forte la guancia contro la sua mano, come un gatto - ci entra perfettamente, pensa Osamu, stupito.
Poi gli strofina le labbra contro il palmo. Poi lo morde piano, e Osamu ride, un po’ eccitato, un po’ agitato. Shouyou gli afferra il polso e stringe la presa, provando a mordergli il braccio. Inizia una specie di lotta giocosa, e Osamu scopre che Shouyou, a discapito della corporatura esile, la forza ce l’ha eccome.
Shouyou lo sovrasta, si porta sopra di lui tenendosi stretto ai suoi polsi. Osamu ha la nuca schiacciata contro il bracciolo del divano, e davanti solo i suoi occhi.
Shouyou ha gli occhi enormi, pensa Osamu. Enormi e traboccanti di luce, scintillano nell’oscurità. Vede il riflesso del suo volto, vede il riflesso del mare, dentro.
Shouyou allenta la presa sulle sue braccia. Osamu è libero di muoversi. Vuole allacciargliele intorno alla schiena. Esita, poi asseconda l’istinto e lo fa.
Una scarica gli attraversa le cosce. Sparisce la stanza, sparisce il divano, c'è solo Shouyou che gli si preme contro e affonda la faccia nella curva del suo collo. Il suo respiro gli fa tremare le viscere, Osamu serra la presa sulla sua schiena, dita che scavano.
Osamu chiude gli occhi. Shouyou lo bacia. Piano, con dolcezza, gommapiuma.
Poi si allontana e lo guarda negli occhi, come aspettando un segnale per proseguire. Osamu gli poggia una mano sulla guancia e gli accarezza i capelli rossi. Shouyou lo bacia di nuovo e Osamu apre la bocca, Shouyou gli ansima in gola. Il desiderio di esplorare il suo corpo, di sentirlo nudo, premuto contro il suo, diventa totalizzante, impetuoso.
Si intrufola sotto la sua maglia, i cuscinetti delle vertebre che fremono e si tendono sotto le sue mani. Quelle di Shouyou invece sono sulla sua camicia, la camicia che non voleva indossare, e indugiano sui bottoni, gli accarezzano il petto, lo sterno, l’addome.
Una foschia gli piomba nella mente, sconvolge la percezione, Osamu si sente perduto ma non spaventato, viene privato del controllo su se stesso ma non c’è niente di tormentato nel modo in cui si sente scollegato. Viene rapito da un tornado caldo e umido, brividi ed elettricità sulle braccia, dietro al collo.
Ma quanto è bello toccare qualcuno, stringere qualcuno, sentirsi parte di qualcuno? Quanto è bello annegare in un abisso fatto però di desiderio, di pelle che si increspa di odori salati e dolci, di sicurezza di intimità di labbra gonfie di carezze di mani che si intrecciano si cercano, di musi che si strofinano sul collo di bisogno carnale di unione di cuori che battono e battono e battono forte fortissimo e occhi.
Una finestra sbatte rabbiosa. Nessuno dei due se ne accorge, protetti dalla loro piccola bolla di luce.

*

Shouyou è felice. È normale essere felici il giorno dopo che hai baciato la persona che ti piace. È normale essere felici quando vedi che la persona che ti piace sta bene.
Mentre prepara la colazione, Shouyou fischietta allegro. Poi però pensa ad Atsumu, che è sparito. L’ha sempre fatto, dice una voce dentro la sua testa, come se volesse tranquillizzarlo. Shouyou annuisce, le dà ragione, ma smette di fischiettare.
Quando si versa il caffè nella tazzina, Osamu lo chiama.
‘’È successo qualcosa alla casa,’’ gli dice. Il cuore di Shouyou balza in gola, la paura che pulsa febbrile contro le orecchie.
‘’Niente di brutto,’’ si affretta ad aggiungere Osamu. ‘’Però puoi venire?’’
Dieci minuti dopo, Shouyou scende dalla macchina e a passo affrettato si dirige verso l’ingresso. Nota subito che c’è qualcosa di diverso. La porta appare più scintillante, meno grigia, come se avesse assorbito del pigmento. Ma non è solo la porta, anche l’atmosfera che avvolge la casa appare più benevola, ben disposta, leggiadra. Pronta ad accogliere qualcuno, seppur con riluttanza, paura.
Shouyou prova a suonare il campanello. Questa volta funziona. È un suono distorto quello a riecheggiare, come se la casa si stesse schiarendo la gola dopo un raffreddore, però c’è, si sente.
Osamu apre la porta. Lo fa entrare, poi lo guarda ansioso come se aspettasse un verdetto.
‘’Questo sì che è buono,’’ commenta Shouyou, sfiorando le pareti.
Osamu sorride. ‘’Ci sto provando.’’
‘’Si vede,’’ risponde Shouyou, raggiante. Gli occhi di Osamu, per un istante, scintillano orgogliosi.
La temperatura è meno rigida, si respira meglio, l’odore ristagnante si è dissolto quasi del tutto. Certo, ci sono ancora le perdite dal soffitto e le macchie di umidità, ma Shouyou può iniziare a lavorare, può iniziare ad aggiustare.
‘’Okay,’’ dice. Perlustra il bagno, la camera, si osserva intorno con attenzione e sguardo critico. ‘’Okay,’’ ripete.
Estrae dalla tasca penna e taccuino, poi guarda Osamu e gli espone il suo piano di lavoro. Inizierà dalla stanza dove dorme, la più urgente. Per la stanza ci vorrà una giornata, per la sala almeno due, dopodiché passerà alla cucina, al bagno, e infine si dedicherà all’esterno. Comincerà a inizio settimana.
‘’Non potrai dormire qui per un po’,’’ lo avverte Shouyou. ‘’La vernice è tossica, non puoi respirarla. Dovrai trovare un posto dove stare finché non andrà via l’odore.’’
Osamu annuisce immediatamente. ‘’Troverò qualcosa,’’ dice. ‘’Non è un problema.’’
‘’Puoi stare da me,’’ propone Shouyou in fretta, le orecchie calde. ‘’Cioè, solo se ti va.’’
‘’Mi va,’’ ribatte subito Osamu, fermo.
Shouyou sorride. Pensa che potrebbe sciogliersi, in quel momento. Ha voglia di baciarlo.
Il telefono squilla. Il nome di un cliente lampeggia sullo schermo. Shouyou si ricorda dell’appuntamento delle otto e mezza, e vede che l’orologio segna le nove
‘’Merda,’’ sbotta. ‘’Scusami,’’ aggiunge. ‘’Devo scappare. Ti scrivo appena finisco.’’
Osamu annuisce, poi lo fissa stranito. Shouyou non fa in tempo a chiedersi come mai, che Osamu si china e lo bacia.
Shouyou mugola deliziato contro le sue labbra. Sente Osamu sorridere, cercargli le dita, stringergli le mani. 
Il problema, pensa Shouyou mentre si spinge contro la parete, è che Osamu bacia maledettamente bene. Potrei morire da un momento all’altro.
Osamu gli mette un ginocchio fra le gambe, Shouyou inarca la schiena e gli sospira addosso.
‘’Il lavoro,’’ sussurra, e Osamu gli tappa di nuovo la bocca.
‘’Il lavoro,’’ ripete Osamu, allontanando il viso con un ghigno e permettendogli di riprendere fiato.
‘’Sei tremendo,’’ dice Shouyou. Poi lo bacia di nuovo e scappa via.
Sì, le cose vanno decisamente bene. Alla grande.
Sì, però, Atsumu dov’é?

