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Autore: Gaia Bessie    05/12/2021    2 recensioni
«Salazar, Paciock» commenta lei, in un sospiro. «Puoi dirmi quello che vuoi ma, ammettendo che si possa cambiare, tu sei diventato un’altra persona».
Neville scuote il capo.
«Sono sempre io» commenta, lasciandole andare la mano. «Le persone non cambiano, Parkinson: crescono».
«Sei cresciuto» conviene lei.
«Anche tu».
Anche lei.
[Neville/Pansy, accenni di Draco/Hermione | Scritta per l'iniziativa "Regali di inchiostro" organizzata dal gruppo Facebook "L'angolo di Madama Rosmerta" e "Calendario dell'avvento" indetto da Cora Line sul forum Ferisce più la penna]
Per il compleanno di Mati.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger, Neville Paciock, Pansy Parkinson | Coppie: Draco/Astoria, Draco/Hermione
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Per VigilanzaCostante (Mati),
E non allego la nostra foto insieme per decenza.


Non me ne vado se non ci sei te
 


[Spilli]
 
Eravamo solo io e te ti ricordi baby
Sono le 4 quel vino bianco, cazzo,
Ricordo ancora il suo sguardo mi morde il labbro,
Sbatte la porta urlando di restarle affianco vattene
 
