Lunedì 27 Ottobre
«Restituiscimi i miei soldi.» sibilai infuriata in
direzione della macchinetta del caffè. Battei con rabbia un colpo sul lato
metallico dell’apparecchio, trattenendo a stento le mille imprecazioni che mi
erano salite alle labbra.
Quanto odiavo quel dannato aggeggio!
Avevo
passato l’intera mattina a racimolare spiccioli dai miei compassionevoli
compagni di classe, che erano riusciti, con una faticosa colletta, ad aiutarmi a
mettere insieme i trenta centesimi che avrebbero dovuto servirmi per prendere un
caffè, a ricreazione, e li avevo perduti insieme alla mia tanto agognata
merenda.
Colpii nuovamente la macchinetta, consapevole che era solo tempo
sprecato.
Una ragazza del primo anno mi gettò uno sguardo terrorizzato e si
allontanò da me, subito seguita da altri due o tre studenti che evidentemente
ritenevano che la mia sanità mentale fosse abbastanza discutibile da potersi
considerare in pericolo.
Mentre stavo per sferrare un altro pugno
all’apparecchio una mano pallida e fragile comparì nel mio campo visivo reggendo
un bicchiere di plastica bianca da cui si alzava un intenso profumo di
caffè.
Mi voltai appena per cercare di capire chi mi stesse porgendo la
bevanda, e fui estremamente sorpresa di vedere che era Gioele.
La crosta di
sangue sulla fronte era ancora lì, ma era più scura della volta precedente e nel
complesso molto più inquietante. Il livido sul volto si era fatto più scuro, e
ormai aveva raggiunto un’intensa sfumatura di viola tendente al nero.
Mi
sorrise timidamente e indicò la macchinetta con un impercettibile movimento del
capo. I capelli, più disordinati che mai, gli ricaddero davanti agli occhi. Lui
li ignorò.
«L’ho preso al piano di sopra.» m’informò quando finalmente mi
decisi ad afferrare il bicchiere. «Come stai?» chiese poi, allontanandosi di
qualche passo dai distributori. Si avvicinò alle scale e io lo seguii,
desiderosa di eliminare dalla mia vista quella dannatissima macchinetta.
«Un
po’ nervosa, credo.» borbottai sorseggiando il caffè.
Sorrise
timidamente.
«L’avevo notato, sì.» commentò. «Sei sempre così suscettibile
quando i distributori ti rubano i soldi?»
«Più che altro quando mi
impediscono di ricevere la mia dose quotidiana di caffeina» replicai con un
sospiro. «Grazie, comunque.» aggiunsi agitando un po’ il bicchiere.
«Nessun
problema.»
Seguirono alcuni istanti di silenzio, in cui io, imbarazzata, non
feci altro che sperare che dicesse qualcosa. Dopo un po’, dato che non sembrava
intenzionato a parlare, decisi di prendere l’iniziativa.
«I lividi vanno un
po’ meglio?» domandai a bassa voce mentre una fitta di senso di colpa mi
attraversava lo stomaco. Decisi di ignorarla e tornai a concentrarmi su Gioele,
che fissava il pavimento con un’espressione crucciata sul volto.
«Mi sono
reso conto di essere estremamente angosciante, conciato così.» confessò con un
sorriso appena accennato. «Ma tutto sommato suppongo che potrebbe andare peggio.
Voglio dire, alla fine sono solo… ammaccature, ecco. Nulla di
preoccupante.»
Annuii, imbarazzata. Sembrava facile, per lui, minimizzare
l’accaduto. Ero certa che non si fosse ancora reso conto di ciò che sarebbe
potuto accadere, se per caso quel martedì sera avessi corso un po’ di più o se
non avessi fatto in tempo a frenare.
«E a scuola come va, invece?»
Lo
fissai. Le sue parole non erano molto più che un lento sussurro un po’ roco, e
mi dava la sensazione che quella, per lui, fosse solo una conversazione di
cortesia. Sembrava quanto mai a disagio, e aveva l’aria di uno che non vedeva
l’ora di andarsene e rimanere solo.