*

‘’Ciaaaaao.’’
Shouyou urla, colto alla sprovvista, e per poco la ciotola con l'insalata di pollo non gli sfugge dalle mani.
‘’Cazzo!’’ sbotta, e poi: ‘’Atsumu!’’
Atsumu, ghignando, tira fuori la lingua. Shouyou fa un balzo e lo abbraccia. Sente aria fra le braccia - no, non aria. Luce.
‘’Perché sei sparito?’’
Atsumu scuote la testa. ‘’Avevo roba da fare. La vita di un fantasma può essere estremamente impegnata, anche se non sembra.’’
Shouyou sbuffa scettico, senza smettere di sorridere.
‘’Com'è andata con ‘Samu?’’
A Shouyou arrossiscono le orecchie. ‘’In che senso?’’
‘’Lo sai, in che senso. Con la casa, con la vostra... relazione. Quello che è.’’
Atsumu lo guarda fisso. Sono strani, i suoi occhi. Sono sempre stati stati strani, ma adesso…
‘’Avete scopato?’’
Adesso lampeggiano, liquidi di ferocia, inesorabili come una valanga. Shouyou ha paura.
‘’Shooouyou.’’
Forse è il modo lugubre e incattivito con cui canticchia il suo nome, forse è il terrore che gli occlude la gola, il tremore incontrollabile che gli fa fremere le mani, ma Shouyou sussulta e indietreggia, come un animale in trappola.
Un istante dopo, qualcosa esplode. La cristalliera con piatti e bicchieri si polverizza in un nugolo di schegge, che scrosciano a terra in una cascata pungente e affilata. Shouyou si paralizza.
Un altro scoppio, la televisione s'infrange e crolla a terra.
Vorrebbe gridargli di piantarla, ma la verità è che davanti a sé Shouyou non vede più Atsumu, bensì qualcuno - qualcosa, uno spettro - che ringhia, e l’unica cosa che può fare è sperare che la prossima cosa a esplodere non sarà la propria testa.
La paura lo assale come centinaia di farfalle che sbattono febbrili le ali, gli occhi lucidi di lacrime, il tremore è così violento che il frigo contro cui è premuto sussulta seguendo gli spasmi delle sue spalle.
Shouyou deglutisce. Atsumu? vorrebbe mormorare, ma non ci riesce, non vuole. Parlare sarebbe inutile come chiedere al mare di addolcirsi.
Rimane fermo mentre la sua casa viene devastata, senza riuscire a distogliere lo sguardo dagli occhi di Atsumu che si deformano, s’ingrandiscono, più vuoti, più torbidi, tumefatti.
E all'improvviso, giunge il silenzio. Davanti a lui non c'è più nessuno.
Shouyou rimane pietrificato, zuppo di brividi e sudore, a guardare fisso il vuoto mentre i denti battono.

*

Non sa per quanto tempo rimanga immobile a fissare il vuoto, lo spettro degli occhi di Atsumu stampati nella retina, tentando di placare l'angoscia nel petto. Poi il telefono squilla. È una chiamata di lavoro, e udire la voce del cliente che vedrà l’indomani gli permette di ancorarsi a una parvenza di normalità. Quindi si infila i guanti, raccoglie i cocci di vetro attento a non tagliarsi, butta tutto ciò che è rotto in una grande busta a doppio strato e mentre accantona la televisione spaccata contro lo stipite della porta si appunta mentalmente che dovrà al più presto comprarne una nuova.
È notte fonda quando esce a cercarlo.
‘’Atsumu?’’ Shouyou bisbiglia il suo nome, camminando scalzo sulla spiaggia deserta. Il mare è agitato, le onde che muoiono sulla riva sono minacciose come il ronzio di un vespaio. 
‘’Atsumu?’’ Riprova, a voce più alta.
Lo trova vicino al pedalò coperto da un velo di sabbia, dove l'ha incontrato la prima volta. È una figura rannicchiata su se stessa, iridescente come l’interno di una conchiglia. Non ha niente di spaventoso o di terrificante. A Shouyou si stringe il cuore.
‘’Ciao,’’ gli dice, avvicinandosi piano. Atsumu tira su con il naso. Ha il viso poggiato sulle ginocchia, Shouyou riesce a distinguere solo gli occhi che brillano di luce propria.
Rimangono in silenzio. Osservano il mare che si protende verso di loro, ogni onda si avvicina centimetro dopo centimetro alle loro caviglie, come mani che si arrampicano, che si allungano.
‘’Mi rivuole indietro,’’ dice Atsumu.
‘’Chi?’’ domanda Shouyou.
‘’Il mare.’’
Silenzio.
‘’Che succederebbe se… se riuscisse a prenderti?’’
‘’Non lo so,’’ risponde Atsumu. ‘’Non lo so. Ho paura, Shouyou. Il mare è freddo. Non voglio toccarlo.’’
Non avere paura, vorrebbe dirgli. Ma come può solo pensare di azzardarsi? Come può dirgli di non avere paura del mare?
‘’Mi dispiace,’’ sussurra Atsumu. ‘’Mi dispiace, Shouyou. Ti giuro. Mi dispiace. Non volevo spaventarti. Ma ero così arrabbiato. Sono così arrabbiato. Perché Osamu può avere te. Perché tu puoi avere lui. Perché siete vivi. Perché se gridate qualcuno vi sente.’’
‘’Io ti sento,’’ ribatte Shouyou. ‘’Ti vedo.’’
‘’Però tu ce l’hai, un cuore. Io non ho niente.’’
Atsumu gli prende la mano. Shouyou percepisce di nuovo quel formicolio elettrico, la sensazione di piccole zampette di ragno fatte di luce. La porta all’altezza del petto, dove dovrebbe battere il cuore.
Solo che non c'è niente che batte, sotto il suo palmo. C'è solo un eterno, dolorosissimo silenzio, scandito dalle onde del mare che provano ad afferrare i loro piedi. Un silenzio che somiglia a quello di quando metti la testa sotto l'acqua. Fa male alle orecchie.
Atsumu ha diciassette anni. Aveva tutta la vita davanti. Ora ha solo l’oceano. Lo spietato, perennemente mobile e dunque immobile, oceano
Shouyou gli stringe la mano. Non gli importa che sia morto. Atsumu è reale. È vero. Ci penserà Shouyou a stargli vicino. Non importa che sia un fantasma.
‘’La verità è che non sono qui per aiutare mio fratello,’’ dice Atsumu. ‘’La verità è che mi rifiuto di accettare di non essere più vivo.’’
Macchie gialle gli sbocciano davanti agli occhi, farfalle che esplodono. La sensazione di assoluta impotenza è qualcosa a cui Shouyou non si abituerà mai.
Il mare si ingrossa. Adesso lo odia, lo odia, lo odia, LO ODIA, vorrebbe ridurlo a brandelli, prosciugarlo, mettergli le mani intorno al collo e soffocarlo.
Shouyou scatta in piedi.
‘’Andiamo a casa,’’ dice. Teme che l’oceano riesca a raggiungere Atsumu, a trascinarlo lontano.
‘’Andiamo a casa,’’ ripete. Stringe la mano di Atsumu. Non la lascia andare, non la lascerà andare mai più. Non può permettere che svanisca.
Tornano a casa. Shouyou si infila sotto le coperte, Atsumu lo segue anche se non può sentire freddo. Al buio, sembra fatto di luna.
‘’Posso chiederti una cosa?’’
Atsumu annuisce.
‘’Osamu-san davvero non riesce a vederti?’’
Atsumu esita.
‘’Credo che ci riuscirebbe. Se io glielo lasciassi fare.’’
‘’E perché non glielo permetti?’’
‘’Perché,’’ dice, poi si blocca. ‘’Perché,’’ riprova, ‘’dimenticare, delle volte, è ciò che ti fa andare avanti. Se mi vedesse adesso, dopo dieci anni, cosa credi che accadrebbe?’’
‘’Gli piomberebbe di nuovo tutto addosso,’’ risponde Shouyou.
Atsumu annuisce. ‘’E non potrebbe comunque fare niente per cambiare le cose. Sono morto, Shouyou.’’
Shouyou rimane zitto, poi spalanca le braccia. Atsumu si accoccola a lui come un cucciolo in cerca di tepore.
‘’Vorrei solo che non fosse vero. Vorrei svegliarmi, vorrei che fosse un incubo.’’
Shouyou trattiene il fiato.
Prova con tutte le sue forze a non piangere, ma non ci riesce, il cuore trafitto da spini.