Pansy sanguina rancore: dal naso fino le cola lungo il viso, del medesimo color violaceo del rossetto che indossa e, infine, si tuffa nel calice di vino bianco – l’ha sempre odiato, il vino bianco: solamente una Grifondoro poteva mettere in dubbio la quieta potenza del rosso, solamente una Grifondoro che non conosce la sottile arte del bere per voler bere e non ricordare più perché s’è cominciato a farlo.
Non era andata all’addio al nubilato di Astoria Greengrass, sei anni prima, e s’era rifiutata di partecipare alla festa di benvenuto per il piccolo Scorpius. Senza contare che, le avessero domandato la sua opinione, Pansy Parkinson avrebbe constato che chiamare Scorpius un infante era quasi peggio del chiamarlo Draco.
Se Astoria fosse sopravvissuta al terzo compleanno di suo figlio, probabilmente le avrebbe rispsoto quel che lei stessa crede di sapere e, invece, ancora non ha sperimentato mai: un nome ti sembra bello solamente se ne ami il proprietario, Pansy, non credi anche tu?
Pansy avrebbe storto il naso con aria aristocratica e le avrebbe detto tu sei troppo romantica per poter sopravvivere. E infatti Astoria Greengrass non era sopravvissuta e, probabilmente, doveva saperlo già quando, incinta di Scorpius, aveva domandato a Pansy di esserne la madrina: prenditi cura di lui, le aveva detto, anche quando non ci sarò più. Non se, aveva detto, quando.
Pansy non aveva compreso, se non settimane dopo – quando aveva fatto armi e bagagli e, per i successivi sei mesi, aveva vissuto a Malfoy Manor per cercare di salvare Draco dalla disperazione per la perdita della moglie. Non si era illusa, quello mai: Draco Malfoy era stato chiaro, fin dai tempi della primissima frequentazione con Astoria. Per lei non c’era più posto nella sua vita, se non per un’amicizia un po’ asimmetrica che, alla fine, andava bene solamente a lui.
Così, quando un giorno si era Smaterializzato nel suo salotto e gliel’aveva detto (con parole semplicissime), Pansy aveva pensato che la stesse prendendo in giro: suonava esattamente quello, una presa in giro – ho chiesto a Hermione Granger di sposarmi.
Lei ha detto di sì.
Pansy non aveva domandato, a quel punto, ogni suo nervo s’era rifiutato di sapere come, quando e soprattutto perché Draco Malfoy si fosse innamorato della Granger: non avrebbe compreso comunque – gliel’aveva detto così: hai avuto il massimo che potevi avere e, adesso, cerchi di scavare il fondo?
Malfoy aveva riso, pensando a una battuta, lei era stata terribilmente seria.
Così, si è trovata a un addio al nubilato dove non avrebbe mai, per nessun motivo al mondo, voluto presenziare: la neo-coppia aveva voluto festeggiare l’addio al nubilato e quello al celibato in un’unica, terrificante, festa congiunta. Dunque, Pansy s’era vestita (di nero) e truccata (di nero) e (a lutto) s’era Smaterializzata nel locale prescelto, trovandosi circondata da vecchi compagni di scuola e qualche parente.
Per lo più amici della Granger – Draco lo aveva detto a pochi intimi e Daphne, che da quando avevano tre e quattro anni era stata la sua migliore amica, non era voluta venire: non ce la faccio, gli aveva confessato, spero potrai perdonarmi, anche in un giorno che non è oggi. Ma proprio non ce la posso fare.
Draco aveva compreso. Alcuni giorni, non ce la faceva nemmeno lui.
Pansy non era stata esonerata: così s’era dovuta sedere a un tavolo, stretta tra Gregory Goyle e Neville Paciock, domandandosi perché Salazar le avesse riservato tale tormento, lei che in ogni sua azione aveva sempre cercato d’onorarlo e rispettarlo al massimo delle sue capacità. Il tempo era trascorso con lentezza disarmante e, alle quattro di mattina, gli unici a essere andati via erano gli amici di Draco.
E così, al tavolo è rimasta sola con Neville Paciock e una serie infinita di bicchieri vuoti: quando tenta d’alzarsi, barcollando, lui sospira e s’alza per porgerle il braccio – lei vi si aggrappa, senza mostrarsi grata, sussurrando che dovrebbe andare a incipriarsi il naso.
Dura una decina di passi, prima di scoppiare a piangere – Neville Paciock la guarda, turbato, e non riesce a dire una parola che non sia un confuso balbettio.
«Dannazione» sibila Pansy, aggrappata a lui. «Mi ha chiesto di farle da damigella. Io, capisci? Io, la fottuta damigella al suo fottuto secondo matrimonio».
Astoria non aveva mai avuto la medesima pretesa, si ritrova a pensare con distacco, Astoria aveva compreso.
Neville non sa risponderle – l’accompagna, un po’ trascinandola, fino alla porta del bagno delle signore, guardandola con aria timorosa.
«Tu non ce l’hai, una cazzo di moglie?» domanda Pansy, con tono sempre più isterico. «Oh, vaffanculo!».
Lo prende per le spalle, facendo incontrare le loro labbra con uno schianto (che si riflette sulle loro fronti, facendo mugolare Neville di dolore), e mordendogli il labbro con forza.
Quando si stacca, ansimando, lui la guarda con occhi spalancati, infantili, pieni di una luce che lei non si sa come spiegare – c’è qualcosa che è sempre stato luminoso, in Neville Paciock, qualcosa che brilla e non si sa spiegare: in mezzo all’innocenza, a quel sorriso pieno di imbarazzo, qualcosa c’è. Qualcosa c’è.
«Sei ubriaca» l’accusa, con un tiepido rossore che gli tinge il viso. «E no, non ce l’ho una moglie».
La fa ridere – Pansy si volta, entra nel bagno sbattendo la porta dietro le proprie spalle: a quel punto, Neville sospira, si passa una mano in viso e fa per andarsene.
Ma, quando il rumore del primo passo incrina quella bolla di silenzio che s’è creata di fronte al bagno delle donne, la voce di Pansy emerge cristallina (un po’ incrinata) – sembra che stia piangendo ma, se le dimostrasse d’averlo capito, lei negherebbe con tutta sé stessa.
«Rimani».
 
***
 
Mi sembra ieri sento il suono dei bicchieri
Dentro ai miei pensieri, ma tu aspetta dai,
Sembri di fretta questa sera sembri un po' diversa
Talmente bella che sei maledetta, dalle mie urla (aiuto)
Il tuo profumo sopra la maglietta azzurra
 
