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Autore: rolly too    03/09/2009    2 recensioni
«Ehi!» lo chiamai ad alta voce, cercando di sovrastare il rumore della pioggia. La voce mi uscì più roca e vibrante di quanto avessi immaginato, ma non ci feci caso. Lui non rispose. Non si mosse, e non diede nessun segno di avermi sentito. «Ehi!» ripetei più forte, e solo allora si voltò verso di me. Una macchia di sangue scuro gli copriva la parte sinistra della fronte e il liquido scarlatto, unito alla pioggia, gli era colato sul volto e sulla maglietta inzuppata di acqua. Rabbrividii, mentre il cuore iniziava a rimbalzarmi in bocca e mi coglieva un fortissimo senso di nausea. Mi si offuscò per un attimo la vista, mentre il fischio nelle orecchie si faceva insopportabile. Che cosa avevo fatto?
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lunedì 27 Ottobre

«Restituiscimi i miei soldi.» sibilai infuriata in direzione della macchinetta del caffè. Battei con rabbia un colpo sul lato metallico dell’apparecchio, trattenendo a stento le mille imprecazioni che mi erano salite alle labbra.
Quanto odiavo quel dannato aggeggio!
Avevo passato l’intera mattina a racimolare spiccioli dai miei compassionevoli compagni di classe, che erano riusciti, con una faticosa colletta, ad aiutarmi a mettere insieme i trenta centesimi che avrebbero dovuto servirmi per prendere un caffè, a ricreazione, e li avevo perduti insieme alla mia tanto agognata merenda.
Colpii nuovamente la macchinetta, consapevole che era solo tempo sprecato.
Una ragazza del primo anno mi gettò uno sguardo terrorizzato e si allontanò da me, subito seguita da altri due o tre studenti che evidentemente ritenevano che la mia sanità mentale fosse abbastanza discutibile da potersi considerare in pericolo.
Mentre stavo per sferrare un altro pugno all’apparecchio una mano pallida e fragile comparì nel mio campo visivo reggendo un bicchiere di plastica bianca da cui si alzava un intenso profumo di caffè.
Mi voltai appena per cercare di capire chi mi stesse porgendo la bevanda, e fui estremamente sorpresa di vedere che era Gioele.
La crosta di sangue sulla fronte era ancora lì, ma era più scura della volta precedente e nel complesso molto più inquietante. Il livido sul volto si era fatto più scuro, e ormai aveva raggiunto un’intensa sfumatura di viola tendente al nero.
Mi sorrise timidamente e indicò la macchinetta con un impercettibile movimento del capo. I capelli, più disordinati che mai, gli ricaddero davanti agli occhi. Lui li ignorò.
«L’ho preso al piano di sopra.» m’informò quando finalmente mi decisi ad afferrare il bicchiere. «Come stai?» chiese poi, allontanandosi di qualche passo dai distributori. Si avvicinò alle scale e io lo seguii, desiderosa di eliminare dalla mia vista quella dannatissima macchinetta.
«Un po’ nervosa, credo.» borbottai sorseggiando il caffè.
Sorrise timidamente.
«L’avevo notato, sì.» commentò. «Sei sempre così suscettibile quando i distributori ti rubano i soldi?»
«Più che altro quando mi impediscono di ricevere la mia dose quotidiana di caffeina» replicai con un sospiro. «Grazie, comunque.» aggiunsi agitando un po’ il bicchiere.
«Nessun problema.»
Seguirono alcuni istanti di silenzio, in cui io, imbarazzata, non feci altro che sperare che dicesse qualcosa. Dopo un po’, dato che non sembrava intenzionato a parlare, decisi di prendere l’iniziativa.
«I lividi vanno un po’ meglio?» domandai a bassa voce mentre una fitta di senso di colpa mi attraversava lo stomaco. Decisi di ignorarla e tornai a concentrarmi su Gioele, che fissava il pavimento con un’espressione crucciata sul volto.
«Mi sono reso conto di essere estremamente angosciante, conciato così.» confessò con un sorriso appena accennato. «Ma tutto sommato suppongo che potrebbe andare peggio. Voglio dire, alla fine sono solo… ammaccature, ecco. Nulla di preoccupante.»