*

Quando il giorno dopo Shouyou si sveglia, impiega qualche istante per capire dove si trova.
Si gela, pensa, frastornato dal sonno. E poi: ma questo non è il mio soffitto.
Si tira a sedere di scatto, osservandosi intorno sconvolto. Quel luogo ricorda vagamente la sua stanza: la piccola finestra rotonda sulla parete destra che si affaccia sul mare, la  scrivania con il portapenne rosso, la mensola scardinata che Atsumu gli ha distrutto il giorno prima.
Solo che è tutto, tutto, tutto grigio.

*

Quinta lezione:
il mare - il mare - non può essere né odiato né amato. Solo gli stupidi si fidano dell’acqua, e solo quelli più stupidi ancora hanno paura di guardarla.
Quando capirai che non è né bellezza né orrore, né ferocia né gentilezza, quando imparerai a camminare in equilibrio sulla riva, allora, soltanto allora, il mare ti concederà salvezza.

*

Atsumu cammina sulla spiaggia. Non lascia orme né ombra, dietro di sé. Le voci, gli sguardi delle persone, lo attraversano come se fosse invisibile. E invisibile lo è per davvero, ma da quando ha conosciuto Shouyou, per qualche sporadico momento, tende a dimenticarlo.
Lui l'ha vista, la casa di Shouyou mentre si ammalava. Shouyou dormiva agitato e Atsumu osservava il soffitto che sbiadiva, che s’ingrigiva, come se un aspirapolvere stesse risucchiando via il pigmento della vernice. Quando quella strana nebbia aveva saturato l'intera stanza, Atsumu silenzioso era scivolato via constatando che la stessa sorte era toccata al salone e alla cucina luminosa, ora livida come tempesta in decomposizione.
Un tizio a passeggio con il cane lo sfiora, mentre cammina. Prosegue imperterrito senza mostrare un segnale, un accenno, di averlo percepito.
Atsumu si domanda se, più che un fantasma, non sia un ricordo. Un’eco lontana di qualcosa che è stato e che adesso non è più, inafferrabile come le goccioline di nebbia, spirali di fumo che si disperdono. Si domanda se non sia semplicemente la proiezione di Osamu, un ologramma tremulo generato dalle briciole di ciò che si è lasciato dietro.
Sebbene sia trasparente, sebbene sia morto, ha comunque ferito Shouyou. Gli ha fatto del male, e la sua casa si è ammalata - lui si è ammalato - per colpa sua. E allora forse i ricordi sono più spaventosi dei fantasmi stessi, e allora forse i sussurri, i sogni, sono più dolorosi e acuti dei gridi.
Atsumu si ferma. Si volta a guardare il mare. Il mare lo chiama sempre, costantemente, instancabile come il moto delle onde, delle maree, un ciclo fisso, inarrestabile.
L’azzurro verde dell’acqua, il celeste pastello del cielo, le increspature dorate che brillano di luce, le striature riflesse delle nuvole candide o minacciose. Burrasche, tramonti, albe, pomeriggi invernali, mezzogiorni estivi.
Il mare racchiude ogni colore, ogni sfumatura. Se potesse, Atsumu distillerebbe l’oceano sino a creare un impasto denso e cremoso, lo metterebbe tutto dentro a un secchiello e poi con un pennello dipingerebbe le case di Shouyou e la loro, quella sua e di Osamu. Ma non può farlo, perché il colore del mare non si lascia catturare, te lo puoi mettere addosso solo se scegli di immergerti dentro. E se l’oceano quel giorno sarà placido, magnanimo, ti dipingerà la pelle di acquamarina senza prendersi in cambio la tua vita. 
Atsumu sa che deve andare via. Sa che deve farlo quanto prima. Non può rimanere in quel luogo, non può continuare a pretendere di essere vivo. Non può continuare a ignorare il richiamo. Però non vuole, non vuole perché l’oceano è freddo, perché…
Perché niente.
È il momento.

*

Piove. È una pioggia fitta come una pesante coperta di lana. Osamu se ne infischia, ha bisogno di aria, esce senza neanche portarsi dietro l'ombrello e s'incammina verso la spiaggia.
Si siede sulla riva a gambe incrociate, le gocce che gli inzuppano i vestiti, i capelli, il viso, rivoletti dolci che colano lungo le guance.
Il mare è mosso, la superficie increspata, ogni goccia è un proiettile che lo penetra. Proiettile che però poi si squaglia, il mare riesce ad assorbire dentro ferro e pioggia.
Osamu si sfila scarpe e calzini, e con la punta dei piedi, esitante, tocca l'acqua salata.
Non toccava il mare da anni. Mio fratello ci è morto, qui dentro. È a questo che pensa mentre muove il piede. Sebbene sia fredda, però, c'è qualcosa di piacevole nella gentilezza con cui l'acqua gli avvolge le caviglie. Il mare uccide, il mare guarisce.
Il problema è che quando rimani solo, o meglio, quando rimani a metà, la percezione della realtà cominciare a cambiare. L'aria, il cielo, il sole, le case, le persone. Tutto ciò che è etichettabile come concreto smette di essere tale. I contorni si sfumano, scivolano a terra come fili tranciati di netto, le forme smettono di essere separate e comincia un processo di mescolazione graduale. Se prima c'era la diversità, la diversità che permetteva di distinguere le cose, quest’ultima svanisce. Le persone, agli occhi di Osamu, diventano birilli. Birilli che si muovono e che lui deve evitarli per non sbatterci contro. Lo scopo, il fine ultimo, diventa quello di conquistare una invisibilità totale agli occhi degli altri, ma soprattutto agli occhi di se stesso. Non vuole più percepirsi, vedersi, sentirsi. Deve sciogliersi, scomparire nella realtà che sta già scomparendo. Non mimetizzarsi, ma volatilizzarsi, fingere che non sia mai stato lì, che non sia mai stato e basta.  Quello a cui Osamu anela è un coacervo filamentoso, indistinto e insensibile, che risucchi via tutto, lui compreso.
Però non è così. Non riesce a ottenerlo, non riesce a sparirci in mezzo, non riesce ad annullarsi.
C'è un immenso vuoto, un immenso silenzio, una tela immacolata che si estende all'infinito. In questa tela, Osamu è un punto a destra e il groviglio informe che rappresenta quello che prima era la sua vita a sinistra. E Osamu lo sente, quel groviglio che si protende verso di lui, non riesce a farlo smettere, è un richiamo martellante. E lui si sente un punto, e dunque esiste, e non riesce ad annegare in quella tela uniforme - non riesce ad annegare nel mare.
La vita è fragile. E ancora più fragili sono i meccanismi su cui essa si basa. Un ripetersi di azioni che sembrano fondamentali, se ti trovi da una parte, dalla parte dei vivi. Poi, all’improvviso, giunge quel silenzio impetuoso, assoluto, che ti costringe a oltrepassare un velo, uno specchio. E, dall’altra parte, ti vedi. Ti osservi. Tenti di capire come sia potuto accadere. Perché. 
La verità è che a Osamu manca troppo suo fratello per permettersi di svanire. Gli manca in maniera straziante, secondo dopo secondo, non importa quanti anni siano trascorsi, e quel bisogno lo tiene arpionato alla realtà, imbottito di spine e dolore. È un flagellamento perenne in cui Osamu ricorda quel calore, lo sente sulla pelle, dentro le ossa, e in quel dolore vede la verità - inesorabile e disumana, come il mare. E se il dolore è vero, allora era vero anche l'amore. E per quello non c'è anestesia, per quanto provi a trattenere il fiato e a lasciarsi sprofondare in quell'abisso senza fine - prima o poi finirà, pensa, prima o poi smetterò di sentire - quello non smette mai.
Poi c'è stata una variabile impazzita, che ha schizzato di arancione quella tela immacolata e infinita in cui c'erano un punto e un groviglio. Shouyou gli ha dimostrato che Osamu è ancora in grado di provare desiderio. Desiderio per sensazioni fisiche, vicinanza, affetto, che si traduce in desiderio per la realtà, desiderio per la vita, bisogno cocente di emergere da quella nebbia di anestesia, anche se significa tornare ad affrontare il dolore, quello più viscerale e insito.
‘’Affronta la paura.’’
C'è quella frase, quell'ordine, che ogni tanto svolazza nella testa, con la stessa leggerezza di un nastrino di seta. C'è una parte recondita della sua coscienza che si ostina a lottare, a spingerlo verso la superficie, si rifiuta di lasciarlo annegare.
‘’Dovresti dire addio,’’ gli dice la coscienza. ‘’E per addio non intendo un vero addio, ma semplicemente un ciao, ci vediamo dopo. Cioè, senza offesa eh, ma morirai anche tu prima o poi. Ti conviene davvero sprecare così il tempo che ti rimane?’’
Osamu scuote la testa. Non può dire addio.
''Ci sono ancora cose per cui ne vale la pena,'' gli dice la coscienza. ''Shouyou te l'ha dimostrato, giusto?''
Giusto. Ma la verità è che Osamu ha paura anche di Shouyou. Non vuole affidarsi a qualcuno, per risalire a galla. Non vuole prendere nessuna mano che gli viene offerta, e non per una questione di orgoglio, ma perché se poi dovesse trovarsi di nuovo da solo, allora si troverebbe a sprofondare, privato di appigli, intorno a lui una parete liscia e scivolosa.
‘’Non dico che dovrai affidarti a lui per stare meglio, devi farcela da solo. Però essere capaci di andare avanti non significa isolarsi da qualunque tipo di contatto umano.’’
Osamu guarda il mare. Lo attraversa con gli occhi, ci sprofonda dentro, sente l'acqua salata nella bocca, nei polmoni.
‘’È solo che non voglio vivere in un mondo in cui non ci sei, 'Tsumu.’’
È un mormorio contro il fragore del mare.
‘’Mi manchi.’’
Quindi Osamu affonda la testa fra le ginocchia. Singhiozza sotto la pioggia, la sabbia umida che si appiccica ai vestiti. Si cinge lo stomaco con le braccia e stringe forte.
È solo che quando chiude gli occhi, invece di se stesso, gli sembra di abbracciare suo fratello.
Dopotutto le loro ossa, la loro ombra, il loro cuore, hanno la stessa forma.
Dice quello che non ha mai avuto il tempo di dire: addio.