«Perché sei qui?» gli domandai alla
fine, irritata dal suo atteggiamento. Mi guardò stranito, come se non avesse
capito quello che gli avevo chiesto.
«Scusa?» mormorò, le labbra che si
muovevano appena, d’un tratto agitato.
«Sembra che tu stia patendo le pene
dell’inferno stando qui.» lo informai con un tono di voce forse un po’ troppo
aggressivo per quella situazione. «Se ti da fastidio parlarmi, perché ti
ostini?»
La mia rabbia parve terrorizzarlo. Si ritrasse, gli occhi azzurri
sbarrati puntati su di me. La sua espressione contribuì ad aumentare la mia
irritazione, perciò proseguii:
«Sembra che tu sia qui perché devi. Non sei
obbligato a essere gentile con me, soprattutto dopo che ti ho quasi ucciso!»
strillai, ormai fuori di me. Quasi non mi accorsi che una piccola folla si era
riunita intorno a noi, attirata dal litigio. O, piuttosto,
dall’aggressione.
Perché, nonostante io, nella rabbia del momento, non me ne
fossi resa conto, era di questo che si trattava.
Gioele si era ritirato fino
a essere costretto a poggiare la schiena alla ringhiera della scala, gli occhi
che dardeggiavano da me agli altri studenti, in evidente difficoltà. Non
sembrava in grado di parlare, e per un unico, fugace istante ebbi l’impressione
che stesse per mettersi a piangere.
«Io…» balbettò con voce rotta quando
sembrò riacquistare un minimo di coraggio. «Io non…»
Ma s’interruppe. Chinò
il capo e scosse la testa, un’espressione di sconfitta sul volto, si girò e
corse su per le scale senza emettere un altro suono.
La sua fuga mi fece
tornare in me. Mi voltai lentamente e incrociai gli sguardi stupefatti di chi
era rimasto ad assistere alla mia follia. Tra quel mare di studenti curiosi
riconobbi i capelli rossi di Ines, che si fece largo tra gli altri e mi
raggiunse.
Mi lanciò un’occhiata in tralice e si rivolse con uno
scatto nervoso alla folla attorno a noi.
«Sparite!» gridò, autoritaria. «Non
c’è niente da vedere, qui.»
In pochi istanti i ragazzi si sparpagliarono e
tornarono alla loro ricreazione, mentre anche Francesca mi si avvicinava dalle
scale.
«Ti ho sentita gridare dal piano di sopra.» mi spiegò quando mi fu
chiaro che lei non aveva assistito alla mia sfuriata. «E Gioele mi ha
praticamente travolta mentre scendevo a vedere cosa diavolo stessi
combinando.»
«Non so che cosa mi sia preso.» mormorai, sconvolta. Mi sentii
in preda a un attacco di nausea. Non riuscivo a capire per quale motivo me la
fossi presa in quella maniera con Gioele, che pure non mi aveva fatto niente e,
anzi, era sempre stato gentile con me. Ed era stato proprio questo a irritarmi!
Sbottò una voce dentro di me. Perché si comportava così? Perché non aveva delle
reazioni normali contro chi, volente o no, gli aveva fatto del male?
«Totta…» Mi richiamò alla realtà la voce di Ines. «Forse l’incidente di
martedì ti ha sconvolta più di quanto credessi.»
«Questo non toglie che sei
stata orrenda, con lui.» commentò Francesca inarcando le sopracciglia scure.
«Voglio dire, è sempre gentile con te, no? Perché te la sei presa tanto?»
«E’
troppo gentile.» sbottai. «Vorrei che mi dicesse che sono stata
un’idiota, che avrei dovuto fare più attenzione… e invece non fa che ripetere
che non è successo niente, che è stata colpa sua e che avrebbe potuto finire
molto peggio!»
«Lui cerca di tranquillizzarti e tu lo aggredisci?» fece Ines,
stupefatta. «Non ti riconosco più, Totta.»
«Già.» replicai con un filo di
voce. Avevo la nausea e mi fischiavano le orecchie. «Nemmeno io mi riconosco
più.»
Sentivo di essere sul punto di svenire. Ines mi disse qualcosa, ma io
non la sentii. Mossi qualche passo verso il muro, mi ci poggiai con la schiena e
chiusi gli occhi.