Annuii, imbarazzata. Sembrava facile, per lui, minimizzare l’accaduto. Ero certa che non si fosse ancora reso conto di ciò che sarebbe potuto accadere, se per caso quel martedì sera avessi corso un po’ di più o se non avessi fatto in tempo a frenare.
«E a scuola come va, invece?»
Lo fissai. Le sue parole non erano molto più che un lento sussurro un po’ roco, e mi dava la sensazione che quella, per lui, fosse solo una conversazione di cortesia. Sembrava quanto mai a disagio, e aveva l’aria di uno che non vedeva l’ora di andarsene e rimanere solo.
«Perché sei qui?» gli domandai alla fine, irritata dal suo atteggiamento. Mi guardò stranito, come se non avesse capito quello che gli avevo chiesto.
«Scusa?» mormorò, le labbra che si muovevano appena, d’un tratto agitato.
«Sembra che tu stia patendo le pene dell’inferno stando qui.» lo informai con un tono di voce forse un po’ troppo aggressivo per quella situazione. «Se ti da fastidio parlarmi, perché ti ostini?»
La mia rabbia parve terrorizzarlo. Si ritrasse, gli occhi azzurri sbarrati puntati su di me. La sua espressione contribuì ad aumentare la mia irritazione, perciò proseguii:
«Sembra che tu sia qui perché devi. Non sei obbligato a essere gentile con me, soprattutto dopo che ti ho quasi ucciso!» strillai, ormai fuori di me. Quasi non mi accorsi che una piccola folla si era riunita intorno a noi, attirata  dal litigio. O, piuttosto, dall’aggressione.
Perché, nonostante io, nella rabbia del momento, non me ne fossi resa conto, era di questo che si trattava.
Gioele si era ritirato fino a essere costretto a poggiare la schiena alla ringhiera della scala, gli occhi che dardeggiavano da me agli altri studenti, in evidente difficoltà. Non sembrava in grado di parlare, e per un unico, fugace istante ebbi l’impressione che stesse per mettersi a piangere.
«Io…» balbettò con voce rotta quando sembrò riacquistare un minimo di coraggio. «Io non…»
Ma s’interruppe. Chinò il capo e scosse la testa, un’espressione di sconfitta sul volto, si girò e corse su per le scale senza emettere un altro suono.
La sua fuga mi fece tornare in me. Mi voltai lentamente e incrociai gli sguardi stupefatti di chi era rimasto ad assistere alla mia follia. Tra quel mare di studenti curiosi riconobbi i capelli rossi di Ines, che si fece largo tra gli altri e mi raggiunse. 
Mi lanciò un’occhiata in tralice e si rivolse con uno scatto nervoso alla folla attorno a noi.
«Sparite!» gridò, autoritaria. «Non c’è niente da vedere, qui.»
In pochi istanti i ragazzi si sparpagliarono e tornarono alla loro ricreazione, mentre anche Francesca mi si avvicinava dalle scale.
«Ti ho sentita gridare dal piano di sopra.» mi spiegò quando mi fu chiaro che lei non aveva assistito alla mia sfuriata. «E Gioele mi ha praticamente travolta mentre scendevo a vedere cosa diavolo stessi combinando.»
«Non so che cosa mi sia preso.» mormorai, sconvolta. Mi sentii in preda a un attacco di nausea. Non riuscivo a capire per quale motivo me la fossi presa in quella maniera con Gioele, che pure non mi aveva fatto niente e, anzi, era sempre stato gentile con me. Ed era stato proprio questo a irritarmi! Sbottò una voce dentro di me. Perché si comportava così? Perché non aveva delle reazioni normali contro chi, volente o no, gli aveva fatto del male?
«Totta…» Mi richiamò alla realtà la voce di Ines. «Forse l’incidente di martedì ti ha sconvolta più di quanto credessi.»
«Questo non toglie che sei stata orrenda, con lui.» commentò Francesca inarcando le sopracciglia scure. «Voglio dire, è sempre gentile con te, no? Perché te la sei presa tanto?»
«E’ troppo gentile.» sbottai. «Vorrei che mi dicesse che sono stata un’idiota, che avrei dovuto fare più attenzione… e invece non fa che ripetere che non è successo niente, che è stata colpa sua e che avrebbe potuto finire molto peggio!»