*

Piove. Il mare si agita, brulica di rabbia come se la cascata di gocce lo infastidisse, sollevandosi irato come un dio - un dio è ovunque, il mare è ovunque, il dio mare. Atsumu lo odia, Atsumu lo ama.
Osamu esce di casa senza portare con sé un ombrello. È diretto alla spiaggia, scende lungo la scogliera e scivola. Atsumu tende il braccio per reggerlo, poi si ricorda di essere inconsistente. Osamu comunque ritrova l'equilibrio e riesce a non cadere.
Atsumu lo segue in silenzio. Lo osserva inzupparsi di pioggia come se volesse lavarsi via qualcosa da sotto la pelle. Giunge sulla riva, si siede, immerge le caviglie nell'acqua. Atsumu, dietro di lui, viene attraversato da una sensazione strana. Lo sente dentro, suo fratello, come se lo stesse toccando per la prima volta dopo dieci anni.
La schiena di Osamu, il mare. Atsumu non ha bisogno di guardarlo negli occhi per capire che è distrutto.
‘’Affronta la paura,’’ sussurra, a lui, a se stesso. Osamu non può sentirlo.
Non tutto è perduto. C'è ancora qualcosa che brilla, dentro di lui. Qualcosa di caldo, qualcosa di totalizzante, qualcosa che vuole vivere, che vuole bruciare e correre sui secondi come dita febbrili sui tasti di un pianoforte, premere forte, intensamente. C'è qualcosa in Osamu che vuole ancora tuffarsi nel mare, nuotare, andare verso il futuro, prenderlo per mano, provarci, tentare, arrabbiarsi, gridare, gioire, piangere. C'è qualcosa in lui che ancora non ha rinunciato al sole e alla pioggia, che vuole tornare a sentire, sentire la vita. Atsumu lo sa, lo vede. Il suo cuore, batte. Dovrebbe soltanto…
‘’Dovresti dire addio,’’ gli dice. ‘’E per addio non intendo un vero addio, ma semplicemente un ciao, ci vediamo dopo. Cioè, senza offesa eh, ma morirai anche tu prima o poi. Ti conviene davvero sprecare così il tempo che ti rimane?’’
Poi Atsumu pensa a Shouyou. Shouyou che è così pieno di vita. Shouyou che riesce a vederla, la vita, anche in chi non ce l'ha più.
Atsumu inspira, espira, guarda il mare, suo fratello.
‘’Ci sono ancora cose per cui ne vale la pena, dice. Shouyou te l'ha dimostrato, giusto?’’
Shouyou l'ha dimostrato persino ad Atsumu, che ci sono cose per cui ne vale la pena, pure da morto.
‘’Non dico che dovrai affidarti a lui per stare meglio, devi farcela da solo. Però essere capaci di andare avanti non significa isolarsi da qualunque tipo di contatto umano.’’
Le sue parole si perdono nelle onde. Che poi, possono chiamarsi effettivamente parole, le sue? Non può sentirle nessuno, sono solo echi di qualcosa che è stato.
‘’È solo che non voglio vivere in un mondo in cui non ci sei, Tsumu.’’
Atsumu sgrana gli occhi. Se avesse avuto un cuore, in quel momento si sarebbe fermato. Osamu è riuscito a sentirlo? No, non lo vede, però lo sente.
‘’Mi manchi.’’
Scoppiano a piangere nello stesso momento. Atsumu non credeva che ne fosse in grado. E in realtà è meraviglioso, perché c’è una spiaggia e c’è l’oceano e ci sono due fratelli, uno vivo e uno morto, due metà che si ritrovano. E sono poche le cose eterne, le cose vere e inesorabili come il mare, quello che c’è fra loro due però fa parte di queste.
Ad Atsumu brucia la faccia, ha il petto pesantissimo - non è il petto di un morto, quello. Il rimbombo del mare gli scroscia nel cuore. Si accuccia vicino a suo fratello e lo abbraccia. Sente i suoi stessi spini, le sue stesse ossa. 
Dice quello che non ha mai avuto il coraggio di dire: addio. 
Ti voglio bene.

*

Sesta lezione:
il mare - il mare - è ovunque. Ascolta lo sciabordio delle onde: è il tuo nome.