«Se stai male per quello che hai fatto, Totta, ti giuro che
questa è la volta che ti picchio.» mi minacciò la mia amica agitando il piccolo
pugno davanti al mio volto.
«Me lo meriterei.» commentai con un filo di voce
mentre tornavo lentamente a vedere con chiarezza.
«Dovresti parlargli.»
suggerì Francesca guardandomi con aria critica. «Gioele è molto comprensivo.
Sono sicura che ti perdonerà.»
«Non dovrebbe. Perché non reagisce in modo
normale, ogni tanto?»
«Perché lui stesso non è normale. In ogni caso, tu hai
bisogno di chiarirti con lui. Se proprio ti dà fastidio la sua presenza,
diglielo e chiedigli di lasciarti in pace. Almeno non rischierà più di essere
aggredito in modo simile.»
«Così non mi aiuti, Francesca…»
Lei fece per
aprire la bocca e replicare, ma il suono della campanella annunciò la ripresa
delle lezioni. Ci salutò con un cenno del capo e sparì correndo su per le
scale.
Mi diressi verso la classe lentamente, confusa, con Ines che ancora
berciava mentre camminava poco dietro di me, rimproverandomi per il
comportamento vergognoso che avevo riservato a Gioele.
Non persi nemmeno
tempo a spiegarle che non avevo voglia di parlarne, e che intendevo chiarirmi
con lui appena fosse stato possibile, perché sapevo che non mi avrebbe
ascoltata.
Mi lasciai cadere sulla mia sedia, ignorando le occhiate perplesse
dei miei compagni e i mormorii di quelli che avevano assistito alla scena di
poco prima.
Tirai fuori dallo zaino il libro di latino, incrociai le braccia
sul tavolo e vi poggiai sopra la testa. Finsi di non vedere la professoressa che
era entrata in classe e rimasi immobile in quella posizione fino alla fine della
mattinata.
Quando finalmente suonò anche l’ultima campanella scattai in
piedi, lo zaino già in spalla. Dovevo parlare con Gioele, possibilmente in un
luogo isolato, lontano dagli occhi indiscreti di tutti quelli che volevano
sapere come sarebbe finita tra noi due.
Mi precipitai in cortile e presi a
cercare con lo sguardo i suoi capelli ricci tra la folla di studenti che si
accalcava verso l’uscita. Non riuscii a vederlo e mi venne il terrore che
potesse essersene già andato. Se fosse stato così, avrei dovuto avvicinarlo a
ricreazione, il giorno seguente, senza la possibilità di avere un po’ di
privacy.
Tra l’altro, non ero del tutto sicura che avesse voglia di parlarmi.
Perciò preferivo essere sola con lui, mentre finalmente mi diceva cosa realmente
pensava di me.
Mi feci rudemente largo tra i miei compagni, desiderosa di
raggiungere la strada il prima possibile. Quando spostai lo sguardo sulla
stradina che si snodava davanti al portone della scuola, semideserta, lo
vidi.
Si dirigeva, camminando lento, verso una macchina nera tirata a lucido
che da lontano mi parve una Jaguar nuova fiammante.
Era già sul punto di
aprire lo sportello che mi misi a correre verso di lui. Inciampai in un sasso e
caddi a terra.
«Gioele!» lo chiamai in un ultimo, disperato tentativo di
fermarlo e di riuscire a parlare con lui.
S’immobilizzò. Per un attimo
credetti che mi avrebbe ignorata e che se ne sarebbe andato, ma lui invece si
voltò lentamente e mi guardò.
Parve riflettere velocemente, lo sguardo
concentrato, poi si voltò verso la persona seduta dalla parte del conducente e
disse qualcosa. Richiuse lo sportello della macchina e mosse qualche passo verso
di me, che nel frattempo mi ero rialzata e l’avevo raggiunto.
«Mi dispiace
tantissimo per quello che ti ho detto prima.» esalai prima ancora di fermarmi.