«Lui cerca di tranquillizzarti e tu lo aggredisci?» fece Ines, stupefatta. «Non ti riconosco più, Totta.»
«Già.» replicai con un filo di voce. Avevo la nausea e mi fischiavano le orecchie. «Nemmeno io mi riconosco più.»
Sentivo di essere sul punto di svenire. Ines mi disse qualcosa, ma io non la sentii. Mossi qualche passo verso il muro, mi ci poggiai con la schiena e chiusi gli occhi.
«Se stai male per quello che hai fatto, Totta, ti giuro che questa è la volta che ti picchio.» mi minacciò la mia amica agitando il piccolo pugno davanti al mio volto.
«Me lo meriterei.» commentai con un filo di voce mentre tornavo lentamente a vedere con chiarezza.
«Dovresti parlargli.» suggerì Francesca guardandomi con aria critica. «Gioele è molto comprensivo. Sono sicura che ti perdonerà.»
«Non dovrebbe. Perché non reagisce in modo normale, ogni tanto?»
«Perché lui stesso non è normale. In ogni caso, tu hai bisogno di chiarirti con lui. Se proprio ti dà fastidio la sua presenza, diglielo e chiedigli di lasciarti in pace. Almeno non rischierà più di essere aggredito in modo simile.»
«Così non mi aiuti, Francesca…»
Lei fece per aprire la bocca e replicare, ma il suono della campanella annunciò la ripresa delle lezioni. Ci salutò con un cenno del capo e sparì correndo su per le scale.
Mi diressi verso la classe lentamente, confusa, con Ines che ancora berciava mentre camminava poco dietro di me, rimproverandomi per il comportamento vergognoso che avevo riservato a Gioele.
Non persi nemmeno tempo a spiegarle che non avevo voglia di parlarne, e che intendevo chiarirmi con lui appena fosse stato possibile, perché sapevo che non mi avrebbe ascoltata.
Mi lasciai cadere sulla mia sedia, ignorando le occhiate perplesse dei miei compagni e i mormorii di quelli che avevano assistito alla scena di poco prima.
Tirai fuori dallo zaino il libro di latino, incrociai le braccia sul tavolo e vi poggiai sopra la testa. Finsi di non vedere la professoressa che era entrata in classe e rimasi immobile in quella posizione fino alla fine della mattinata.
Quando finalmente suonò anche l’ultima campanella scattai in piedi, lo zaino già in spalla. Dovevo parlare con Gioele, possibilmente in un luogo isolato, lontano dagli occhi indiscreti di tutti quelli che volevano sapere come sarebbe finita tra noi due.
Mi precipitai in cortile e presi a cercare con lo sguardo i suoi capelli ricci tra la folla di studenti che si accalcava verso l’uscita. Non riuscii a vederlo e mi venne il terrore che potesse essersene già andato. Se fosse stato così, avrei dovuto avvicinarlo a ricreazione, il giorno seguente, senza la possibilità di avere un po’ di privacy.
Tra l’altro, non ero del tutto sicura che avesse voglia di parlarmi. Perciò preferivo essere sola con lui, mentre finalmente mi diceva cosa realmente pensava di me.
Mi feci rudemente largo tra i miei compagni, desiderosa di raggiungere la strada il prima possibile. Quando spostai lo sguardo sulla stradina che si snodava davanti al portone della scuola, semideserta, lo vidi.
Si dirigeva, camminando lento, verso una macchina nera tirata a lucido che da lontano mi parve una Jaguar nuova fiammante.
Era già sul punto di aprire lo sportello che mi misi a correre verso di lui. Inciampai in un sasso e caddi a terra.
«Gioele!» lo chiamai in un ultimo, disperato tentativo di fermarlo e di riuscire a parlare con lui.
S’immobilizzò. Per un attimo credetti che mi avrebbe ignorata e che se ne sarebbe andato, ma lui invece si voltò lentamente e mi guardò.
Parve riflettere velocemente, lo sguardo concentrato, poi si voltò verso la persona seduta dalla parte del conducente e disse qualcosa. Richiuse lo sportello della macchina e mosse qualche passo verso di me, che nel frattempo mi ero rialzata e l’avevo raggiunto.