*

Ci sono dei momenti, degli sporadici momenti rari come madreperle, in cui ti senti onnipotente. In cui ti senti davvero imbattibile, in cui la gioia di vivere pulsa sotto la pelle e il tuo corpo trabocca di luce, la stessa luce delle stelle cadenti. Sei così caldo che potresti incendiare il mondo, l’universo intero, ma tu in quel bruciore stai bene, sei felice fra il magma, gli zampilli, le colate di lava. In quei momenti hai la certezza di aver scoperto il segreto della vita. Il segreto della vita e il modo per sconfiggere la morte, hai l’eternità in mano. La capisci, la comprendi, e pensi che essere immortali significhi questo.
Accade quando sei particolarmente felice, o quando sei particolarmente triste. Accade e basta. C’è qualcosa che si impossessa di te, un’energia non tua, una reazione esplosiva, una divinità invisibile priva di nome che ti penetra come l’acqua che si intrufola ovunque. Una specie di orgasmo dell’anima.
Atsumu si è sentito così, prima di morire. C’erano il mare e le onde, e lui che era imbattibile, lui che si godeva la corrente contro la pelle, lui che si credeva più forte della marea, del sale, dell’acqua. E mentre nuotava, pensava a suo fratello che non l’aveva seguito - troppo vigliacco, è sempre stato meno coraggioso di te, ha sempre avuto paura, lui - e pensava a quel ragazzo carino dai capelli rossi che avrebbe voluto invitare a uscire domani.
Atsumu si sente onnipotente. Si sente capace di controllare la schiuma. Si sente immensamente vivo, immensamente pieno di gratitudine, di voglia di mettersi alla prova. Il mare è scuro, le stelle in cielo brillano come il futuro che immagina.
Però poi il mare ti ricorda che no, non sei onnipotente solo perché hai diciassette anni, non sei un dio, il dio è lui, e tu in realtà non puoi controllare proprio un cazzo di niente. E allora la sensazione della sabbia ti sfugge da sotto i piedi, mentre l’acqua che prima ti abbracciava, ti sospingeva verso il cielo, adesso ti soffoca. E se non fossi tanto preoccupato a non affogare, se non fossi tanto impegnato a tenerti a galla con ogni briciolo di forza, rideresti di te e della tua stoltezza.
Senti tuo fratello che ti chiama, che grida, poi non senti più nulla perché cazzo, cazzo, cazzo, hai diciassette anni e stai per morire, stai per morire annegato, stai per morire perché sei stato un coglione. Niente ti salverà. Perché tu sei un corpo fatto di ossa e carne, e oramai l’unica cosa che spinge le braccia a sollevarsi è la tua incrollabile disperazione alimentata dalla paura.
Ma cosa gliene importa, al mare, della tua paura? Cosa gliene importa, al mare, che sei troppo giovane?
Non può finire così, pensi. Devo fare ancora troppe cose.
Freddo, gelo, l’indifferenza dell’acqua salata che ti penetra dentro. E il tuo ultimo pensiero neanche te lo ricordi. Forse è stato Osamu, forse è stata la presa di coscienza di quanto tu sia piccolo e invisibile, forse è stata una bestemmia, non si sa.
Comunque, finisce.
Perdi la tua guerra, perdi la tua anima, il cuore smette di battere, ora galleggia cadavere nel tuo corpo allagato di sale come tu galleggi cadavere nell’oceano. Non affondi, non vai giù, galleggi, perché il mare te lo deve ricordare, che tu non hai mai pesato niente da vivo e non peserai niente neanche da morto.
Scenderai nel gorgo, in silenzio.
Quando ti svegli, non sei davvero tu. Esistere senza vivere è strano, all’inizio difficile. All’inizio c’è il rimpianto. Rimpianto è un concetto che non racchiude l’odio di Atsumu nei suoi stessi confronti quando ha perso tutto quello che poteva perdere scommettendo contro l’oceano. Essere morti come punizione evidentemente non basta, perché poi bisogna anche affrontare ciò che avrebbe potuto avere - vivere - e che non avrà - vivrà - mai. Suo fratello che cresce, Atsumu che non puoi essere lì con lui, che non può aiutarlo mentre esclude gli amici e crea una barriera sempre più alta, sempre più insormontabile, per tenere tutti alla larga. Non può tenergli la mano, non può abbracciarlo, non può dirgli di aprirsi il cazzo di ristorante che desiderava tanto. E se non può farlo lui allora dev’esserci qualcun altro in grado, qualcun altro a cui dire di combattere e di non lasciarlo andare. Però nessuno lo sente, che siano urla o mormorii, è muto in quel mondo, nell’universo dei vivi, perché spettro o ricordo, ma comunque morto, e nel petto nient’altro che il vuoto. Quel vuoto misto a silenzio che lo terrorizza perché gli ricorda di quanto l’oceano sia spietato.
E quello stesso oceano ora lo chiama. È soltanto un sadico, perché dopo averlo ammazzato ora pretende che torni nuovamente a immergersi nelle sue acque per svanire per sempre, andare chissà dove.
Niente gli fa paura come il mare. A costo di rimanere a vagare sulla spiaggia inascoltato da chiunque. Vedrà suo fratello invecchiare, morire da solo, rinunciare a tutto quello che avrebbe potuto avere. Ma no, lui non ci tornerà, nel mare.
Però poi arriva Shouyou. Dieci anni dopo, la stessa persona per cui aveva una cotta quando è crepato in quel modo così stupido. Shouyou lo vede. Shouyou lo sente. Shouyou lo percepisce, gli fa credere che alla fine non sia proprio così invisibile. Ma prima di sentire lui, sente suo fratello. Sente la casa, la sua tristezza, entra in contatto con quel brulicante ammasso di odio e atrocità che pulsa e si ritira. Shouyou sa come portare la luce, nel buio. Shouyou sa come districare le viscere annodate, per permettere all’ossigeno di fluire di nuovo.
Atsumu però la vita di Shouyou la sta rovinando. Perché sta addossando le sue paure, la sua tristezza, il suo rimpianto, nel suo piccolo corpo che ancora scalpita di luce come un passerotto. Non ne ha il diritto, non ce l’ha mai avuto. E non potrà continuare a fuggire per sempre dall’oceano che lo guarda, che lo esige, che con le onde si tende verso i suoi piedi per portarlo con sé.
Il mare è troppo freddo, pensa. Non voglio toccarlo mai più.
Però deve. Deve. Deve essere coraggioso.
Atsumu respira. Ancora, ancora, ancora, grande boccati d’aria che però non sente, non ha bisogno dell’ossigeno.
Adesso deve andare da un’ultima persona. 