Non attesi nemmeno una sua risposta e proseguii: «Non so davvero perché l’ho
fatto. Immagino che sia stato perché avrei bisogno di sentirmi dire che sono
un’idiota, e invece tu non fai altro che rassicurarmi.» Mi interruppi un istante
per prendere fiato, ma lui non diede segno di essere intenzionato a rispondere.
Continuò a guardarmi, attendendo che proseguissi. L’espressione sul suo volto
era indecifrabile, ma non mi sembrava arrabbiato.
Perché,
dannazione? Perché non poteva comportarsi normalmente?
«La verità» aggiunsi
«E’ che avrei bisogno di parlare con te. Con calma, seriamente e possibilmente
da soli. Per chiarire la situazione. Ovviamente capisco benissimo se non vuoi,
dopotutto ti ho trattato malissimo e…»
«Ti andrebbe bene oggi pomeriggio alle
tre?» m’interruppe a bassa voce, accennando un sorriso sghembo che per un
istante gli illuminò gli occhi. «Sono impegnato tutta la settimana.»
Tardai a
rispondere, frastornata. Non mi aspettavo che accettasse il mio invito, se non
per la mia sfuriata di poco prima almeno per la sua infinita timidezza. Eppure,
come sempre, mi aveva dimostrato che l’idea che mi ero fatta di lui era
fondamentalmente sbagliata.
«Certo.» mormorai. «Qui, davanti alla
scuola?»
«Sarebbe perfetto.»
Non aggiunse nient’altro.
Si voltò e salì
in auto. L’uomo che era alla guida – in cui riconobbi gli occhi dello stesso
incredibile azzurro di quelli di Gioele – disse qualcosa, Gioele annuì
lentamente e lui scoppiò a ridere. Subito dopo ingranò la marcia, e dopo qualche
manciata di secondi erano entrambi spariti dalla mia vista.
Leggermente più
sollevata, mi diressi a passo spedito verso la fermata dell’autobus, mentre
ripassavo nella mia mente ciò che mi ero prefissata di dirgli.
«Ti ho fatta aspettare?» la voce roca di Gioele mi colse
un po’ di sorpresa. Era sbucato alle mie spalle da una stradina talmente
minuscola che non l’avevo nemmeno presa in considerazione, in ritardo di appena
qualche minuto rispetto all’orario che avevamo fissato.
«Sono appena
arrivata.» mentii, senza trovare il coraggio di confessargli che, nel timore che
lui arrivasse in anticipo e avesse il tempo di cambiare idea, ero arrivata
davanti alla scuola quasi un’ora prima del previsto.
Dall’espressione che
assunse capii che non doveva avermi creduto, ma non disse nulla.
Indicò con
un debole cenno della mano gli scalini di pietra della chiesa che si trovava
davanti alla nostra scuola.
«Oggi non fa freddo.» mormorò. «Ti andrebbe di
sederci lì? Possiamo rimanere all’aperto, se ti va.»
«Certamente.» approvai,
trattenendomi dal fortissimo impulso di fargli notare che i gradini sarebbero
stati assolutamente ghiacciati e che mettermi lì era l’ultimo dei
desideri.
«Scomodi.» commentò in un soffio quando ci fummo seduti. «Cosa
volevi dirmi?» domandò poi con dolcezza, guardandomi tranquillo.
Lo odiavo.
Ecco qual era la verità. Non sopportavo di vederlo sempre così calmo, di sentire
le sue parole così dolci, o di vedere i movimenti deboli e insicuri. Perché
sussurrava? Perché non mi dimostrava, per una volta, di essere infuriato con me?
Quel suo comportamento mi faceva sentire in colpa molto più del necessario, e
tuttavia non potevo fare a meno di pensare che ero stata un mostro per riuscire
a prendermela con uno come lui.
Alla fine, era una presenza molto tranquilla,
e mi rilassava stargli accanto. Non riuscivo a recuperare nemmeno un po’ della
rabbia che mi aveva invasa quella mattina, e per un istante mi chiesi se non mi
fossi inventata tutto, se lui non fosse solo un frutto della mia
immaginazione.