Passano dieci giorni, a Neville sembra sempre e comunque un ieri che si condensa nei suoi pensieri come una maledizione – sente ancora il suono di quei mille bicchieri vuoti lasciati davanti a lei come fiori velenosi, dentro i suoi pensieri Pansy Parkinson è ancora lì: sepolta tra quelle lacrime che non ha versato e con i vestiti che odorano del vino bianco preferito da Hermione e qualche rimpianto.
L’ha accompagnata a casa. Da sola, ha detto a Malfoy con aria piena di rimprovero, non sarebbe stata in grado di Smaterializzarsi.
Pansy aveva riso, prendendolo in giro: e dove l’hai lasciata, la tua armatura scintillante, Paciock?
Lui aveva sorriso e, quando lei aveva fatto cadere le chiavi di casa davanti ai propri piedi, chinandosi per raccoglierle, gliel’aveva chiesto. Ci possiamo rivedere?
Lei aveva detto di no, poi l’aveva baciato e aveva cambiato idea – domani alle nove, non fare tardi, portami in un bel posto. Dove non si beve vino bianco, non sono la Granger, io.
Così, dieci giorni dopo, Neville sta ancora aspettando quel domani alle nove: Pansy ha rimandato per nove giorni, adducendo nove scuse diverse e, sul finire, ha dovuto semplicemente dirglielo. Scusami, ho qualcosa che non va e nemmeno io riesco a spiegarmi cosa sia.
E, all’alba delle nove del decimo giorno, Neville s’annoda la cravatta, con dita maldestre, domandandosi quando arriverà il Patronus di Pansy a dirgli che, anche questa sera, non s’ha da fare. E non arriva così, con debole speranza, alle nove in punto si Smaterializza davanti casa sua – un piccolo appartamento sul confine con la Londra Babbana: i Parkinson si sono mangiati la loro ricchezza al gioco, con il capofamiglia che ha scommesso milioni di Galeoni sul drago sbagliato e la madre che, adesso, piange sangue sugli estratti conto.
La trova a braccia conserte, davanti alla porta, il viso pulito e senza un’ombra di trucco – che cozza con l’impronta di rossetto viola che s’è trovato tra le pieghe delle labbra all’indomani dell’addio al celibato di Draco Malfoy.
«Ciao».
«Ciao» mormora Neville, a disagio. «Se ti va ancora, ho prenotato per due in un posto. Spero che possa piacerti».
Lei gli posa una mano sul braccio, annuendo leggermente – il crack della Smaterializzazione è solamente l’anticamera del rumore che ha fatto il cuore di Pansy, dieci sere prima: Neville la porta in un piccolo pub della Londra Magica, divorato da una sartoria rivale di Madama McClan e una libreria polverosa.
«Vieni, dai» le sussurra e, per un attimo, è di nuovo quel ragazzino spaventato dalla propria ombra. «Non penso ci sarà da aspettare: d’altronde, è mercoledì sera».
Pansy lo segue a passettini, mentre Neville sceglie un tavolo un po’ appartato, vicino a una grande finestra – a lei non può dirlo: barcolla sotto il peso di quel profumo che, con il polso, ha sparso a ondate sulla manica lunga della propria maglietta azzurra.
«Cosa prendi?».
«Un’Acquaviola corretta al Gin» sussurra Pansy, con aria distratta. «Senza ciliegina sopra, grazie».
Neville fa un cenno al cameriere, ripetendogli l’ordinazione e aggiungendo una Burrobirra media, cosa che la fa sorridere.
«Sei strana, stasera» commenta lui, quando il cameriere s’allontana dopo aver posato i bicchieri sul tavolo. «Non, fraintendermi, sei sempre…».
Bellissima.
Pansy fa un gesto della mano, come se s’aspettasse quel complimento – la maturità non l’ha resa bella, ma le ha donato quel fascino un po’ maledetto che da ragazzina le mancava: e, sotto il caschetto bruno, Pansy-carlino-Parkinson non sorride più, mostrando i denti da cane.
«Immagino che la Granger te lo avrà detto» commenta lei, fingendo noncuranza. «Oggi è il giorno in cui Astoria…».
Neville annuisce. «Ha accompagnato Malfoy al cimitero» sussurra, sfiorandole la mano con la punta delle dita, incerto. «Pensava che saresti andata anche tu, ha detto che era…».
«La mia migliore amica».
«Sì» mormora lui, a disagio. «Qualcosa del genere».
«Lo era davvero» sussurra Pansy, più a sé stessa che a lui. «Ma penso che lei stessa mi avrebbe detto di non andarla a trovare al cimitero con suo marito».
Pare rifletterci, per un attimo.
«Cioè, lo so che ora sarà il marito della Granger» commenta, passandosi una mano tra i capelli. «Ma, per me, sarà sempre con lei, in qualche modo: si meritava una vita migliore, Astoria, rispetto a quella che ha avuto».
Neville annuisce, quieto.
«Ma una vita breve è meglio di nessuna vita» conclude Pansy, rendendosi conto d’avergli stretto la mano per tutto il tempo. «Astoria forse non era felice, ma chi lo è?».
«Tu non lo sei?» domanda Neville, alzando un sopracciglio, con aria interessata. «Felice, intendo».
«Tu sì?».
Lui sembra pensarci – a quella cazzo di moglie che non ha, con i trenta che si avvicinano come un miraggio all’orizzonte, e i suoi amici che insegnano a camminare ai propri figli, a Pansy Parkinson che sorride di fronte a lui e, improvvisamente, non c’è scherno o divertimento. Solamente fastidiosa comprensione.
«A volte» conclude, pensieroso. «Ma non mi hai risposto».
«Forse è meglio se andiamo a fare una passeggiata» mormora lei, prendendo un sorso del proprio drink. «Non ti sembra che qui faccia troppo caldo?».
«Sembri di fretta» risponde Neville, assecondandola. «Stasera sei strana, Parkinson, mi spiegherai cosa c’è che non va?».
Lo comprende da solo – quando, nel seguire Pansy, incrocia lo sguardo sorridente di Hermione Granger, al braccio di Malfoy.
«Neville, ciao!» lo saluta Hermione, avvicinandosi. «Parkinson, buonasera».
«Era per questo?» domanda Neville, senza scomporsi. «Che volevi andare via?».
Draco Malfoy china il capo, come se avesse compreso – ha una scia rossa sul naso che lo fa sembrare più vivo del solito, mentre Neville mormora un saluto veloce e prende Pansy per mano, Smaterializzandosi in un sussurro.
 