*

Shouyou fissa il soffitto. Il suo soffitto, il soffitto sotto cui vive da sempre e che non riconosce più: grigio, annacquato.
Shouyou trema, nonostante le quattro coperte pesanti. Sistemare le case è il suo lavoro, eppure non ha la più pallida idea di cosa fare con la sua, di cosa fare con se stesso.
Vorrebbe solo che tornasse il tepore, che la luce tornasse a indorare le pareti.
‘’Atsumu?’’ chiama.
È scomparso di nuovo. Shouyou sa che si sente in colpa. Ma vorrebbe dirgli che va tutto bene, che lui non c’entra nulla.
‘’Atsumu?’’ riprova.
Nessuno risponde. Il gelo penetra più a fondo.
Devo uscire da qui, pensa Shouyou. Per prendere aria. Pensare, ascoltare. Il mare.
Battendo i denti, preda di una febbre inesistente, Shouyou sguscia via dal bozzolo stratificato di coperte. Camminare è una tortura, come se avesse degli spini conficcati nelle ossa.
L’aria della sera, però, è una boccata balsamica. I colori, la spiaggia, il mare, lo tranquillizzano. Il mare è talmente vasto e immenso, che a Shouyou sembra come se i suoi problemi si riversassero nelle sue acque. Il mare ti fa sentire minuscolo, sì, ma anche più leggero. Non sei niente, e in quanto niente non hai la responsabilità del mondo sulle spalle.
Shouyou respira, passeggia in bilico sulla riva passo dopo passo, come se stesse camminando su una corda, un equilibrista fra conchiglie e orme cancellate l’istante seguente. Non ci sono gabbiani che cantano, quella sera, solo nuvole scure, gravide di pioggia.
Trova Atsumu seduto sul pedalò. Dall’assenza di stupore, Shouyou capisce che sotto sotto se lo aspettava.
‘’Sapevo che saresti venuto,’’ dice Atsumu, quando si siede vicino a lui. Shouyou annuisce, cupo.
Non gli piace il modo in cui Atsumu osserva il mare, i suoi occhi cangianti riflettono una consapevolezza irreversibile.
‘’Sei scomparso,’’ dice Shouyou. C’è un velato tono di accusa, nella sua voce. E Shouyou lo sa che è immaturo, sa che davanti ha solo il fantasma di un diciassettenne, ma sente quello che sta per accadere. E non vuole.
‘’Non sono scomparso. Semplicemente non ci sono mai stato, Shouyou.’’
Atsumu sorride. Incurva le labbra senza malizia. Shouyou rimane zitto, gli occhi che pulsano. Il mare, placido, immobile, fa da testimone.
‘’Sai,’’ inizia Shouyou, inciampando nella sua stessa lingua. ‘’Sai,’’ ripete annaspando, l’aria che non basta. ‘’Non è colpa tua. La casa, io, non… non è colpa tua. Non so cosa sia successo. Ma posso risolverlo. Non è colpa tua.’’
Sembra un disco rotto. Non è colpa tua, non è colpa tua, non è colpa tua. Le uniche parole che riesce a estrapolare da quel groviglio contorto che traballa nella sua testa.
‘’Non è colpa tua.’’
‘’Non posso rimanere qui.’’
‘’Non è colpa tua.’’
‘’Non posso rimanere qui, Shouyou,’’ ripete Atsumu. ‘’Lo sai. Lo so che lo sai.’’
‘’Non puoi o non vuoi?’’
Atsumu non risponde.
‘’Il mare,’’ dice, e Shouyou vede le onde specchiarsi nei suoi occhi. O forse sono fatti di onde, i suoi occhi. ‘’Il mare mi fa ancora paura. Mi accompagni per un pezzo?’’
Shouyou esita, si affanna alla ricerca di una soluzione, una via di fuga, il cervello che ticchetta febbrile, infine annuisce e si alza. E che dovrebbe fare? Rifiutarsi? Può forse permettersi di dire ‘no, non ti accompagno da nessuna parte, resta qui con noi’?
Deglutisce, ricaccia indietro le lacrime, il grumo di saliva bollente che gli infiamma la gola. Non ci riesce, e le lacrime traboccano. Shouyou le lascia sgorgare. Prende la mano di Atsumu e insieme camminano avanti, verso la sabbia bagnata, verso quel blu che non è solo blu ma tutti i colori. C’è solo una scia di orme a testimoniare il loro passaggio, la sua.
A pochi centimetri dall’acqua, Atsumu si ferma.
Non te ne andare, pensa. Lascialo stare, il mare.
‘’Non avere paura,’’ dice invece.
Atsumu annuisce. Stringe più forte la sua mano. A Shouyou pare di percepire la forma affusolata delle sue dita per la prima volta.
Atsumu è il primo a toccare l’acqua. Esitante, immerge la punta del piede destro, e Shouyou lo segue l’istante successivo.
‘’È tiepida,’’ osserva Atsumu, alienato. Shouyou vede lo stupore sbocciare sul suo viso, seguito da sollievo. Entra con l’altro piede, avanza finché l’acqua non gli arriva alle ginocchia. Shouyou si addentra nel mare con lui. Ha ragione, pensa. L’acqua è tiepida.
Atsumu lo guarda, gli rivolge il sorriso più sincero che abbia mai fatto.
‘’Sarò un po’ smielato, ma grazie, Shouyou.’’
‘’Per cosa?’’
‘’Per avermi fatto vivere di nuovo.’’
Atsumu spalanca le braccia. Shouyou ci si tuffa dentro sconquassato dai singhiozzi.
Datti un contegno, pensa. Sei dieci anni più grande, cazzo.
Ma non ci riesce. Piange a dirotto. Piange perché come può trattenere un fantasma?
Vuole tornare indietro nel tempo. Vuole tornare indietro a quando era vivo.
E forse è la suggestione, forse il mare si sente misericordioso, quella notte, ma più Shouyou si stringe al suo corpo, più gli pare di percepire una forma densa, tangibile, fatta di carne fra le braccia - viva. Shouyou strofina il viso contro il suo petto, e ode un rumore. Stupefatto, ci preme contro l’orecchio.
Non è un battito, quanto piuttosto uno scroscio: lo sciabordio armonioso delle onde. Shouyou percepisce distintamente il rumore del mare, dentro le sue costole.
‘’Atsumu,’’ gli dice, le lacrime che finalmente smettono di sgorgare. ‘’Tu ce l’hai, un cuore.’’
Atsumu ridacchia. Shouyou sente le sue dita fra i capelli. Gli occhi brillano come stelle.
‘’Non dimenticarti di me, Shouyou.’’
Shouyou spalanca la bocca per ribattere - come potrebbe - ma Atsumu china la nuca e lo bacia. Rapido, un istante che sa di salsedine.
‘’Non dirlo a ‘Samu che sennò mi ammazza,’’ gli dice. ‘’Ciao ciao, Shouyou.’’
Atsumu lascia le sue mani, e prima che Shouyou riesca a dire qualcosa, scompare nel mare.

*

Shouyou si ritrova a camminare sulla spiaggia con i pantaloni grondanti di acqua. È quasi l’alba. Non riesce a capire se quel bagno notturno gli abbia fatto bene o se invece gli abbia solo appesantito l’animo, ma non ha più tempo per rimuginare sullo stato della propria casa. Deve farsi una doccia, strofinare via il sale dalla pelle, e bere una tazza di caffè forte. Quella mattina inizierà i lavori da Osamu. E vuole fare più del proprio meglio. Vuole dare il mille per cento di se stesso.
Ha la sensazione di aver perduto qualcosa di importante, non appena uscito dall’acqua. Non ricorda né chi, né cosa. La sua è solo una sensazione mesta che aleggia priva di forma, sfocata, da qualche parte fra gli occhi e il cuore. Si guarda indietro, ma vede solo una scia di orme: la sua.
Il mare dà, il mare prende.