«E’ che…» borbottai quando mi riscossi dai miei pensieri. «Non
ti capisco. Voglio dire, un altro, al tuo posto, si sarebbe arrabbiato. Già da
martedì sera, no? Quando ho spostato il motorino ero preparata a una sfuriata. E
invece tu eri così calmo! E sei addirittura venuto a cercarmi per
tranquillizzarmi! Non è normale, lo capisci, vero?»
Annuì piano, le labbra
appena increspate in un minuscolo sorriso.
«Ed è la stessa cosa che mi
aspettavo oggi. Cioè, ti ho aggredito, giusto? Perché non mi hai risposto a
tono? Perché non ti sei arrabbiato?»
Non rispose. Inclinò leggermente la
testa da un lato e chiese a sua volta:
«Perché mi hai detto quelle
cose?»
Rimasi a bocca aperta. Non mi stava accusando di nulla. La sua
sembrava essere davvero una semplice e genuina curiosità.
«Non lo so.»
gracchiai dopo una breve riflessione. «Davvero. Io… non capivo più niente.» Non
aggiunsi altro. Non sapevo che cosa dire. Man mano che mi rendevo conto
dell’incredibile assurdità della mia reazione di quella mattina l’imbarazzo
aumentava, e il suo sguardo comprensivo non mi aiutava.
«Credevo d’aver fatto
qualcosa di sbagliato.» sussurrò invece Gioele, guardando avanti a sé. «Sai,
magari avevo detto qualcosa che t’aveva offesa… Invece, se non ho capito male,
eri solo un po’ nervosa.»
«Credo di sì.»
«Magari la prossima volta, al
posto del caffè, ti offrirò una camomilla.» considerò a bassa voce, serio.
«Sarà meglio.» approvai sorridendo un po’. Sapere che non ce l’aveva con me,
per qualche strana ragione, mi faceva stare meglio.
Quella mattina avevo
preso in considerazione l’idea di chiedergli davvero di lasciarmi in pace, di
starmi lontano e di non venirmi a cercare mai più, ma più tempo passavo accanto
a lui, seduta su quello scalino ghiacciato, più mi rendevo conto che alla fine
mi sarebbe dispiaciuto non riuscire a diventare sua amica. Immaginai che avrebbe
potuto insegnarmi molto, così tranquillo e pacato, su come controllare la
rabbia.
Nonostante i primi momenti di disagio, in cui il silenzio aveva preso
il sopravvento e io aspettavo che lui dicesse qualcosa, stavo bene accanto a
lui. La sua calma sembrava essere contagiosa e ben presto non avvertii più il
bisogno di riempire il silenzio con parole che nessuno dei due sentiva il
bisogno di pronunciare.
Mi voltai un po’ per guardarlo indisturbata,
affascinata dal suo comportamento.
Aveva poggiato i gomiti al gradino sopra a
quello su cui era seduto, e si guardava intorno con l’espressione più rilassata
che avessi mai visto addosso a una persona, ma era serio.
Per un folle
istante mi venne in mente l’ipotesi che non sapesse nemmeno ridere. Era così
strano cercare di immaginarlo mentre lo faceva che mi venne istintivo giungere
alla conclusione che non ne fosse in grado.
Mentre ero immersa nei miei
pensieri lui si alzò, si passò le mani sulle gambe per sistemare i pantaloni e
mi guardò.
«Credo che dovrei andare.» borbottò a voce talmente bassa che
riuscii a capire ciò che stava dicendo solo guardandogli le labbra sottili.
«Come vuoi.» balbettai, sorpresa. Di già?
«Ciao.»
Lo salutai
quando lui si era già voltato. Se ne andò, proprio come quel martedì sera che ci
aveva fatti incontrare, con le mani affondate nelle tasche dei jeans, lo sguardo
basso e la camminata lenta.
E, esattamente come quella sera, non potei fare
altro che guardare la sua schiena che si allontanava da me.
Ed ecco il quarto! Ringrazio tantissimo tutte le
persone che hanno letto o inserito la storia tra le preferite o le seguite, mi
fa molto piacere!
Non so quando riuscirò a postare il quinto, dato che
ricomincia la scuola, ma spero di non metterci molto.
I commenti sono sempre
graditi!
Baci,
rolly too