***
 
Lei mi sussurra mentre fuma che non ha paura.
Siamo io & lei, quattro mura rum e pera
Questa sera sembri veramente seria.
Seriamente vera.
 
Pansy è fatta di spilli, quando lui la tocca e lei lo ferisce solamente con l’ausilio della pelle: gli graffia il palmo della mano, quando la lascia andare, al sicuro tra le quattro mura del suo appartamento. Neville ride, vedendola guardarsi attorno con aria interdetta, quasi a disagio.
«Casa mia» commenta, divertito. «Ti posso offrire qualcosa da bere? Ho della Burrobirra ma, se preferisci, dei colleghi mi hanno regalato una bottiglia di rum».
Lei alza un sopracciglio bruno, insolitamente sottile, come a sfidarlo a indovinare la propria preferenza: Neville sospira, ma le versa un bicchierino di rum e appella per sé un altro bicchiere.
«Succo alla pera, Paciock?» domanda Pansy, divertita. «Cos’hai, tre anni?».
Lui sorride, sorbendo un sorso della bevanda, ma non le risponde – lei allunga la mano e sorbisce il rum in un unico sorso, gettando la testa indietro con fare teatrale.
«Ti spiace se fumo?».
«Fai pure» risponde lui, mentre Pansy ha già la sigaretta tra le labbra. «Non sapevo fumassi».
«Astoria» spiega lei, in un sussurro, mentre usa la bacchetta per accendersi la sigaretta. Un delicato profumo di violetta si spande nella stanza.
Astoria, la risposta a ogni male – la moglie di Malfoy aveva adorato il fumo: che male può farmi, aveva detto a Pansy una volta, tutti noi moriamo, a velocità diverse (se solamente lei non avesse imboccato la maggior velocità possibile).
«Ti piaceva molto» commenta Neville, pensieroso. «La nomini spesso».
«La invidiavo a morte» confessa Pansy, sincera. «Avrei voluto avere quello che aveva lei. No. avrei voluto essere lei».
«Non ci avresti guadagnato molto, temo» sorride lui, con una smorfia. «Draco Malfoy? Pensavo fosse un  errore di gioventù, il tuo».
La fa ridere.
«E quello della Granger cos’è?» domanda, ridendo. «Follia della mezza età?».
Neville non risponde, ma la scruta con sguardo attento – è la prima volta che la vede così seria, così vera: c’è qualcosa in Pansy Parkinson che vale la pena di riportare alla luce e lui vuole essere quello che la scoprirà da zero.
Anche a costo di divenire il suo puntaspilli: Pansy è una viola circondata da rovi ma, quando lo guarda attraverso il fumo della propria stessa sigaretta, sembra solamente incerta e spaventata, sebbene s’ostini a pensare il contrario.
«Non ho paura» sussurra, soffiandogli in volto una boccata di fumo (che vuol dire tutto e non vuol dire niente). «Un tempo era il contrario: tu non hai più paura, non è vero?».
Neville sorride – se non avesse reagito, la paura se lo sarebbe mangiato vivo per sempre e, sul finire, non si sarebbe salvato nessuno (nemmeno lei).
«E tu?».
«Ti ho detto che non ho paura» insiste Pansy, spegnendo la sigaretta sul bicchiere sporco di rum. «Ho smesso di averne, a un certo punto della mia vita».
«E allora perché ti tremano le mani?» domanda Neville, prendendogliene una tra le sue, sentendone quel tremore che riflette il tremolio insensato del cuore.
«Salazar, Paciock» commenta lei, in un sospiro. «Puoi dirmi quello che vuoi ma, ammettendo che si possa cambiare, tu sei diventato un’altra persona».
Neville scuote il capo.
«Sono sempre io» commenta, lasciandole andare la mano. «Le persone non cambiano, Parkinson: crescono».
«Sei cresciuto» conviene lei.
«Anche tu».
Anche lei.
 