*

Shouyou si sente un bugiardo. E Shouyou non è abituato a sentirsi un bugiardo.
È solo che mentre dipinge le pareti di casa di Osamu, pensa alle sue: grigie, logore. Si sente come se stesse mentendo.
Ma Osamu è così… sereno. Ha una luce negli occhi che Shouyou non gli ha mai visto.
Qualunque cosa gli sia accaduta dieci anni fa - perché Osamu non gliene ha mai parlato, né tantomeno Shouyou ha mai fatto domande - deve averla affrontata, o quantomeno accettata.
C’è una speranza lucida che divampa nelle sue iridi, e a Shouyou quel bagliore piace troppo. Non vuole opacizzarlo con i suoi problemi. E poi Shouyou è sempre stato in grado di risolversi da solo, è una questione di tempo.
Mentre dipinge lo stipite della stanza da letto, ha una specie di deja vu. La notte, il mare di notte, la sensazione di aver dimenticato, perduto per sempre, qualcosa di fondamentale, uno scarabocchio indefinito che riaffiora nei meandri della sua mente. Linee a matita cancellate, ma da qualche parte è rimasto il segno della grafite sul foglio, un solco, una traccia invisibile. Poi la sensazione sfugge, e Shouyou la perde.
Al suo posto, emerge impetuoso il senso di colpa: insomma, non si è mai sentito di un Curacase che cura le case con la casa ammalata, è un ossimoro che potrebbe farlo licenziare. Quante volte poi si è vantato di essere il migliore, in quella professione? È ridicolo.
Shouyou non credeva neanche che potesse mai accadere, una cosa del genere. È sempre stato equilibrato nella gestione dei sentimenti. Certo che prova tristezza, certo che ha delle ferite nell’anima, ma il talento di Shouyou è la repentinità con cui scova le consolazioni evitando che lo sconforto lo sopraffagga. Non gli piace, la tristezza, e questo lo spinge ad attivarsi per scacciarla, concentrandosi su ciò che lo rende felice, su ciò che suscita sollievo. E invece adesso Shouyou è disperato. E non capisce perché. C’è quella cosa strana, nel suo corpo, un gonfiore estraneo e pesante come piombo che lo consuma. Vorrebbe strapparselo di dosso, ma non sa dov’è.
Vorrebbe buttarsi nel letto e rimanerci, senza alzarsi più.
Però non può. Non può perché Osamu ha aspettato dieci anni quel momento. Perciò Shouyou rimuove l’umidità in maniera scrupolosa, livella la pittura, sostituisce le tavole del parquet gonfie d’acqua e lucida quelle che non hanno bisogno di essere rimpiazzate.
Ben oltre il tramonto, Osamu gli poggia una mano sulla spalla. ‘’Ehi,’’ lo chiama. Shouyou si volta a guardarlo con un sorriso.
‘’Sono le otto,’’ osserva Osamu. ‘’Stai lavorando da stamattina, Shouyou.’’
‘’Ho fatto pausa pranzo,’’ civetta l’altro. ‘’Davvero, sto beniss-’’
‘’No.’’ Osamu lo interrompe, categorico. ‘’Continui domani, d’accordo? Si vede lontano un miglio che sei distrutto.’’
In effetti, Shouyou è davvero distrutto. Così distrutto che non ha neanche la forza di ribattere. Ripone il pennello nel secchio di vernice e lo segue in salone, un po’ deluso da se stesso. Avrebbe voluto finire almeno il bagno, invece è riuscito a sistemare solo la camera da letto.
‘’Grazie,’’ dice Osamu. ‘’È… è tutto splendido. Grazie,'' ripete. ''Grazie.''
‘’Ti giuro che se mi ringrazi un’altra volta…’’
‘’Cosa?’’ lo incalza Osamu, in un ghigno malizioso. ‘’Che mi fai?’’
Shouyou ricambia il sorriso vispo, Osamu si avvicina e gli avvolge un braccio intorno alla schiena. Con l’altra mano inizia a giocare con i suoi capelli, ad accarezzargli il collo, ed è subito pelle d’oca. Poi Osamu lo bacia. Shouyou lascia cadere il secchio con un tonfo e si schiaccia contro il muro per evitare che le gambe crollino come gelatina.
Cristo. Shouyou credeva di baciare bene, ma contro Osamu non c’è proprio partita. O forse è perché gli piace da impazzire.
‘’Andiamo a casa?’’ gli domanda l’altro, il viso affondato nel suo collo. ‘’Ho fame. Di te e di cibo.’’
Shouyou ride, un po’ intristito. Dovrà inventare una scusa, perché Osamu non può assolutamente vedere le condizioni in cui si trova casa sua, perciò…
Perciò niente. Le viscere si strizzano, e Shouyou sibila un ‘cazzo’, mollandosi una sberla sulla fronte. Pensa alla vernice fresca. Pensa che Osamu non può dormire nella sua stanza, quella sera. E soprattutto ricorda di averlo invitato a stare da lui, almeno finché non avrebbe terminato i lavori.
‘’Mi dispiace,’’ balbetta Shouyou, sotto il suo sguardo preoccupato. ‘’Non puoi stare da me oggi. Io… dobbiamo andare in un hotel o qualcosa del genere. Lo so che ti avevo invitato, però è successo… è successa una cosa.’’
Osamu inarca le sopracciglia sorpreso, ma non si scompone.
‘’D’accordo,’’ gli dice. ‘’Nessun problema, Shouyou.’’
Shouyou annuisce. Sente gli occhi pungere. Non sa perché cazzo stia per mettersi a piangere, ma sente qualcosa che monta dentro la gola, e non è sicuro di poterlo reprimere.
‘’Non sei obbligato a dirmi nulla,’’ continua Osamu. ‘’Davvero. Però vorrei aiutarti. Lasciamelo fare.’’
Osamu capisce. Capisce quello che sente anche se non cura le case e per dieci anni non ha fatto altro che escludere le persone dalla sua vita, compreso se stesso. Lo abbraccia stretto, e delle volte, per quanto banale possa sembrare, abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci tenga stretti e che non ci faccia cadere.
Shouyou si sente un pulcino bagnato e infreddolito, si sente uno stupido, si sente meschino, perché non può permettersi di stare male, di mostrarsi debole, non quando non c’è alcun motivo dietro.
‘’Magari il motivo c’è,’’ gli sussurra Osamu all’orecchio, ‘’e sei tu che non lo riconosci. E poi non deve esserci sempre una spiegazione a tutto, Shouyou. Se sei triste sei triste, punto e basta. Non devi cercare una giustificazione che ti dia il diritto di sentirti così. Non dipende da te, e magari non dipende neanche da quello che ti circonda. Sei umano, sei vivo, succede. Ma ti prego, non tenerti tutto dentro.’’
Shouyou si fida ciecamente di Osamu. Quindi, con gli occhi tremolanti come due pozzanghere martoriate dalla pioggia, butta fuori tutto.

*

Shouyou non sa per quanto tempo piange. Forse qualche minuto, forse ore intere. A un certo punto comunque smette, ed escono dalla casa. L’aria notturna mitiga un po’ quel senso di indolenza.
Shouyou guarda il mare. Si sente meglio, si sente peggio, non capisce.
‘’Dammi le chiavi,’’ dice Osamu. ‘’Guido io.’’
Osamu guida fino a casa sua. Lo aiuta a scaricare gli attrezzi, copre la vernice fresca che lascia nello stanzino esterno, prima di entrare nel piccolo salone del suo monolocale. Non commenta il grigiore della sua casa, non commenta l’odore di tristezza che impregna le pareti. Shouyou si sfila scarpe e giacca, e come uno zombie va nella sua stanza, e si butta sul letto a faccia in giù. È stanco, così stanco...
‘’Preparo da mangiare.’’
Shouyou scuote la testa. ‘’La cucina è inutilizzabile. Mi dispiace, davv-’’
‘’Non ti preoccupare, qualcosa mi invento.’’
Shouyou annuisce. Neanche ricorda l’ultima volta in cui è andato a fare la spesa. Ha avuto poco appetito, in quei giorni. Osamu dovrà essere particolarmente creativo per riuscire a tirare fuori dal frigo qualcosa di commestibile.
Dopo cinque minuti, Osamu si sdraia sul letto accanto a lui poggiandosi sulle cosce un vassoio con dei panini, e una bottiglia d’acqua.
‘’Pane e prosciutto,’’ dice. ‘’C’era letteralmente solo questo. Ma posso andare a prendere qualcosa da asporto, se ti va.’’
Shouyou, mentre lo guarda meravigliato, pensa che è bellissimo avere qualcuno che si prenda cura di te. Perciò si siede, raddrizza la schiena, afferra un panino e lo addenta. Il suo stomaco brontola.
‘’Come fai a rendere squisito anche un panino col prosciutto? Ci hai messo qualche ingrediente segreto?’’
‘’No, ti giuro,’’ ride Osamu, sputando briciole. ‘’C’è solo il prosciutto. E un filo d’olio.’’
‘’Ma è troppo buono. Non ti credo.’’
‘’Forse hai solo troppa fame, Shouyou.’’
E forse è vero. Shouyou divora tre panini e si sente meglio. Incredibile quanto la pancia piena possa fare la differenza.
‘’Osamu-san,’’ lo chiama Shouyou. ‘’Ti piacciono i porcospini?’’
Osamu esita, poi esala via una risata. ‘’Perché i porcospini?’’
‘’Non lo so, forse li ho sognati. Ti piacciono?’’
‘’Mi piacciono,’’ risponde Osamu. ‘’Pungono, però.’’
‘’Però ti piacciono.’’
‘’Sì, mi piacciono.’’
‘’Anche se pungono?’’
‘’Anche se pungono.’’
Shouyou si volta verso di lui. Gli si rannicchia contro, guardandolo fisso. Osamu gli accarezza il naso.
‘’Ti posso dire una cosa?’’
‘’Puoi.’’
Shouyou inspira. Pensa al mare, alla vita. ‘’Io credo che tu debba aprirti un ristorante. Sul serio.’’
Osamu smette di accarezzarlo, poi ricomincia.
‘’Ci sto pensando.’’
‘’Ci stai pensando davvero?’’
‘’Davvero davvero,’’ risponde l’altro. ‘’Venerdì sono andato a vedere dei locali in affitto. Alcuni erano dei buchi, ma altri erano decenti. E uno era proprio bello.’’
Shouyou sorride. Il primo sorriso vero degli ultimi giorni. ‘’Meno male,’’ bisbiglia. ‘’Sono felice per te, davvero.’’
Osamu lo bacia. Lo bacia forte, gli stringe i polsi, Shouyou si scioglie nella sua bocca.
‘’Non hai nessuna intenzione di farmi dormire, vero?’’
Osamu gli sorride addosso.
‘’Certo che puoi dormire. Ti perderai il più bello, però.’’
Shouyou gli conficca le unghie nella schiena e pensa che non ne avrà mai abbastanza.