«Mi dispiace tantissimo per quello che ti ho detto prima.» esalai prima ancora di fermarmi. Non attesi nemmeno una sua risposta e proseguii: «Non so davvero perché l’ho fatto. Immagino che sia stato perché avrei bisogno di sentirmi dire che sono un’idiota, e invece tu non fai altro che rassicurarmi.» Mi interruppi un istante per prendere fiato, ma lui non diede segno di essere intenzionato a rispondere. Continuò a guardarmi, attendendo che proseguissi. L’espressione sul suo volto era indecifrabile, ma non mi sembrava arrabbiato.
Perché, dannazione? Perché non poteva comportarsi normalmente?
«La verità» aggiunsi «E’ che avrei bisogno di parlare con te. Con calma, seriamente e possibilmente da soli. Per chiarire la situazione. Ovviamente capisco benissimo se non vuoi, dopotutto ti ho trattato malissimo e…»
«Ti andrebbe bene oggi pomeriggio alle tre?» m’interruppe a bassa voce, accennando un sorriso sghembo che per un istante gli illuminò gli occhi. «Sono impegnato tutta la settimana.»
Tardai a rispondere, frastornata. Non mi aspettavo che accettasse il mio invito, se non per la mia sfuriata di poco prima almeno per la sua infinita timidezza. Eppure, come sempre, mi aveva dimostrato che l’idea che mi ero fatta di lui era fondamentalmente sbagliata.
«Certo.» mormorai. «Qui, davanti alla scuola?»
«Sarebbe perfetto.»
Non aggiunse nient’altro.
Si voltò e salì in auto. L’uomo che era alla guida – in cui riconobbi gli occhi dello stesso incredibile azzurro di quelli di Gioele – disse qualcosa, Gioele annuì lentamente e lui scoppiò a ridere. Subito dopo ingranò la marcia, e dopo qualche manciata di secondi erano entrambi spariti dalla mia vista.
Leggermente più sollevata, mi diressi a passo spedito verso la fermata dell’autobus, mentre ripassavo nella mia mente ciò che mi ero prefissata di dirgli.

«Ti ho fatta aspettare?» la voce roca di Gioele mi colse un po’ di sorpresa. Era sbucato alle mie spalle da una stradina talmente minuscola che non l’avevo nemmeno presa in considerazione, in ritardo di appena qualche minuto rispetto all’orario che avevamo fissato.
«Sono appena arrivata.» mentii, senza trovare il coraggio di confessargli che, nel timore che lui arrivasse in anticipo e avesse il tempo di cambiare idea, ero arrivata davanti alla scuola quasi un’ora prima del previsto.
Dall’espressione che assunse capii che non doveva avermi creduto, ma non disse nulla.
Indicò con un debole cenno della mano gli scalini di pietra della chiesa che si trovava davanti alla nostra scuola.
«Oggi non fa freddo.» mormorò. «Ti andrebbe di sederci lì? Possiamo rimanere all’aperto, se ti va.»
«Certamente.» approvai, trattenendomi dal fortissimo impulso di fargli notare che i gradini sarebbero stati assolutamente ghiacciati e che mettermi lì era l’ultimo dei desideri.
«Scomodi.» commentò in un soffio quando ci fummo seduti. «Cosa volevi dirmi?» domandò poi con dolcezza, guardandomi tranquillo.
Lo odiavo. Ecco qual era la verità. Non sopportavo di vederlo sempre così calmo, di sentire le sue parole così dolci, o di vedere i movimenti deboli e insicuri. Perché sussurrava? Perché non mi dimostrava, per una volta, di essere infuriato con me? Quel suo comportamento mi faceva sentire in colpa molto più del necessario, e tuttavia non potevo fare a meno di pensare che ero stata un mostro per riuscire a prendermela con uno come lui.
Alla fine, era una presenza molto tranquilla, e mi rilassava stargli accanto. Non riuscivo a recuperare nemmeno un po’ della rabbia che mi aveva invasa quella mattina, e per un istante mi chiesi se non mi fossi inventata tutto, se lui non fosse solo un frutto della mia immaginazione.