***
 
Hai la maglietta nera il solito sguardo,
Ti chiedo solo di restarmi accanto, (vai) non chiedo altro tu,
Prova a comprendermi,
Qui, corro nel buio e non so come prenderti.
 
Quando si riveste, nascondendosi dietro il nero della maglietta, Neville si rende conto che Pansy veste sempre e solo a lutto – forse per la sua migliore amica, forse per gli anni migliori della sua vita (perduti). Non domanda, non ne ha il coraggio: buffo che si senta ancora così dannatamente Grifondoro, quando non ha il coraggio per mettere in fila poche parole.
«Diceva che era il mio colore» commenta Pansy, rispondendogli in un sussurro. «Volevi chiedermelo, no? Diceva che era il mio colore e si metteva a ridere: perché fa ridere, che io debba essere in perenne lutto per essere carina».
Lui alza un sopracciglio, non le domanda se gli abbia letto nel pensiero o se quella coesistenza forzata non si sia tramutata anche in un avvicinamento tra le loro menti.
«Devo andare» mormora lei, infine, allacciandosi le scarpe e sistemandosi i capelli dietro le orecchie. «Io…».
Mi staranno aspettando – ma non ha famiglia.
Devo andare in ufficio – ma non ha lavoro.
Draco – ma non l’ha amata mai.
Si rende conto così, Pansy, che per anni è stata ingabbiata in una vita che s’è presa tanto per non restituirle niente, se non quel poco di polvere che lei aveva già spolverato via: ha ventinove anni, non ha chiesto molto, non le è rimasto niente. Se non Neville Paciock che la osserva con un’intensità che non si comprende e lei non sa come rapportarsi con quello sguardo scuro e inspiegabile.
«Resta» sussurra lui, parafrasando la sua frase di qualche (parecchi) giorno prima. «C’è spazio abbastanza per due: puoi rimanere».
Lei sorride – non ama i patti e nemmeno le concessioni e, quando lui glielo dice, scuote il capo con amarezza.
«Mi dispiace, devo andare».
«Io ci provo, a capirti» commenta lui. «Ma tu non mi dici mai da che parte andare».
Lo fa correre in cerchio nel buio – Neville lo fa con gioia, perché prenderla significherebbe riuscire a comprenderla, ma come fare? Corre nel buio e non sa come fare a sfiorarla, almeno per una manciata di secondi.
«Stiamo sbagliando tutto» commenta Pansy, raccattando la giacca dal pavimento. «Non ha senso, Paciock, rassegniamoci a essere ciò che siamo, tutti e due»
«E cosa siamo?».
«Separati» risponde lei, secca. «Quello che siamo sempre stati: non sono Malfoy, non posso cambiare idea a metà strada e tornare indietro».
«Non sono Hermione» mormora Neville, sibillino. «Non avrei il coraggio di rincorrerti nel posto in cui vuoi andare».
«Non farlo, allora».
Lo dice con un singhiozzo – lui sospira, la prende per un braccio e glielo dice a volume azzerato (prova a fermarti un attimo, resta da me).
Ma lei è sempre acuminata come uno spillo: lo punge a morte e si Smaterializza in un crack, che lo fa sobbalzare.
Neville si guarda le mani, lì dove l’ha sfiorata. L’ha graffiato come vetro rigato e nemmeno se n’è reso conto.
 