*

Non appena si desta, prima ancora di aprire le palpebre, Shouyou sa che è tardissimo. Lo sente dentro, ha quell’orologio che oramai si è fuso alla sua carne, dopo anni di routine quotidiana rimasta invariata.
Il primo istinto è quello di scattare in piedi, controllare l’orologio, correre in bagno a lavarsi, vestirsi alla velocità della luce.
La verità però è che rimane folgorato dall’odore di marmellata che aleggia nell’aria. Non una marmellata qualunque, quella di fragole. Marmellata di fragole e focaccine.
Shouyou dal letto si alza scattante comunque, ma ignora il telefono e va direttamente in cucina, i piedi scalzi che non fanno rumore. Osamu è in piedi con un vassoio di focaccine fumanti, le dita sporche di impasto e marmellata.
‘’Ehi,’’ gli dice. Shouyou ha la bava alla bocca. Biascica una parvenza di buongiorno, poi indica il vassoio con l’indice tremante.
‘’Ne posso mangiare una?’’
Osamu sgrana gli occhi, poi scoppia a ridere. ‘’Sì, certo, sono per te.’’
Shouyou sta seriamente per mettersi a piangere, di nuovo. Se ne ficca in bocca una senza avere la più pallida idea di cosa sia la decenza, e la marmellata dolce gli esplode sotto al palato, sulla punta della lingua. Quello è il segreto della felicità, un ripieno di vita, di gioia, di estasi pura.
‘’Oh miofdio,’’ biascica. ‘’È la cosa pfiù squifita che abbia mai mangiato.’’
‘’Sono più buone di quelle che compri tu, vero?’’
Shouyou annuisce vigorosamente con gli occhi sgranati. Poi si guarda intorno, e per poco la focaccina non gli sfugge dalle labbra. La cucina è diversa. Non è tornata luminosa come prima, non è ancora guarita, ma è meno verdognola.
‘’Wow,’’ esclama Shouyou, poi si ricorda di deglutire. ‘’Va decisamente meglio di ieri.’’
‘’Forse avevi solo bisogno di qualcuno che ti scaldasse un po’,’’ dice Osamu, malizioso. Dopo torna serio. ‘’Ti preoccupi sempre per gli altri, Shouyou, e mai per te stesso.’’
‘’O forse avevo bisogno di te,’’ replica Shouyou. Osamu arrossisce, però sorride grato.

*

Dopo colazione vanno in spiaggia. Camminano fino al pedalò rosso, coperto da un sottile velo di sabbia. Ci si siedono sopra.
Shouyou intravede una conchiglia, sepolta per metà. Allunga il braccio e la raccoglie, la esamina, è bella, chiude gli occhi e se la porta all’orecchio.
Il rumore del mare. Gli fa pensare a un cuore che batte, anche se non sa bene il perché.
‘’Odio il mare,’’ dice Osamu.
Shouyou spalanca gli occhi. Si volta a guardarlo stupito.
‘’Non ti ho mai detto cosa mi è successo,’’ continua. ‘’Dieci anni fa.’’
‘’Non devi parlarne se non ti va di farlo,’’ replica prontamente Shouyou. ‘’Ma non credo faccia bene tenersi le cose dentro. Me l’hai detto tu.’’
Silenzio. Poi Osamu sorride.
‘’Avevo un fratello. Ho un fratello,’’ spiega. ‘’È morto annegato dieci anni fa. Si chiama Atsumu.’’
Shouyou schiude la bocca. Un bagliore labile nascosto nella sua mente improvvisamente si trasforma, diventa accecante. La tristezza che lo soffoca prende forma, diventa concreta, trova un nome. Shouyou vede Atsumu, Atsumu che di anni ne ha diciassette, Atsumu seduto accanto a lui, Atsumu che ride, Atsumu che urla, invisibile, inascoltato, Atsumu con il cuore a forma di mare.
Shouyou ricorda.
‘’Vuoi parlarmi di lui?’’
Osamu annuisce.
Il mare prende. Il mare dà.

*

Settima lezione:
il mare - il mare - è un vecchio vecchissimo ladro, un vecchio vecchissimo benefattore, un vecchio vecchissimo tesoriere.
Custodisce gioielli perduti, ruba vite e speranze, regala conchiglie e storie.
Delle volte, persino fantasmi.
Delle volte, persino l’amore.

*






Note di Cora:
Intanto, io vi ringrazio per essere arrivati sin qui. Davvero, grazie per aver letto quasi ventimila parole, spero che la storia sia stata piacevole da leggere. Detto ciò, potete chiudere, nelle prossime righe non dirò niente di importante, semplicemente devo sfogarmi sulle difficoltà pervenute nel tentativo di concludere questa ff e quindi lo farò. Intanto però GRAZIE! Grazie. ♥

Ci ho messo.... trentasei giorni per finire questa cosa. È stato un inferno. Tra l'altro sto revisionando da stamattina alle otto, quindi ehm perdonate eventuali deliri ma giuro che se avessi preso a morsi funghetti allucinogeni probabilmente starei meglio. COMUNQUE. Io volevo solo scusarmi per i buchi di trama di una portata veramente imbarazzante, l'argomento che proprio è rimasto nell'etere non pervenuto è stato l'evolversi del rapporto fra Osamu e Shouyou che io ho banalmente giustificato con due righe in un POV di Atsumu in cui dice che si sono visti più volte. Fine. Questo è stato il massimo del mio sacrificio, ma a mia discolpa posso dire che non ho mai scritto niente di tanto lungo e che di nuovo, il tempo davvero esagerato che ho impiegato per ''''concludere'''' questa storia mi ha proprio impedito di soffermarmi e aggiungere altri squarci sulla loro storia, perchè ero proprio tipo: BASTA, BASTA, QUANDO FINISCI, TI PREGO FINISCI. Insomma, un po' esaurita, ecco. Quindi mi scuso. Lo stesso identico discorso vale per Atsumu e Shouyou. Avrei voluto scrivere una roba strappalacrime, ma come detto sopra ero troppo esausta per approfondire il loro rapporto (su cui si basa tutta la storia, quindi la mia non è che sia stata proprio una scelta brillante di perspicacia, ma ehi, tra 33 giorni è Natale).
Poi... AH, sì, mi scuso per incongruenze e soprattutto per ripetizioni (lessicali, sì, ma intendo proprio concettuali). Avendo sfruttato un arco temporale tanto vasto, ci sono argomenti che magari ho trattato il giorno uno e ho ritrattato il giorno quindici perché mi ero dimenticata di averli già affrontati. Nel senso, se 'sta storia è una palla tediosa e ripetitiva, beh, mi dispiace. (ma ehi, di nuovo, fra poco è Natale....)
Va bene, ho finito. Grazie il doppio per esservi letti pure questo sfogo non richiesto. Buone feste e auguri Deb!!! Oggi è il compleanno!!!! Non so neanche se leggerai mai questa storia ma vabbè auguri!!! È il tuo compleanno!!!! AUGURI! E come sempre grazie a time_wings che davvero si sorbisce tutti i miei scleri sulle fanfiction (e non).
Okay, grazie davvero a tutt* voi. Grazie. ♥
AH NO. Grazie pure a Oceano mare di Baricco, lettura che è arrivata al momento giusto una settimana fa e che mi ha spinto a continuare questa storia.
Lascio il link della playlist che ho usato a ripetizione per terminare questa cosa.
Grazie di nuovo!!!
See ya! ♥



   
 
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