«E’ che…» borbottai quando mi riscossi dai miei pensieri. «Non ti capisco. Voglio dire, un altro, al tuo posto, si sarebbe arrabbiato. Già da martedì sera, no? Quando ho spostato il motorino ero preparata a una sfuriata. E invece tu eri così calmo! E sei addirittura venuto a cercarmi per tranquillizzarmi! Non è normale, lo capisci, vero?»
Annuì piano, le labbra appena increspate in un minuscolo sorriso.
«Ed è la stessa cosa che mi aspettavo oggi. Cioè, ti ho aggredito, giusto? Perché non mi hai risposto a tono? Perché non ti sei arrabbiato?»
Non rispose. Inclinò leggermente la testa da un lato e chiese a sua volta:
«Perché mi hai detto quelle cose?»
Rimasi a bocca aperta. Non mi stava accusando di nulla. La sua sembrava essere davvero una semplice e genuina curiosità.
«Non lo so.» gracchiai dopo una breve riflessione. «Davvero. Io… non capivo più niente.» Non aggiunsi altro. Non sapevo che cosa dire. Man mano che mi rendevo conto dell’incredibile assurdità della mia reazione di quella mattina l’imbarazzo aumentava, e il suo sguardo comprensivo non mi aiutava.
«Credevo d’aver fatto qualcosa di sbagliato.» sussurrò invece Gioele, guardando avanti a sé. «Sai, magari avevo detto qualcosa che t’aveva offesa… Invece, se non ho capito male, eri solo un po’ nervosa.»
«Credo di sì.»
«Magari la prossima volta, al posto del caffè, ti offrirò una camomilla.» considerò a bassa voce, serio.
«Sarà meglio.» approvai sorridendo un po’. Sapere che non ce l’aveva con me, per qualche strana ragione, mi faceva stare meglio.
Quella mattina avevo preso in considerazione l’idea di chiedergli davvero di lasciarmi in pace, di starmi lontano e di non venirmi a cercare mai più, ma più tempo passavo accanto a lui, seduta su quello scalino ghiacciato, più mi rendevo conto che alla fine mi sarebbe dispiaciuto non riuscire a diventare sua amica. Immaginai che avrebbe potuto insegnarmi molto, così tranquillo e pacato, su come controllare la rabbia.
Nonostante i primi momenti di disagio, in cui il silenzio aveva preso il sopravvento e io aspettavo che lui dicesse qualcosa, stavo bene accanto a lui. La sua calma sembrava essere contagiosa e ben presto non avvertii più il bisogno di riempire il silenzio con parole che nessuno dei due sentiva il bisogno di pronunciare.
Mi voltai un po’ per guardarlo indisturbata, affascinata dal suo comportamento.
Aveva poggiato i gomiti al gradino sopra a quello su cui era seduto, e si guardava intorno con l’espressione più rilassata che avessi mai visto addosso a una persona, ma era serio.
Per un folle istante mi venne in mente l’ipotesi che non sapesse nemmeno ridere. Era così strano cercare di immaginarlo mentre lo faceva che mi venne istintivo giungere alla conclusione che non ne fosse in grado.
Mentre ero immersa nei miei pensieri lui si alzò, si passò le mani sulle gambe per sistemare i pantaloni e mi guardò.
«Credo che dovrei andare.» borbottò a voce talmente bassa che riuscii a capire ciò che stava dicendo solo guardandogli le labbra sottili.
«Come vuoi.» balbettai, sorpresa. Di già?
«Ciao.»
Lo salutai quando lui si era già voltato. Se ne andò, proprio come quel martedì sera che ci aveva fatti incontrare, con le mani affondate nelle tasche dei jeans, lo sguardo basso e la camminata lenta.
E, esattamente come quella sera, non potei fare altro che guardare la sua schiena che si allontanava da me.

 

Ed ecco il quarto! Ringrazio tantissimo tutte le persone che hanno letto o inserito la storia tra le preferite o le seguite, mi fa molto piacere!
Non so quando riuscirò a postare il quinto, dato che ricomincia la scuola, ma spero di non metterci molto.
I commenti sono sempre graditi!

Baci,

rolly too

   
 
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