***

Mi si ferma il battito
Chiaro che non me ne vado se non ci sei te
Prova a fermarti un attimo resta da me,
Navigo dentro illusioni da sconfiggere
 
Non chiede consiglio ai suoi amici – anche se Hermione, quando lo vede varcare la soglia dell’appartamento che condivide con Malfoy, lo accoglie con un sorriso e gli offre una tazza di tè: s’immagina che Neville sia venuto per domandarle un consiglio che però non lascia mai la tiepida prigione delle labbra. E, quando Paciock chiede di Draco Malfoy, Hermione storce la bocca e si morde la lingua per non chiedergliene il perché.
Draco Malfoy è stupito quanto la propria futura moglie, quando Neville Paciock si siede di fronte a lui, nel salotto di casa sua, chiedendogli un consiglio: senza imbarazzo ma con tono pieno di ovvietà, glielo dice – la conosci meglio di chiunque altro.
Ma Draco scuote il capo, con aria dispiaciuta (dispiaciuta per davvero): non io, Astoria. Mia moglie la conosceva meglio di me. Io ho solamente frammenti di ricordi che non so come mettere insieme, lo sai?
«Sei tutto quello che le è rimasto» commenta Neville, pacato. «Qualcosa di lei l’avrai capita, in tutti questi anni».
Draco Malfoy sospira – glielo dice: Pansy ha sempre detto che la sua colpa era avermi amato troppo, ma io penso che non mi abbia amato affatto. Avrebbe voluto che fossi diverso da ciò che sono, ti sembra amore questo?
«La rivedrai al matrimonio» concede, con un gesto della mano. «Mancano solamente pochi giorni, Paciock, non essere impaziente».
«Non verrà e, se pensi il contrario, forse è vero che non la conosci» commenta l’altro, atono. «Pensi che possa presentarti al tuo matrimonio?».
Non attende risposta – gli volta le spalle e borbotta un ringraziamento senza voce, prima di uscire dall’appartamento, pronto a Smaterializzarsi.
Ma, quando incontra lo sguardo scuro di Pansy Parkinson, proprio non ce la fa: la guarda e gli mancano le parole, e l’equilibrio, come se lei fosse in grado di risucchiargli dalla mente tutta la consapevolezza di sé che Neville ha guadagnato a partire dai suoi diciassette anni. E gli si ferma il battito, quando la guarda e, negli occhi, Pansy ha solamente catrame che le si appiccica all’anima e non la lascia andare. Si graffia, infilzata come un puntaspilli, ma non riesce a dirgli nemmeno una parola.
«Ciao» Neville la saluta con dolcezza, chiudendosi la porta di casa Malfoy-Granger dietro le spalle. «Non mi sarei aspettato di trovarti qui».
«Potrei dire lo stesso di te» sputa lei, in un sussurro. «Non… Non ho il diritto di chiedertelo, okay? Quindi lasciami passare, Paciock, devo portare agli sposi il loro fottuto regalo e le mie scuse: non posso andarci, a quel dannato matrimonio».
Lui non si mostra sorpreso – ha sempre saputo che Pansy avrebbe trovato una scusa per non presentarsi al secondo matrimonio di Malfoy: e, adesso che la vede girare con il regalo rimpicciolito nella borsetta e un’ombra cupa tra gli occhi, sorride e non sa come fare a smettere.
«O potremmo andarci insieme» suggerisce, scavando dentro di sé alla ricerca di quel coraggio che aveva maturato da ragazzino (e che, adesso, pensava non gli servisse più – ingenuo). «Non sarebbe così male, sai?».
Pansy scuote il capo, il caschetto nero che le proietta un’ombra sul viso, graffiandolo. «Potevo sopportare che preferisse Astoria a me: era tutto quello che io non sarei mai potuta essere, nemmeno volendo» commenta, in un sussurro. «Ma la Granger, Paciock? Come posso sopportarlo? Abbiamo passato metà della nostra vita a disprezzarla».
«Sei cresciuta, Pansy» risponde lui, chiamandola con il suo nome. «Non c’è niente di male se, adesso, tu e Malfoy avete cambiato idea».
Lei china il capo, la gola raschiata da una risata dolorosa come la puntura di uno spillone – la Bella Addormentata, meno bella, in nessun bosco: Pansy che ride e nemmeno riesce a comprenderne il perché.
«Astoria» sussurra, nominandone per l’ennesima volta il fantasma sbiadito che vive nei suoi ricordi (e solo nei suoi). «Lei adorava la Granger: lavorava per lei ed era sempre entusiasta, io… a volte penso che ci sperasse, che s’innamorassero. Per avere meno rimpianti».
Prende un respiro, prima di guardarlo negli occhi, con la sincerità che le buca le pupille come un fascio di luce.
«Ha lasciato un marito inconsolabile e un figlio piccolo» commenta, amaramente. «Pensavo li avesse affidati a me, non alla Granger».
Neville sospira. «Non andremo da nessuna parte così» commenta, calmo. «Non te ne fai niente, di tutto questo».
Rancore.
Pansy lo sa – ma, quando pensa al sorriso dolcissimo con cui Astoria Greengrass era morta, non riesce a non pensarci: lo sapeva già, che stava lasciando suo marito tra le dita della donna che più aveva ammirato in vita sua. E non era lei.
«Non te ne andare» Pansy si fa violenza, per tirarsi fuori quelle parole. «Non te ne andare».
Lo fa sorridere – chiaro che non me ne vado se non ci sei te – e allungare una mano per sfiorarle la pelle morbida del viso, scoprendola innaffiata da lacrime salatissime.
Neville lo sa – è illusorio pensare che Pansy Parkinson si dimenticherà oggi dell’uomo che ha amato per tutta la sua vita (e avrebbe voluto che fossi diverso da ciò che sono, ti sembra amore questo?), ma lui in quell’illusione speziata e zuccherata ci naviga dentro, affondandoci.
«Vorrei che tu venissi con me al matrimonio» sussurra, mentre lei già sta facendo retromarcia per provare a correr via. «Prova a fermarti un attimo. Resta da me».
Lei sorride – non se ne rende conto, ma sta piangendo ancora – e si scusa con una dolcezza che non le è appartenuta mai.
Pansy Parkinson si Smaterializza in un crack, lasciando Neville a fissare con insistenza il punto dove l’ha guardato per l’ultima volta, trafiggendogli il cuore con miliardi di spilli e lasciandolo lì ad attendere un miracolo che non arriva. Non arriva mai.
 
***
 
Quindi guardaci abbiamo perso il fiato,
Sembra stupido ma dubito te ne sei andata subito,
Siamo diversi ma non così distanti,
Sentirsi a pezzi ma poi ritrovarsi in mezzo agli altri.
 
E non torna indietro.
Pansy sparisce dai radar – sembra stupido, continuare a cercarla dopo che lei se n’è andata in quel modo ma, al matrimonio di Hermione e Malfoy, Neville continua a cercarla con lo sguardo: ha provato a contattarla, in quei giorni, Pansy Parkinson non ha risposto mai.
Solamente una volta, s’è permessa di mandargli un bigliettino con un gufo e, quando Neville l’ha letto, le mani hanno istantaneamente cominciato a tremargli: siamo diversi.
Ma non così distanti, avrebbe voluto rispondere lui – non ne aveva avuto la forza: si era sentito troppo a pezzi per riuscire a cavarsi dalla bocca quelle parole e, quando finalmente s’era risolto a prendere in mano piuma e pergamena, era decisamente troppo tardi. Il matrimonio sarebbe stato tra poche ore e lui non l’avrebbe vista (o, almeno, così aveva creduto).
Ma Pansy è contraddizione, istinto e, sul finire, è anche sbagliare strada e continuare imperterrita: così, lei ci va al matrimonio ed è di nuovo insoddisfazione e rancore che dal naso le colano giù nel flûte con lo champagne.
Neville non si siede accanto a lei – ma, quando finalmente trova posto accanto a Luna Lovegood, vede Pansy scivolargli di fianco e sorridere (più un ringhio) agli altri presenti.
Lui sorride – forse odia sentirsi a pezzi, ma gli sta bene se poi serve per ritrovarsi, anche in mezzo gli altri (ed è tutto una cicatrice).
Le prende la mano.
 
Questo amore ci distrugge
E comunque sorrido anche se ho le cicatrici ovunque.
(Biondo, Quattro Mura)
   
 
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